MENSILE – Austria, Belgio, Francia, Lussemburgo, Portogallo, Spagna � 8 - Germania � 9 - Svizzera CHF 12 - Svizzera Canton Ticino CHF 11,50 - Canada CAD 11,50 - USA $ 11,50
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novembre 2014
� 4,90 in Italia
L’ITALIA ALLA VIGILIA DELLA GRANDE GUERRA
OSTIA ANTICA Il porto di Roma 2mila anni fa, ricostruito in base alle ultime scoperte
quattro secoli di splendori tra Baghdad e Damasco il marinaio di Colombo che scoprì il tabacco l’enigma dei Càtari piemontesi finiti al rogo
AUGURI CONIGLIETTE! Playboy: la rivoluzione del sesso “pop” vista attraverso sei decenni di copertine
Sped. in A.P. - D.L. 353/03 art.1, comma 1, DCB Verona
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WARS. RIVIVI LE EMOZIONI DI TUTTI I RAID E LE INCURSIONI DELLA STORIA BELLICA. DALL’ANTICHITA’ AI TEMPI MODERNI LE OPERAZIONI IN FORZE DIETRO LE LINEE DEL NEMICO
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novembre 2014
focusstoria.it
IN PIÙ...
I
Jacopo Loredan direttore
RUBRICHE 6 LA PAGINA DEI LETTORI 8 NOVITÀ & SCOPERTE 10 TRAPASSATI ALLA STORIA 11 AGENDA 12 MICROSTORIA 76 SCIENZA E SCIENZIATI 77 CURIOSARIO 78 DOMANDE & RISPOSTE 80 MANUALE PER VIAGGIATORI NEL TEMPO 110 FLASHBACK
14 Lo scopritore del tabacco
Al seguito di Colombo, Rodrigo de Jerez portò in Europa l’abitudine di fumare.
20 Attracco a Roma Una giornata a Ostia antica, 2mila anni fa porto dell’Urbe.
1914: l’ultima estate di pace, in Italia.
ALINARI
l primo, Tullio Giordana, corrispondente del New York Herald, aveva preso sottogamba le forze armate italiane in un articolo da Roma. Il secondo, Giuseppe Fiammingo, direttore del quotidiano Italie, lo aveva sfidato alla sciabola. Nel settembre 1914 il duello si concluse al primo sangue (dopo tre assalti Fiammingo finì all’ospedale con una ferita alla spalla); ai giorni nostri lo scontro tra i due giornalisti si sarebbe concluso durante un talk show televisivo. Dopo un secolo, le differenze tra il nostro Paese e quello dei nostri bisnonni sono dunque notevoli, ma grandi sono anche le analogie, e non tutte lusinghiere. Potete scoprirle nel dossier di questo numero, dedicato all’autunno 1914. E immaginare che cosa sarebbe successo se l’Italia non fosse entrata in guerra pochi mesi dopo, avendo il tempo di sviluppare le proprie potenzialità anziché annegarle in un bagno di sangue.
Vigilia di guerra 36
Quando c’era la pace Com’erano gli italiani e l’Italia nell’autunno di cento anni fa.
44
1914: l’anno fatale Che cosa accadeva, intanto, nel mondo ormai in guerra.
46 Gli italiani dell’imperatore A Trento e Trieste, con gli italiani sudditi dell’Austria, in armi.
52
Effetto collaterale Come, lavorando sui fertilizzanti, Fritz Haber mise a punto i gas.
56
Che ci faccio io qui? La spedizione italiana sul Karakorum, sorpresa dallo scoppio del conflitto.
62
La linea inutile I generali temevano più la Svizzera dell’Austria: e nacque la Linea Cadorna.
64
Caccia grossa nel Pacifico Nell’autunno del 1914, la tragica fine di Von Spee e della sua flotta.
68
L’arte va alla guerra Gli artisti italiani che dipinsero il conflitto (e spesso ci morirono).
In copertina: tre soldati italiani e, sullo sfondo, la Milano di inizio ’900 (ALINARI) ELABORAZIONE P. GHISALBERTI
28 Un applauso vi seppellirà
Dalle tragedie greche alle claque dell’opera, 25 secoli di applausi.
82 I fantasmi
delle Langhe Il rogo dei càtari piemontesi intorno al Mille: un enigma per gli storici.
86 Buon
compleanno Playboy Sessant’anni fa debuttava la rivista che cambiò il costume sessuale.
92 Nella casa egizia A due piani e di mattoni essiccati: come si viveva nelle abitazioni degli Egizi.
94 Tra i veri califfi Gli splendori del califfato di Baghdad.
102 Era una
notte buia e tempestosa Come John Polidori, per sfida, inventò il primo vampiro letterario. 5
Inviateci opinioni, idee, proposte, critiche. Pubblicheremo le più interessanti oltre a una selezione dei commenti alla nostra pagina Facebook. (www.facebook.com/FocusStoria). Scrivete a Focus Storia, via Battistotti Sassi 11/a, 20133 Milano o all’e-mail
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Nell’articolo sulla congiura dei Fieschi (Focus Storia n° 96, pag. 18) si liquida la morte di Giannettino Doria con poche parole, lasciando intendere che Giannettino Doria sia rimasto vittima di una scaramuccia anonima presso porta San Tommaso, sopraffatto da sconosciuti nemici, probabili scherani al soldo dei Fieschi. In realtà, conosciamo nome e cognome dell’assassino di Giannettino Doria, nome che fu tramandato non solo nell’opera di Schiller citata nell’articolo, ma anche nella tragedia I Fieschi e i Doria di Scipione Borgognino e nella Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini di Carlo Botta; e nome che risponde a quello del nostro conterraneo Agostino Bigelotti da Barga. [...] Agostino Bigelotti successivamente, a detta di Botta, insieme ad altri congiurati provvide a finire Giannettino Doria a colpi di pugnale. [...] Agostino Bigelotti era un alfiere originario di Barga, nella Garfagnana medicea, che era dovuto fuggire a seguito della restaurazione del Granducato dopo l’effimera esperienza della repubblica fiorentina, in quanto di simpatie repubblicane e, su protezione del lucchese Burlamacchi, aveva in seguito trovato rifugio a Genova. La sua posizione di simpatizzante repubblicano e quindi filo-francese in antagonismo alla politica filoimperiale dei Medici, unitamente alla sua esperienza militare e al fatto che fosse un forestiero (nella tragedia di Borgognino viene addirittura chiamato “il Barga” con riferimento alla sua città natale), gli fornivano i necessari requisiti per renderlo attivo partecipe della congiura dei Fieschi e figura centrale nell’assassinio di Giannettino Doria. [...] Questa nostra lettera viene inviata non solo per precisare e 6
celebrare un nostro concittadino, che troviamo giusto avrebbe dovuto avere una minima citazione nell’articolo, ma anche per ricordare come spesso la grande Storia passi da persone che casualmente ed incidentalmente si trovano ad incrociare la loro vita con i grandi avvenimenti del passato. Giacomo Mrakic e Pier Giuliano, Barga (Lucca)
Orrori di Ciociaria
5
novecento
ore
bestiali
Vittime e carnefici
A
Sopra, alcuni goumiers, i soldati coloniali francesi. Sotto, donne italiane fotografate dagli Alleati durante l’avanzata del 1944. Nel titolo, il generale francese Alphonse Juin, comandante del Corpo di spedizione francese e colpevole, per gli storici, di non aver fermato le violenze.
Sugli stupri in Ciociaria, il segreto di Stato francese sarà rimosso solo nel 2047. Ma già nel 1994 il colonnello Jean-Louis Mourrut, responsabile dell’Ufficio storico dell’Armée, ha anticipato le drammatiche cifre ufficiali contenute nei documenti.
60mila
3.800
90%
Le richieste ufficiali di risarcimento (di cui 12mila ben documentate).
Le vittime italiane risarcite dalla Francia.
Tasso di attendibilità delle denunce presentate, secondo la commissione d’inchiesta francese.
125 Le condanne a morte o all’ergastolo inflitte dalla Francia per stupri e omicidi in Ciociaria.
che comportò lo sfondamento delle linee tedesche a Cassino, udì motivare la truppa promettendo in arabo maghrebino diritto di saccheggio (e quindi anche di stupro) ai soldati della sua unità, secondo le antiche consuetudini di guerra berbere, abolite dal protettorato francese soltanto negli Anni 20-30 con la pacificazione delle regioni del Tafilalet e del Rif. Potrei anche parlare del trattamento che i francesi riservarono dal 1940 al 1945 agli immigrati italiani in Marocco, inviati in campi di internamento e da qui ai lavori forzati per la costruzione di strade nel “Bled” profondo, tra cui un amico medico a Casablanca, costretto a fare il manovale semischiavo per anni. Ma questo è un altro argomento.
Nella primavera del 1944, durante l’avanzata degli Alleati, in Ciociaria le truppe coloniali francesi si macchiarono di un orrendo crimine di guerra: gli stupri di migliaia di donne italiane. Settant’anni dopo, le cifre di quel dramma
Getty ImaGes (2)
L’assassino di Giannettino Doria
spettavano i liberatori, la fine della guerra dopo quattro mesi di paura per quei cannoni minacciosi sul vicino fronte di Cassino. Aspettavano una speranza e invece arrivò il terrore. Sono passati 70 anni da quel maggio del 1944, quando la Ciociaria visse il dramma delle migliaia di donne violentate dai soldati delle truppe coloniali francesi. I militari del Cef (Corpo di spedizione francese), guidati dal generale Alphonse Juin, un algerino di 55 anni, tozzo e grasso, dai modi bruschi. A corto di uomini, prevedendo l’intensificarsi dei combattimenti in Normandia come in Italia, gli Alleati avevano chiesto rinforzi ai francesi. E sul fronte italiano furono spediti i nordafricani, che così descrisse lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun: “Era gente abituata a vivere sulle montagne. Pastori, piccoli agricoltori, gente misera. I francesi li rastrellarono, li caricarono sui camion, con un’azione violenta di sopraffazione, e li portarono a migliaia di chilometri da casa a compiere altre violenze. Le loro azioni brutali vanno inquadrate in questo contesto”. Multietnici. Cassino era la madre di tutte le battaglie, in quei mesi. I combattimenti iniziarono nel gennaio del 1944 e si conclusero proprio a maggio. Vi furono impegnati, contro i tedeschi, militari di ben quindici nazioni diverse, ricordati nei cimiteri attorno a Cassino. E c’erano anche loro, i goumiers, storpiatura in francese del termine arabo qum (“squadrone, banda”). Venivano soprattutto dal Marocco, ma c’erano anche tunisini, senegalesi e algerini. E tra le 4 diverse etnie non correva sempre buon sangue. Vestivano in maniera particolare, con uniformi pittoresche, che incutevano paura: i djellaba, l’abito nazionale, una tunica di lana grezza a righe grigie dal colore variabile tra bianco, 25
A proposito degli stupri del 1944 in Ciociaria, ricordati dal vostro articolo “50 ore bestiali” sul numero 95 di Focus Storia, penso di poter aggiungere una testimonianza di seconda mano sull’atteggiamento vendicativo e sadicamente punitivo nei confronti delle popolazioni italiane assunto da certi ufficiali francesi delle unità coloniali impegnate nel 1944 sul fronte di Cassino. Nel 1960 ero un giovane ingegnere minerario in servizio presso le miniere piombozincifere di Akhuli (Aouli) situate sull’ altopiano tra il Basso e il Medio Atlante, in Marocco, quindi in pieno territorio abitato da montanari berberi (Chlekh). Ho conosciuto alcuni ex goumiers, tra cui l’autista della direzione della miniera con cui ebbi occasione di fare lunghissimi viaggi di servizio, durante i quali si ingannava il tempo parlando dei più svariati argomenti. Un giorno mi raccontò che in Italia, nel 1944, era l’autista personale di un colonnello (o maggiore) francese che, prima della battaglia decisiva
Carlo Maccioni, Cagliari
Berretti frigi Nel n° 94 di Focus Storia, alle pagine 22-23, quando si scrive del berretto frigio (simbolo dei rivoluzionari francesi, fatto indossare con la forza al re Luigi XVI) non si dice che era già in uso nell’antica Roma tra i liberti, gli schiavi liberati dal loro padrone. Per questo viene riconosciuto come simbolo di libertà. Thomas Predieri
Il fucile della Guerra franco-prussiana Nel n° 96, a pag. 90 il fucile Chassepot viene definito “a ripetizione”. Mi risulta che il fucile in questione sia invece un fucile monocolpo ad ago, simile al Dreyse dei prussiani, anche se migliore nelle prestazioni. Gradirei ulteriori notizie in merito. Carlandrea Cicconetti
Come abbiamo correttamente spiegato nella didascalia a pag. 93, il Chassepot era un fucile a retrocarica.
Equivoci della Vera Croce Mi complimento per l’interessante articolo “I predatori della Vera Croce” apparso sul n° 95. Tuttavia, vorrei segnalare una svista per quanto riguarda la scelta delle immagini a corredo del testo. La scena con il cosiddetto “Sogno di Eraclio”, riprodotta alle pagine 16 e 17, è tratta da uno dei riquadri che compongono il ciclo con le “storie della Vera Croce” realizzato, attorno al 1380, da Agnolo Gaddi e bottega nella chiesa fiorentina di Santa Croce, e non dal più tardo ciclo affrescato da Piero della Francesca nella chiesa aretina [...]. Aggiungo una curiosità sul “Sogno di Eraclio”: tale episodio non viene rappresentato nel ciclo pierfrancescano dove, al suo posto, è raffigurata
Una moneta misteriosa Un mio amico ha trovato questa moneta, che sembra molto antica, in giardino. Saremmo molto curiosi di sapere a che epoca appartiene, anche se non è in buonissime condizioni. Mariaceleste D’Armi, Villa Celiera (Pescara)
A ciascuno il suo affresco
SCALA (3)
L’affresco di Piero della Francesca ad Arezzo (in alto a sinistra) e i due di Agnolo Gaddi, conservati a Firenze.
l’analoga scena avente come protagonista l’imperatore Costantino e la celebre visione della Croce alla vigilia della Battaglia di Ponte Milvio (in hoc signo vinces!). Eraclio, del resto, è riconosciuto come successore di Costantino nella difesa della fede cristiana, identificata nella reliquia della Vera Croce: questo ha fatto sì che la tradizione eraclidea e quella costantiniana si confondessero, originando nel corso dei secoli una sorta di contaminatio iconografica, tanto che spesso (come nel caso del ciclo di Agnolo Gaddi), Eraclio è reso protagonista di una mistica visione della Croce non riportata da alcuna fonte storica, come invece accade per Costantino. Lo stesso vale per la Battaglia di Ponte Milvio tra Costantino e Massenzio, traslata poi nella tradizione eraclidea secondo la quale lo scontro decisivo tra Eraclio e il figlio di Cosroe II avvenne proprio su di un ponte. Tonino Coi
Abbiamo già segnalato la svista nello scorso numero, ma pubblichiamo questa lettera per le informazioni che aggiunge e che potrebbero interessare altri lettori.
L’antipropaganda Un paio di anni fa, la lettura di “Come si viveva ai tempi del fascismo” (Focus Storia Collection) mi suscitò un’irrefrenabile curiosità rispetto
alle forme di comunicazione e di propaganda dell’epoca. Essendo un appassionato filatelico, amante delle immagini e delle forme comunicative, decisi di approfondire l’argomento e approdai a qualche cosa di singolare: la falsa anti-propaganda di guerra. Scoprii che i principali Paesi, nel secondo conflitto mondiale, dedicavano intere sezioni dei propri servizi segreti alla divulgazione di false notizie, falsi francobolli, false cartoline, false banconote, falsi volantini e falsi documenti (sotto, due esempi); il tutto nell’ambito di vere e proprie strategie e operazioni propagandistiche atte a destabilizzare il nemico. Nota a tutti, grazie al film Il falsario, è la cosiddetta “Operazione Bernhard” sviluppata nei campi di concentramento tedeschi, dove si falsificavano sterline inglesi. Sicuramente è meno nota la produzione di francobolli sbeffeggianti i regnanti inglesi oppure dei volantini contenenti false notizie dai fronti di guerra italiani. Desta curiosità anche la cosiddetta “Operazione Cornflakes” sviluppata dai servizi segreti americani, nella
quale messaggi di contro-propaganda venivano inseriti all’interno di buste dotate di false affrancature, raccolte in finti sacchi postali mescolati alla normale posta tedesca, con lo scopo di giungere alle famiglie tedesche. Interessante anche la propaganda caricaturale sui leader dell’Asse sviluppata tramite poster e cartoline in terra americana. [...] Giorgio Leandro, Savona
Elagabalo, non Eliogabalo! Elagabalo era il dio patrono di Emesa, ivi adorato nella forma di una pietra nera conica, che si diceva fosse caduta dal cielo (Erodiano 5,3,3). Questo dio era considerato dio del sole e, a Roma, dopo l’introduzione da parte dell’imperatore che portava il suo stesso nome, fu chiamato deus sol Elagabalus o invictus sol Elagabalus. Da questa identificazione, col sole (in greco Hélios) nacque la forma errata Heliogabalus, che fu usata, a sproposito, sia per il dio che per l’imperatore da storici come gli Scriptores historiae Augustae e Aurelio Vittore, che, solo per fare un esempio, confondono il grande giurista Salvio Giuliano (età di Adriano-Marco Aurelio) con l’imperatore Didio Giuliano che vendette l’impero all’asta ai pretoriani. L’El iniziale di Elagabalo è la radice semitica comune per indicare la divinità: Eloim, El Saddai e anche Allah. Comunque, in greco (si confronti ancora Erodiano) il nome è Elagàbalos. Vi ho sempre ammirato, in quanto siete tra i pochi che scrivono dèi (come plurale di divinità) per distinguere la parola dalla prepo-
sizione articolata dei. Resto, però, alquanto perplesso quando scrivete “danno” e non dànno come terza persona plurale del verbo dare: do (do è mal tollerato in quanto non si accentano i doppioni delle note musicali), dài (come dèi), dà e dànno. Gli omografi vanno sempre accentati, e se uno non lo fa, sbaglia, anche se lo facessero tutti. [...] Renato Reggiani, Bologna
Ringraziamo il lettore per queste giuste precisazioni. Come abbiamo risposto ad altre segnalazioni analoghe, il nostro intento è sempre quello di renderci comprensibili, rinunciando, talvolta, alla precisione filologica.
Altri sommergibilisti Nel numero 95 di Focus Storia, nella top-ten sui comandanti di sottomarini, si sarebbe potuto citare anche il capitano di fregata conte Carlo Alberto Fecia Di Cossato (nato nel 1908 e morto suicida a Napoli 1944). Medaglia d’oro al Valor militare, era conosciuto come sommergibilista asso degli affondatori. Con il sommergibile Enrico Tazzoli fece oltre 100.000 tonnellate di naviglio nemico. Claudio Toppazzini, San Daniele del Friuli (Udine)
Focus Storia n° 95 pag. 87: la foto nella cronologia si riferisce al Canale di Suez, non a quello di Panama. 7
L’ora esatta L’
Impressionismo è nato alle 7:35 del 13 novembre 1872. Non lo dicono i critici d’arte, ma Donald Olson, docente di astrofisica alla Texas State University, giunto a questa conclusione dopo un approfondito studio sulla posizione del sole, le condizioni delle maree e quelle meteo, che si possono dedurre dal quadro Impression, soleil levant di Claude Monet (1840-1926), operamanifesto dell’Impressionismo. La ricerca, presentata a una mostra recentemen-
Quando gli uomini diventarono gentili
V
a individui vissuti in tre diverse epoche: alcuni 80mila anni fa; altri tra 38 mila e 10mila anni fa e qualcuno nel XX secolo. La pace conviene. Grazie all’analisi dei resti è stata individuata una tendenza, protratta nel tempo, verso la riduzione dell’arco sopracciliare e l’accorciamento della parte superiore del cranio. Due tratti in genere associati all’abbassamento del livello di testosterone, che di solito va di pari passo con un aumento della pace sociale. In quel periodo gli individui probabilmente smisero di scontrarsi costantemente e, comprendendo l’utilità della cooperazione, cominciarono a creare i primi gruppi sociali. (a. b.) MONDADORI PORTFOLIO/WWW.BRIDGEMANIMAGES.COM
olti più gentili e meno voglia di scatenare una rissa per motivi banali: così 50mila anni fa la specie umana iniziò a evolversi, a cooperare e, grazie a questo, ad avviare un boom “tecnologico”. E tutto grazie a un evento decisivo: il calo dell’ormone del testosterone nel sangue, che avrebbe portato a un conseguente calo dell’aggressività. Ma c’è di più. Secondo i ricercatori dell’Università dello Utah (Usa), il calo dell’ormone maschile portò anche a un arrotondamento della scatola cranica e allo sviluppo delle capacità sociali. Gli studiosi hanno preso in esame 1.401 crani di 30 diverse provenienze etniche, appartenuti
te inaugurata al Museo Marmottan Monet di Parigi, è cominciata con l’identificazione dell’albergo e della camera dove l’artista soggiornò. Una stanza con balcone al 3° piano dell’Hotel de l’Amirauté al numero 45 del Grand Quai, a Le Havre. Mattiniero. La posizione del sole a est indica che fu dipinto nelle prime ore del mattino. La stella infatti è raffigurata 2-3 gradi sopra l’orizzonte, un fenomeno che si presenta dai 20 ai 30 minuti dopo l’alba. Secondo i calcoli di Olson il sole si presenta in quel-
Gli uomini hanno cominciato a collaborare 50mila anni fa, quando si è abbassato il livello di testosterone nella specie.
IN PILLOLE
1
Antiche toilette
A Vindolanda, antico castrum romano in Inghilterra, è stata ritrovata un’antica tavoletta per latrine. Ora si cerca anche la “spongia”, una spugna particolare usata come carta igienica. 8
2
SCALA
Cooperativa primordiale
Turista per caso?
Nella Cina Nord-occidentale, scavando in un’antica tomba del VII secolo, gli archeologi hanno trovato il teschio di un europeo, forse un mercante in viaggio lungo la Via della seta.
3
Avanzi di banchetto
Pare che le lumache fossero un piatto prelibato anche più di 10mila anni fa. Gli archeologi ne hanno ritrovato i gusci in Spagna, in una “sala da pranzo”.
di Monet la precisa posizione, raffigurata nel dipinto, solo poche volte l’anno, a metà novembre e a gennaio. Olson ha in seguito analizzato il livello del mare: la combinazione dell’alta marea con questa posizione del sole restringeva le possibilità a sole 19 date (tra novembre e gennaio) tra il 1872 e il 1873. Condizioni. Poi, studiando le condizioni meteo per quelle date, ha escluso le giornate di nebbia, portando così i potenziali giorni buoni a sei. A questo punto, Olson ha preso in esame un altro elemento: il vento.
4
La direzione da cui soffiava, indicata dal pennacchio di fumo verso destra, ha fatto escludere altre 4 date. A questo punto ne rimanevano solo 2, il 13 novembre 1872 e il 25 gennaio 1873. Lo studio della biografia dell’artista ha permesso poi di escludere il 25 gennaio del 1873. Quindi, ciò che Monet dipinse nel famoso quadro, che diede poi il nome alla corrente dell’Impressionismo, era ciò che vide dalla sua camera d’albergo il 13 novembre 1872, alle 07:35. •
“Cold case” risolto con il Dna
Forse rivelata l’identità di Jack lo squartatore, il killer londinese del XIX secolo. Secondo le analisi sul Dna ritrovato sullo scialle di una delle vittime sarebbe un polacco di 23 anni.
F.-Xavier Bernard
5
Analizzando l’operamanifesto della corrente artistica francese si è stabilito il momento preciso (data e ora) in cui Monet la dipinse. Impressioni di novembre Il dipinto dell’artista francese Claude Monet Impression, soleil levant. Dal titolo dell’opera prende il nome l’Impressionismo, corrente artistica del XIX secolo.
Il tempo delle pesche
In Cina sì è cominciato a domesticare alberi da frutta circa 7mila anni fa: le analisi su antichi noccioli di pesca hanno dimostrato che quella selvatica e l’odierna si sono discostate allora.
Apple I in funzione
L’
Apple I fu il primo esperimento di Steve Wozniak e Steve Jobs fatto nel loro garage nel 1976. Costruito da Wozniak (Jobs ebbe però il merito di intuirne le potenzialità) fu il prototipo di quello che diventò poi il primo personal computer della Storia: l’Apple II. L’Apple I (foto) era costituito da un kit con le istruzioni per l’assemblaggio. Niente a che vedere quindi con i moderni computer, dal momento che, oltre a dover essere assemblato in proprio, non aveva il monitor (doveva essere collegato a una televisione). Un apparecchio, insomma, che oggi definiremmo “da smanettoni”. Ne furono costruiti solo 200 di cui pochissimi ancora in circolazione. Come nuovo. Uno di questi, grazie a un team di informatici del Temporary Museum di Torino, ora ha ripreso a “lavorare”. Gli esperti hanno seguito le istruzioni e sono riusciti a riaccenderlo e a farlo funzionare. L’Apple I aveva una capacità di calcolo limitata, rispetto a quella cui siamo abituati: la sua memoria, compresa tra i 4k e gli 8k, ne limitava lo spazio per i programmi e la velocità di elaborazione. Il lavoro di recupero del “fossile” informatico è stato preceduto da una lunga serie di verifiche e controlli sul funzionamento dei suoi componenti originali. (a. b.) 9
Il primo naufragio?
A
l largo della costa di Gozo, la seconda isola più grande dell’arcipelago maltese, a una profondità di 120 metri, è stata localizzata una nave fenicia (foto). Risalirebbe al 700 a.C. e potrebbe essere stata protagonista del più antico naufragio avvenuto nel Mediterraneo. Quasi intatta. I resti della nave, che forse navigava tra la Sardegna e Malta, sono stati ritrovati sparsi su un’area di 65 metri quadri. Il fondale sabbioso ha attenuato l’impatto del relitto, lungo circa 15 metri, conservandone anche il carico. Sono state individuate 20 macine in pietra lavica e 50 tra anfore e brocche in ceramica utilizzate per il vino. (g. d. i.)
Volto nuovo
REUTERS/CONTRASTO
La testa di Riccardo III, ricostruita partendo dal cranio recentemente ritrovato sotto un parcheggio a Leicester (Gb).
DEA/GETTY IMAGES
Riccardo III fu colpito più volte
D
opo 529 anni di indagini, il mistero è svelato: Riccardo III d’Inghilterra (1452-1485) morì dopo aver ricevuto sul capo nudo vari colpi, durante la battaglia di Bosworth. Con lui, ultimo esponente della casata degli York e ultimo dei re inglesi a morire in battaglia, finì la cruenta Guerra delle due rose, che per trent’anni
aveva opposto i due rami della casa regnante dei Plantageneti (gli York e i Lancaster). Con mezzi moderni. Gli studiosi dell’Università di Leicester, che hanno condotto la ricerca poi pubblicata sulla rivista The Lancet, hanno sottoposto il corpo a Tac e microtomografia. Scoprendo che due furono i colpi decisivi, inflitti alla testa: uno con una
Personaggi sconosciuti che sono stati, in vita, protagonisti.
Giuliana Lomazzi
A cura di Giuliana Lomazzi
JULIA POLAK
HENRY KENNETH REES
WERNER FRANZ
Patologa
Ufficiale della Raf
Assistente di volo
Ken Rees, morto lo scorso settembre a 93 anni, era nel gruppo di aviatori inglesi che nel 1944 scavarono un tunnel di circa 100 metri per fuggire dal campo nazista Stalag Luft III a Sagan (Polonia). Ultimo della fila. Durante la fuga, raccontata dal film del 1963 La grande fuga (di John Sturges), evasero 76 prigionieri, ma molti vennero ripresi. L’ultimo a uscire fu Rees, che però si trovò davanti una guardia: rimesso in cella, vi rimase per un altro anno e mezzo.
Il 6 maggio 1937 il dirigibile tedesco Hindenburg s’incendiò durante l’atterraggio nel New Jersey. L’assistente di cabina, il 15enne Werner Franz, riuscì a saltare giù dal dirigibile, salvandosi. Franz che era l’ultimo sopravvissuto ancora in vita, è morto lo scorso agosto a 92 anni. Gigante cattivo. L’incidente, in cui morirono 36 persone su 97, ebbe grande risonanza sui media e pose fine all’era dei voli in dirigibile, poiché questi mezzi non furono più considerati sicuri.
Julia Polak, morta recentemente a 75 anni, ha dedicato gran parte della sua vita alla creazione di organi artificiali per il trapianto. Lei stessa, a 56 anni, subì un trapianto di cuore e di un polmone e sopravvisse grazie a questo intervento. Sempre avanti. Dopo l’operazione decise di aiutare anche altri come lei, abbandonò la patologia e si dedicò all’ingegneria dei tessuti. Fondò un centro per sviluppare tessuti e cellule per organi artificiali destinati al trapianto. 10
spada o un’alabarda e il secondo con la punta di un’arma non identificata. Il terzo, forse al bacino, fu il colpo di grazia. Sotto le auto. I resti di Riccardo III furono rinvenuti nel 2012, dopo l’individuazione del luogo della Greyfriars Church, dov’era la tomba, che ora si trova sotto un parcheggio di Leicester. Il re fu riconosciuto dalla scoliosi, che lo scheletro ancora presenta, ma la conferma giunse poi dall’esame del Dna. •
A cura di Irene Merli
MOSTRA
PARIGI
I Borgia e il loro tempo MOSTRA
Ritratti e opere commissionate da una delle famiglie più famose e famigerate del Rinascimento. Fino al 15/2/2015. Museé Maillol. Info: 0033142225958; www. museemaillol.com
LA VALLETTA (MALTA)
Malta in 100 oggetti
FIERA
NOVEGRO (MILANO)
Militalia La Valletta vista dal mare, con la cupola di Nostra Signora del Carmelo.
“L
a grande storia di una piccola nazione-isola attraverso 100 oggetti”. Questo il titolo della mostra che invita a conoscere Malta dalle sue origini geologiche fino alle epoche più recenti. Heritage Malta ha organizzato l’esposizione per celebrare quattro anniversari storici maltesi: i 50 anni dell’indipendenza (21 settembre 1964), i 40 della nascita della Repubblica (13 dicembre 1974), il 35° del “Freedom day”, quando le truppe inglesi lasciarono l’isola (31 marzo 1979)
e il decennale dell’adesione all’Ue (1° maggio 2004). A tappe. La mostra racconta i fatti attraverso 100 reperti sono scelti da un team di studiosi di diverse discipline e ritrovati in natura o lavorati dall’uomo: ecofacts and artfacts, come dicono i curatori.
Tra i momenti storici da non perdere: le sculture del Neolitico, età in cui fiorì la civiltà megalitica testimoniata dalle celebri statuette di dee madri; le opere d’arte commissionate dai Cavalieri di Malta; il Barocco, che la capitale festeggia ogni gennaio con un festival. •
A sinistra, statuetta di dea madre trovata nei templi di Scorba. Sotto, una dea madre dormiente.
Fino all’1/2/2015. National Museum of Archeology. La Valletta, Malta www.heritagemalta.org. Per informazioni: Malta Tourism Authority www.visitmalta.com
L’appuntamento per gli appassionati di collezionismo militare: armi, divise, mezzi in mostra. E ci sarà anche Focus Storia Wars. 1-2/11. Info e programma: 02 70200022; www.parco esposizioninovegro.it/militalia
TREKKING
ITALIA
Il ’15-’18 a piedi Ben 33 località italiane, da Siena a Verbania, da Biella a Catania, organizzano la Giornata del trekking urbano ricordando la Grande guerra, un secolo dopo. Il 31 ottobre. Info e programmi: www.trekkingurbano.info
FESTIVAL
BOLOGNA
Festa internazionale della Storia Lezioni, conferenze, dibattiti con i maggiori esperti. In aule, teatri, chiese, musei, strade e piazze. 18-26/10. Vari luoghi della città. Info e programma: www.festadellastoria.unibo.it 11
A cura di Marta Erba, Filippo Nieddu, Giuliana Rotondi, Daniele Venturoli
PAROLE DIMENTICATE
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DA COSA NASCE COSA
Q U A R A N T A N A Derivato da “quaranta”, anticamente era sinonimo di quarantena o di quaresima. Indicava anche il digiuno di 40 giorni un tempo imposto ai frati.
CHI L’HA DETTO?
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“Tutto è bene quel che finisce bene” IL NUMERO
200
IL SIMBOLO
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Il prezzo in lire (pari a circa 1,75 euro di oggi) di una pizza margherita in Italia, nel 1966.
VOCABOLARIO
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La TIARA, copricapo a forma conica di probabile origine persiana, conferiva autorità spirituale a chi lo indossava. Duemila anni fa era il paramento dei sacerdoti del dio orientale Mitra. Tra il IX e il X secolo la tiara (o mitria, dal nome del dio) si diffuse in Occidente come copricapo dei vescovi e quindi del papa (vescovo di Roma), con l’aggiunta di tre corone sovrapposte a indicare il “triregno”, cioè il dominio su Cielo, Terra e Inferi (sopra). Triplice. Le tre corone furono aggiunte in momenti diversi. La prima indicava la sovranità papale sullo Stato della Chiesa. La seconda fu voluta da Bonifacio VIII (1295) a ribadire la doppia sovranità, spirituale e temporale. La terza arrivò con Benedetto XII, nel 1342, per distinguersi dai papi di Avignone.
Illustrazione del primo ’900 ispirata alla commedia di Shakespeare (a lato, la prima edizione).
L
a frase è la traduzione del titolo di una commedia di William Shakespeare, All’s well that ends well, scritta fra il 1602 e il 1603 e ispirata alla novella di Giovanni Boccaccio Giletta di Narbona, inclusa nel Decamerone. Vedo nero. L’opera è annoverata tra le dark comedies di Shakespeare, cioè commedie che, pur senza
arrivare a finali tragici, presentano una visione pessimistica della vita. Protagonista è Elena, innamorata di Bertram ma non ricambiata. Nel corso della trama Elena riuscirà, nell’ordine, a sposare Bertram, ad aspettare un figlio da lui e alla fine a conquistarne l’amore. Il tema prevalente del testo è la morte, anche se la vicenda si conclude con la nascita di una nuova vita. Come a rafforzare l’idea che “tutto è bene quel che finisce bene”.
NICHEL Minatori della Sassonia medioevale accusarono gli gnomi (detti nikker) di aver lanciato un sortilegio verso un metallo simile al rame che non riuscivano a fondere. Il nome fu ripreso da Alex Fredrik Crosted, lo svedese che isolò il nichel, anche perché in svedese nickel, diminutivo di Nicolaus, era anticamente associato a “persona da poco” (e il nichel è un materiale di scarso valore).
TOP TEN
I GRANDI EVASI
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Jack Sheppard (1702-1724) Inglese, era noto per la sua abilità nel fuggire dalle prigioni: ci riuscì per ben quattro volte prima di essere impiccato. Divenne un personaggio semileggendario, celebre per non aver mai fatto ricorso alla violenza. Per due volte riuscì anche a far evadere la sua amata-complice, Elizabeth Lyon.
DAI TELAI AI CALCOLATORI Nel 1725 il francese Basile Bouchon realizzò un telaio funzionante con schede perforate (a sinistra). L’idea gli venne dagli organetti prodotti dal padre. Capì che le schede realizzate per far suonare gli organi meccanici potevano servire per automatizzare i disegni eseguiti da un telaio. Le schede perforate furono in seguito adottate come input di dati nel primo calcolatore, la “tabulatrice” di Hermann Hollerith. Brevettata nel 1889, fu utilizzata per lo spoglio del censimento americano nel 1890 (sopra).
L’OGGETTO MISTERIOSO
È un vaso in vetro spesso, con un diametro di 10 centimetri. Al bordo è fissato un meccanismo a manovella che muove una lama in ferro e al quale è fissato un piccolo imbuto metallico. A che cosa serviva secondo voi?
D. VITTIMBERGA
Vi proponiamo, anche in questo numero di Focus Storia, la foto di un oggetto di uso comune... ma solo fino a qualche tempo fa! Provate a scoprire di che si tratta e a cosa serviva. Aspettiamo le vostre risposte, indicando anche la località, a: Focus Storia, via Battistotti Sassi, 11/a - 20133 Milano oppure
[email protected]
2
John Dillinger (1903-1934) Rapinatore negli anni della Grande depressione, evase da diversi penitenziari prima di essere ucciso dall’Fbi.
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Papillon (1906-1973) Il suo vero nome era Henri Charrière: riuscì a fuggire (dopo 9 tentativi) dalla colonia penale della Guyana francese, nel 1944.
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Ugo Grozio (1583-1645) Filosofo e giurista, nel 1621 fuggì dal castello di Loevenstein, dove stava scontando l’ergastolo, nascosto in una cassa di libri.
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Frank Morris (1926-?) Nel 1962, con due compagni, evase dalla prigione di Alcatraz scavando una galleria. Di lui non si è saputo più niente.
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Giacomo Casanova (1725-1798) Arrestato nel 1755, evase dalla prigione veneziana dei Piombi, passando per i tetti grazie a un buco praticato nel soffitto.
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Max Leitner (1958-vivente) È evaso cinque volte da diverse carceri, nonostante i problemi di salute. Negli anni è diventato una leggenda del Web.
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René Belbenoît (1899-1959) Condannato nel 1920 ai lavori forzati nella Guyana francese, narrò i suoi innumerevoli tentativi di fuga nelle memorie.
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Frederick Mors (1889-?) Serial killer newyorkese condannato al manicomio giudiziario. Alla fine degli Anni ’20 evase e sparì nel nulla.
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Billy Hayes (1947-vivente) Ha raccontato la sua fuga dalla prigione turca di Sagmacilar nel libro Midnight Express, da cui il film Fuga di mezzanotte.
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PERSONAGGI Motore economico
14
o
ritore p o c s d el
L
L’imbarco di un carico di tabacco alla volta dell’Inghilterra, in una colonia nordamericana. Nelle piantagioni di tabacco lavoravano soprattutto gli schiavi.
TABACCO
R
odrigo de Jerez: chi era costui? Uno dei tanti Carneadi che si imbarcarono con Cristoforo Colombo alla ricerca delle Indie, nell’agosto del 1492. Ma le multinazionali del tabacco dovrebbero scolpire il suo nome nell’oro e magari innalzargli un monumento, perché fu proprio lui, quantunque inconsapevole della portata del suo gesto, il primo fumatore occidentale: l’uomo che introdusse nel Vecchio Mondo la magia del tabacco. Un’illustrazione assai dubbia lo raffigura alto e slanciato, con la barba scura e le chiome fluenti tipiche degli avventurieri dell’epoca. Ai confini dellA leggendA. Non sappiamo quanti anni avesse Rodrigo quando si imbarcò sulla Santa Maria per scoprire le Indie; sappiamo solo che proveniva da Ayamonte, Andalusia, e che aveva una moglie. Il primo contatto con il tabacco lo ebbe appena toccato terra, nell’isola di Guanahani, ribattezzata San Salvador dal navigatore genovese, nell’ottobre del 1492. Gli esploratori annusarono con diffidenza quelle foglie secche e profumate offerte loro dagli indigeni. Un mese più tardi, sbarcato in quella che oggi è Cuba, Rodrigo poté osservare i nativi che fumavano quelle stesse foglie, avvolte in rotoli di palma o mais. Gli indios accendevano i piccoli cilindri vegetali a un’estremità e ne aspiravano voluttuo-
Foglie di “nicotiana” Xilografia del 1622 con il fiore della Nicotiana tabacum, nome scientifico della pianta da cui si ricava il tabacco.
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Fu lo spagnolo Rodrigo de Jerez a portare in Europa l’abitudine di fumare. Salpato con Cristoforo Colombo, scoprì l’uso che gli indios facevano di quelle foglie 15
Il nome nicotina omaggia Jean Nicot (1530-1600), ambasciatore in Portogallo. Sarebbe stato lui a introdurre il tabacco alla corte di Francia samente il fumo. De Jerez provò a imitarli assieme al compagno d’avventure Luis de Torres. E cadde come loro nel vizio. il fumo? Si beve... A quel tempo non era ancora stato coniato il verbo “fumare”: si parlava di “bere” il fumo (visto che si avvicinava alla bocca). Colombo registrò la strana usanza, ma non si lasciò contagiare dall’esempio di Rodrigo. E tuttavia, quando, nel marzo 1493, rientrò in Euro-
Vuoi fare un tiro?
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Una pipa col tabacco in un dipinto ottocentesco ambientato in un caffè orientale.
pa, portò con sé un piccolo carico di oro, nio e lo denunciò al tribunale dell’Inquisiqualche pappagallo e del tabacco. E sareb- zione. Fu così che de Jerez finì in galera, be stato proprio de Jerez il primo a dimo- dove restò per sette anni. strare in Occidente che uso si poteva fare Quando, all’alba del Cinquecento, il della novità. Mal gliene incolse. conquistador-tabagista riguadagnò la liSi narra infatti che la sua stessa consor- bertà, il tabacco era diventato ormai una te si spaventò a morte moda dilagante nel novedendolo soffiare fumo stro continente. Anche dalle narici: credette fosse taluni, specie in amInizialmente fu se posseduto dal demobito clericale, seguitavaconsiderato un no a censurarlo. Ai calvinisti non piafarmaco: Caterina ceva perché era comde’ Medici lo usava merciato dai Marrani, gli contro l’emicrania ebrei sefarditi spagnoli costretti a convertirsi alla religione cristiana. I puritani lo giudicavano una moda dissoluta (il tabacco godeva fama di stimolante sessuale) e una dissipazione di tempo e denaro. Laici e scienziati ne erano invece entusiasti: compatti, ne decantarono le virtù terapeutiche. Sia al fumo, sia al tabacco da fiuto attribuivano poteri miracolosi: scacciavano malattie veneree come la sifilide, guarivano dal raffreddore, allontanavano le tristezze, placavano l’appetito senza influire sull’energia. Le ceneri del tabacco curavano i calli; l’insufflazione per via rettale di fumo riusciva talora nel miracolo di rianimare gli annegati. erbA “SAntA”. Jean Nicot (1530-1600), l’ambasciatore francese in Portogallo da cui prende il nome la nicotina (identificata nell’Ottocento), lo spediva alla sua sovrana, Caterina de’ Medici, per combattere l’emicrania. Nel 1571 un medico di Siviglia, Nicola Monades, definì il tabacco “erba santa”: “Fa bene non solo ai malati”, sentenziò, “ma anche a chi è in salute”. Qualche lustro dopo, un altro medico, l’inglese Thomas Hariot, partecipò a una spedizione nel Nord America e attribuì l’eccellente salute dei pellerossa alla consuetudine di “succhiare il fumo attraverso piIn Spagna si era impoparticolare, preferivano pe di terracotta”. “Il suo utilizzo”, scrisse, sto il sigaro, ben prima la pipa (le più diffuse “non solo protegge il corpo dalle ostruziodell’ottocentesca sigaerano in gesso bianco) e ni, ma, nel caso ve ne siano alcune, purché retta. In Gran Bretagna l’élite il tabacco da fiuto. non siano di lunga durata, in poco tempo prevaleva l’uso della A Venezia tutti (persino pipa che, però, fu scalza- i bambini) fiutavano. Gli le elimina”. ta dal sigaro. In Francia Stati Uniti rimasero inveRegnava però una certa confusione sugli dominava il tabacco da ce l’unico Paese in cui la effetti neurologici della sostanza: per alcufiuto. In genere le masse, maggioranza preferiva ni era un forte stimolante, un “caricabatolandesi e tedesche in masticare il tabacco. terie” che consentiva persino ai braccian-
“Bevuto”, mangiato, fumato e sniffato
A
lungo, in Oriente, il tabacco si continuò a “bere” usando il narghilè, una pipa formata da un contenitore ad acqua in cui il tabacco si metteva a “bollire”. Gli usi del tabacco in Occidente erano invece alquanto disomogenei.
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toria de s l La
TABACCO PREISTORIA
LA PRIMA VARIETÀ MODERNA (AMERICANA) RISALE A 8MILA ANNI FA
FOGLIE ANTICHE La più antica foglia fossile di tabacco risale al Pleistocene: più di due milioni di anni fa.
1499
1498
1492 BENVENUTI IN AMERICA! A Cristoforo Colombo, quando sbarcò in America, furono offerti frutti e tabacco.
L’ISOLA DI TOBAGO FU CHIAMATA COSÌ PERCHÉ VI CRESCEVA IL TABACCO VESPUCCI ANNOTÒ PER PRIMO CHE GLI INDIANI MASTICAVANO FOGLIE DI TABACCO
1571
500 d.C. Tra i nativi americani e i Maya era comune il consumo rituale di tabacco. I MAYA FUMAVANO IL TABACCO O LO MASTICAVANO UNENDOLO A FANGHI
1600
1827 IL TABACCO SI DIFFONDE IN INGHILTERRA SOTTO ELISABETTA I
NEMICO PUBBLICO Per tutto il XVII secolo, si conduce una crociata contro il fumo considerato un vizio per persone dissolute.
Hierba panacea è il primo trattato sugli usi medici del tabacco
1856
1848
ARRIVA BIG TOBACCO La prima fabbrica di sigarette è aperta in Inghilterra durante la Guerra di Crimea. Le due guerre mondiali renderanno sempre più popolare la sigaretta, a scapito della pipa. IL FUMO UCCIDE Il medico inglese Richard Doll dimostra il legame tra il fumo di tabacco e il tumore al polmone.
1950
SU SCALA INDUSTRIALE Si diffondono i primi fiammiferi al fosforo, usati al posto degli acciarini, per accendere le pipe o i sigari ormai diffusi in tutta Europa.
INFOGRAFICA: VITTORIO SACCHI
Dal Pleistocene ai nostri giorni, come si è evoluto il consumo del tabacco.
6000 a.C.
2003
W IL SIGARO Il tabacco è sdoganato. Nel 1848, per protesta contro gli austriaci, i milanesi decidono di non fumare per danneggiare l’erario: iniziano così le 5 giornate di Milano.
IN CINA SI VENDE LA PRIMA SIGARETTA ELETTRONICA
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Foglie secche
Dopo la Guerra di Crimea (1856) si difuse l’usanza di avvolgere il tabacco nella carta: nascevano le sigarette ti di sgobbare a stomaco vuoto e favoriva comunque la concentrazione; per altri era un narcotico rilassante, da sconsigliare agli uomini d’azione. AmAto e odiAto. Tutti concordi, invece, nel magnificarne il potere deodorante. Oggi ci pare quasi paradossale, ma in un’epoca dominata da puzze pestilenziali persino a teatro e negli ambienti aristocratici, l’odore del fumo era salutato come un gradevole scudo protettivo. E certo veniva apprezzato universalmente, come lo è oggi, il suo potere di respingere gli insetti o altri animaletti fastidiosi. Per un intero secolo, il Cinquecento, prevalse l’apologia. Dall’inizio del Seicento si levarono le prime voci dissonanti. Forse perché nell’immaginario collettivo si associava il consumo di tabacco a riti e pratiche da “selvaggi”, come orge e cannibalismo, qualcuno cominciò ad attribuirgli
Foglie di tabacco messe a essiccare al sole, in una stampa inglese dell’800.
effetti deleteri come l’indebolimento della memoria e l’impotenza. Robert Burton, autore di Anatomia della malinconia (1621), ne condannò l’abuso come “una pestilenza” che conduceva l’uomo a sicura “rovina e disfatta”. Il re d’Inghilterra Giacomo I (1566-1625) lo avversò pubblicamente. Il sovrano diede alle stampe un trattato intitolato Influenza perniciosa del tabacco in cui definiva l’abitudine di fumare “un’usanza disgustosa alla vista, esecrabile
all’olfatto, dannosa al cervello, nociva ai polmoni”. Non solo: lo sconsigliò ai soldati perché li avrebbe infiacchiti e depressi. A dire il vero, Giacomo fu un’eccezione tra i potenti europei: gli altri monarchi continuarono a incoraggiare il consumo di tabacco tra i propri militari. Durante la Guerra dei trent’anni (1618-1648) l’“er-
Un vizio globale
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A sinistra e in alto, pubblicità del ’900 di marche americane di tabacco. La varietà Virginia (a destra) era coltivata fin dal ’600 nell’omonima colonia inglese. 18
ba santa” fu inclusa tra i generi di prima di lavanda”. Anche per questa equazionecessità e distribuita alle armate di tut- ne, la sigaretta tra le labbra di una donna ta Europa. Gli eserciti furono il vero vo- fu considerata indice di licenziosità fino a lano del nuovo prodotto: fu il loro esem- non molti decenni fa e, dunque, costume pio a contagiare la società civile. E l’uso di riprovevole. tabacco mantenne a lungo, fino al secofebbre dA fumo. La fiammella accesa lo scorso, potremmo affermare, una con- dallo spagnolo de Jerez divenne insomnotazione virile, benché si fosse esteso a ma un incendio planetario, un rogo inartantissime donne, sia dei ceti popolari che restabile. Prima magnificata e poi demodell’aristocrazia. nizzata, la febbre del tabacco si trasmise trASgreSSivo. Molière, dalle Americhe all’Europa, all’Asia, travolgendo patito del tabacco da fiuogni resistenza. to come la maggior parLa coltivazione Ci fu chi provò ad arte dei francesi, nel Don del tabacco in Nord ginarla con divieti e caGiovanni fa dire a SgaAmerica si fondava stighi esemplari. Ma narello: “Non c’è niensenza successo: prima te che valga quanto il tasulla tratta dell’avvento di Pietro bacco: è la passione dei degli schiavi il Grande, in Moscovia galantuomini, chi vive (l’antica Russia) si pusenza tabacco non è denivano i fumatori con il gno di vivere”. E Napoleone, al pari di Molière accanito fiutatore taglio del naso o addirittura con la pena (pare abbia assistito alla disfatta di Water- capitale. Il sovrano turco Murad IV il Proloo portandosi alle narici una presa di ta- de (1612-1640) perseguitò i fumatori chiubacco dopo l’altra), regalava una pipa spe- dendo i loro ritrovi, torturandoli e facenciale ai più valorosi tra i propri granatieri. doli impiccare. In Cina fino al 1776 furoMezzo secolo prima che Mina esaltas- no promulgati editti contro le coltivaziose l’uomo che “se sa di fumo, è veramen- ni di tabacco. Non servì a nulla. A tutte le latitudini te un uomo”, John Galsworthy, autore de La saga dei Forsyte, sanciva: “Aroma di l’“ebbrezza asciutta”, come nel 1658 avemaschio! Tenue effluvio di sigari e acqua va definito il fumo un suo convinto detrat-
Fuma che (non) ti passa La sepoltura di alcune vittime della peste inglese del 1665: i becchini fumavano la pipa, pensando in questo modo di non infettarsi.
tore, il gesuita Jacob Blake, ebbe la meglio su timori e pregiudizi. O, viceversa, sulle evidenze scientifiche che ne hanno decretato la pericolosità. Ma, di queste, Rodrigo non poteva sapere nulla. • Dario Biagi
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AKG /MONDADORI PORTFOLIO
ANTICHITÀ
Una giornata di lavoro a Ostia antica, il porto che 2mila anni fa collegava Roma al suo impero (e che oggi svela nuovi segreti)
In darsena
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Ricostruzione 3D del porto di Traiano (II secolo d.C.) con la grande darsena. Fu realizzato per sopperire all’inadeguatezza di quello dell’imperatore Claudio, di appena 50 anni prima. A sinistra, statua marmorea della Vittoria, rinvenuta a Ostia.
N
ella calda estate del litorale romano si accende un nuovo giorno. Le luci dell’alba rischiarano lentamente le spiagge del Tirreno che tra un po’ inizieranno a popolarsi di un’umanità chiassosa, variamente smistata tra le fatiche giornaliere della working class e gli ozi dei ricchi sfaccendati. Lucio, il giovane protagonista di questa storia, è decisamente un membro della prima categoria, e dunque un poveraccio come tanti; la sua fatica quotidiana inizia proprio con il sorgere del sole che, insinuandosi tra fontane e giardini delle ville e tra le case popolari, lo sveglia nel sottotetto dell’affollato condominio in cui abita.
Si veste in fretta e si precipita giù per le scale: è in ritardo sulla tabella di marcia, in questo primo assaggio di un 22 giugno che lui però non chiamerebbe mai così. Sotto il Sole di traiano. Per Lucio Asinio Rufo, carpentiere navale, il giorno appena iniziato è il decimo prima delle calende di luglio. Siamo nel 110 d.C., ma il “suo” anno è l’863esimo dalla fondazione di Roma, la Città Eterna dove da 12 anni Traiano (53-117 d.C.) regna su un impero che dopo di lui non sarà mai più così esteso. Tutto è all’apice dello splendore: non solo nell’Urbe ma anche nella sua “appendice” portuale, Ostia, dove Lucio vive e lavora con almeno altre 50mila anime. I tempi in cui quell’area costiera non lontana da dove il fiume Tevere si getta
nel mare (ostium significa appunto “bocca”, o “foce”) costituiva un’incognita per le navi, soggetta com’era a insabbiamenti e indifesa contro le tempeste, sono decisamente un ricordo: per rimpiazzare l’ormai inadeguato scalo fluviale, sotto Claudio (10 a.C.-54 d.C.) è stato progettato un vero scalo marittimo con banchine artificiali e frangiflutti, e finalmente con Traiano sono quasi terminati i lavori di un approdo interno, un gigantesco esagono dal perimetro di circa 700 metri (pari a più di 12 stadi) dove le navi mercantili vanno e vengono da tutto l’impero con i loro rifornimenti di grano e merci per la capitale, ignorando ormai il più lontano scalo di Puteoli (Pozzuoli) che implicava anche un lungo viaggio delle merci via terra. 21
INSULAE
Gli edifici delle insulae, i “condomini” romani: a Ostia nel II secolo vivevano circa 50mila persone.
CORBIS
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TEMPIO DI BACCO
TERME
CORBIS
Una delle delle terme di Ostia (ce n’erano anche nel porto), con la raffinata pavimentazione a mosaico.
FORO
PORTO DI CLAUDIO I resti del Capitolium, tempio dedicato alla triade capitolina, ricostruito nel I secolo d.C., nel foro.
Lo scalo marittimo di Ostia nei secoli divenne sempre più vitale. Altrettanto Una volta sbarcato, il carico viene smistato in uno dei tanti horrea, i magazzini – spesso enormi – che costellano l’abitato di Ostia: alcuni hanno persino uno speciale doppio pavimento, contro le muffe. A tempo debito tutto verrà poi caricato su piccole e agili imbarcazioni, i lenunculi, per raggiungere la metropoli risalendo il Tevere. Il porto è collegato al fiume da un canale navigabile, la cosiddetta Fossa Traiana, che forma un’isola artificiale: in 22
epoche posteriori verrà chiamata Isola Sacra, nome che ancora oggi la caratterizza nell’abitato di Fiumicino. orgoglio oStienSe. Gli ostiensi come Lucio – che però, come tanti, è un oriundo: la sua gens è di origine italica e proviene da Teate, l’odierna Chieti, in Abruzzo – dicono con orgoglio che Ostia è stata la prima colonia romana; una leggenda la vuole fondata dal re Anco Marzio addirittura nel 620 a.C., ma le effettive tracce stori-
che risalgono ad almeno trecento anni dopo, quando fu costruito un primo accampamento militare attorno ai due tradizionali assi viari dell’urbanistica romana, il cardo e il decumanus. All’intersezione delle due strade adesso si trova il Foro, centro nevralgico della vita cittadina, ma Lucio Rufo non è un tipo da quartieri alti: tutto ciò che possiede è per l’appunto una stanzetta affittata in un’insula, il caseggiato-alveare del proletariato
TEATRO
MAGAZZINI OLEARI
FOSSA TRAIANA
PORTO DI TRAIANO
MAGAZZINI MARMORARI
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Il teatro da 3mila posti e, sullo sfondo, la piazza delle corporazioni professionali (collegia).
PONTE DI MATIDIA
DARSENA SPIAGGIA
A volo d’uccello L’area portuale ricostruita sulla base delle rilevazioni archeologiche.
importanti furono solo i porti militari di Classe (Adriatico) e Miseno (Tirreno) romano, che però qui a Ostia è un po’ più vivibile grazie alla fresca brezza marina e all’assenza di vicoli troppo angusti. Pochi comfort, però: l’acqua è al piano terra, la sua finestra dà solo sul cortile interno e il padrone di casa non gli lascia neanche accendere un braciere per il timore di incendi, la cui frequenza crea parecchi grattacapi ai vigiles, i pompieri. al lavoro. Sceso in strada con la sua corta tunica da fatica, antesignana della
tuta dei metalmeccanici, il nostro assonnato protagonista si accarezza la zazzera fulva che gli ha dato in sorte il cognomen – cioè il soprannome – Rufo (“dai capelli rossi”) e subito pensa all’essenziale. Una puntata alle foricae, le latrine pubbliche, quindi a una delle tabernae che si trovano al piano terra di molti edifici, per la prima colazione che tutti i migliori medici dell’antichità raccomandano: tanta acqua e un po’ di pane. Se non altro, quel-
lo di Ostia è rinomato per la sua fragranza. Infine raggiunge il decumanus, l’ampio e affollato “boulevard” dove un’orgia di suoni e colori subito lo investe: statue e intonaci dipinti a tinte vivaci, ma anche vestiti, acconciature, lingue diverse. E poi gli odori: quelli dei carretti di vino aromatico e quelli delle spezie in viaggio verso i depositi delle merci preziose. Pochi decenni dopo questi ultimi diventeranno gli Horrea Epagathiana, i magazzini gestiti da 23
greci facoltosi. Si respirano i profumi degli olii e degli henné per le teste delle aristocratiche romane, ma anche il lezzo dell’urina umana usata nelle fullonicae, le tintorie, per fissare i colori sui tessuti. Ci sono, infine, il delicato sentore dei papiri giunti da Alessandria per le biblioteche di Roma e l’odore acre di elefanti, tigri e altre belve esotiche importate per combattere nei circhi. Insomma, un mix olfattivo che farebbe girare la testa a un uomo moderno. Perché se la Roma traianea è “l’emporio del mondo”, come scrive l’oratore greco Elio Aristide, Ostia è la sua anticamera: un vero bazar a misura di città. Multietnica. Attorno a Rufo passano Romani “doc” ma anche Ispanici, Galli, Egizi, Siriani, Giudei e uomini di tutte le province; molti sono qui per brevi periodi legati a un lavoro stagionale, ma c’è anche qualche viaggiatore appena giunto dal porto oppure in attesa di imbarcarsi. Sui mercantili ovviamente, visto che le navi passeggeri ancora non esistono. Ci sono uomini liberi e schiavi, mercanti e marinai, il popolino e la borghesia arricchita che vive sul litorale, nelle opulente domus o nelle residenze signorili che gli archeologi hanno ribattezzato “case a giardino” e dove però a quest’ora del mattino si continua a dormire: in giro c’è solo la plebe. Lucio oltrepassa l’imponente teatro da 3mila posti, vanto di Ostia, e si dirige alla piazza dove ci sono le sedi di rappresentanza delle corporazioni professionali della città, chiamate collegi. Ce ne sono per gli stuppatores (calafatori), i restiones (cordai), i mensores frumentarii (misuratori di grano), gli urinatores (palombari). Le donne sono escluse da queste attività, ma a Ostia esistono comunque imprenditrici di discreto successo. Il collegium che dà lavoro a gente come il nostro artigiano è quello dei fabri nava-
les, gli imprenditori che costruiscono barche, ed è il più numeroso di tutti; i suoi uffici sono indicati, come per ogni altra corporazione, da un mosaico all’entrata che illustra il mestiere di riferimento. Lui è qui in cerca di un nuovo ingaggio, poiché l’imbarcazione alla quale sta lavorando è quasi terminata. Di potenziali datori di lavoro, però, neanche l’ombra: riproverà domani, ora è tempo di muoversi. Sul corSo principale. A passo svelto Lucio Rufo percorre il decumanus nel senso opposto, attraversando il Foro e i suoi imponenti edifici. Si lascia dietro il sontuoso Capitolium, tempio della triade divina Giove-Giunione-Minerva presente in tutte le colonie romane. Ed anche edifici pubblici i cui nomi troveranno più tardi definitiva cittadinanza nella religione: la Basilica, in cui si amministrano i processi e la vita civile, e la Curia, dove sotto la direzione di due magistrati (duoviri) si riuniscono i 100 membri (decuriones) del consiglio cittadino. L’indifferenza di Lucio è giustificata: nessun potente da omaggiare in giro, è davvero troppo presto. Al massimo può incrociare qualche impiegatuccio: scribae (segretari), lictores (attendenti), viatores (messaggeri), “statali” di poco conto e senza peso politico. Non degna di uno sguardo neanche l’imponente tempio di Vulcano, “patrono” di Ostia; fa invece una sosta devota sugli scalini che scendono verso il santuario sotterraneo consacrato al culto di Mitra, religione orientale che il cristianesimo ha appena iniziato a scalfire e che fa proseliti soprattutto tra i poveri, perché offre loro la speranza di una vita migliore dopo la morte. Domus, templi, terme, negozi... Il decumanus solca come una rotta marina il mosaico ocra e porpora degli edifici cittadini, e il nostro carpentiere la sta percor-
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Nei secoli i depositi fuviali del Tevere causarono l’interramento dello scalo. Oggi il porto di Traiano dista 3 chilometri dall’attuale linea di costa
1
A
C R ONOLOGI A
Ostia, dai fasti al fango 24
620 a.C. Fondazione (leggendaria) del primo insediamento di Anco Marzio.
IV sec. a.C. Tracce del primo castrum ostiense, a difesa della foce del Tevere.
II sec. a.C. La città diventa il porto principale per le importazioni di grano.
87 a.C. Durante la guerra civile viene saccheggiata dalle truppe di Mario.
3
I mosaici di Ostia riproducono simboli delle corporazioni (1), tra cui i calafatori attivi nel porto, navi mercantili (2) e i fari (3), che a Ostia erano più di uno.
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LUISA RICCIARINI/LEEMAGE
Tessere rivelatrici
C
C
B
Porta sul Tirreno Costruito alla foce del Tevere e collegato al mare, il porto di Traiano comprendeva enormi magazzini, gli horrea (A), moli e darsene (B), dighe foranee con lanterne e fari (C).
18-12 a.C. In età augustea viene costruito il teatro e ampliato il foro.
42 d.C. L’originario scalo fluviale non è più sufficiente per i traffici mercantili.
106-113 d.C. Traiano fa costruire un secondo porto, più riparato.
V sec. d.C. In declino come approdo, Ostia diventa un centro residenziale di lusso.
1801-1805 Pio VII inizia la prima campagna di scavi archeologici. 25
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In espansione Una veduta aerea degli scavi di Ostia. In basso, una statua di Mitra, divinità orientale assai diffusa in età imperiale, rinvenuta a Ostia.
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Sulle carte il porto era indicato dal faro, eretto usando come fondamenta la nave zavorrata con cui Caligola portò a Roma l’obelisco egizio di Heliopolis rendo già da un po’. L’accesso che conduce al mare, e che gli studiosi chiamano oggi Porta Marina, non è molto lontano: superatolo, ecco in lontananza la spiaggia. Il Portus vero e proprio, con il faro costruito utilizzando come fondamenta la gigantesca nave zavorrata che sotto Caligola portò a Roma dall’Egitto l’obelisco di Heliopolis, è poco più a nord; qui l’orizzonte offre gli onnipresenti magazzini, la sinagoga e un po’ di cantieri all’aperto, tra le dune: è il quartier generale dei maestri d’ascia come Lucio, che ha finalmente raggiunto il suo posto di lavoro. Bacino di carenaggio. Prende subito posto accanto ad altri operai impegnati sulla carena tondeggiante di una navis oneraria, cioè un mercantile, danneggiata da uno scoglio. Con pialle e scuri trascorrono ore di una fatica sempre uguale. Fino a mezzogiorno, quando si concedono un frugale spuntino a base di pane, formaggio e olive. Non un pasto, che arriva – unico nella giornata, per quelli come lui – intorno alle quattro del pomeriggio, quando i lavoratori di Ostia “timbrano il cartellino”, rientrando nella sfera della vita privata con le sue piccole e semplici gioie. Per Lucio – sulla via del ritorno a casa, lungo un decumanus a quest’o-
ra percorso anche da alti funzionari in toga e da matrone ingioiellate – ciò significa anzitutto concedersi una sosta all’antenato delle trattorie, il thermopolium, dove lo attendono pesce, focacce e gli squisiti meloni coltivati negli orti locali, il tutto innaffiato da un sapido vino dei Sabini allungato con acqua e miele. traMonto Sul Mare. Dal portico del locale giungono le risate stridule di un vicino postribolo: sorride malizioso, col calar delle tenebre ci sarà tempo anche per quello. Prima però sente il bisogno di rinfrescarsi alle terme, che a Ostia abbondano e sono fondamentali per chi, come lui, deve puntare tutto sulla forma fisica. Vicino casa sua si trova un impianto piccolo, ma confortevole; il mosaico di una nereide a cavallo di un ippocampo accoglie i suoi passi nel vestibolo e noi lo osserviamo sparire nella penombra, la sua figura inghiottita dai vapori del calidarium. Intanto a Ostia, gran porto della “capitale del mondo”, continua il brulichio incessante di uomini, oggetti e mezzi di trasporto. E per un istante lungo duemila anni tornano in vita le parole di Elio Aristide: “Tutte le cose convergono qui. Commercio, trasporti, agricoltura, metallurgia, tutte le arti e i mestieri mai esistiti, tutte le cose create dall’uomo o cresciute sulla terra. Se non si trova a Roma, non esiste”. • Adriano Monti Buzzetti Colella
INTERVISTA Ostia antica, nuova scoperta: la cittˆ era molto pi• grande
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agazzini, portici, mura, strade, torri: c’è un’altra Ostia antica a nord del Tevere, sul territorio di Isola Sacra e dunque oltre la riva destra del fiume, che finora si credeva il confine naturale dell’antico abitato. Le più recenti scoperte dimostrano che il porto di Roma conobbe un autentico boom urbanistico, se si pensa che il primitivo castrum del IV secolo a.C. da cui Ostia era nata si estendeva su appena 2 ettari e mezzo. Della scoperta abbiamo parlato con Paola Germoni, archeologa della Sovrintendenza ai beni culturali di Roma e coordinatrice del team internazionale che ha effettuato le rilevazioni.
Qual è il significato archeologico della scoperta? «È il frutto di oltre un decennio di lavoro, e aggiorna al rialzo i dati sulla città portuale romana, portandone la superficie complessiva a circa 115 ettari, quasi il doppio di Pompei (66 ettari). Si tratta di un risultato eccezionale, soprattutto se si pensa che all’inizio degli Anni ’90 quella di Isola Sacra era una delle aree italiane più soggette ad abusi edilizi». Come sono state condotte le indagini? «I primi indizi li abbiamo avuti studiando le vecchie foto aeree della Raf:
l’aviazione inglese durante la Seconda guerra mondiale passò l’area al setaccio cercando zone adeguate per gli sbarchi degli Alleati. In seguito, con l’aiuto di un moderno strumento d’indagine, il magnetometro, e dei fisici dell’Università di Southampton che interpretavano i suoi dati, abbiamo iniziato a “vedere” sottoterra le strutture definite di edifici rettangolari e quadrati, talora enormi, con le loro suddivisioni interne. E poi una linea continua di mura con torri quadrate. È stato un momento di incredulità: nessuna fonte antica, nessuna stampa cinquecentesca ci autorizzava a sperare tanto».
Come procederà il lavoro? «In parte, purtroppo, la nuova area rimarrà inesplorata. Il problema non è solo scavare ma anche restaurare, conservare, sorvegliare. I fondi pubblici sono quelli che sono. Il nostro obiettivo ora è fare piccole indagini mirate, per datare i reperti e capirne lo stato di conservazione, così da lasciare le “chiavi” dello scrigno a chi verrà dopo. Di più oggi non possiamo fare. Ma se qualche miliardario filantropo decidesse di investire in questo progetto – e magari poi garantire la manutenzione del sito per, diciamo, 99 anni! – noi siamo pronti con pala e piccone».
Relax alle terme Il frigidarium delle terme presso Porta Marina, in fondo al decumano che attraversava la città. Un tempo era presso la spiaggia di Ostia.
USANZE
Serviva per acclamare un attore ma anche il politico di turno. E si pagava per ottenerlo. La storia del gesto di consenso più antico
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APPLAUSO VI SEPPELLIRÀ 28
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li applausi per uno spettacolo che ci è piaciuto, per un conferenziere brillante, per un neoeletto a una carica politica importante. La Storia, non soltanto quella recente, è piena di applausi: entusiastici o ironici, giusti o ingiusti, spontanei o indotti. Impulso inconscio, scaturito dal cervello per scaricare un eccesso di energia e di sentimenti positivi, col tempo si è trasformato in gesto convenzionale, dettato più dalle norme sociali che dalle emozioni. Ma quand’è che l’uomo ha cominciato a battere le mani in modo cosciente? Già nel Libro dei Salmi (da alcuni studiosi ritenuto dell’XI secolo a.C.), gli Ebrei venivano così incoraggiati: “Popoli tutti, battete le mani! Acclamate Dio con grida di gioia”. E come gesto di approvazione l’applauso venne formalizzato nel V secolo a.C. nell’antica Grecia, a teatro: vestiti a festa, per lo più di bianco, i 14mila spettatori del teatro di Dioniso esprimevano in modo reboante le loro emozioni, tra scoppi di lacrime per pezzi di bravura eccezionale e applausi scroscianti accompagnati da grida. ApplAusi All’AnticA. Non che gli antichi Romani fossero più educati e discreti, anzi: “Quando un uomo viene azzannato, quando urla e scuote la polvere, nei loro occhi non c’è più pietà e con gioia battono forte le mani se vedono schizzare il sangue”, raccontava nel IV secolo il vescovo di Costantinopoli, Gregorio di Nazianzo. Il loro comportamento di fronte alle esecu-
Dalla politica all’arte Il battimano militaresco tributato al presidente della Repubblica popolare cinese da membri dell’esercito. A destra, il pubblico applaude un effetto scenico teatrale, in una miniatura del IX secolo. 29
Nell’antica Roma non si applaudiva solo con le mani, ma anche schioccando le dita o scuotendo la toga
Cantanti scandiscono il ritmo con le mani durante un banchetto in una pittura risalente al regno di Thutmosi IV (1397-1387 a.C.).
5 MINUTI FARINELLI Nel 1737, all’inizio di uno spettacolo, il cantante lirico italiano fu costretto a interrompersi dopo aver intonato la prima nota, subissato dal fragore degli applausi: un’ovazione che durò 5 minuti.
CORBIS
“Applaudire solo con le mani”: nel 1912, in un teatro, si conteneva così l’entusiasmo del pubblico. Secondo una vignetta satirica del 1880 (a destra) non era invece un problema delle opere di Richard Wagner, accolte con scarso entusiasmo (e applaudite solo da lui).
benestanti per proteggere bocca e naso dai cattivi odori dell’Urbe, ma che per primo l’imperatore Aureliano fece distribuire ai cittadini perché “non fossero mai sprovvisti di un modo per lodarlo”. Più o meno nello stesso periodo, il vescovo di Antiochia Paolo di Samosata propose ai fedeli di impiegare in modo simiWHITE IMAGES/SCALA
razione del Colosseo (80 d.C.), in una lettera scriveva che “I sentimenti del popolo romano si mostrano meglio nel teatro”. Lo scopo della “missione” era prendere appunti sulla quantità e la qualità degli applausi che ogni personaggio pubblico riceveva al suo arrivo. Il popolo comunicava con gli applausi e il loro volume, ritmo e durata descrivevano meglio di un exit poll gli umori della plebe e le fortune del politico cui erano diretti. Anche per questo a Roma c’erano diversi modi di applaudire: con i palmi delle mani, come facciamo oggi, ma anche schioccando pollice e indice o scuotendo il bordo della toga. Quest’ultimo metodo fu rimpiazzato nel III secolo dallo sventolare dell’orarium, un fazzoletto usato dai
A chi più e a chi meno
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zioni pubbliche nell’arena, ai giochi e ai combattimenti fra gladiatori era così rissoso che l’imperatore Augusto fu costretto a disciplinare gli applausi dando agli spettatori un segnale di inizio, come succede oggi nelle trasmissioni televisive. A teatro, poi, il pubblico romano, eterogeneo, per lo più rozzo e distratto, andava solo perché l’ingresso era gratuito: spesso si annoiava, perciò nel I secolo erano gli stessi autori delle commedie a ricordargli il proprio dovere. “Nunc, spectatores, valete et nobis clare plaudite” (“Ora, spettatori, a voi arrivederci, a noi un bell’applauso”), era la formula più comune per chiudere una rappresentazione. Tra la fine della Repubblica e l’inizio dell’epoca imperiale, l’importanza dell’applauso passò dalla scena teatrale a quella politica: i Cesari, primi attori sulla scena dell’Urbe, ne avevano bisogno proprio come chi recitava sul palco del teatro. Il motivo era lo stesso per cui i politici moderni hanno bisogno di followers su Twitter e di “mi piace” su Facebook: la ricerca del consenso popolare. Non sono casuali le parole che Augusto, sul letto di morte, rivolse ai suoi amici: “La commedia è finita, applaudite!”. ApplAusometro. Il retore e politico Cicerone, che inviava i suoi amici a bighellonare intorno al Foro o al Circo Massimo, i luoghi più gettonati a Roma per assistere a giochi e spettacoli prima dell’inaugu-
Che musica!
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sti a offrire il loro plauso a chiunque per soldi: alcune compagnie teatrali ne assumevano una decina, per manipolare la reazione del pubblico, prolungare gli applausi o fischiare gli spettacoli dei rivali. E da bravi “attori” della politica, gli imperatori facevano lo stesso, per evitare imbarazzanti silenzi al loro passaggio tra la folla. Nerone arruolò, pagandoli 400mila sesterzi ciascuno, più di 5mila fra giovani cavalieri e prestanti plebei. Il loro compito: battere le mani durante le sue esibizioni canore. Per svolgere al meglio il proprio lavoro, nessuno di loro portava anelli alla mano sinistra: l’imperatore, infatti, era un tipo esigente, che non si accontentava di applausi normali. Voleva quelli che aveva sentito mentre era in viaggio ad Alessandria d’Egitto: “i mattoni”, “le tegole” e “le api”. I primi erano applausi a palmi aperti, per i secondi bisognava incurvare le mani più o meno secondo la forma del-
67 MINUTI
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le un telo di lino, durante le sue prediche: in meno di due secoli gli applausi ai predicatori più noti diventarono una consuetudine. Insomma, tutti, dagli attori agli imperatori, passando per gli uomini di Chiesa, avevano bisogno dell’approvazione del proprio pubblico. Non sorprende, quindi, che le prime due categorie cercassero di procurarsela a tutti i costi. Anche pagando. Già nell’antica Grecia, drammaturghi e attori preferivano poter contare su un minimo applauso garantito: racconta l’antico scrittore greco Plutarco che alcuni commediografi si procuravano un gruppetto di persone adeguatamente retribuite, le disponevano per tutto il teatro e le istruivano sui punti della commedia in cui far partire sentiti battimani. Con questo trucchetto, diceva, il famoso commediografo greco Filemone di Siracusa era riuscito a battere molte volte l’avversario Menandro. mercenAri del consenso. A Roma, invece, lavoravano i laudiceni, uomini dispo-
LUCIANO PAVAROTTI Nel 1988, nel ruolo di Nemorino nell’Elisir d’Amore di Donizetti, il tenore modenese fu applaudito a Berlino per un’ora e 7 minuti. Non solo: fu anche richiamato sul palco per 165 volte. 31
Versione casalinga WHITE IMAGES/SCALA
Si applaude in un salotto francese in un quadro del XIX secolo. A Parigi nacquero le prime agenzie che reclutavano “applauditori” a comando.
Per essere applauditi si era disposti a pagare il pubblico: lo facevano già gli antichi commediograf greci, copiati a inizio Novecento alla Scala di Milano
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Tra le claque di teatro e gli applausi di piazza rivolti a più o meno discussi leader politici dell’epoca, la differenza non è poi tanta: se non fosse per i metodi, a volte violenti, con cui venivano ottenuti i secondi. Certo c’era anche chi non aveva bisogno di pagare, come il leader sovietico Stalin: lo storico russo Aleksandr Solzhenitsyn nel suo saggio Arcipelago gulag racconta che in una conferenza del partito,
80 MINUTI PLACIDO DOMINGO La più lunga standing ovation mai tributata alla fine di un’opera lirica la ricevette il tenore spagnolo il 30 giugno 1991. Il pubblico viennese, in piedi, lo applaudì per 80 minuti.
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la tegola romana, mentre il terzo era una specie di brusio fatto a bocca chiusa, che assomigliava molto al ronzio di uno sciame impazzito. professionisti dell’ovAzione. La moda degli applausi pagati ricomparve a teatro intorno alla fine del XVI secolo. Per tutto il Cinquecento, nelle corti rinascimentali che ospitavano spettacoli privati, nessuno poté mai applaudire più a lungo e più forte del principe o del padrone di casa; quando però in Europa cominciarono a comparire i primi teatri pubblici, tornò in auge l’uso della claque (dal francese claquer, cioè “battere schioccando”). In genere il merito (o demerito) della resurrezione di questa antica pratica viene attribuito al poeta francese Jean Dourat (15081588), che per la rappresentazione dei suoi drammi acquistava di tasca propria un mazzo di biglietti da regalare a chi prometteva di applaudire l’esibizione. A Parigi, a partire dal 1820, comparvero agenzie specializzate che proponevano veri professionisti dell’applauso, della risata a comando o della richiesta di bis a tariffe piuttosto elevate: i costi si alzavano in base al tipo di prestazione richiesta, dall’applauso educato via via a salire per un applauso entusiasta o per i fischi rivolti allo spettacolo di un concorrente. Per supportare i cantanti d’opera, nel 1919 al Teatro La Scala, di Milano, il listino prezzi prevedeva il pagamento di 25 lire (30 euro attuali) per gli uomini e di 15 per le donne.
i partecipanti accolsero l’arrivo del loro leader con dieci minuti di applausi, in piedi. Nessuno, conoscendone la terribile fama, voleva interrompere per primo l’ovazione: a rompere gli indugi fu il direttore di una fabbrica di carta che si mise a sedere, dando agli altri l’opportunità di seguirne l’esempio. A riunione conclusa l’uomo fu arrestato. In quel caso i poveretti avrebbero avuto davvero bisogno dell’invenzione dell’ingegnere Charles Douglass: la laff box la “scatola della risata” (dall’inglese to laugh, “ridere”) con cui, dal 1950, gli americani cominciarono a infarcire show e sitcom di applausi e risate registrate, talvolta fastidioso contorno a battute poco divertenti. Da allora gli applausi hanno cominciato a imperversare ovunque: come in chiesa per il sì degli sposi e durante i funerali, per chi ormai non può più udirli. l’ultimo bAttimAno. Il primo a ricevere questo dubbio omaggio fu Totò, nel 1967: ma la bara era vuota e quello il suo terzo funerale, celebrato a Napoli tre mesi dopo la sua morte. Nel 1973, invece, la folla applaudì il feretro dell’attrice Anna Magnani e l’eccezione diventò regola: oggi persino nella composta Inghilterra accade che durante le partite di pallone il minuto di silenzio venga sostituito da un minuto di applausi. Consoliamoci: c’è un’illustre precedente: anche Dante fu accolto all’inferno dal “suon di man” dei diavoli sui corpi dei dannati. • Maria Leonarda Leone
56 a Fiera del Collezionismo Militare
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PRIMO PIANO
Come vivevano gli italiani di cent’anni fa, alla vigilia della Grande guerra. E che cosa accadeva, intanto, nel mondo.
ITALIA
Ultime notizie
ALINARI
La lettura delle novità dal fronte su un giornale, nei mesi precedenti l’entrata in guerra del nostro Paese (1915).
COME ERAVAMO CENT’ANNI FA
SULL’ALTRO FRONTE: TRENTO E TRIESTE
ITALIANI SUL KARAKORUM
VON SPEE IN FUGA NEL PACIFICO
pag. 36
pag. 46
pag. 56
pag. 64
DATE E FATTI DI UN ANNO FATALE
L’INVENTORE DEI GAS
L’INUTILE LINEA CADORNA
GLI ARTISTI IN ARMI
pag. 44
pag. 52
pag. 62
pag. 68 35
PRIMO PIANO
ITALIA 1914
QUANDO C’ERA Nell’autunno di cent’anni fa il nostro Paese si stava lentamente avviando alla modernizzazione. Ecco chi eravamo e come vivevamo alla vigilia della Grande guerra
Pronti allo scontro Operai al lavoro nel 1914, all’Ansaldo di Genova: costruiscono i Mas (Motoscafi antisommergibile).
OCCUPATI PER SETTORE
LA PACE
MASCHI %
68
FEMMINE %
25
AGRICOLTURA INDUSTRIA % %
58
23
TERZIARIO %
18
1911
2011
AGRICOLTURA INDUSTRIA % %
4
20
MASCHI %
68
FEMMINE %
46
INVERSIONE DI TENDENZA Nel 1914 a differenza di oggi (i dati di queste pagine sono riferiti ai censimenti 1911 e 2011) la maggior parte lavorava nell’agricoltura.
FERROVIE
18.000
KM
1911
2011
26.500 TRASPORTI IN CRESCITA In un cinquantennio le ferrovie ebbero un incremento notevole, passando da 2mila a 18mila km di strade ferrate. 37
KM
INFOGRAFICHE: VITTORIO SACCHI
ANDREA JEMOLO
69
TERZIARIO %
1911
2012
NAPOLI
ROMA
678.031
2.617.175
MILANO
MILANO
599.200
1.242.123
ROMA
NAPOLI
542.123
962.000
TORINO
TORINO
427.106
872.367
PALERMO
PALERMO
341.088
POPOLAZIONE TOTALE ITALIANA
1911
35,845 MILIONI
MUSEO DI STORIA DELLA FOTOGRAFIA
QUANTI ERAVAMO: LA TOP-FIVE DELLE CITTÀ PIÙ NUMEROSE
657.561 2012
60,782
MILIONI
MA C’ERA ANCHE LA GRANDE ONDA DELL’EMIGRAZIONE ITALIANA Nel 1911 espatriarono quasi 535mila italiani. Nel 2013 sono stati 95mila gli italiani emigrati. Le destinazioni ai primi del ’900 erano gli Stati Uniti e la Svizzera, oggi sono Inghilterra e Germania.
Vita di campagna Una famiglia toscana durante la vendemmia. Alla vigilia della guerra si viveva soprattutto in campagna. Le città si popolavano allora.
Il Paese si stava modernizzando grazie agli interventi statali: trasporti pubblici
T HERITAGE IMAGES/GETTY IMAGES
utti conosciamo la catastrofe che iniziò dopo quel fatidico 23 maggio 1915, quando l’Italia dichiarò guerra all’Austria, entrando nella Prima guerra mondiale. Meno noti sono invece i mesi precedenti. Come si viveva in Italia cent’anni fa, nell’autunno del 1914? E quanto gli italiani erano lontani dai loro “cugini” europei, già in guerra?
In antIcIpo suI tempI. In alcuni settori l’Italia era una vera potenza, per esempio nel cinema. Nella primavera del 1914 uscì un kolossal destinato a fare storia: Cabiria di Giovanni Pastrone. E non mancavano nemmeno i colpi di genio italico. Un giovane sacerdote dell’Aquila aveva già allora intuito le potenzialità di un apparecchio portatile per la ricezione dei messag-
gi radiotelegrafici (un antesignano del cellulare). Ma il nostro giovane Paese (Stato unitario da appena un cinquantennio) non era evidentemente pronto per la novità e il giovane inventore fu accusato di spionaggio. Del resto, per capire la mentalità del tempo, basta sfogliare i giornali di allora: nell’autunno del 1914 si sfidarono a duello un corrispondente del New York Herald,
Meno popolari A sinistra, una gara automobilistica a Milano (l’auto è una Minerva 3.3). Le strade asfaltate praticamente non esistevano. A destra, Torino-Milan del 1914. Quell’anno il campionato prevedeva 7 squadre in più rispetto all’anno prima. Il calcio non era popolare come oggi.
LA FAMIGLIA ITALIANA
30% 1911
CON PIÙ DI 5 COMPONENTI 2011
6% SEMPRE PIÙ “NUCLEARE” Una delle principali differenze con l’Italia di oggi era la quantità di famiglie numerose, drasticamente superiore (sopra). Come il numero di figli per donna (sotto).
1911
3,14 FIGLI
nelle città, acquedotti e una nuova rete ferroviaria 2011
tunno di quell’anno, fu arrestato per aver tentato, insieme alla sua amante, di uccidere la moglie inoculandole il morbo della tubercolosi. Ma la cronaca annoverava anche fatti curiosi come quello avvenuto all’Ippodromo di Parma: una rissa scatenata per un piccione, morto durante una gara di tiro al volo, che tutti volevano mettere in tavola. L’autunno del 1914 fu fune-
1,42 SPERANZA DI VITA GETTY IMAGES
che aveva osato scrivere un articolo poco rispettoso nei confronti della preparazione militare italiana, e il direttore del quotidiano (in lingua francese) Italie, che aveva deciso di lavare con la sciabola l’offesa. anno nefasto. Nei quotidiani non mancavano nemmeno i delitti passionali. Fece scalpore il caso di un ricco commerciante di merletti di Napoli che, nell’au-
45 ANNI
83 ANNI
2011
1911
39
ALINARI
MATRIMONI SENZA FIRMA 1911
30%
DEGLI ITALIANI NON SOTTOSCRISSE L’ATTO DI MATRIMONIO
GLI “SPOSI ANALFABETI” Un terzo della popolazione nel 1911 non pose la firma in calce al proprio contratto di matrimonio perché non sapeva scrivere.
Il miglioramento della qualità della vita portò a una diminuzione della mortalità infantile stato da alluvioni e bombe d’acqua. A settembre un nubifragio nell’Alta Val Bormida (tra Piemonte e Liguria) provocò devastazione e danni per svariati milioni di lire. E il mese successivo due terremoti in contemporanea fecero tremare quasi tutta la Penisola (dal Piemonte alla Puglia). Nel mese di dicembre, infine, le piene dell’Arno e del Tevere costrinsero molte famiglie a rimanere prigioniere in casa. Perfino l’Et-
na si fece sentire, eruttando poco prima di Natale con conseguenti terremoti in Sicilia. Insomma, l’instabilità geologica era un problema anche un secolo fa. In fase dI crescIta. Ma com’erano gli italiani di allora? «Rispetto a oggi, nel 1914 eravamo meno numerosi, più giovani, più bassi e più poveri», dice Stefano Fenoaltea, docente di Storia economica all’Università di Torino. «Eravamo ancora lonta-
ni dal benessere di massa; più bassi perché la crescita era limitata da malattie oggi debellate, dal freddo delle case senza riscaldamento e spesso dalla malnutrizione. Tuttavia, durante l’età giolittiana (19011914), l’Italia conobbe un forte sviluppo e i salari crebbero, anche se non raggiunsero mai i livelli di Francia, Germania e Inghilterra». Insieme alla produzione e ai salari migliorò anche la società. In un cin-
Città “green” Milano era, allora come oggi, la seconda metropoli più popolata d’Italia. In città ci si muoveva in tram, a piedi o in bici.
NELLE PATRIE GALERE 1911
40.881 DETENUTI 2013
64.323
TASSO DI ANALFABETISMO
46%
1911
abc
def 2011
1%
Scuola da artigiano
SCUOLA PRIMARIA Nel 1911 quasi tutti i bambini andavano a scuola, ma molti adulti e anziani ai loro tempi non c’erano andati e quindi il tasso medio di analfabetismo rimaneva alto. Ci volle un trentennio prima che questo parametro si dimezzasse.
Un laboratorio di intaglio della scuola per falegnami di Cantù (Milano). I ragazzi cominciavano a lavorare a 10 anni.
ti meno abbienti. Cresceva la popolazione urbana, ma il settore con maggiore impiego rimaneva quello agricolo. L’industria si sviluppava, anche se a ritmi limitati, come vedremo, da alcune sciagurate politiche dell’epoca. In altri Paesi europei la crescita e la modernizzazione furono in quegli anni assai più decisi. «La relativa prosperità dei primi anni del Novecento era un fenomeno inter-
nazionale, espressione di un mondo in cui la finanza era già globalizzata. L’Italia, che alla pari di Paesi come l’Argentina o gli stessi Stati Uniti era allora “in via di sviluppo”, attirava investimenti e capitali stranieri», prosegue Fenoaltea. Anche se la fiducia in quel giovane Stato (guidato allora da Antonio Salandra, esponente della Destra storica) era altalenante, e sebbene periodi di crescita si alternassero a fasi S&M STUDIO/FOTOTECA
quantennio era diminuita di molto la mortalità infantile ed era migliorata la qualità della vita in città, grazie agli investimenti pubblici e privati. Furono aumentati gli acquedotti, migliorate le fogne, riducendo la diffusione di malattie infettive. Nei grandi centri comparvero i tram elettrici, meno costosi di quelli tradizionali, a cavallo. Si diffuse inoltre la bicicletta, primo mezzo di trasporto privato alla portata dei ce-
Quadri viventi Uno “spettacolo di moda” al Teatro Lirico di Milano, nel 1914. Accanto a ruoli femminili tradizionali se ne stavano aggiungendo altri, tra le classi agiate.
IL COSTO DELLA VITA: QUANTO SI PAGAVA UN CHILO DI...
0,41 PANE
CARNE BOVINA
1,78
(6,64 €)
LIRE
PASTA
0,50
(1,50 €)
(1,90 €) RISO
3,18 (11,86 €)
CAFFÈ
0,19 (7,31 €)
BURRO
(5,71 €)
1 kg
PATATE
1,96
(7,61 €)
1,53
(1,83 €)
(0,75 €)
2,09
ZUCCHERO
0,48
OLIO D’OLIVA (AL LITRO)
CARNE SUINA
3,68 SE POTESSI AVERE 100 LIRE AL MESE Il salario di un operaio nel 1914 si aggirava intorno alle 110 lire (circa 360 euro di oggi). Ma molti emigravano in cerca di migliori condizioni di vita.
(13,73 €) LATTE (AL LITRO)
0,33
(1,20 €)
All’epoca “importavamo” professionisti e tecnici di alto livello, ed “esportavamo” soprattutto mano d’opera a basso costo
Macchine per scrivere della Olivetti pronte per essere inviate all’imbarco, verso l’Egitto e l’Argentina.
meno 10 anni». Ma se i più cominciarono a leggere, scrivere e far di conto, purtroppo non si andava oltre: l’istruzione secondaria era per pochi, quella universitaria per pochissimi. Mancavano quindi figure professionali qualificate, che si “importavano” dall’estero. «L’immigrazione a quei tempi era altamente specializzata. Arrivavano imprenditori, ingegneri e tecnici da Francia e Inghilterra, che aiutavano l’industrializzazione e la modernizzazione. Mentre moltissimi italiani erano costret-
ti a emigrare, anche oltre oceano, per trovare migliori condizioni di vita e di lavoro: allora esportavamo braccia e importavamo cervelli». Import-export. La crescita economica era invece rallentata dalla politica doganale, specie dal protezionismo sul grano. In Italia il protezionismo provocò una diminuzione delle esportazioni, penalizzando settori agricoli che richiedono una maggiore manodopera (e più specializzata) come gli agrumi e la seta. Gli imprenditori ingleALINARI
di crisi, prevaleva la tendenza positiva. Gli italiani, rispetto ai primi anni post-unitari, stavano meglio, producevano e consumavano di più. Ed erano anche più istruiti. tuttI a scuola. «Nel 1913 si stava lentamente conquistando l’alfabetizzazione di massa: quasi tutti i bambini andavano alle elementari. Il tasso medio di alfabetizzazione era però basso per il fatto che molti adulti non erano andati a scuola. Basti pensare che allora si considerava in età lavorativa chiunque avesse al-
Silicon Valley
Trotto e ciclismo Prove di trotto in un ippodromo, nel 1910. In quegli anni l’ippica era molto popolare, come il ciclismo.
ALINARI
IMPORT-EXPORT IERI E OGGI
AGRUMI VINI FORMAGGI TESSUTI
1911
2011
MACCHINARI ABBIGLIAMENTO ALIMENTARI
PETROLIO E GAS AUTOMOBILI ELETTRONICA
CARBONE FERRO ACCIAIO
IMPORT
EXPORT
LA LENTA AVANZATA DEL MADE IN ITALY Il commercio con l’estero è diventato una voce importante dell’economia italiana soprattutto nel secondo Dopoguerra. Ma alcuni prodotti (come quelli del settore tessile) già cent’anni fa erano apprezzati sui mercati stranieri.
si, passando al libero scambio, avevano portato a un miglioramento della vita degli operai che potevano comprarsi il grano d’importazione americano e russo a un prezzo basso, nutrirsi meglio e spendere i soldi guadagnati per altre cose. L’Italia, invece, con il protezionismo rifiutò in buona parte i benefici della globalizzazione. Gli italiani stavano meglio di prima, è vero, ma come si suol dire sarebbero potuti stare meglio se l’Italia si fosse saputa rinnovare. A ciò si aggiungeva il fatto che
il nostro era già allora il Paese degli sprechi. VecchI VIzI. «Esemplare il caso delle ferrovie: le linee passarono dai 2mila km ai tempi dell’Unità ai 18mila 50 anni dopo. Ma al prezzo di un pesante indebitamento pubblico. Gli appalti erano congegnati male: lo Stato finanziava per chilometro di linea effettivamente costruita, e non in base alla distanza tra una città e l’altra», spiega Fenoaltea. «Non conveniva aprire un tunnel in una montagna: facendo un lungo giro il costruttore spendeva di meno e ricavava di più. Lo Stato, inoltre, per recuperare le spese impose tasse enormi sul servizio ferroviario (statale dal 1905, ndr), scoraggiando il traffico: era come se volessimo avere le ferrovie, ma non usarle». A causa di questi lunghi tragitti, se si aveva fretta di consegnare le proprie merci, era
il caso di scegliere un altro mezzo di trasporto. I passeggeri non erano messi meglio. Se da una parte i treni avevano il merito di rendere più accessibili diverse aree del Paese, i prezzi dei biglietti non erano certo popolari. La politica delle alte tariffe vanificò gli sforzi fatti a livello di investimenti. Gli italiani che si servivano del treno per spostarsi erano davvero pochi, così i 18mila chilometri di ferrovie del 1914 rimanevano in gran parte inutilizzati. L’Italia di un secolo fa, insomma, era una società in piena transizione tra il vecchio e il nuovo, un serbatoio di potenzialità non del tutto sfruttate, un Paese che non era riuscito a fare il salto di qualità, alla rincorsa degli altri più potenti Stati europei (Francia, Germania e Inghilterra). Così, quando entrammo in guerra, pagammo caro il prezzo della nostra debolezza economica, strategica e militare. • Federica Ceccherini (ha collaborato Piero Pasini)
L’azzardo italiano: neutrali o in guerra?
“L
a bandiera d’Italia su Saseno. Semplice e commovente cerimonia”. Così il Corriere della Sera annunciava l’occupazione dell’isola albanese di Saseno, di fronte a Valona, da parte delle truppe del Regno d’Italia. Quel colpo di mano, del 30 ottobre 1914, favorito dal vuoto di potere in Albania (allora ottomana), era il sintomo dei timori italiani di cent’anni fa. Dentro o fuori? Il partito neutralista poteva contare sulla maggioranza in parlamento
(cattolici e socialisti) e tra gli italiani: “Salvo una piccolissima minoranza, la nazione si è subito rivelata unanime contro la partecipazione”, scriveva il ministro degli Esteri San Giuliano nell’agosto del 1914. Tra gli interventisti c’erano molti intellettuali (tra i quali il direttore del Corriere della Sera, Luigi Albertini) e studenti. Insomma, a volere la guerra erano pochi, ma con ottimi megafoni. Che cosa volevano? A leggere Albertini (o ascoltare D’Annun-
zio), liberare le terre irredente: Trento, Trieste e la Dalmazia, etnicamente italiane ma rimaste, dopo il Risorgimento, sotto il dominio austriaco. «In realtà, il vero scopo degli interventisti era fare dell’Italia una potenza adriatica», spiega lo storico Gian Enrico Rusconi nel suo libro L’azzardo del 1915 (il Mulino). La “conquista” di Saseno era un timido tentativo in quella direzione. Sul fronte opposto, i neutralisti puntavano a ottenere comunque le terre irredente,
ma come ricompensa per la non belligeranza. Equilibristi. In realtà il futuro dell’Italia lo stava giocando la diplomazia segreta. Fin dal 1913 esisteva un piano che prevedeva l’invio di truppe italiane a fianco degli austro-tedeschi. Altrettanto segreto resterà il patto siglato 9 mesi dopo a Londra, con il quale l’Italia si schierava con Francia, Inghilterra e Russia. Un azzardo che costerà all’Italia tre anni e mezzo di guerra e 650mila morti. (a. c.) 43
PRIMO PIANO
19
L’ANNO
Fu un anno caldo su tutti i fronti quello in cui maturò la tragedia del primo conflitto mondiale. Una guerra che tutti temevano, e che tutti volevano.
U
INTANTO NEL MONDO
n attentato terroristico (l’assassinio di Francesco Ferdinando) appoggiato da un governo (quello serbo). La scusa della sicurezza per giustificare una ferocissima corsa agli armamenti. Una diplomazia fatta di ultimatum durissimi e “doverose” dichiarazioni di guerra. Per non parlare dello strano rapporto tra i cugini Willy, Georgy e Niky (il Kaiser Guglielmo II di Germania, Giorgio V del Regno Unito e lo zar Nicola II di Russia), che la nonna (la defunta regina Vittoria) non avrebbe mai voluto veder litigare tra loro. «Nel ripercorrere l’escalation di eventi alla vigilia del conflitto», ha osservato lo storico Alessandro Barbero durante il recente Festival della Mente di Sarzana, «sono tanti i paradossi a venire alla luce. Ma quel che emerge è soprattutto il succedersi di “scommesse sbagliate”: ciascuno pensava che al nemico, in fondo, non convenisse entrare in guerra». •
NEW YORK
1
AGOSTO
PAURA A WALL STREET La Borsa di New York chiude per lo scoppio della guerra (riaprirà a dicembre).
MESSICO
6
DICEMBRE
LA RIVOLUZIONE MESSICANA I rivoluzionari messicani Emiliano Zapata e Pancho Villa entrano a Città del Messico con i loro eserciti.
65
MILIONI Gli uomini mobilitati dalla leva di massa.
1914
CRONACA DI UNA GUERRA ANNUNCIATA
44
28
30
GIUGNO
2
LUGLIO
Gavrilo Princip assassina a Sarajevo (Bosnia) l’erede al trono austro-ungarico.
La Russia (alleata di Regno Unito e Francia) dichiara la mobilitazione generale.
L’Impero austro-ungarico dichiara guerra alla Serbia.
28 LUGLIO
4
AGOSTO
L’Italia (formalmente alleata di Austria e Germania) si dichiara neutrale.
La Germania dichiara guerra alla Russia. La Francia dichiara la mobilitazione generale.
1
AGOSTO
23
AGOSTO
Le truppe tedesche invadono il Belgio, Paese neutrale. L’Inghilterra intima lo stop.
3
AGOSTO
AGOSTO
Il Regno Unito dichiara guerra alla Germania.
Il Giappone entra in guerra a fianco di Regno Unito e Francia.
L’Austria-Ungheria dichiara guerra alla Russia. L’Italia avvia contatti segreti con l’Inghilterra.
5
AGOSTO
Gli italiani dell’
AUSTRIAN ARCHIVES/SCALA (2)
PRIMO PIANO
Una parte dell’Italia (di oggi) era in guerra fn dal luglio del 1914. Chiamata a
Q
“
uando fui sui monti Scarpazi, miserere sentivo cantar”. In Trentino si cantano canzoni “austriache” come questa. Cori struggenti, entrati a far parte del repertorio tradizionale degli alpini. Peccato però che con gli alpini c’entrino poco. E che per decenni questo canto tristissimo sia stato l’unica memoria accettata di migliaia di soldati austriaci di lingua italiana. Sì, perché cent’anni fa, quan46
do l’Italia era ancora neutrale, c’erano alcuni italiani già in armi. Quelli, appunto, che vivevano nelle “terre irredente” e servirono, giocoforza, gli Asburgo. “Il mio sposo è andato soldato per difender l’imperator”, singhiozzava la vedova di guerra e “Scarpazi” era la storpiatura di Carpazi dove i Kaiserjäger (truppe di montagna) trentini andarono a difendere quella che da oltre quattro secoli era la loro patria. Per trentini, friulani, go-
combattere a fanco dell’Austria-Ungheria, a cui appartenevano Trento e Trieste
IMPERATORE
Perla asburgica Il porto di Trieste negli Anni ’10: la città rappresentava il principale sbocco marittimo dell’Impero asburgico. Nella pagina accanto, soldati austriaci nel Tirolo nel 1915. 47
ULLSTEIN BILD/ALINARI
Sbarco in pace Guglielmo II di Germania arriva al castello di Miramare a Trieste in visita all’arciduca Francesco Ferdinando. Era la primavera, ancora senza guerra, del 1914.
Baraccopoli per gli sfollati dell’impero
L
e autorità austro-ungariche svuotarono della popolazione le zone a ridosso del fronte: si calcola che gli sfollati fossero quasi 190mila. Dal Trentino se ne andarono in 70mila, destinati ai campi di Pottendorf e Mitterndorf, non lontano da Vienna, che ospitarono fino a 20mila trentini. Un altro campo per i trentini si trovava a Braunau am Inn, dove nel 1889 era nato un caporale di nome Adolf Hitler. Gli internati, ovvero i trentini sospettati di simpatie irredentiste, circa 2mila, furono invece mandati quasi tutti nel campo di Katzenau, vicino a Linz. Condizioni impossibili. I triestini e la popolazione del Litorale (l’attuale Venezia Giulia) furono trasferiti soprattutto a Wagna, in Stiria, ma pure a Oberhollabrunn e nel medesimo Pottendorf. Solo a Wagna erano più di 20mila. Molti morirono di fame e malattie (2mila a Mitterndorf, 3mila a Wagna). Le condizioni di vita in queste città di baracche erano infatti miserabili: alla riapertura del parlamento austriaco, nel 1917, un deputato trentino a Vienna riuscì a far approvare una legge per l’assistenza ai “profughi meridionali”. Il suo nome era Alcide De Gasperi.
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Soldati italiani che combatterono con gli Asburgo riziani, triestini, istriani, così come per tutti i sudditi della monarchia austro-ungarica, la Prima guerra mondiale cominciò alla fine del luglio 1914. La stragrande maggioranza di loro finì in Galizia (oggi tra Polonia e Ucraina) e moltissimi furono presi prigionieri quando i russi, tra il 6 e l’8 settembre, sfondarono il fronte e ne conquistarono la capitale Leopoli, arrivando quasi a Cracovia. Parecchi sarebbero tornati a casa soltanto nel 1920 e oltre, dopo esser passati per Vladivostok e aver fatto letteralmente il giro del mondo. Magari senza neanche sapere di essere cittadini di un diverso Paese, come quel fante che per far sapere che stava bene, proprio nel 1920, scrisse una cartolina (che arrivò a destinazione) alla famiglia, all’indirizzo “Malborghetto-Austria”. All’Armi! Dopo la mobilitazione, le città austriache cambiarono volto. Il Piccolo, quotidiano di Trieste su posizioni irredentiste, il 28 luglio 1914 scriveva: “Verso sera, la maggior parte dei richiamati aveva ormai obbedito al bando di mobilizzazione. Allora la città, all’improvviso, sembrò spopolata, sfaccendata, caduta nel letargo d’un pomeriggio domenicale di piena estate”. Giuseppe Lunelli, di Villamontagna, oggi frazione di Trento, ricevette la carto-
lina la sera del 31 luglio. “Tutti cercavano di darsi coraggio l’uno coll’altro. In una mezz’ora, cioè circa le due di notte, l’osteria era piena: chi piangeva, chi gridava, tutti erano fuori di se stessi”, scriveva nel suo diario. Il paese era in piedi, persino i bambini erano per strada: alle 5 del mattino tutti si ritrovarono in chiesa per assistere alla messa.
POPOLAZIONE DEL TRENTINO-ALTO ADIGE NEL 1914
360.000 TRENTINI ARRUOLATI NEL ’14-’18
55.000 11.400 12.500 CADUTI
PRIGIONIERI
IRREDENTISTI VOLONTARI IN ITALIA
700
Od Reno
Irredentista, fino all’ultimo
Parigi
GERMANIA Norimberga
Stoccarda
Cesare Battisti esce dal tribunale austriaco dopo la sentenza di morte nel luglio 1916. Si era battuto affinché il Trentino fosse annesso all’Italia e allo scoppio della guerra aveva sostenuto l’intervento italiano contro l’Austria.
FRANCIA
bio Danu Monaco SVIZZERA
Ginevra Lione Genova
Nimes
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Alleati della Triplice intesa (Italia dal 1915 )
POLONIA
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Terre irredente La cartina si riferisce agli schieramenti del 1915, dopo che l’Italia era entrata in guerra al fianco della Triplice intesa contro Germania e Impero austro-ungarico: si vedono i territori irredenti (Trento e Trieste) ancora austriaci.
furono fatti prigionieri e liberati a guerra fnita, cittadini di un Paese diverso probabile che fossero sloveni filo-russi e italiani irredentisti». Questo non impedì che il reggimento triestino fosse uno dei più decorati dell’Austria-Ungheria, con 14 medaglie d’oro al valor militare, 802 d’argento e 2.237 di bronzo. Uno dei decorati con l’oro fu un triestino sloveno, Adriano Leban. Un insospettabile, come l’irredentista triestino Silvio Benco, confermò: “Il reggimento triestino, prima di cedere, si era tenuto al fuoco con valore”. Osservava Arrigo Arneri, un rincalzo del 97° che sa-
L’italiano per eccellenza Trento, 1916. Soldati attorno al monumento a Dante Alighieri. Era simbolo dell’italianità in territorio imperiale.
rebbe stato catturato dai russi nel giugno 1916: “In genere con gli sloveni andavamo d’accordo e non avevamo mai questioni di nazionalità, forse perché il nostro comune padrone era tedesco. Imparai a parlare un po’ la loro lingua o meglio a capirla, per quanto essi fossero più abili e più forti di noi a parlare la nostra”. l’itAliA in cAmpo. Molte cose cambiarono con l’entrata in guerra dell’Italia, il 24 maggio 1915. Si cercò di tenere gli italofoni lontani dal fronte del Carso e da quello IMAGNO/AUSTRIAN ARCHIVES/SCALA
Più tranquilla la situazione a Grado. Il 29 luglio il maresciallo capo della stazione di gendarmeria passò a consegnare le cartoline. Il posto principale di guardia fu collocato nella Pension Fortino, dove i richiamati mangiavano e nelle ore libere dal servizio andavano a pescare per migliorare il vitto. La maggior parte dei richiamati gradesi furono arruolati nella K.u.K. Kriegsmarine (Imperial regia marina, la forza navale asburgica) e se la cavarono meglio di chi fu mandato in Galizia. BersAgli moBili. Mentre il resto d’Italia era abbastanza sicuro di rimanere fuori dal conflitto, i triestini toccarono da subito la durezza della guerra. L’imperial-regio 97° reggimento, con sede a Trieste, tra agosto e settembre si ritrovò davanti a Leopoli e subì il 75% di perdite, tra morti e prigionieri. “Coloro che non caddero finirono prigionieri dei russi, e un cupo silenzio e un’ansia di notizie scesero sulle province italiane di governo asburgico”, ricorderà lo scrittore di Asiago Mario Rigoni Stern. Il 97° reggimento era tenuto sotto osservazione dalle autorità militari. Spiega Roberto Todero, ricercatore sulla Prima guerra mondiale: «Tra il settembre e l’ottobre 1914 furono spostate dal reggimento 6-700 persone. Non abbiamo gli elenchi, ma è
A sinistra, un italiano di guardia sul fronte nord. A destra, le bare dell’arciduca Francesco Ferdinando e della moglie a Trieste, il 2 luglio 1914.
MONDADORI PORTFOLIO
SCALA
Dall’inizio della guerra...
Allo scoppio della guerra, i rapporti tra i soldati italiani e i civili dei territori asburgici erano difcili. Ma nel 1917 gli italiani furono considerati liberatori alpino, ma non sempre fu possibile. ÇNonostante le disposizioni delle gerarchie, alcune migliaia di trentini combatterono sul fronte meridionale, in Carnia, sull’Isonzo, seguendo il destino dei reparti di cui facevano parteÈ, spiega Quinto Antonelli, ricercatore del Museo storico trentino. Gli austriaci si ritirarono subito dalle posizioni indifendibili in pianura e l’impatto degli abitanti con i soldati italiani non fu dei migliori. ÇC’era forte diffidenza verso la popolazione localeÈ, afferma Antonelli. ÇGli italiani se la aspettavano molto entusiasta e propensa a loro. Invece trovarono una popolazione contadina spaurita e diffidente. Vennero subito messe in atto forme di repressione. Per esempio, vennero internati tutti gli stradini del Primiero perchŽ vestivano un’uniforme che gli italiani scambiarono per militareÈ. Peggio and˜ agli abitanti di Villesse, Lucinico e Mossa,
in provincia di Gorizia, dove si verificarono numerose fucilazioni sul posto di persone ritenute spie. Villesse fu occupata dai bersaglieri del maggiore Domenico Citarella, reduce dalla Libia, che applic˜ gli stessi metodi usati in Nordafrica. “Arabi o friulani per me sono uguali”, disse. E fucil˜ il segretario comunale, il sacrestano, un oste e un contadino (di etnia italiana), facendo mettere 149 ostaggi davanti alle barricate. Se gli austriaci avessero attaccato, sarebbero state le prime vittime. Lo ferm˜ un colonnello dei bersaglieri di passaggio. AllA fAme. A mano a mano che la guerra avanzava, il Trentino e il Litorale (no-
me austriaco della regione che il glottologo Graziadio Isaia Ascoli, nel 1863, aveva ribattezzato Venezia Giulia) si svuotarono della popolazione civile, trasferita in sempre pi• estesi campi per sfollati (v. riquadro nelle pagine precedenti). Dal Trentino partirono verso l’Austria in 70mila (pi• altri 40mila sfollati dagli italiani nei territori conquistati dopo l’arretramento del fronte austriaco). Trieste si dimezz˜: da 230mila abitanti pass˜ a 100-120mila. Gli italiani la bombardarono dal cielo e dal mare e una bomba caduta su un asilo uccise dieci bambini. Emilia Artico in una lettera al marito scrisse, in italiano,
Il 1914 raccontato dai giornali di Trieste
O
tto quotidiani, in quattro lingue (italiano, tedesco, sloveno, croato): questo era il panorama editoriale di Trieste nel 1914. RIleggerli oggi (pubblicità incluse) svela fatti e diverse sensibilità nelle terre irredente. L’Indipendente, quotidiano liberal-nazionale e irredentista, il 22 agosto, nonostante la guerra, richiamava il lettore alla normalità: “Bagno romano di via Sant’Apollinare. Stabilimento di prim’ordine. Bagni a vapore, aria calda, conca e doccia. La sezione idroterapica del Bagno romano rimane aperta tutta l’estate”. L’aria che tira. Che qualcosa non funzionasse lo si coglie sulle colonne del socialista Il Lavoratore, che si rivolgeva alle classi popolari. Il 10 settembre i Magazzini Weiss 50
, Di lingua italiana entiste. ed irr ni io siz po vicino a
facevano sapere: “Giornata di tagli e resti in tutti i nostri articoli. Specialmente tagli stoffe lavabili in enorme quantità”. Mentre le Cooperative operaie annunciavano: “È in vendita un ottimo pane bianco in filoni da un chilo”. In dicembre la situazione era peg-
entista: Quotidiano irred evo. ci lavorò Italo Sv
giorata e le Cooperative informavano: “Fra due o tre giorni grande arrivo di calzature da uomo, donna e ragazzi. Nelle ultime settimane eravamo rimasti disassortiti causa le forti vendite e i mancati arrivi. Quasi tutte le fabbriche austriache e germaniche sono
...alla fine delle ostilità
SCALA
Le truppe austroungariche abbandonano Gorizia nel 1918. La guerra è finita e la città è entrata a far parte del Regno d’Italia.
degli italiani: “Vengano a liberarci, quei maledetti!”. Arrivarono nel 1918, dopo un anno passato a soffrire la fame nera e cercare di sfuggire alle requisizioni. Quinto Antonelli rimarca che nel 1918 i trentini accoglievano bene gli italiani: rappresentavano la fine di un incubo di fame e sofferenze. «Un po’ come gli americani nel ’45, gli italia-
ni nel ’18 significavano cibo. Si sono conservate testimonianze dell’ammirazione per il pane bianco, mentre prima c’era solo quello nero». lA storiA dei vincitori. Negli anni successivi, dopo l’avvento del fascismo, cominciò la demolizione della memoria. Il Trentino si riempì di lapidi che celebravano gli italiani come liberatori dall’infa-
me giogo straniero. A Trieste si rovesciò il significato dell’inno ufficioso del 97° (in dialetto triestino): il cosiddetto “demoghèla”, ovvero “diamogliela”, che aveva il significato di “diamogli addosso” fu riletto come “diamocela a gambe”. Agli italiani reduci dell’esercito dell’imperatore non spettarono onori, ma solo dileggi. •
, ma vicino Scritto in italiano rgiche. a posizioni asbu
desco: era Quotidiano in te erale austriaca. la voce dell’ala lib
“Unità”) L’Edinost (ovvero vena. era in lingua slo
completamente impegnate per le forniture militari”. A guerra ormai dilagante, L’Osservatore triestino dell’11 dicembre riportava una pubblicità della ditta Öhler: “Articoli per preservarsi dal freddo. Articoli indispen-
sabili, corredi completi per militari, forniamo in qualsiasi quantitativo a prezzo di fabbrica”. I triestini che combattevano in Galizia avrebbero apprezzato un paio di guanti caldi e un berretto di pelo. Lo stesso giorno sul Lavoratore: “In un momento
come questo il mezzo più economico e più rapido per avere in grandezza naturale le sembianze di una persona cara, defunta oppure lontana, è un ingrandimento fotografico che si può avere in otto giorni dallo Stabilimento antico fotografico”.
Alessandro Marzo Magno
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PRIMO PIANO GETTY IMAGES
Nel 1914 il futuro premio Nobel Fritz Haber, partendo dai fertilizzanti, mise a punto le armi chimiche
Chimica da battaglia In alto, Fritz Haber (1868-1934), il chimico tedesco “padre” dei gas tossici impiegati nella Prima guerra mondiale. Nella foto grande, marinai tedeschi in tenuta antigas, durante un’esercitazione.
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I
l primo conflitto mondiale è passato alla Storia anche per il tragico debutto delle ar mi chimiche. A rendere i gas una triste re altà contribuì, tra il 1914 e il 1915, il chi mico tedesco Fritz Haber. Haber fu al contem po scienziato visionario e fervente patriota. La sua vita e le sue ricerche si legano a doppio fi lo agli eventi più tragici del Novecento, a parti re proprio dalla Grande guerra, durante la quale sostenne con convinzione l’impiego di gas tos sici sui campi di battaglia. Giovane promessa. Nato nel 1868 a Breslavia – città oggi polacca, all’epoca parte dell’Impe ro tedesco – in una benestante famiglia di com mercianti di origine ebraica, Haber condusse i suoi studi di chimica in maniera itinerante, tra Heidelberg e Berlino, Jena e Zurigo, sotto la gui
per la quale nel 1918 gli fu assegnato il premio Nobel. Nel giro di pochi anni, la Basf iniziò a produrre ammoniaca su scala industriale. Il “processo HaberBosch” si rivelò fonda mentale per la produzione di fertilizzanti. In questo modo fu possibile risolvere l’annosa questione della perdita di resa del suolo colti vato, proprio in un momento in cui le miniere cilene di nitrato di sodio – all’epoca la principa le materia prima usata per i concimi – si stava no drammaticamente esaurendo. Per l’agricol tura si apriva una nuova fase di produzione su larga scala, che rispondeva con maggiore effi cacia alle richieste alimentari di una società in rapido sviluppo. Nel 1911, la notorietà conquistata portò Ha ber nuovamente a Berlino. Il chimico, allora
5.700
Le bombe a iprite usate dai tedeschi a Ypres (Belgio) il 22 aprile 1915.
168
Le tonnellate di gas rilasciate a Ypres.
La scienza mobilitata
D
urante la Grande guerra, Haber non fu l’unico scienziato a mettersi (nel bene e nel male) al servizio della patria. Nello schieramento dell’Intesa spiccava il nome del biologo e genetista inglese John Burdon-Sanderson Haldane (1892-1964), arruolatosi nelle truppe britanniche nel glorioso battaglione Black Watch. Partecipò a varie missioni e fu ferito due volte. In famiglia. In risposta all’attacco con il gas cloro coordinato da Haber a Ypres, il British War Office incaricò il padre di Haldane, il fisiologo della respirazione John Scott, di verificare gli effetti di queste sostanze chimiche e soprattutto di mettere a punto maschere anti-gas in grado di proteggere sul campo i soldati di Sua Maestà. Aiutato dal giovane Haldane, nella fase di sperimentazione lo scienziato non esitò a testare su se stesso e sul figlio gli effetti dei gas. Anche Haldane, come Haber, prese le difese della guerra chimica, convinto che i gas fossero più “umani” delle pallottole. 53
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da dei maggiori chimici del tempo. Il suo primo incarico universitario arrivò nel 1894, al Poli tecnico di Karlsruhe, dove rimase fino al 1911. Qui Haber trovò un ambiente propizio alla ri cerca, grazie soprattutto al sostegno di una del le maggiori industrie chimiche della Germania, la Badische Anilin & Soda Fabrik (Basf). Partico larmente fruttuosa fu la collaborazione con un giovane e brillante ingegnere di quell’azienda, Carl Bosch. Con il suo aiuto, dopo anni di espe rimenti, Haber arrivò a un risultato sorprenden te, che lo fece entrare nella storia della chimica. sui campi... aGricoli. Nel marzo del 1909 riu scì a ottenere ciò che molti avevano cercato senza successo: la sintesi dell’ammoniaca a partire da azoto atmosferico e idrogeno. Si trat tava di una scoperta di portata rivoluzionaria,
A diferenza di Einstein, suo collega, Haber era convinto
Su tutti i fronti
GETTY IMAGES (4)
Sopra, soldati tedeschi intossicati dai propri stessi gas, su un giornale inglese. Sotto, un’operaia al lavoro in una fabbrica di armi chimiche in Inghilterra, nel 1916.
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quarantatreenne, fu chiamato a dirigere il neo nato Istituto Kaiser Wilhelm per la chimica fi sica e l’elettrochimica. L’istituto era un tassel lo importante della politica del Kaiser Guglielmo II a favore della ricerca scientifica e delle sue ri cadute pratiche in settori in espansione come la chimica o la metallurgia. n azionalismi . Come dimostrava il caso dell’ammoniaca, gli scienziati potevano gioca re un ruolo di primo piano nella corsa allo svi luppo. In un clima di nazionalismo crescente e di conflittualità tra gli Stati europei, la Germa nia poteva contare su alcune delle intelligen ze più brillanti, come Albert Einstein e Max Planck. In breve tempo, Haber rese il suo Isti tuto uno dei maggiori centri scientifici al mon do, richiamando a Berlino personalità come Einstein o il chimico Richard Willstätter, al tro premio Nobel per le sue ricerche sulla clorofilla. Il 28 luglio 1914, Haber aveva richiesto sei settimane di ferie. Solo tre giorni dopo scoppiava la Prima guerra mondiale: il chimi co rinunciò a partire e cercò subito di arruolar si come volontario, ma invano a causa dell’e tà. Il conflitto condizionò in profondità le linee di ricerca dell’Istituto, spostando l’ago della bi lancia su armi, esplosivi e applicazioni militari. Ma soprattutto obbligò gli scienziati a prendere posizione di fronte alla Storia. Se l’amico e col lega Einstein scelse il pacifismo, Haber si schie rò senza indugi a favore della guerra convinto – come disse in una frase oramai celebre – che “la scienza sia dell’umanità in tempo di pace, della patria in tempo di guerra”.
Nel settembre 1914, insieme a molti colleghi scienziati, fu tra i 93 firmatari della cosiddetta Proclamazione al mondo civilizzato, con la qua le si legittimava il nazionalismo tedesco, si di fendeva l’invasione del Belgio e si negava la fe rocia delle truppe tedesche. In quei mesi concitati, nei laboratori berlinesi di Haber la sintesi dell’ammoniaca non tardò a mostrare il suo lato oscuro. Dai fertilizzanti alle armi il passo fu breve. A partire dall’ammoniaca si potevano ottenere vari esplosivi, che duran te il conflitto avrebbero garantito alla Germania un’autonomia di rifornimento di armi, proprio quando il blocco navale imposto dalla Gran Bre tagna tagliava fuori l’Impero tedesco dai nitrati provenienti dalle miniere cilene. a Ypres. Haber fu messo a capo della sezione chimica del ministero della Guerra, nell’assur da convinzione che l’utilizzo di armi chimiche avrebbe permesso una fine veloce delle ostilità, risparmiando così milioni di vite. Le cose anda rono in maniera ben diversa.
sostenitore della guerra: pensava che i gas l’avrebbero fatta fnire prima Haber non si occupò solo della produzione dei gas. Insignito del grado di capitano, partecipò in prima persona ai combattimenti: il 22 aprile 1915 era a Ypres, in Belgio, a programmare e co ordinare il primo impiego su larga scala di gas cloro, che dopo questo tragico episodio sarà tri stemente noto come iprite o gas mostarda, per via dell’odore acre che sprigionava. I tedeschi rilasciarono circa 168 tonnellate di gas cloro su un fronte di sei chilometri. In die ci minuti morirono più di cinquemila soldati tra atroci sofferenze. Ypres segnò l’inizio del mas siccio impiego dei gas in entrambi gli schiera menti. In quei giorni oscuri, la tragedia stori ca s’intrecciò con quella famigliare: pochi gior ni dopo l’attacco di Ypres, la moglie di Haber, la chimica Clara Immerwahr, sconvolta dagli av venimenti, si suicidò con la pistola del marito. Con la fine della guerra, Haber tornò a Berli no a dirigere l’Istituto di chimica fisica. Vi rima se fino al 1933, quando fu costretto a lasciare l’amata Germania, colpito dalle leggi antisemi
tiche, nonostante anni prima si fosse converti to al luteranesimo. La morte l’avrebbe raggiun to un anno dopo, mentre si trovava in Svizzera. La sconfitta del 1918 fu una grande delusione per Haber, ambivalente figura di scienziatosol dato che con la sua esperienza incarnò la tragi cità del Novecento, un secolo in bilico fra pro gresso e barbarie. •
Miasmi mortali Sopra, soldati tedeschi testano gas a base di cloro. Sotto, gli effetti (tra cui la cecità) sugli inglesi.
Elena Canadelli
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PRIMO PIANO
Mentre in Europa scoppiava la guerra, la spedizione scientifca italiana di
CHE CI FACCIO IO QUI? I
l giorno in cui l’Austria dichiarava guerra alla Serbia scatenando la Prima guerra mondiale, la carovana guidata dal medico-esploratore torinese Filippo De Filippi era accampata nella pietraia del Depsang (Tibet). Con la sola compagnia di silenziose guide di etnia baltì e ladachi, quel 28 luglio 1914 l’esploratore non poteva immaginarsi la gravità del conflitto che stava divampando in Europa. 56
Ma che ci faceva lì quel manipolo di studiosi e tecnici italiani, britannici e indiani? Su e giù per l’Himalaya. Il loro scopo era mappare i profili di valli, vette e ghiacciai tra l’altopiano del Tibet, le affilate guglie del Karakorum e il Turkestan cinese (oggi Xinjiang): luoghi fra i più remoti del pianeta, i cui contorni erano appena abbozzati sulle mappe del tempo. Per questo si era messa in piedi quella che è oggi con-
siderata la prima e più grande spedizione scientifica mai organizzata dall’Italia. Il geografo della missione, Giotto Dainelli, annotò: “Non credo che un’altra carovana, gigantesca come la nostra, sia mai penetrata dentro le alte valli del Karakorum”. La carovana di 200 portatori e 235 casse di materiale percorse 2mila km, dall’agosto del 1913 al dicembre del ’14, tagliando l’immensa catena himalayana dal Kash-
Filippo De Filippi si trovava tra le valli dell’Himalaya. Poi giunse la notizia...
Album fotografico Filippo De Filippi conduce un esperimento di fisica atmosferica, nell’estate del 1914, nel Ladakh (il “piccolo Tibet”).
2.000
mir attraverso il Baltistan, il Ladakh, fino al Turkestan cinese per poi terminare a Tashkent, nel Turkestan russo (oggi Uzbekistan). L’idea di esplorare il Karakorum nacque in seguito alla missione del 1909 condotta da Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi, alla volta del K2. De Filippi (che partecipò anche a un’altra spedizione di Luigi Amedeo, in Alaska) aveva scritto
la relazione dell’impresa in cui gli italiani quasi raggiunsero la seconda vetta più alta del mondo, il K2 appunto. “Lo studio […] di questa regione mi rivelò la varietà e l’importanza dei problemi ancora insoluti che essa offriva agli studiosi”, scriverà una volta tornato in Italia. L’esploratore torinese ben rappresentava lo studioso del suo tempo: curioso ed eclettico, si interessava di etnografia, ma
anche di geologia, fisica atmosferica, botanica e zoologia. In più aveva, diremmo oggi, spiccate capacità manageriali ed era un antesignano della divulgazione scientifica. Contribuiva attivamente alla rivista del neonato Club Alpino Italiano; per lui scrisse anche la relazione della spedizione sul Ruwenzori (Africa). Ma quella del Karakorum sarebbe stata decisamente la sua spedizione. 57
FOTO DI CESARE ANTILLI - ARCHIVIO STORICO, SOCIETÀ DI STUDI GEOGRAFICI, FIRENZE (6)
I chilometri percorsi dalla spedizione De Filippi, dall’agosto 1913 al dicembre 1914.
200
I portatori impiegati per il trasporto dei materiali durante la spedizione.
Al seguito della spedizione c’era il fotografo Cesare Antilli, che riportò in Italia oltre 4mila immagini delle popolazioni locali, degli esperimenti e delle montagne Sul tetto del mondo. La “Dimora delle Nevi”, l’Himalaya, offriva un immenso campo di azione per chi avesse voluto sviluppare nuove teorie scientifiche. “Lo scopo che De Filippi si era prefisso era lo studio di alcuni fenomeni nel campo della fisica terrestre, specialmente la gravità e il magnetismo, e secondariamente fenomeni atmosferici e meteorologici”, scrisse Dainelli. In particolare, De Filippi era incuriosito dalla teoria dell’isostasia. Era un’i58
potesi allora in voga, secondo cui la crosta terrestre è uno strato sottile che “galleggia” sul mantello di rocce fuse e che si pensava potesse spiegare fenomeni come l’orogenesi (la formazione delle catene montuose). Oggi sappiamo che quella ipotesi non era sufficiente a spiegare come “crescono” le montagne, ma la teoria della deriva dei continenti era ancora in fase di studio e De Filippi sperava di trovare la risposta tra le vette più alte del mondo.
teSt miSterioSi. Gli esploratori viaggiavano con 77 casse di solo materiale scientifico, per le triangolazioni topografiche, le stazioni gravimetriche e magnetiche, per le misure geodetiche. C’erano poi strumentazioni per la meteorologia (De Filippi misurò la radiazione solare ad alta quota), e cronometri, nonché una serie di palloni per lo studio delle correnti atmosferiche. Questi ultimi generarono preoccupazioni in più di un villaggio del La-
Etnologi per caso Monaci tibetani indossano maschere rituali al monastero buddista di Hemis (India), in uno degli scatti di Cesare Antilli.
L’itinerario del viaggio Nel cerchio, l’area della spedizione (ingrandita a sinistra, in una cartina d’epoca): il percorso (in rosso) si snodò per 2.000 km, dal Kashmir, attraverso il Baltistan e il Ladakh, fino al Turkestan cinese, per terminare a Tashkent, (oggi Uzbekistan).
I componenti della spedizione scientifica in Asia Centrale: nel cerchio, De Filippi.
dakh, dove la scienza occidentale era una novità assoluta. Alcuni palloni superarono infatti diverse vallate cadendo sui campi di terrorizzati contadini, che li consegnarono alle autorità. Gli sciamani ricorsero a rituali di scongiuro e inviarono i misteriosi oggetti volanti a Lhasa, dove si sospettò un maleficio o una cospirazione. La notizia fu persino riportata nei quotidiani indiani. Gli strumenti insospettirono soprattutto le autorità cinesi a Kashgar, nel Turke-
stan Orientale, dove gli esploratori giunsero nell’autunno del 1914, sulla via del rientro. Il governatore locale esaminò ogni apparecchio, ma si lasciò convincere dalle spiegazioni degli esploratori e concesse il lasciapassare. Chiese però se con questi strumenti potessero leggere nelle stelle il fato dell’Europa. aSia profonda. Partito dal Kashmir e dopo aver svernato a Skardu, nel capoluogo del Baltistan, De Filippi si addentrò nel
“Piccolo Tibet”, ovvero nella regione del Ladakh. I volti che aveva incontrato erano cambiati: dai tratti indoeuropei si era passati a quelli mongolici, e dalla cultura indù, attraverso quella islamica, si era approdati a quella buddista. La carovana si era divisa e ricomposta più volte e non erano mancati gli incidenti: portatori sperduti sui ghiacciai o caduti nei crepacci, soccorsi grazie all’aiuto delle due guide alpine valdostane che accom59
Il grande archivio della spedizione, on line
I
l tesoro archivistico di De Filippi e le migliaia di foto scattate da Cesare Antilli appartengono alla Società di studi geografici di Firenze (www.societastudigeografici. it) che alla spedizione ha dedicato due mostre: la prima nel 2008, in occasione del ritrovamento delle foto e dei diari di De Filippi, e la seconda in occasione del centenario
del viaggio. Sul sito www.filippodefilippi.it è possibile consultare la documentazione relativa alle due mostre e al convegno scientifico dal titolo “La dimora delle Nevi e le carte ritrovate”. Le mostre sono state prodotte anche grazie all’intervento del comitato Ev-K2-CNR, che oggi continua gli studi cominciati da De Filippi un secolo fa.
La stazione meteorologica sperimentale di Depsang, tra India e Cina.
Il guado “assistito” del fiume Cipciàk, nella zona del ghiacciaio Rimu.
pagnavano la spedizione. Non ci fu alcuna perdita umana. Morirono però moltissimi cavalli che, racconterà lo stesso De Filippi, venivano abbandonati al loro destino o uccisi dai portatori e macellati sul posto. L’annuncio dello scoppio della Grande guerra raggiunse la spedizione il pomeriggio del 16 agosto 1914. Cinque corrieri portavano telegrammi dall’Ufficio trigonometrico indiano e le terribili novità sul
De Filippi puntava a studiare l’atmosfera e la formazione delle catene montuose. Il risultato più importante fu però la mappatura delle valli
conflitto. “Al primo sbalordimento successe una folla di pensieri tumultuosi”, ricorderà poi De Filippi. “L’incertezza era tanto più tormentosa per noi italiani che, nella completa ignoranza delle circostanze che avevano determinato il conflitto, dovevamo contemplare la possibilità di avere tagliata la via del ritorno”. Alcuni della compagnia, ufficiali dell’esercito, rientrarono immediatamente. Altri membri della spedizione, compresi i tecnici britannici
(già in guerra contro Austria e Germania) e indiani, scelsero di proseguire. La più grande spedizione geografica italiana, finanziata dal re d’Italia, dalla Reale Accademia dei Lincei, dalla Società Italiana per il Progresso delle Scienze e da molte altre istituzioni (inclusa la Royal Society britannica) era abbandonata a se stessa. Gli esploratori erano soli, tra campi morenici di pietre, ghiacciai, volti e popolazioni sempre più estranee. “Da ora in poi, tut-
235
Le casse di materiale al seguito della spedizione.
77
Le casse di strumentazione scientifica portate in viaggio.
Sul ponte tibetano In posa su un ponte sospeso che attraversa il fiume Gumber. I membri della spedizione passavano sui ponti di corda, mentre il resto della carovana risaliva le sponde per chilometri prima di poter guadare.
to fu cambiato per noi. Privi di qualunque notizia per mesi interi, vivemmo col pensiero assillante di quello che poteva accadere nelle nostre patrie”. Raggiunto il Turkestan russo, il rientro in Europa fu tutt’altro che semplice. De Filippi riuscì a riportare in Italia il materiale raccolto durante il viaggio attraverso Odessa (sul Mar Nero), via Romania e Serbia. Gli strumenti scientifici, però, dovette lasciarli in Russia, già belligerante.
onori poStumi. Di quel viaggio interrotto dalla guerra non si parlò più. De Filippi fu inviato a Londra come direttore dell’ufficio di propaganda e informazione dell’esercito e solo dopo la Prima guerra mondiale furono riconosciuti, sotto forma di onorificenze, i meriti di De Filippi e dei suoi compagni: nuove informazioni sulla glaciologia, la botanica, la paleontologia, l’antropologia e la geografia della regione. A onor del vero, non ci fu un vero risultato
scientifico e l’unico concreto passo avanti fu la mappatura di valli inesplorate. Soltanto nel 2013 la Società di studi geografici e l’Università di Firenze hanno ritrovato le quasi 4mila immagini di Cesare Antilli, fotografo della spedizione, e il diario del medico torinese, semidimenticati negli archivi della Società. Cent’anni dopo, la spedizione verso la “Dimora delle Nevi” è stata così restituita alla Storia. • Jacopo Pasotti 61
PRIMO PIANO MARKA
Nel 1914, gli alti comandi italiani temevano più la Svizzera dell’Austria-Ungheria. Decisero così di costruire la Linea Cadorna, una serie di postazioni che avrebbero dovuto respingere l’invasione elvetica. Una “grande opera” mai utilizzata.
QUANDO la costruirono
COME la realizzarono
N
A
egli anni a ridosso della Prima guerra mondiale, lo Stato maggiore dell’esercito italiano era convinto che la Svizzera rappresentasse una minaccia per l’Italia. Si temeva che la Confederazione potesse approfittare delle debolezze del giovane Stato italiano per riconquistare la Val d’Ossola e la Valtellina, anticamente sua. Allo stesso tempo si era preoccupati di una possibile alleanza tra Svizzera e Germania in chiave anti-italiana. Questi timori crebbero allo scoppio della Grande guerra e Luigi Cadorna, comandante dell’esercito italiano, si mise all’opera. Nell’estate del 1914 diede impulso al progetto, in elaborazione da anni, di un imponente sistema di fortificazioni tra Italia e Svizzera. Prese così forma quella che oggi è conosciuta come Linea Cadorna, o Frontiera nord, una serie di postazioni disperse tra Val d’Ossola e i passi orobici, che passava per le alture a sud del Lago di Lugano. Un’impresa costata alle casse del Regno d’Italia 300 milioni di euro attuali, e rimasta inutile.
lla frenetica realizzazione della Linea Cadorna lavorarono per circa tre anni 20mila persone. Si usarono materiali locali (pietra, ghiaia delle cave, legname dei boschi), coinvolgendo le maestranze del posto: centinaia di boscaioli e picasass (spaccapietre e scalpellini). I minatori ampliavano con la dinamite gli anfratti naturali, mentre muratori, carpentieri e fabbri allestivano postazioni e rifugi. Come “manovalanza” si impiegarono, dal 1915, anche donne e ragazzi. Alle donne erano affidati compiti di trasporto dei materiali e di cucina. I ragazzi sotto i 15 anni facevano i manovali e i custodi. Il lavoro era duro, da 6 a 12 ore al giorno, senza riposo settimanale, ma la paga era buona ed erano previsti alcuni “benefit” solitamente riservati ai militari, come vitto e alloggio, assistenza medica, assicurazione contro gli infortuni, numerosissimi per l’assenza di misure di sicurezza.
25
MILA METRI QUADRI
106
MILIONI DI LIRE il costo della Linea Cadorna (pari a 300 milioni di euro attuali)
la superficie dei depositi e dei baraccamenti per i lavoratori, durante la costruzione
70
CHILOMETRI di trinceramenti e gallerie
LA LINEA
Ideato dal generale Luigi Cadorna (quello di Caporetto), il sistema di difesa
62
Lago Maggiore
Lago di Lugano Lago di Como
Verbania Varese
PERCHÉ la abbandonarono
Bergamo
L
MILANO Brescia Vigevano
Pavia F. SPELTA
a realizzazione della linea difensiva contro la Svizzera si bloccò con la disfatta di Caporetto dell’ottobre 1917, quando tutte le risorse disponibili furono riservate alla difesa della linea del Piave e ci si era resi conto che la Svizzera tanto minacciosa non era. La Linea Cadorna fu abbandonata a se stessa, senza nemmeno essere mai entrata in servizio, autentico monumento allo spreco e alla paranoia prebellica. Venne parzialmente recuperata dal fascismo e poi inserita nel sistema difensivo della Nato durante la Guerra fredda, ma senza alcun utilizzo concreto. Oggi, la maggior parte di questo sistema difensivo è ancora esistente ed è percorribile grazie a una serie di itinerari didattico-escursionistici noti come “Sentiero della Pace”.
Lecco
Como
Incompiuta Nella cartina, lo sviluppo della Linea Cadorna fra la Val d’Ossola (Piemonte) e la Valtellina (Lombardia). L’opera fu interrotta nell’ottobre del 1917, dopo Caporetto. Nella foto grande, una delle postazioni oggi visitabili.
88
POSTAZIONI di artiglieria furono allestite lungo la linea difensiva
296
REALY EASY STAR
CHILOMETRI di strade camionabili, oltre a 398 km di mulattiere
INUTILE
contro la Svizzera è ancora oggi un monumento allo spreco
A cura di Roberto Roveda
Meta turistica Una postazione di artiglieria a Forte Montecchio a Colico, in provincia di Lecco, sul Lago di Como. Questo forte, tra i meglio conservati della Linea Cadorna, è oggi visitabile. 63
ALAMY (2)
PRIMO PIANO POPPERFOTO/GETTY IMAGES
Sorpreso dallo scoppio del confitto, nell’autunno del 1914 l’ammiraglio tedesco von Spee attraversò l’oceano con la sua fotta cercando di raggiungere l’Atlantico. Braccato dalla marina britannica
CACCIA GROSSA
nel Pacifico 64
ficò le esercitazioni: “Nei nostri esercizi di combattimento”, scriveva il comandante dello Gneisenau, “si è infuso un tocco di maggior serietà, nonché una specie di sensazione subcosciente che si stanno preparando tempi difficili”. Con l’addensarsi della tempesta in Europa, Winston Churchill, allora dinamico primo lord dell’ammiragliato, aveva deciso di mantenere unito il grosso delle forze navali concentrandole nella Grand Fleet (la flotta britannica); il che però sguarniva i settori periferici dell’impero, come appunto il Pacifico. Sulla carta, le squadre destinate a difendere le vie commerciali inglesi erano superiori alla divisione di von Spee, ma in realtà solo una nave da guerra di Sua Maestà, l’incrociatore da battaglia Australia, era in grado di battere i due “campioni di tiro” tedeschi. Senza contare che l’area da pattugliare era immensa: quando il 6 agosto, ricevuta notizia dello scoppio della guerra, von Spee lasciò Ponapé, la partita si fece subito complicata. Braccato. La caccia a von Spee fu affidata al viceammiraglio Thomas Jerram, alla testa delle forze navali inglesi in Cina, amico personale del comandante tedesco. Jerram disponeva solo di tre unità pesanti (corazzate o incrociatori coraz-
Comandanti A sinistra, nell’ordine, il tedesco Maximilian von Spee e gli inglesi Frederick Sturdee e Kit Cradock. Sopra, la flotta tedesca in Cile. Sotto, l’incrociatore tedesco Scharnhorst affondato durante la battaglia delle Falkland.
ALAMY
È
il 17 luglio del 1914. L’assassinio dell’erede al trono austroungarico, Francesco Ferdinando, sta facendo precipitare l’Europa verso il conflitto generale. La guerra non è ancora scoppiata, formalmente. Eppure, dall’altra parte del mondo, le flotte degli imperi coloniali, Germania e Gran Bretagna, sono già in allarme. In quell’estate fatidica due grandi unità da guerra stanno solcando le onde del Pacifico centrale. Sono gli incrociatori corazzati Scharnhorst e Gneisenau, cuore d’acciaio della divisione navale tedesca dell’Asia Orientale, creata 20 anni prima per difendere i crescenti interessi del Kaiser in una vasta area che va dall’oceano Indiano alla Polinesia, passando per la Cina. Gli equipaggi di quelle navi non sanno ancora che l’autunno del 1914, per loro, sarà fatale. Missione pacifica. Il comando della squadra navale, piccola ma efficientissima (i due incrociatori erano le navi meglio armate della flotta), da un anno e mezzo era nelle mani del 53enne viceammiraglio Maximilian von Spee, un uomo di grande esperienza. In quei giorni sospesi tra pace e guerra, von Spee doveva compiere una missione pacifica, ma che già sapeva di morte: deporre nell’isola di Ponapé un cippo per ricordare soldati e marinai tedeschi caduti nel 1910, durante una rivolta degli isolani. All’indomani dell’attentato di Sarajevo, von Spee intensi-
zati) di vecchio tipo; ma il 23 agosto, con l’entrata in guerra del Giappone (che affiancava gli alleati con una flotta moderna, con cui aveva già battuto i russi nel 1905), il clima per i tedeschi si arroventò. Von Spee decise di puntare a sud-est, verso Capo Horn e il passaggio per l’Atlantico. Difficile sfuggire a un nemico che controllava i punti-chiave dei sette mari. Specialmente senza adeguate informazioni e tirandosi dietro lenti mercantili carichi di carbone, combustibile delle navi. Ma von Spee decise comunque di vendere cara la pelle, colpendo le linee di traffico che portavano il grano e la carne dall’Argentina all’Inghilterra. Compresi i piani tedeschi, Londra decise di affidare il compito di intercettare la flotta di von Spee a un altro suo buon amico, il contrammiraglio Christopher “Kit” Cradock. Batosta inglese. Cradock era un comandante dalla fortuna quasi leggendaria. Ma i marinai, si sa, sono superstiziosi. Imbarcandosi sul-
Le flotte viste da vicino
L
66
Sulle coste cilene, a Capo Coronel, l’ammiraglio von Spee si difese benissimo, afondando i due incrociatori inglesi Pagan 11-13 agosto
NORD AMERICA
Enewetak 19-22 agosto Majuro 26-30 agosto Christmas 7-9 settembre
PONAPÉ 6 AGOSTO
Marchesi 26 sett.-2 ott.
AUSTRALIA
Apia (Samoa) 14 settembre Suwarrow 17 settembre
Tahiti 22 settembre Maupihaa 20 settembre
NUOVA ZELANDA S. SPELTA
o scoppio della Prima guerra mondiale sorprese le marine delle grandi potenze nel pieno di un’importante fase di ammodernamento. Già dopo il 1840 la rivoluzione tecnicoindustriale aveva abituato gli ammiragli a fronteggiare continui aggiornamenti, ben più frenetici rispetto a quelli dei secoli dominati dai grandi velieri. In pochi decenni l’introduzione di navi corazzate, spinte dal motore a vapore e armate con giganteschi cannoni rigati alloggiati in torri rotanti, aveva sconvolto tattiche e strategie operative. Aggiornati. All’epoca della battaglia navale di Tsushima tra russi e giapponesi (1905) le flotte da guerra erano incentrate su navi da battaglia armate in genere con 4 cannoni da 305 mm, mosse da macchine capaci di far raggiungere i 16-18 nodi di velocità, mentre le squadre assegnate alle colonie impiegavano incrociatori corazzati (di fatto unità da battaglia di seconda classe) e incrociatori protetti, navi più piccole ed economiche, a lunga autonomia. Nel 1914 queste tipologie erano già obsolete: ora le navi da battaglia si ispiravano al prototipo inglese Dreadnought, sfoderavano 10-12 cannoni di grosso calibro (anche da 381 mm), e superavano agevolmente i 20 nodi di velocità grazie ai nuovi motori a turbina, mentre al posto degli incrociatori corazzati venivano realizzati i battle-cruiser, un’idea dell’ammiraglio inglese Fisher, che aveva autorizzato anche il Dreadnought, di cui gli incrociatori da battaglia erano una riproduzione più veloce (ma meno protetta).
la sua ammiraglia, Cradock aveva fatto cadere un talismano di giada che si portava dietro ovunque. Più prosaicamente, la sua divisione, di stanza nei Caraibi, era formata dagli ormai vecchi incrociatori corazzati Good Hope e Monmouth, oltre che da un piroscafo armato e da un più moderno incrociatore leggero, il Glasgow. Partendo per lo Stretto di Magellano, Cradock aveva fatto presente a Londra la situazione, dove però non si era disposti ad allontanare dalla Manica le più moderne unità da battaglia. Unico rinforzo concesso all’ammiraglio fu la vecchia corazzata Canopus. Cradock decise di lasciare quel “dinosauro” alle isole Falkland, dove si era fermato per rifornirsi di carbone: il 22 ottobre lasciò così l’arcipelago con solo quattro navi, equipaggiate con richiamati male addestrati. Obbedendo all’ordine ricevuto (“Cercare il nemico e attaccarlo”) il 1° novembre 1914 Cradock intercettò al largo delle coste cilene, a Capo Coronel, i due incrociato-
Da un atollo all’altro La rotta seguita dall’ammiraglio von Spee per raggiungere l’Atlantico: toccò tutti i principali arcipelaghi del Pacifico. A rallentare il suo convoglio erano i mercantili al seguito, che trasportavano il carbone per le navi tedesche. Von Spee fu infine affondato dagli inglesi, con la sua squadra, alle Falkland.
O C E A N O P A C I F I C O
Isola di Pasqua 12-18 ottobre Más Afuera 26-27 ottobre 6-15 novembre
Valparaiso 3-4 novembre SUD AMERICA
FALKLAND 8 DICEMBRE
Capo Coronel 1 novembre Golfo di Penas 21-26 novembre Isola Picton 3-6 dicembre
Capo Horn
Ma quando le vedette tedesche avvistarono le navi nemiche che stavano rifornendosi (Sturdee fu colto alla sprovvista), von Spee, che fino a quel momento non aveva sbagliato niente, capì di essere in trappola. Dopo aver tentato inutilmente di allontanarsi, braccato dai più veloci incrociatori nemici, decise di battersi con le unità maggiori, per coprire la ritirata del resto della squadra. Fu tutto inutile: i grossi calibri inglesi ebbero ragione, dopo un combattimento durato ore (a riprova dell’eccezionale solidità delle navi tedesche), dello Scharnhorst e dello Gneisenau, affondandoli insieme a due dei tre incrociatori tedeschi di scorta, e catturando due navi appoggio. Nella battaglia, costata a Sturdee pochi danni e 6 vittime, morirono 2.110 tedeschi, compresi von Spee e i suoi due figli, imbarcati con lui. Così, in quell’autunno di cent’anni fa, il Kaiser perse la sua flotta “mondiale”. •
ALAMY
Giuliano Da Frè
1,2,3: vittoria! Sopra, la notizia dell’affondamento degli incrociatori tedeschi sulla stampa inglese. Sotto, l’incrociatore inglese Inflexible della Grand Fleet.
GETTY IMAGES
ri da battaglia tedeschi, scortati da tre incrociatori leggeri. Portatosi in una posizione tattica vantaggiosa, e forte della superiorità in potenza di fuoco e precisione di tiro (in 20 minuti le navi tedesche misero a segno decine di colpi), von Spee ebbe facilmente ragione del suo avversario, saltato in aria con tutto l’equipaggio del Good Hope. Poco dopo anche il Monmouth fu annientato dagli incrociatori leggeri. In tutto, morirono 1.654 inglesi. Vendetta. La clamorosa sconfitta, la prima subita dalla Royal Navy da oltre un secolo, provocò un terremoto all’ammiragliato, dove da pochi giorni era tornato al timone l’anziano ma grintoso ammiraglio John Fisher. Fisher spedì contro von Spee una potente squadra navale, comprendente anche i preziosi incrociatori da battaglia Invincible e Inflexible della Grand Fleet, affidandola al viceammiraglio Frederick Sturdee, lo stesso uomo che aveva negato a Cradock i rinforzi necessari. In un clima da dramma elisabettiano, fu lui a vendicare il collega scomparso al largo della costa cilena, quando l’8 dicembre la squadra tedesca comparve al largo delle Falkland, che von Spee (a corto di informazioni) riteneva sguarnite e che intendeva occupare.
PRIMO PIANO
L’ARTE va alla GUERRA Al fronte L’addio. Saluto alle truppe, di Giacomo Balla (1917). Questo quadro dell’artista torinese è decisamente futurista nei colori, nel dinamismo e nell’ambientazione urbana, ma trasmette un senso di malinconia. L’Italia del Nord diede il 48% dei soldati chiamati a combattere nella Grande guerra.
Rosso sangue La guerre, di Giacomo Balla,1916. L’età media dei caduti italiani era 25 anni e 6 mesi. Tra loro anche artisti che avevano inneggiato alla guerra: Boccioni, Erba, Sant’Elia.
I pittori, gli architetti e gli scrittori “interventisti”, di persona e con le loro opere. Al Mart di Rovereto, una grande mostra racconta il rapporto tra arte e guerra
C
MART ROVERETO (2)
“
i voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l’arsura dell’agosto; e una rossa svinatura per le vendemmie di settembre”. Con queste parole, pubblicate il 1° ottobre 1914 sulla rivista Lacerba, il poeta Giovanni Papini esponeva, in modo cinico e ostentato, la visione della maggioranza degli artisti italiani dell’epoca, che si schierarono a favore del conflitto, presentandolo come un’occasione per rivitalizzare la società eliminando deboli e inetti. Questa posizione era condivisa dai nazionalisti, dai dannunziani e soprattutto dai futuristi, per i quali la guerra era “la sola igiene del mondo”, come avevano scritto nel loro manifesto del 1909. Ma non si trattava unicamente di retorica: nel 1914, a Milano, i futuristi bruciarono bandiere austriache, il 15 settembre al Teatro Dal Verme e il 16 in Piazza del Duomo e in Galleria. Al fronte. Gli artisti italiani non si limitarono a caldeggiare la guerra: ne furono anche protagonisti. Già nel 1914 il sedicenne scrittore Curzio Malaparte si arruolò nella Legione garibaldina, inquadrata poi nella Legione straniera francese. Nell’aprile 1915, i primi a fare parte del Battaglione lombardo volontari ciclisti e auto-
mobilisti, un’unità paramilitare formatasi a Milano, furono gli artisti Umberto Boccioni e Anselmo Bucci, l’architetto Antonio Sant’Elia e il poeta Filippo Tommaso Marinetti. Il tributo fu alto. Sant’Elia cadde sul Carso nel 1916, Boccioni morì a Chievo lo stesso anno, il pittore Carlo Erba sull’Ortigara nel 1917. Un altro pittore, Carlo Carrà, subì tali choc da essere ricoverato a lungo in un ospedale psichiatrico militare. Il compositore Luigi Russolo, ferito alla testa nel ’17, subì vari interventi fino al 1919. Marinetti fu ferito e decorato al valore due volte, mentre il pittore e scrittore (non futurista) Giulio Aristide Sartorio, ferito, fu fatto prigioniero e liberato nel 1917 grazie all’intervento di papa Benedetto XV. Il primo conflitto mondiale, e quelli a venire, sono stati anche l’ispirazione di moltissime opere artistiche. Quelle presentate in queste pagine sono esposte nella grande mostra La guerra che verrà non è la prima. 1914-2014, al Mart di Rovereto, dal 4 ottobre 2014 al 20 settembre 2015. Su oltre 3mila metri quadrati, dipinti, manifesti, fotografie, disegni, incisioni, installazioni, video e film dialogano con cartoline, diari, corrispondenze, documentari e reperti bellici della Prima guerra mondiale, esplorando il rapporto fra arte e guerra fino all’epoca contemporanea. • F.- Xavier Bernard 69
Zang Tumb Tumb Paesaggio guerresco. Esplosioni giallo e nero e tricolore, di Fortunato Depero (1916). Un altro grande futurista che rappresenta l’atto di combattere in modo dinamico e patriottico.
Vinceremo! Contributo dell’operaio all’esercito combattente, di Luigi Bonazza, fu dipinto nel 1914-15 per un concorso nazionale di propaganda bellica ed esibisce un forte trionfalismo. I lavoratori trasportano la canna di un cannone, sormontata dalla figura della Vittoria. E in alto sventola il tricolore.
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Per i futuristi modernità e innovazione erano gli obiettivi ideali. E la guerra avrebbe dovuto essere il prezzo da pagare: una distruzione necessaria per ricostruire. Nessuno aveva allora idea di che cosa sarebbe diventato per l’umanità il primo confitto mondiale
“Non passa lo straniero” Finalmente!: cartolina che celebra l’entrata del nostro Paese nel primo conflitto mondiale. Il Regno d’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria il 23 maggio 1915.
Il cinema? Era d’autore Nel 1914 uscì il kolossal muto Cabiria, di Giovanni Pastrone. D’Annunzio ne scrisse la sceneggiatura e gli intertitoli (i cartelli esplicativi).
Contributo obbligatorio Fate tutti il vostro dovere!, di Achille Luciano Mauzan (1917), invitava a sottoscrivere il prestito di guerra. La propaganda diffuse il concetto di guerra “giusta”.
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Fiamme di tela Cannoni in azione, di Gino Severini (1916). La Grande guerra segnò una svolta tecnologica delle armi come mai prima. In tutti i campi, dalle pistole ai cannoni.
Anche la guerra divenne moderna. E le opere che la rappresentavano si fecero spettacolari, soprattutto nel caso dei combattimenti aerei
Morte dai cieli Bombardiere Caproni sull’Isonzo, di Amerigo Contini (1917), è la raffigurazione realistica di un aereo italiano durante un bombardamento.
Presentando questo coupon in originale (non sono valide copie né riproduzioni di alcun tipo) alla biglietteria del Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto si avrà diritto a un biglietto ridotto a 7 euro o un biglietto ridotto a 9 euro per la visita alle 3 sedi (Mart Rovereto, Casa d’Arte Futurista Depero, Galleria Civica a Trento) in occasione della mostra “La guerra che verrà non è la prima. 1914-2014”. Coupon valido fino al 20 settembre 2015, per una sola persona (ingresso gratuito per i ragazzi al di sotto dei 14 anni). 72
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PRIMO PIANO
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SUL BARATRO L’Italia del 1914 ricostruita attraverso documenti e memorie. Per capire come dalla neutralità si passò alla guerra. L’economia italiana dall’Unità alla Grande guerra Stefano Fenoaltea (Laterza) Uno sguardo all’Italia post-unitaria inserita in un contesto più vasto, non solo europeo, all’interno del quale circolano, oltre ai beni, gli uomini, le idee e il denaro. Ne emerge un ritratto economico che illustra le influenze dei mercati internazionali sull’Italia e sulla sua politica. La Grande guerra Mario Isnenghi e Giorgio Rochat (Il Mulino) Il ruolo della cultura e degli intellettuali raffrontato all’azione dei politici, ma anche la spinta delle ideologie e delle pulsioni umane, i valori e gli interessi e quello che spinse i popoli a dichiararsi guerra. In questo saggio sul primo Novecento nel nostro Paese, scritto da due tra i massimi esperti italiani, si delinea la posizione dell’Italia nel conflitto.
La Prima guerra mondiale A cura di S. Audoin-Rouzeau, J. J.Becker, A. Gibelli (Einaudi) Primo volume dell’edizione italiana dell’Encyclopédie de la Grande guerre curata da due storici francesi e un importante storico italiano. Vi si esaminano scelte diplomatiche, politiche e militari, ma anche dinamiche economiche e sociali, oltre che la memoria collettiva. 1913. L’anno prima della tempesta Florian Illies (Laterza) Il 1913 fu forse l’anno chiave del Ventesimo secolo: questo libro, frutto del lavoro certosino di un bravo divulgatore, rende vivo un momento irripetibile, tra massima fioritura delle arti e della tecnica e preludio dell’abisso. Un viaggio tra scrittori, artisti, musicisti e scienziati, uomini politici e di spettacolo che lasciarono il segno.
Italiani nel 1914 a Tripoli (Libia), sottratta agli Ottomani nel 1911.
I dimenticati della Grande guerra Quinto Antonelli (Il Margine) La memoria dei combattenti trentini tra il 1914 e il 1920. La Grande guerra raccontata dai soldati, non dai generali o dagli storici: il volto vero del conflitto attraverso le testimonianze tratte da più di 100 diari dei combattenti trentini arruolati dall’Austria. L’azzardo del 1915. Come l’Italia decide la sua guerra Gian Enrico Rusconi (Il Mulino) L’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria nel maggio del 1915 fu un atto sorprendente: il nostro Paese era infatti alleato degli imperi centrali e, dopo un anno di neutralità, scese in guerra contro di loro. La decisione fu,
secondo l’autore, che ha avuto modo di consultare anche nuovi documenti, il risultato di un azzardo. L’azzardo di una parte della classe politica e militare italiana, per il quale centinaia di migliaia di connazionali pagarono il prezzo più alto. La grande avventura Stefano Ardito (Corbaccio) La ricostruzione della missione esplorativa di Filippo De Filippi nel cuore dell’Asia. Un viaggio interrotto bruscamente dalla guerra nell’agosto del 1914 e che oggi, a un secolo di distanza, si è finalmente riscoperto. Anche grazie a splendide immagini d’epoca riportate a casa dal fotografo della spedizione.
La Storia raccontata in queste pagine rivive anche in tv
A
nche questo mese History, il canale di Sky dedicato alla Storia, disponibile anche in Hd, approfondisce il tema del Primo piano di Focus Storia: lo fa con la serie WW1, la prima guerra moderna. WW1: MOSTRI CORAZZATI L’uso dei carri armati fu decisivo per le sorti della guerra. Questi “mostri corazzati” vennero progettati in gran segreto, e poi impiegati per superare le trincee nemiche. Sabato 18 ottobre, ore 6:00 (replica 15 novembre 6:55)
WW1: RESPIRO LETALE Il primo conflitto mondiale segnò il debutto dei gas. I tedeschi furono i primi a usare armi chimiche in guerra. La loro decisione innescò un’escalation e l’uso di gas velenosi diventò sempre più frequente da parte di tutti gli eserciti schierati, facendo migliaia di vittime. Domenica 19 ottobre, ore 6:00 (replica 16 novembre, ore 6:55) WW1: PIOGGIA ESPLOSIVA Durante la Prima guerra mondiale debuttarono i blitz aerei.
Le bombe venivano sganciate anche dai giganteschi dirigibili realizzati da Ferdinand von Zeppelin. Questo filmato ne racconta l’evoluzione bellica, che ebbe anche ricadute civili. Sabato 25 ottobre, ore 6:00 (replica 22 novembre, ore 6:55)
WW1: SOTTOMARINI KILLER La guerra sottomarina fra tedeschi e inglesi fece colare a picco 5.200 navi. Un’epopea tragica, vissuta da coraggiosi pionieri disposti a tutto. Domenica 26 ottobre, ore 6:00 (replica 23 novembre, ore 6:55) FUMO NERO ALL’ORIZZONTE L’impresa del lanciasiluri del comandante Rizzo, che affondò, nel 1918, la corazzata austriaca Santo Stefano. Giovedì 30 ottobre, ore 6:00 73
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Plinio il Vecchio, il primo enciclopedista
S
e oggi conosciamo molto della cultura del mondo antico, lo dobbiamo anche a un personaggio eclettico come Plinio il Vecchio. Nato a Como nel 23 d.C., la lasciò giovanissimo per intraprendere una carriera militare che lo avrebbe reso uno dei personaggi più influenti della Roma imperiale. Ufficiale di cavalleria in Germania, procuratore in Gallia, Africa e Spagna, Plinio non si limitò a osservare il mondo in prima persona. Lettore onnivoro e curioso, nei 37 libri della Naturalis historia raccolse migliaia di notizie riguardanti gli aspetti più diversi dell’universo naturale e umano: dalla cosmologia alla geografia, dalla botanica alla medicina, dalla zoologia alla GETTY IMAGES (3) metallurgia. In un misto di curiosità e cronaca, scienza e su- sene: seguendo la tradizione perstizione, Plinio condensò le enciclopedica latina, Plinio conoscenze dell’epoca in un’o- puntava a raggruppare il magpera enciclopedica. gior numero di informazioni, Al lettore era lasciato il com- acquisite in notti insonni paspito di districarsi in un grovi- sate a schedare le circa 2mila glio di dati, a volopere consultate contradditto- La sua curiosità te. E quando non ri o ripetuti, che leggeva – racconscientifica (per spaziavano dalta in una lettera le descrizioni dei il Vesuvio) ne il nipote Plinio il comportamen- causò la morte Giovane – dettati degli animali va o si faceva legpiù strani alle virtù prodigio- gere interi brani, per non perse delle piante, dalla cura del- dere un minuto di lavoro. La le malattie ai rimedi contro i Naturalis historia ha lasciato malefici. un segno profondo nella cultuMultidisciplinare. Frutto di ra medioevale, nella compilaricerche sterminate, la Natura- zione di bestiari e trattati. lis historia non brillava per stiLa morte. Plinio il Vecchio le, considerato persino da alcu- e il nipote furono testimoni di ni contemporanei a tratti trop- uno degli eventi più tragici delpo pedante. Non c’è da stupir- la classicità: l’eruzione del Ve76
Dramma finale Il Vesuvio in eruzione in un dipinto francese del ’700. A destra, Plinio il Giovane e la morte di Plinio il Vecchio, sotto i lapilli del Vesuvio.
suvio del 24 agosto del 79 d.C. che distrusse Pompei ed Ercolano. Tra le vittime c’era anche Plinio il Vecchio. All’amico e grande storico Tacito, che ne chiedeva notizia, Plinio il Giovane raccontò in dettaglio gli avvenimenti. Lo zio era a capo della flotta stanziata a Capo Miseno, punta estrema della penisola flegrea. Incuriosito dalla nuvola che si era alzata sopra il Vesuvio il 23 agosto, aveva deciso di imbarcarsi su una galea per osservare da vicino quel prodigioso fenomeno, mentre il nipote rimaneva a Miseno. La spedizione scientifica si trasformò però in una missione di soccorso dell’amico Pomponiano, intrappolato nella sua villa di Stabia, dove Plinio tra-
scorse la sua ultima notte. La mattina seguente, sotto un cielo oscurato dalle polveri, Plinio raggiunse la riva del mare con la testa riparata da cuscini per proteggersi dai lapilli. E qui morì soffocato dalle esalazioni. Attraverso il drammatico racconto di Plinio il Giovane, è possibile rivivere gli attimi di terrore, le scosse di terremoto, gli incendi, i lapilli infuocati, l’odore acre di zolfo. Se lo zio aveva raccontato il mondo nella monumentale Naturalis historia, Plinio il Giovane consegnava ai posteri un’accurata descrizione dell’eruzione del Vesuvio, tanto che in suo onore questo tipo di fenomeno eruttivo è ancora oggi detto “pliniano”. • Elena Canadelli
V.SIRIANNI
A cura di Giuliana Rotondi
Coprifuoco alla medioevale
A
l calar del sole, tutti a letto. Era questa l’usanza nel Medioevo, almeno ufficialmente. In molti comuni si decise di introdurre la pratica del coprifuoco: allo scoccare della campana della sera era obbligatorio spegnere i focolari domestici, coprendoli di cenere. Anche perché data la prevalenza di case in legno e tetti di paglia il pericolo di incendi era dietro l’angolo. Spente le luci si mettevano in moto i vigiles (eredità romana) incaricati di ricondurre a casa gli ubriachi, far rispettare gli orari di chiusura delle taverne e sovrintendere allo sbarramento delle porte che chiudevano il centro della città. Vigilanti e voyeur. Convincere gli avventori a lasciare l’ultimo boccale non era impresa facile. E ancor meno convincere i giocatori d’azzardo a lasciare i dadi e tornarsene a casa. C’erano però anche altri compiti per i “guardiani notturni”. Nella Germania medioevale, per esempio, accompagnavano a casa gli sposini la prima notte di nozze (e si dice che qualcuno di loro si attardasse dietro alle finestre).
Cavour, che gentleman!
E tu quanti libri hai?
I
L
l primo presidente del Consiglio del Regno d’Italia, Camillo Benso Conte di Cavour, si distinse sempre per le sue doti diplomatiche. Anche nel dare i cosiddetti “due di picche” alle signore. Si narra infatti che a un certo punto a Londra s’era sparsa la notizia che il nostro padre della patria si fosse fidanzato con una signorina inglese che i giornali dicevano simpatica e graziosa. Lui smentì.
Diplomatico. Più precisamente, scrivendo all’ambasciatore sardo a Londra, Cavour (ancora capo del governo del Regno di Sardegna) lo pregò di smentire la notizia, sfoderando il suo aplomb piemontese. “Da molti anni”, scrisse, “io ho smesso l’idea di prender moglie; e a voi a quattrocchi dirò anche che la signorina di cui si parla è infatti simpatica e graziosa... ma anch’essa da molti anni”.
a moda di possedere libri, ispirandosi al modello della biblioteca di Alessandria, nel I secolo a.C. contagiò gran parte degli intellettuali romani. Divennero celebri le biblioteche di Varrone e Cicerone che riuscirono a costruire imponenti raccolte di libri, diventate leggendarie. La moda non era però priva di eccessi: possedere papiri e codici, infatti, divenne sempre più uno status symbol.
Elementi d’arredo. Su questa ostentazione della cultura polemizzò il filosofo latino Seneca, che non a caso nel De tranquillitate animi scrisse: “Vedrai dunque in casa delle persone più pigre tutte le orazioni e tutte le storie che ci sono, scaffalature alzate fino al soffitto”. Aggiungendo poi: “Ormai fra bagni e terme, anche la biblioteca viene abbellita come necessario ornamento della casa”. 77
L
Queste pagine sono aperte a soddisfare le curiosità dei lettori, purché i quesiti siano di interesse generale. Non si forniscono risposte private. Scrivete a Focus Storia, via Battistotti Sassi 11/a, 20133 Milano o all’e-mail
[email protected]
Chi è stato l’uomo più ricco della Storia? Domanda posta da Michela Santoni.
C. VANDERBILT (1794-1877)
144 MILIARDI
HENRY FORD (1863-1947)
155 MILIARDI
M. GHEDDAFI (1942-2011)
156 MILIARDI
GUGLIELMO I (1028-1087)
179 MILIARDI
OSMAN ALI KHAN (1886-1967)
184 MILIARDI
NICOLA II ROMANOV (1868-1918)
costruire una nuova moschea. Si dice che distribuì talmente tanto oro da causare in Egitto un periodo di inflazione che durò 12 anni. Certo è che grazie a questo straordinario viaggio il nome dell’Impero del Mali (e in particolare della sua splendida capitale Timbuctù, annessa all’impero proprio durante il regno di Musa) iniziò a diventare noto e ad apparire sulle carte geografiche, sia del mondo arabo sia di quello europeo.
A sinistra, Mansa Musa nell’Atlante Catalano (1375). Sotto, la classifica (in euro) del sito celebritynetworth.com
234 MILIARDI
ANDREW CARNEGIE (1835-1919)
242 MILIARDI
265 MILIARDI
JOHN ROCKEFELLER (1839-1937)
dell’impero africano. Fonti arabe narrano del suo pellegrinaggio alla Mecca, per il quale Musa partì con un seguito di 60mila uomini, 12mila schiavi (carichi ciascuno di due chili d’oro in barre), con araldi vestiti di seta, cavalli con staffe d’oro e 80 cammelli, ciascuno con un carico di polvere d’oro fino a 100 chili. Lungo il tragitto, passando per Il Cairo e Medina, distribuì ai poveri che incontrava grandi quantità di oro, e ogni venerdì fece
FAMIGLIA ROTHSCHILD (XIX-XX SEC.)
312 MILIARDI
MANSA MUSA (1280-1337)
difficile da stabilire, tuttavia secondo il sito statunitense Celebrity Net Worth, che ha analizzato le fortune degli uomini più ricchi del mondo dall’Anno Mille in avanti, adattandole al tasso di inflazione attuale, l’uomo più ricco della Storia sarebbe stato l’imperatore del Mali Mansa Musa (1280-1337), con una ricchezza equivalente a 400 miliardi di dollari attuali. Sfarzoso. Mansa Musa fu uno dei primi musulmani alla guida
273 MILIARDI
È
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Qual era il farmaco più usato in passato? Domanda posta da Erika Pagano.
I
l farmaco più famoso di tutti i tempi è la triaca (o terìaca). Si racconta che Mitridate IV, re del Ponto (I sec. a.C.), temendo di essere avvelenato dai nemici, commissionò al proprio medico personale un rimedio potentissimo, in grado di sconfiggere qualsiasi veleno. La triaca originale conteneva gli estratti di 50 piante (tra cui mirra, incenso, timo, succo d’acacia, finocchio, anice, cannella…) e una lucertola senza zampe, miscelati con miele per rendere il tutto gradevole al palato. Nel primo secolo d.C. l’imperatore romano Nerone, in preda allo stesso timore 78
di essere avvelenato, ne richiese il perfezionamento al medico Andromaco, il quale aggiunse alla ricetta altri 10 ingredienti, tra cui oppio e carne di serpente. La nuova formula (la “terìaca magna”) venne elogiata da Galeno, l’uomo più influente della storia della medicina, che ne accrebbe e prolungò il successo: la triaca fu prescritta ininterrottamente dai medici per 18 secoli, per curare qualsiasi male. Superata. Il business subì un tracollo alla fine del XVIII secolo, quando il medico londinese William Heberden pubblicò un articolo che ridicolizzava l’antidoto (“fa
solo sudare un po’”), portando così alla sua cancellazione dalla farmacopea ufficiale. Ma funzionava? Oggi sappiamo che l’unico ingrediente efficace era l’oppio (la morfina), che allevia il dolore, lenisce la tosse e riduce l’ansia (ma non combatte alcun veleno). Al contrario il suo ingrediente più famoso, la carne di vipera, non ha alcun effetto terapeutico. Andromaco in un trattato medioevale.
a scelta dei colori della bandiera italiana risale ai moti giacobini di fine ’700 e alla campagna italiana di Napoleone, che esportarono nella Penisola, insieme agli ideali rivoluzionari francesi, anche il suo tricolore. Quello di Francia, nato durante la Rivoluzione francese, univa il bianco (colore della monarchia deposta) al rosso e al blu (i colori di Parigi). Ma presto i colori passarono a simboleggiare libertà, uguaglianza e fraternità. Nel vessillo italiano, impiegato a Reggio Emilia nel gennaio del 1797 come bandiera della Repubblica cispadana, il blu fu sostituito dal verde, colore delle uniformi della Guardia civica milanese, quindi simbolo dei volontari che combattevano per l’Italia (e forse anche del verde paesaggio nostrano). La prima comparsa in Italia del tricolore risaliva però al settembre 1796, quando fu adottato dalla Legione Lombarda della Repubblica cisalpina. Verticali. In origine la disposizione dei colori era orizzontale, con il rosso in alto. Nel maggio 1798 la Repubblica cisalpina introdusse una versione a bande verticali. La Repubblica italiana ufficializzò la bandiera nell’articolo 12 della Costituzione, disponendo il verde, il bianco e il rosso a tre bande verticali di eguali dimensioni. •
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A cura di Marta Erba e Maria Lombardi
E. PAONI/CONTRASTO
Perché sono stati scelti i colori verde, bianco e rosso per la bandiera italiana? Domanda posta da Fabiola Di Maria.
Scie patriottiche Un’esibizione delle frecce tricolori in Ungheria nel 2003. In alto a sinistra, il primo tricolore italiano: quello della Legione Lombarda nel 1796, oggi conservato nel Museo del Risorgimento a Milano.
Perché Luigi XIV era chiamato Re Sole?
L
uigi XIV ha regnato sulla Francia per lungo tempo, dal 1643 al 1715, ed è passato alla Storia come il “Re Sole”, soprannome che si è guadagnato a seguito della politica assolutistica che mise in atto. Come il Sole è il fulcro del sistema solare, punto fermo attorno al quale girano i pianeti, Luigi XIV era il centro assoluto della Francia (è celebre la
frase da lui pronunciata “Lo Stato sono io”). L’appellativo veniva utilizzato già ai suoi tempi per adularlo. Inoltre lui stesso aveva scelto il Sole come emblema: sul suo stemma campeggiava un astro sfolgorante, rappresentato dal suo viso circondato da raggi e accompagnato dal motto latino “Nec pluribus impar” (“Non inferiore ai più”, nel senso,
eufemistico, di “non inadatto ai compiti contemporanei”). Magnificente. Simbolo della sua politica assolutistica è oggi la reggia di Versailles: oltre a rappresentare la magnificenza regale, la grandiosa residenza voluta da Luigi XIV permetteva il trasferimento della nobiltà francese nel palazzo (anche per tenerla sotto controllo).
GETTY IMAGES
Domanda posta da Jacopo Cattaneo.
Medaglia d’argento di Luigi XIV. 79
A cura di Giorgio Albertini
I mille usi della
frombola
Se all’improvviso veniste trasportati in un’epoca passata, tra gli antichi Egizi o nell’America precolombiana, sapreste cavarvela? Sì, grazie a queste istruzioni per l’uso.
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iaggiare nel tempo comporta qualche rischio. La minaccia può arrivare da banditi come dai tutori della legge; il pericolo è spesso dietro l’angolo, in una città affollata o nella natura selvaggia. Uomini o animali possono essere ugualmente letali e bisogna essere sempre attrezzati per affrontare imprevisti potenzialmente mortali. Un modo efficace per farlo è portare sempre con sé una fionda o, più correttamente, una frombola. Altro che primitivo! Lanciare un sasso con le mani è un gesto che ogni uomo ha fatto nella sua esperienza, almeno da bambino. Ma per imprimere a un proiettile forza ed efficacia è meglio usare questo arnese che ci accompagna fin dall’Età della pietra. Forse la frombola non ha il fascino esotico di altri strumenti da lancio, come l’arco composito dei nomadi dell’Asia Centrale o la balestra, il woomera degli aborigeni australiani (usato per scagliare un tipo di lancia) o le bolas degli indigeni della Patagonia. Ma quest’arma rudimentale ha avuto così tanta fortuna da essere anche data in dotazione a truppe d’élite. Nell’antichità, i frombolieri delle Baleari hanno contribuito alle vittorie dei Cartaginesi prima e dei Romani poi, mentre quelli di Rodi fiancheggiarono le falangi di opliti nell’antica Grecia. Dunque, che vi troviate a viaggiare nel Paleolitico o nell’Età moderna, non c’è metodo migliore per allontanare una minaccia di far roteare la vostra frombola. • 80
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La frombola è uno strumento universale, utilizzato dai popoli precolombiani come da quelli dell’Estremo Oriente. Dai racconti biblici sappiamo che anche il giovane re David, quando era ancora pastore, si esercitava con la sua frombola scacciando leoni e orsi dalle sue greggi. Come lui facevano tutti i pastori dell’XI-X secolo a.C.
La frombola è composta da due stringhe sottili legate a una parte più larga che si chiama borsa e contiene il proiettile. Costruirsene una è semplice. Si può utilizzare un laccio di pelle o intrecciare una corda di fibre vegetali o di crini di cavallo o di lana di pecora. Un’estremità della frombola viene chiusa con un cappio creando un anello, l’altra termina invece con un nodo.
Il più grezzo dei proiettili è la pietra, ma deve essere della giusta dimensione. Il peso ideale si aggira sui 50 grammi, anche se le frombole più grosse sono in grado di lanciare proiettili di 150 grammi. La superficie non deve essere troppo ruvida né troppo liscia. La forma può essere sferica, delle dimensioni di una palla da tennis (nel tondo), o piatta e oblunga.
LE VARIANTI 6
Da quella trovata nella tomba di Tutankhamon a quelle africane in pelle: ogni antica civiltà aveva il suo modello di frombola. Che fu adottata anche dagli eserciti. 1 Frombola di corda dell’antico Egitto trovata nella tomba di Tutankhamon (13281318 a.C.). 2 Frombola di corda intrecciata con borsa in pelle utilizzata dai nomadi caucasici. 3 Fionda a staffa. Si tratta di una variante di frombola montata su un bastone. Questo sistema consente di tirare pietre più grandi. 4 Frombola iberica di tessuti vegetali intrecciati. Invece che in una vera e propria borsa, il proiettile in questo caso era posto in una sorta di “sacca” ottenuta raddoppiando la stringa. 5 Frombola africana in pelle. 6 Proiettili in piombo ritrovati a Menfi (Egitto) e risalenti al II secolo a.C. Hanno un sole macedone in rilievo su un lato (qui non visibile) e la scritta dexai, “prendi questo” .
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Dopo aver messo il proiettile nella borsa (v. sopra), preparatevi al lancio. Vi consigliamo, fra le tante possibili, questo tipo di presa. L’estremità fissa (cioè quella ad anello) deve essere agganciata non troppo stretta al dito anulare e l’estremità libera va impugnata tra pollice e indice, tenendo il nodo come punto fisso.
Serrate il pugno e stringete forte le stringhe della frombola al suo interno. Fate oscillare la frombola lungo il corpo, in modo che le due stringhe risultino parallele.
Siete ora pronti per far partire il colpo. Mettetevi di fronte all’obiettivo e fate girare la frombola dal basso verso l’alto, in senso orario. Non serve farla ruotare in modo vorticoso: la velocità del proiettile dipende dalla forza muscolare e dalla lunghezza della frombola.
Quando la frombola si trova al di sopra della vostra testa lasciate l’estremità trattenuta tra pollice e indice e scagliate il proiettile verso l’obiettivo. La forza centrifuga farà il suo lavoro, ma tenete presente che il vento può influenzare la corsa del sasso.
La distanza che potete raggiungere dipende dalla vostra abilità. Non è difficile arrivare fino a 100150 metri, ma i più abili frombolieri sapevano colpire un bersaglio anche a 400 metri di distanza ed erano capaci di ricaricare l’arma con una sola mano.
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STORIE DÕITALIA MONFORTE DÕALBA
Una vicenda enigmatica di mille anni fa: un gruppo di eretici càtari piemontesi fu trascinato a Milano e arso sul rogo. Ma qualcosa, per gli storici, non torna
TONI SPAGONE / REALYEASYSTAR
I FANTASMI DELLE LANGHE
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orreva l’anno 1028 quando le forze dell’arcivescovo di Milano Ariberto da Intimiano, unite a quelle del vescovo di Asti Alrico, espugnarono il Castello di Monforte d’Alba, cittadina delle Langhe i cui abitanti avevano osato sposare l’eresia càtara. Quello che poi accadde risulta per gli storici ancora oggi inspiegabile: la popo82
lazione fu deportata a Milano e qui costretta a scegliere tra l’abiura e il rogo. La maggior parte scelse il rogo. Quello che non torna è il fatto che tutto questo sarebbe avvenuto ben due secoli prima degli orrori della crociata albigese (v. riquadro nella pagina seguente), passata alla Storia per la strage compiuta nel 1209 a Béziers (Linguadoca, nel Sud del-
la Francia) per ordine del generale francese Simon de Montfort (cittadina francese che nulla ha a che vedere con Monforte d’Alba). Ai tempi dell’assedio al castello piemontese, cioè, l’acrimonia contro gli eretici e le persecuzioni fomentate dall’Inquisizione erano ancora di là da venire. Fuori le Fonti. Eppure, ben due documenti storici riportano l’episodio. Il pri-
I misteri delle colline Il paesaggio collinare delle Langhe e, in un fotomontaggio, la ricostruzione di un rogo càtaro a VillerougeTermenès, nella regione francese della Linguadoca, dove questa eresia si affermò nel Duecento.
mo è il volume Cinque libri di storia dei suoi tempi. 900-1044, pubblicato a Parigi nel 1886, ma scritto nell’XI secolo dal monaco francese Rodolfo il Glabro. “V’era dunque, in quei tempi, nella nazione longobarda, un castello che, poiché era tale, si chiamava appunto Monte Forte ed era abitato dai più nobili di quella nazione”, racconta il religioso.
“Tuttavia l’eretica malvagità li aveva così macchiati che preferivano morire di morte crudele, che poter salvarsi da essa ed essere richiamati alla salutifera fede in Cristo Signore”. In tanti avrebbero tentato di ricondurli sulla retta via, ma alla fine quelli che “non volevano ripudiare la loro pazzia, bruciarono con il fuoco”.
Esiste poi un secondo documento, posteriore, su questi fatti: si tratta di un brano contenuto nell’Historia Mediolanensis dello storico Landolfo Seniore (1050-1110 ca.), dedicato soprattutto alla vita di Ariberto da Intimiano, il potentissimo arcivescovo di Milano che rappresentava l’allora imperatore del Sacro romano impero, Enrico II il Santo. 83
©SELVA/LEEMAGE
L’arcivescovo di Milano era preoccupato che la nuova eresia si difondesse. Ma non sarebbe stato lui a imporre ai càtari la scelta fra abiura e rogo il potente Ariberto. Come racconta Se- dere nei dogmi del cattolicesimo, Ariberniore, l’arcivescovo, in visita a Torino, “ac- to passò all’azione. E, “avendo inviato una compagnato da una schiera di buoni chie- quantità di guerrieri a quel Monforte, catrici e da una truppa di valoroturò tutti quelli che poté trovasissimi guerrieri”, venne a sare”. Li condusse quindi a MiAPERNE DI PIÙ pere dell’eresia di Monforte. lano, dove per giorni cercò di Ariberto catturò dunque uno riportarli alla fede cattolica, degli eretici e lo interrogò. preso com’era dal timore che Il Castello dei Questi, “con animo dispostisla loro eresia si diffondesse. Càtari, Maurizio simo al martirio, e lieto di finiUn timore fondato visto che, Rosso (Edizioni Araba Fenice). re la vita tra gravissimi supplicome riferisce sempre il Sezi”, rispose a tutte le sue doniore, “quegli scellerati, che mande: si trattò di una disputa teologica non sapevano nemmeno da qual parte del in piena regola, durante la quale il prigio- mondo fossero giunti in Italia, ogni giorniero, un certo Gerardo, riuscì abilmente a no, privatamente, come buoni sacerdoti, ai controbattere con le argomentazioni ereti- contadini che venivano in città per vederche della propria fede alle domande incal- li, diffondevano falsi insegnamenti distorzanti dell’arcivescovo. Alla fine, di fronte ti delle Sacre Scritture”. alla negazione di Gerardo di riconoscere rogo o croce? Fu così che, contro la voil pontefice della Chiesa Romana e di cre- lontà di Ariberto, almeno a detta del Se-
La triste storia degli eretici “perfetti”
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a dottrina càtara, la cui origine è oscura, è una sorta di sintesi delle eresie sviluppatesi dopo il III secolo (in particolare il manicheismo e l’arianesimo). La parola deriva dal greco katharós, “puro”, e fu coniata verso la fine del XII secolo, quando l’eresia si diffuse nella Francia meridionale, in Renania e nell’Italia settentrionale. Vade retro. I càtari credevano che tutto il mondo reale fosse opera del demonio: perciò non dovevano riprodursi e consideravano la morte (che si davano per fame) la loro massima aspirazione. Vegetariani, i càtari praticavano la povertà e la comunione dei beni, e riconoscevano il solo sacramento del consolamentum: un’imposizione delle mani che rendeva un semplice creden84
te “perfecto” (perfetto cristiano). Perseguitati. Nel 1208 il papa Innocenzo III indisse una crociata contro gli albigesi (altro nome dei càtari, dalla città francese di Albi), culminata a Béziers, il 22 luglio del 1209, quando Simon IV di Montfort (nel dipinto sopra) ordinò il massacro di tutti gli abitanti (quasi 20mila persone), in maggioranza cattolici, tra cui vi erano poche centinaia di càtari. Al legato papale, Arnaldo Amaury, si deve la nota (ma dubbia) frase: “Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi”. Papa Gregorio IX istituì contro questi eretici la Santa Inquisizione nel 1233. In Italia, il 13 febbraio 1278, bruciarono a Verona i càtari di Desenzano e Sirmione. All’inizio del XIV secolo lo sterminio ebbe termine.
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Persecutore L’arcivescovo di Milano Ariberto da Intimiano in un affresco del secolo X-XI, nella Basilica di Galliano a Cantù (Como).
trina. Interessante il fatto che Seniore afferma che Ariberto non conosceva ancora questa nuova eresia: è probabile che proprio in quel periodo queste prime fedi eretiche andassero diffondendosi tra le comunità di origine germanica che si erano stabilite nella Francia del Sud e nell’Italia del
Nord nel corso dell’Alto Medioevo. Certo è che a Monforte d’Alba, uno degli 11 paesi del Barolo, di questi eventi non si conserva alcuna memoria. Salvo il fatto che è l’unico paese dei dintorni privo, senza spiegazione plausibile, di un castello. • Vincenzo Reda
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niore, le autorità laiche presero la decisione di accendere un rogo accanto a una croce e di condurvi gli eretici. Qui (un luogo che dovrebbe corrispondere grosso modo all’attuale Corso Monforte di Milano, nei pressi di piazza San Babila), “fu posta la condizione: che se volessero, ripudiando ogni perfidia, adorare la croce, e confessare la fede che tutto il mondo segue, sarebbero salvi; se no, dovevano entrare nelle fiamme per essere arsi”. E se qualcuno decise di accostarsi alla croce, “molti, coprendosi il volto con le mani si gettarono tra le fiamme, e morendo miseramente furono ridotti in misere ceneri”. nuovA eresiA. Da dove provenissero e chi fossero con esattezza queste genti monfortine non è dato sapere: di certo si trattava di popolazioni che professavano l’eresia che sarebbe poi stata detta càtara. Ciò risulta abbastanza chiaro da particolari deducibili dalle fonti stesse: concetti come la parità tra i sessi, l’alimentazione vegetariana, la comunione dei beni, la castità, l’accettazione della morte come bene supremo e la negazione dei sacramenti costituivano i fondamenti di quella dot-
I luoghi dei roghi A sinistra, ricostruzione storica della crociata albigese a Carcassonne (Francia). Sopra, la chiesa di San Babila a Milano, all’inizio di corso Monforte. 85
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NOVECENTO
Il milionario e le conigliette Hugh Hefner posa insieme alle conigliette di Playboy. Nato a Chicago nel 1926, ha partecipato alla Seconda guerra mondiale, poi si è laureato in psicologia e nel 1953 ha fondato la rivista erotica più famosa del mondo. 86
Buon compleanno Sessant’anni fa nasceva una rivista che infuenzò il costume e la sessualità. Merito dell’intuizione di un uomo scaltro, che anticipò molte tendenze future
“V
1959
ogliamo chiarire fin dall’inizio che non siamo un magazine per famiglie. Se sei la sorella, la moglie o la suocera di un uomo, e hai preso questa rivista per sbaglio, passala a lui e torna al tuo giornale femminile”. A firmare l’editoriale che riporta queste parole, nel 1953, era un giovane di Chicago, laureato in psiROALD DAHL cologia, Hugh Hefner, allora 27enne (e oggi ultraottantenne). Cresciuto in un ambiente conservatore e protestante, in cui non si deve bere, fumare o parlare di sesso, fu l’artefice di una rivista destinata a rivoluzionare il costume e la sessualità: Playboy. Inizialmente si sarebbe dovuta chiamare Stag Party, ossia “festa di addio al celibato”, ma il già esistente magazine Stag minacciò una causa e così si dovette trovare un altro nome. A cauJACK KEROUAC sa di ciò dal secondo numero il logo, un cervo in vestaglia disegnato dal vignettista Arv Miller, venne rimpiazzato dal profilo della testa di un coniglio con un papillon da smoking, disegnato dal grafico Art Paul. La scelta ricadde sul coniglio per alludere a un certo modo, giocoso e ironico, di vedere il sesso. Ma non fu certo la grafica a stimolare l’interesse dei lettori. Bellezze da appendere. Il primo numeALBERTO MORAVIA ro, di 44 pagine, presentava un racconto su I suoi primi 6 anni Sherlock Holmes, un articolo sull’architetLo speciale uscito per festeggiare il 6° anniversario della rivista, nel 1959. Tra le firme tura moderna e uno scatto osé della “regidel numero alcuni nomi illustri: Jack Kerouac, scrittore americano considerato netta” del mese (solo in seguito si userà il il padre della beat generation; Roald Dahl, autore di libri per ragazzi, e Alberto Moravia (pseudonimo di Alberto Pincherle) scrittore, saggista e giornalista italiano. termine playmate): Marilyn Monroe. 87
Il primo logo del mensile fu un cervo in vestaglia. Poi sostituito dal coniglio con il farfallino
Modelle e modelli di società
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l fondatore di Playboy, Hugh Hefner si considera un “femminista prima del femminismo”. Secondo Hefner infatti la sua rivista ha il merito di aver modificato la società, facendo uscire, per la prima volta,
la donna dal ruolo domestico a cui era relegata. Scambio. Ma anche il modello di bellezza proposto si è modificato con i mutamenti nella società. Nel 1958, la rivista pubblicò la foto di una minorenne e
Hefner fu denunciato. Da allora le modelle vennero truccate in modo da sembrare molto più giovani. Negli Anni ’60 arrivarono le afroamericane, nei ’70 il pelo pubico e negli ’80 i corpi palestrati.
so tra i militari delle cartoline con le pin up, ragazze in pose provocanti da appendere al muro (to pin in inglese). Forse proprio allora ebbe l’idea di “industrializzare” (editorialmente) il sesso, con l’aggiunta in ogni numero di un paginone centrale, da staccare e appendere. Molte sono le star che si sono spogliate per Playboy: Brigitte Bardot, Jayne Mansfield, Kim Novak, Raquel Welch, Ursula Andress, Anita Ekberg e, in tempi più recenti, Kim Basinger e Kate Moss. Ospiti illustri. Ma Playboy non ospitava solo belle ragazze, vi si potevano trovare anche articoli di costume, racconti e reportage firmati da autori come Ian Fleming (il padre di James Bond), Arthur C. Clarke (autore del romanzo 2001 Odissea nello spazio), Alberto Moravia, Norman Mailer, Vladimir Nabokov, Gabriel García Márquez, Jack Kerouac e tanti altri. La rivista ospitò anche l’ultimo scritto di Martin Luther King, pubblicato postumo e curato dalla moglie. Il successo fu incredi-
bile, dopo quasi 20 anni di pubblicazioni nel 1972 Playboy toccò la cifra record di 7 milioni di copie vendute. Il clamore fu tale che nel 1976, attirato dal grande pubblico del magazine, Jimmy Carter, candidato alla presidenza Usa, decise di rilasciare un’intervista al mensile in cui confessava di aver tradito la moglie, ma solo con il pensiero. L’intervista fu un boomerang, Carter fu criticato e rischiò l’elezione. Ma l’impatto maggiore della rivista, che illustrava gli agi e i piaceri della società consumista durante il boom economico, si registrò soprattutto nell’ambito dello stile di vita, fino a divenire specchio di un’epoca. «Il modello non era più l’uomo che va ogni giorno in ufficio per portare a casa uno stipendio e mantenere moglie e figli», afferma Elizabeth Fraterrigo, docente di Storia alla Loyola University di Chicago e autrice del libro Playboy and the making of the good life in modern America, «ma l’antesignano dell’odierno metrosexual (termine degli Anni ’90 che in-
Esordio con stile
Senza pensieri
Donne fuori casa
Le prime copertine non esibiscono nudità (riservate al paginone centrale).
Nei primi anni Playboy usa un linguaggio ironico ed è aperto ai temi più svariati.
Rivoluziona il costume, portando le donne, e il loro corpo, fuori dalle mura domestiche.
La foto dell’attrice distesa su un lenzuolo di raso rosso fu scelta perché costava poco. Era stata infatti ceduta da una casa editrice di calendari che temeva una denuncia per oscenità. Fu il trampolino di lancio per il magazine: in pochi giorni Playboy vendette oltre 50mila copie. E pensare che, temendo vendite disastrose, Hefner non aveva messo in copertina né la data né il numero. Preferiva non sbilanciarsi sull’uscita del successivo. pOrnO sOft. Con quell’immagine di Marilyn, Hefner aveva inventato il porno soft. «La novità non sta nell’uso del nudo», spiega Beatriz Preciado nel libro Pornotopia. Playboy: architettura e sessualità (Fandango), «ma nell’abbinamento inedito del corpo con il design e il colore, e soprattutto nell’aver disposto il nudo in una pagina doppia pieghevole, che fa della rivista solo un supporto». E pensare che il colpo di genio Hefner l’aveva avuto in guerra: durante l’esperienza al fronte, nel secondo conflitto mondiale, aveva assistito al succes-
1950
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Marilyn desnuda Grazie a questa immagine di Marilyn Monroe, apparsa nel paginone centrale del primo numero in edicola (sopra, la copertina), Playboy vendette inaspettatamente 50mila copie.
1960
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dica un uomo, eterosessuale e metropolitano, molto curato, ndr): un lavoratore che si prende cura di sé e può concedersi sfizi, piacevoli acquisti, capricci». Non solo, la rivista (e il suo fondatore) si inserì nella battaglia contro le limitazioni imposte da una certa mentalità al costume femminile (vedi riquadro nella pagina a sinistra). Oltre ad anticipare, secondo alcuni sociologi, fenomeni importanti come la pop-art: senza Hefner non ci sarebbe stato Andy Warhol e soprattutto la sua Factory (lo spazio dedicato alla creatività collettiva dei giovani newyorkesi) che avrebbe avuto quale illustre precedente proprio la “casa di Playboy” (la Playboy Mansion).
1970
Nude, ma non troppo
Dive e donne
Sempre più spinto
Negli Anni ’60 cominciano ad apparire in copertina le prime donne senza veli.
Per Playboy posano modelle famose e vere star, come Brigitte Bardot e Kim Novak.
A partire dal 1973, la rivista comincia a trattare il sesso in modo più esplicito. 89
Negli Anni ’70 la nascita di altre riviste erotiche costrinse Playboy alla svolta: il sesso fu più esplicito
Le ragazze di Hugh Alcune conigliette si esibiscono in un noto locale, il Bal Tabarin di Londra, nel 1963.
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La prima Playboy Mansion fu fondata negli Anni ’50 a Chicago. Ma a far clamore fu la seconda, a Los Angeles, degli Anni ’70: grazie alle sue vetrate, mostrava giorno e notte gli interni (compresa una Porsche parcheggiata in vetrina). L’eccentrico Hefner diventò il protagonista di questa specie di Grande fratello ante litteram, dal momento che cominciò a lavorare nel suo studio in vestaglia e a riposare su un letto girevole, rigorosamente a vista, sotto gli occhi di passanti e curiosi. il tramOntO di un mitO. Eppure proprio negli Anni ’70 cominciò il declino, a causa della nascita di magazine concorrenti: Penthouse e Hustler. A questo punto, a fronte di una perdita di 2 milioni e mezzo di copie in un solo anno, il 1973 (in Italia la rivista era arrivata l’anno prima), Playboy cominciò a imitare i rivali, virando sempre più verso il sesso esplicito. Fu così che per la prima volta, nel paginone centrale del mese di giugno, apparve un nudo femminile frontale. Poi nel 1975 fu la volta di
copertine che poco lasciavano all’immaginazione, in una si mostrava una coppia lesbica e in un’altra la protagonista appariva con una mano negli slip. Perfino gli inserzionisti, abituati alle provocazioni, si scandalizzarono. Ma, pubblicità a parte, anche dal punto di vista del pubblico, la svolta editoriale non rese molto. E da allora fino ai nostri giorni il calo di vendite della rivista erotica per eccellenza non si è più arrestato. Playboy con il tem-
po ha perso anche la capacità, che aveva avuto negli anni precedenti, di influenzare costume e società occidentali. Eppure, nonostante il calo di vendite, è ancora uno dei periodici più diffusi, con 3 milioni di lettori mensili negli Stati Uniti e 4,5 milioni nel resto del mondo. Inclusi gli italiani, visto che da noi Playboy, dopo la chiusura del 2003, è tornato in vendita dal 2008. • Achille Prudenzi
1980
1990
Corpi perfetti
Lettori in tutto il globo
Tempi moderni
Donne palestrate e depilate appaiono sulle copertine degli Anni ’80.
Con la globalizzazione, Playboy si diffonde ovunque, con milioni di copie nel mondo.
Kate Moss festeggia il 60° compleanno del magazine nel numero uscito a dicembre 2013.
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2013-14
ANTICHITÀ
Solitamente a due piani, le abitazioni degli antichi Egizi erano costruite con mattoni crudi, fango e paglia. Ed erano funzionali al clima della Valle del Nilo
NELLA CASA
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EGIZIA
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utti insieme, appassionatamente: genitori, figli, nonni e zie. Così si viveva nelle antiche case egiziane, abitate in maggioranza da agricoltori e costruite vicino ai campi, lungo le fertili sponde del Nilo. L’appartamento, spesso dotato di terrazzi e cantine, era organizzato in stanze e includeva anche il salotto – o sala comune – dove tutti i membri della famiglia condividevano cibo, hobby e tempo libero. Le pareti erano costruite con mattoni crudi, non avevano vere finestre, ma solo strette fessure, di solito coperte da stuoie per proteggere dal calore e dal freddo. La pavimentazione rifletteva il rango dei proprietari: in terra battuta per i più poveri, in pietra per gli altri. Le pareti erano invece bianche per tutti, spesso decorate a motivi geometrici o (più raramente) affrescate. •
MURA Erano costruite in mattoni crudi, ottenuti impastando fango, paglia e acqua. Verniciate di calce bianca, a volte venivano decorate con motivi geometrici dai colori accesi.
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FINESTRE Piccole e rettangolari sulla parte superiore della parete, erano prive di vetri. Solitamente venivano coperte da stuoie, per non far entrare caldo e luce.
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SALOTTO Era la sala comune dove i membri della famiglia si ritrovavano per pranzare, ma anche per trascorrere il tempo libero. Era fornita di tavoli, sedili e vasi di ceramica.
DEHORS Come in molte città del tempo, il tetto della casa era calpestabile e spesso utilizzato per i pasti o per altre attività domestiche.
CAMERA DA LETTO Si dormiva su semplici stuoie di fibre vegetali o, nelle case più ricche, su letti in legno con poggiatesta decorati.
1 L’atrio della casa spesso era decorato con colori accesi: aveva un altare dedicato a Bes, divinità protettrice della famiglia. 2 La cantina era utilizzata per conservare gli alimenti: i più usati? Cipolle, legumi, ravanelli ma anche frutta e formaggi. 3 Sui tetti si mettevano a essiccare carne e pesce. Spesso si mangiava lì, sotto una tettoia. 4 Le cucine erano attrezzate con forni in fango e appositi spazi per mettere posate, utensili e vasi di forme diverse.
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I GRANDI TEMI - Il califfato di Baghdad
I carnefci dell’autoproclamato Stato islamico dicono di ispirarsi al califato di
TRA I VERI CALIFFI
INTANTO NEL MONDO...
Baghdad. Ma quel regno era ben diverso
Califfato abbaside 750 A capo di una rivolta armata culminata nella cosiddetta battaglia dello Zab, la dinastia degli Abbasidi conquista il califfato a danno della famiglia omayyade.
Altri Paesi
Società e cultura
755 Abd al-Rahman ibn Mu‘awiya, uno dei pochi sopravvissuti omayyadi, dà vita nella Spagna andalusa (o al-Andalus) all’emirato di Cordova.
762 Il califfo al-Mansur, autore di una politica di forte rinnovamento, stabilisce la capitale del califfato a Baghdad.
786 Prende il potere il califfo al-Rashid, il quale legherà il proprio nome ai fasti culturali della “Casa della sapienza”.
800 Carlo Magno viene incoronato da papa Leone III divenendo il primo imperatore del neonato Sacro romano impero.
Alla corte di al-Rashid In un dipinto ottocentesc, il califfo Harun al-Rashid nella sua tenda con i sapienti d’Oriente. La celebre raccolta Le mille e una notte contiene molte storie nate originariamente nel contesto della sua corte.
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802 In Indocina prende forma il regno del popolo Khmer, che governerà fino al XV secolo nell’area della Cambogia (sotto), del Laos e del Vietnam.
836 Trasferimento della capitale a Samarra.
794 Nasce ad Aquisgrana (Germania) la Schola palatina, per favorire l’istruzione delle genti e la diffusione del sapere servendosi dei monaci benedettini.
821 Muore ad Aquisgrana san Benedetto di Aniane. Con lui l’ordine benedettino è diventato dominante in Europa.
828 Consacrazione della prima chiesa dedicata a San Marco a Venezia costruita accanto al Palazzo Ducale. Venne poco dopo (832) sostituita da una nuova, sita nel luogo attuale.
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I GRANDI TEMI - Il califfato di Baghdad
Viaggio alla medioevale
SCALA
Una carovana di pellegrini negli ultimi anni del califfato abbaside in una immagine tratta da un manoscritto del 1237.
Le prime novelle delle Mille e una notte risalgono al X secolo. L’opera verrà
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SIS, Islamic State of Iraq and Syria. È il “mostro” che da qualche mese riempie le pagine dei giornali, sinonimo di terrore e violenza. A capo di questo movimento e del suo esercito c’è un califfo, Abu Bakr al-Baghdadi, che nell’estate 2014 ha proclamato la nascita di un califfato islamico iniziando poi a terrorizzare l’Occidente attraverso una serie di selvagge decapitazioni. Ma nel descrivere il califfato di Baghdad, quello vero di secoli fa, un ipotetico cronista delle terre irachene e siriane si sarebbe dilungato nel descrivere luoghi di rara bellezza in cui fiorivano le arti, le scienze e gli scambi culturali, grazie anche
al buon governo di califfi di ben altra pasta, quelli della dinastia araba degli Abbasidi, signori di Baghdad fra VIII e XIII secolo. ErEdi dEl ProfEta. Nei decenni successivi alla scomparsa del profeta Maometto (632), la comunità musulmana fu guidata da quattro califfi (v. riquadro qui sotto) e, a seguire, dalla dinastia degli Omayyadi, potente clan della Mecca. «In tale fase, partendo dalla Penisola arabica, le forze islamiche allargarono la propria sfera d’influenza nell’Oriente, penetrando in Iraq e in Persia (e lambendo India e Cina), e nell’Occidente, espandendosi nel Maghreb e nella Spagna andalusa o al-Andalus. Capitale di tale va-
Il curriculum dell’aspirante califfo
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a figura del califfo (dall’arabo khalifa, “successore”) corrisponde nel mondo islamico a quella di un monarca incaricato di regnare sulla comunità di fedeli (Umma) in qualità di vicario di Maometto. Secondo la tradizione, per aspirare a questo ruolo bisogna essere di 96
credo sunnita, avere raggiunto la maggiore età e discendere dalla tribù araba dei Quraish, la stessa da cui proveniva il profeta. Doppia veste. Maometto non indicò mai chi dovesse essere il suo successore, e così quando morì la scelta dei fedeli ricadde
sui rashidun (“ortodossi”), ossia personaggi di spicco dell’islam già vicini al profeta, pur non essendone necessariamente parenti. I quattro califfi rashidun che si succedettero organizzarono il califfato sul piano amministrativo, militare e giuridico ricorrendo alla shari‘a, la legge
sacra musulmana dedotta dai dettami del Corano. Finché, nel 661, subentrò al potere la famiglia degli Omayyadi, che instaurò un califfato dinastico. Quest’ultimo passò poi agli Abbasidi, legati a Maometto tramite al-Abbas ibn Abd al-Muttalib, suo zio paterno.
N. JERAN
MAR NERO
Damasco Tripoli
MAR MEDITERRANEO
Baghdad Gerusalemme Medina
ln verde, il califfato alla sua massima espansione (IX-XII secolo).
Nilo
Mecca MARE ARABICO
847 La dinastia musulmana autonoma degli Aghlabidi fonda l’emirato di Bari, riconosciuto dagli Abbasidi, ma di breve durata. 892 La capitale torna a essere Baghdad.
L’intellighenzia
1000 L’esploratore vichingo Leif Erikson è il primo europeo a mettere piede nelle Americhe, a Terranova.
1061 I Normanni cominciano la conquista delle terre siciliane, già in mano agli arabi. GETTY IMAGES (4)
In senso orario, un’opera dei fondatori della scuola araba di matematica; l’occhio secondo il fisico Hunayn Ibn Ishaq e un trattato di astronomia. Sotto, una moneta abbaside (X secolo).
846 I saraceni, musulmani nordafricani, sbarcano a Ostia e saccheggiano le basiliche di San Pietro e di San Paolo (Sacco di Roma).
1095 Papa Urbano II (sotto) indice la prima crociata.
ampliata poi nel corso dei secoli sto dominio fu, dal 661, la città siriana di Damasco», racconta lo storico dell’islam Vincenzo La Salandra. «Peraltro, gli Omayyadi lasciarono scontenti molti dei popoli assoggettati: in barba agli aspetti universalistici dell’islam – che non prevedeva distinzione tra le varie etnie di musulmani – condussero infatti una politica di discriminazione sociale verso i “non arabi” (o Mawali)». In risposta, verso la metà dell’VIII secolo, si fece strada una dinastia rivale, quella abbaside, pronta a rivendicare un ruolo egemone per via della propria parentela con Maometto. Il primo califfo abbaside fu Abu l-Abbas al-Saffah (722-754), che, aiutato dai
1258 Le forze mongole guidate da Hulagu Khan distruggono Baghdad.
1122 Con il Concordato di Worms termina la lotta per le investiture.
980 Nasce Ibn Sinā, in Occidente chiamato Avicenna: filosofo, matematico e medico persiano che con i propri studi (in primis Il canone della medicina) arricchirà la cultura della sua epoca e non solo. 1054 Scisma tra la Chiesa di Roma e quella ortodossa. 1070 Nasce Pietro Abelardo, filosofo, teologo e compositore francese tra i fondatori della logica occidentale.
1225 Nasce san Tommaso d’Aquino, esponente della Scolastica, uno dei principali pilastri teologici e filosofici della Chiesa cattolica.
Conquista dopo conquista, la figura del califfo, nella doppia veste di leader politico e di imàm, guida religiosa, iniziò a uniformarsi a quella dei grandi sovrani europei, ma in campo internazionale il titolo califfale fu riconosciuto solo durante il XVIII secolo. 97
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OTTOCENTO
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BUIA TEMPESTOSA
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• Un’estate piovosa, tre giovani romantici, una sfda letteraria: la travagliata vicenda di John Polidori, medico di Lord Byron e sfortunato creatore del primo vampiro della letteratura
Alcuni dei protagonisti (da sinistra, Mary Shelley, Lord Byron e John Polidori) della famosa notte a Villa Diodati sul lago di Ginevra (foto a sinistra).
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ra una notte buia e tempestosa. Così avrebbe cominciato Snoo py, se si fosse trovato a Villa Diodati, sul lago di Ginevra, il 16 giugno 1816. In Svizzera quell’an no l’estate non arrivò mai e il nubifragio che si scatenò la sera in questione fu un triste anticipo di quel che sarebbero sta ti i mesi seguenti. Illuminati a tratti da fulmini rincorsi da tuoni potenti, stretti intorno al fuoco, inti rizziti dalla grandinata e dall’umido, cin que scrittori, affermati, meno affermati o in divenire, si annoiavano a morte: c’era no il poeta Percy Shelley, la futura mam ma di Frankenstein Mary Wollstonecraft Godwin – che già si presentava come “si gnora Shelley” – la sua sorellastra Clai
re Clairmont, il poeta tutto genio e srego latezza George Byron. E, in disparte, un giovane dall’aria imbronciata, scuro in viso e palesemente a disagio. Si chiama va John William Polidori ed era, da poco e ancora per poco, il medico personale di Byron: proprio lui, grazie agli sviluppi di quella serata, sarebbe diventato il padre di tutti i vampiri pallidi, nobili e affascinan ti, con la predilezione per i candidi colli delle vergini, della letteratura moderna. Una strana sfida. Il gruppetto, ospite di Byron, aveva cenato e il padrone di casa, approfittando dell’atmosfera da brivido, iniziò a leggere ad alta voce alcune storie di fantasmi tratte da Phantasmagoriana, un’antologia di ghoststories allora molto in voga. Le donne si stringevano nei lo
ro scialli, Shelley tossicchiava a disagio, ma Byron ci aveva preso gusto. E, alla fi ne dell’ennesimo racconto, esclamò: “Pro pongo una sfida. Che ognuno di noi si im pegni a comporre nel più breve tempo pos sibile il racconto più terrificante mai scrit to fino a ora”. Tutti accettarono. Di lì a pochi giorni, Byron non mancò di declamare A Fragment, l’incipit di un rac conto noir rimasto incompiuto, noto in ita liano come La sepoltura; Shelley, terroriz zato dal fantasma di una donna mostruo sa, si disinteressò al gioco; Mary partorì il suo Frankenstein. Polidori invece abboz zò il racconto che in seguito avrebbe pub blicato col titolo di Ernestus Berchtold, che di sovrannaturale aveva ben poco. E il suo famoso vampiro? 103
SCALA
Gli sfidanti dell’orrore
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TESTATINA
Polidori, afascinato da Lord Byron, lo seguì nel suo viaggio da Londra verso
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re e il suo comportamento libertino avevano destato scandalo; Shelley scappava dal suo matrimonio, già compromesso e chiacchieratissimo; Claire, da poco accortasi di essere incinta, desiderava un incontro con Byron per fargli riconoscere il proprio bambino; Mary, l’amante di Percy, era gelosissima della sorellastra. E “il povero Polidori”? L’itaLiano. John William, viso da ragazzino, lunghe ciglia scure come gli occhi e folti capelli corvini, era nato in Inghilterra, primo degli otto figli di una governante britannica, Anna Maria Pierce, e di Gaetano Polidori, politologo italiano emigrato oltremanica dalle colline pisane. L’uomo era stato per un certo periodo segretario di Vittorio Alfieri che, pare, seccato dalla sua pedanteria e dalle sue inconsulte velleità letterarie, in un eccesso di collera esclamò: “In questa casa il poeta sono solo io!”. E il figlio John gli assomigliò molto.
Ragazzo precoce, si laureò in medicina a Edimburgo nel 1815, neppure ventenne. Gli difettava però la socievolezza. In una lettera al padre scriveva: “Benché io viva in Inghilterra, non mi sento un inglese. No... Anzi, sento che non sarò mai felice in questo Paese. Pensano che io sia matto, devo parlare come loro e non posso mai dire quel che sento davvero, per paura che mi trattino da pazzo, se parlo di libertà, guerra, letteratura”.
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Vendetta. Fu un parto indotto della famosa notte di Villa Diodati: pare su suggerimento di una misteriosa lady, Polidori prese infatti spunto dal frammento di Byron per creare poco tempo dopo una propria horror-story. Il suo personaggio, capostipite di tutti i vampiri moderni, assomigliava fin troppo all’amato-odiato datore di lavoro: a cominciare dal nome, lord Ruthven, che era lo stesso usato da una furiosa ex amante del poeta per sbeffeggiare il fedifrago in un romanzo. A questo si aggiungeva la passione per le donne e il carattere lunatico, anticonformista e teatrale. John aveva i propri motivi per attuare quell’insolita vendetta. Quel 1816 era stato un anno movimentato per tutti i membri di quel gruppetto eterogeneo, ufficialmente occupati nel più classico dei tour estivi alla volta della nostra penisola. La realtà però era ben diversa: Byron fuggiva dai salotti londinesi, dove le sue ope-
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l’Italia. Ma l’istrionico poeta fece presto di lui il suo personale zimbello
Gaetano aveva ben capito dove mirava il figlio: desiderava andare in Italia, la sua mezza patria, per combattere gli austriaci invasori. E glielo vietò. Frustrato, nel 1813 il ragazzo affogò i dispiaceri nell’inchiostro e partorì la sua prima opera compiuta: la tragedia Ximenes. Ma neppure con la laurea la situazione migliorò: scoprì infatti che a Londra non avrebbe potuto fare il medico senza aver prima sostenuto un esame aperto solo ai maggiori di 26 anni. Cosa avrebbe potuto fare nel frattempo? Scrivere, non aveva dubbi: tanto per cominciare per una rivista. L’incontro con Byron. Fu allora che Byron gli scombussolò i piani: era il 1816 quando Polidori seppe che il famoso poeta, a dieta rigida, maniaco dei purganti e attaccato alla bottiglia, aveva bisogno di un medico che lo accompagnasse nel suo viaggio in Europa. Era l’occasione ideale non solo per visitare finalmente l’Italia, ma anche per testare la propria abilità let-
teraria. Da parte sua, Byron rimase divertito dalla spavalderia del giovane: così, nonostante il barone Hobhouse, suo amico, lo avesse sconsigliato di assumere un medico col cognome italiano e benché Gaetano avesse messo in guardia il figlio, i due si scelsero. E si mormora che diventarono persino amanti. Lasciarono Londra il 23 aprile, raggiunsero il porto di Dover e da qui salparono per Ostenda (Belgio). Ma la coppia scoppiò presto: “La prego”, chiese un giorno Polidori a Byron, “cosa c’è eccetto la poesia che io non possa fare meglio di voi?”. “Prima di tutto”, replicò il poeta, “posso centrare con un colpo di pistola il buco della serratura di quella porta; secondo, posso nuotare in quel fiume fino a quel punto laggiù; e terzo, ti posso prendere a botte per bene”. Dopo simili uscite, il poeta decise di dare al suo medico il posto che meritava: quello di zimbello. Rideva dei suoi scritti, gli lanciava continue frec-
ciatine e diventava sempre più intrattabile. E accusava Polly Dolly, così lo aveva soprannominato, di copiarlo nel vestire, nei modi di fare e persino nello stile letterario. isoLato. Forse non aveva neppure tutti i torti. Un po’ come suo padre con l’Alfieri, John sperava di acquisire almeno un briciolo del fascino di quel personaggio magnetico, senza ovviamente riuscirci. Arrogante come Byron, ma ben più irascibile e rancoroso, Polidori cominciò a sentirsi davvero abbandonato. Accecato dalla rabbia e dalla gelosia, se la prendeva con Percy Shelley, definendolo “timido, vergognoso, tubercolotico”. Lo sfidò persino a duello: il ribelle e ateo poeta inglese gli rispose con una risata, ma subentrò Byron. “Ricordati che, sebbene Shelley abbia qualche scrupolo a duellare, io non ne ho alcuno e, in qualsiasi momento, sarò pronto a prendere il suo posto”. Il risentimento esplose alla fine di agosto, quando gli Shelley partirono e a Villa
Gran successo
EVERETT/CONTRASTO
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A destra, Bela Lugosi nel film Il ritorno del vampiro (1944). Sotto, Il Vampiro, in un’edizione del 1884 attribuita erroneamente a Lord Byron. A sinistra, Villa Diodati e, sopra, la targa sulla casa di Polidori a Londra.
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Il libro di Polidori fu pubblicato, ma attribuito a Lord Byron. E anche quando fu riconosciuto come opera sua, John non ottenne i diritti d’autore Diodati arrivò quel vecchio pettegolone di Hobhouse. Polidori divenne più rissoso e intrattabile del solito: nel volgere di pochi giorni augurò al nuovo arrivato di morire di apoplessia, per motivi futili fece a pugni con alcuni svizzeri e aggredì un farmacista, accusandolo di vendere magnesia di scarsa qualità. Byron, stufo, lo licenziò. Il ragazzo corse in camera con l’intenzione di avvelenarsi, e il poeta, venuto a riconciliarsi, gli salvò la vita. Il 15 settembre John levò le tende da Ginevra, accompagnato da una generosa buonuscita e alcune lettere di raccomandazione. Decise di continuare il suo tour verso l’Italia, ma non trovò mai un posto dove fu realmente felice: né Milano (da dove fu espulso per una lite a teatro con un ufficiale austriaco), né Firenze, Pisa o Roma. Finì perciò per tornarsene a Londra, con la ferma idea di fare lo scrittore.
La Beffa. Gli inizi non furono brillanti, del racconto, pur ammettendo l’ispirazioperciò John ripiegò sulla critica letteraria, ne “rubata” al frammento che Byron avetogliendosi la soddisfazione di stroncare va composto sul lago di Ginevra tre anni un’opera dell’odiato Hobhouse, ma non ri- prima. Nei giorni successivi fece lo stesso nunciò a tirar fuori dal cassetto a ogni oc- con gli editori Sherwood e Neely, che del casione buona i suoi manoscritti. Nel 1819 manoscritto volevano fare un libro. riuscì così a farsi pubblicare la sua trage“In tre mattine scrissi il mio racconto e lo dia e il racconto abbozzato a Villa Dio- lasciai alla donna” ammette lo stesso Podati. Il primo aprile dello stesso anno, il lidori nell’introduzione a una sua opera New Monthly Magazine fece successiva. “A questo punto APERNE uscire The Vampyre. Sottotitopare che sia finito nelle mani DI PIÙ lo: una storia del grande lord di un tale che lo fece avere al Byron. Quando aprì il giornadirettore della rivista presenle e scorse le prime righe del tandolo in modo da lasciare Il vampiro, John successo che avrebbe esaurito William Polidori il dubbio se fosse o no di sua in un anno ben cinque edizio- (Studio Tesi editore). signoria [Byron], cosicché io ni, Polidori pensò a un pesce La notte di Villa ebbi qualche difficoltà nel rid’aprile. Quella era roba sua! Diodati, M. Shelley, vendicare lo scritto come opera G. Byron, J. Polidori Si affrettò a scrivere a Henry (Nova Delphi Libri). I mia”. Ma fu decisamente aiuColburn, l’editore della rivi- tre racconti “ginevrini”. tato da Byron che si affrettò a sta, rivendicando la paternità disconoscere il testo: “Non so-
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LA STORIA DEL LORD ASSETATO DI SANGUE (CON FINALE MORALISTA) I tentativi di seduzione
COSTA/LEEMAGE (4)
Il vampiro non si arrende e si reca sulle montagne della Scozia per sedurre la bella e innocente Jenny. Per fortuna la voce benefica del vecchio bardo permette a una forza sovrannaturale di strappare la giovane vergine dalle braccia del pericoloso ammaliatore.
Risorto dalle ceneri Il vampiro esce dalla tomba e si lancia verso la giovane miss Jenny Aubrey, che giace addormentata. Interviene però una potenza celeste che riesce a salvare la fanciulla dall’assalto della creatura infernale. 106
ULLSTEIN/ALINARI
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Il vampiro più noto: Dracula di Bram Stoker
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er quanto non sia stato il primo, resta il più famoso tra i vampiri (mai del tutto scalzato neppure dagli ultimi arrivati, giovani, belli e vegetariani): è Dracula, il vampiro di fine Ottocento, creato dall’irlandese Abraham Stoker (1847-1912). Ex impiegato statale, “Bram” Stoker si ispirò a
un personaggio realmente esistito, il principe di Valacchia Vlad III Dràculea, noto come Ţepeş, cioè l’“Impalatore”. Uno che, nel XV secolo, di sangue ne fece scorrere parecchio e di cui recentemente sarebbe stato scoperto il castello in Turchia dove, prigioniero degli Ottomani, avrebbe imparato l’ar-
no l’autore e non avevo mai sentito parlare dell’opera in questione fino a questo momento. Se il libro è buono sarebbe ignobile privarne l’autore, chiunque egli sia, di tutti gli onori. Se è stupido, voglio assumermi la responsabilità solo delle mie sciocchezze”, scrisse stizzito al Galignani’s Messenger. triste fine. Allo sprovveduto medico non vennero riconosciuti i diritti d’autore, grazie a una furba manovra dell’editore. Nonostante la diffusione del romanzo, John continuò a vivere in bolletta, rovina-
te di impalare la gente, in cui divenne maestro. L’ispirazione. Ciò che non prese dalle leggende balcaniche, Stoker lo recuperò dal vampiro di Polidori. Sua madre si lanciò in commenti entusiasti: “Nessun altro libro dal Frankenstein di Mary Shelley, o forse nessun libro in assoluto,
to dai debiti di gioco, dopo aver tentato la carriera ecclesiastica ed esser stato rifiutato per i suoi scandalosi scritti. La sera del 23 agosto 1821, il medico non ancora 26enne rientrò a casa di suo padre con un’aria depressa e prostrata: disse di sentirsi male e di non voler essere disturbato fino a mezzogiorno. Fu trovato riverso sul letto, nudo e agonizzante. Quando i medici arrivarono era già morto. Per salvare la reputazione della famiglia, il decesso fu registrato come “morte per visitazio-
può essere paragonato al tuo in quanto a originalità e capacità di incutere terrore; Poe non è nessuno al tuo confronto”. Le malelingue la vedevano in modo diverso: furono le conoscenze (tra le altre quella con Oscar Wilde e col poeta Walt Whitman) a spianare la strada a Dracula.
Nosferatu, il vampiro del regista Murnau (1922) ispirato a Stoker.
ne di Dio”, ma anche in questo caso Byron non mancò di dire la sua: “Ecco, il povero Polidori se n’è andato! Quando era il mio medico, parlava sempre di acido prussico, olio d’ambra, di esalazioni di carbonio e di misture velenose; egli si è prescritto una dose da uccidere cinquanta Mitridati (si riferisce al leggendario re del Ponto, ndr). Pare che all’origine di questo atto sconsiderato ci fossero gravi delusioni”. Polidori si sarà rivoltato nella tomba. • Maria Leonarda Leone
Queste illustrazioni ottocentesche sono tratte da un racconto ispirato al Vampiro di Polidori. Nel solo 1828 (Polidori era morto da sette anni) due autori ne trassero altrettante versioni teatrali.
Vendetta celeste Nel momento in cui il vampiro sta per sposarsi con miss Aubrey, il Cielo, stanco dei suoi delitti, lo incenerisce con un fulmine (sulla destra). Nella versione di Polidori, invece, la donna viene trovata dissanguata dopo la prima notte di nozze. E del vampiro non resta traccia.
La proposta di matrimonio Il vampiro non demorde e, nelle vesti di Lord Ruthven, riesce abilmente a conquistare la ragazza e, inginocchiandosi ai suoi piedi, le domanda di convolare a nozze con lui. Miss Aubrey acconsente. 107
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Separati in casa
Gli archeologi non si fermano davanti a niente. Nemmeno davanti a latrine e depositi di immondizia vecchi di secoli. Anzi, sono proprio quelli i posti dove si scovano le notizie più preziose sui nostri antenati.
In Scozia ha vinto il “no”. Ma le ragioni dell’ostilità verso l’Inghilterra sono profonde e secolari. Come dimostrano i tanti episodi storici che videro i due popoli contrapposti. Fin dal tempo di Pitti e Romani.
La culla dell’Età di mezzo
ANO IN PRIMO PI
IL MEDIOEVO DI C ARLO MAGNO
SCALA
Carlo Magno si può considerare “l’inventore” del Medioevo come lo conosciamo noi: monasteri, chiese, feudalesimo e cavalleria, oltre a una prima identità europea, presero forma nell’età carolingia.
NOVECENTO
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VITA QUOTIDIANA
I detective del gabinetto
LA IN EDICO mbre ve dal 19 no nte con ta e altre storiegi personag 109
Nella Malesia del 1957 alcune donne si recano allo stadio per celebrare l’indipendenza del Paese dalla colonizzazione britannica, avvenuta nell’agosto di quell’anno. Hanno il volto coperto per proteggersi dal sole. Ma questo copricapo soprattutto le identifica come coolie, appartenenti cioè a quel gruppo di lavoratori sfruttati nei compiti più pesanti che gli occidentali si rifiutavano di fare. Le donne di questa “casta” avevano estrema difficoltà a trovare
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marito.
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