MENSILE – Austria, Belgio, Francia, Lussemburgo, Portogallo, Spagna � 8 - Germania � 9 - Svizzera CHF 12 - Svizzera Canton Ticino CHF 11,50 - Canada CAD 11,50 - USA $ 11,50
99 gennaio 2015
� 4,90 in Italia
Sped. in A.P. - D.L. 353/03 art.1, comma 1, DCB Verona
Storia SCOPRIRE IL PASSATO, CAPIRE IL PRESENTE
Legioni implacabili, leggi inflessibili, sovrani disposti a tutto. Dietro le quinte di un dominio durato cinque secoli
ROMA IL LATO SPIETATO DELL’IMPERO GIALLO SU DUE RUOTE Un secolo prima del “caso Pantani”, la morte misteriosa del campione Ottavio Bottecchia
IN PIÙ... Grazie, vetro: come ha modellato la nostra civiltà Genio e regolatezza: la strana routine dei grandi pensatori Il “Che” africano: Thomas Sankara, dal Burkina Faso sfidò l’Occidente. E morì
GRANDUCATO DI TOSCANA Pietro Leopoldo: quando Firenze era la capitale dell’Illuminismo
Fotostoria del Novecento
LE N O C I E D O FOT ORI! LET T
Ecco come i nostri nonni, i nostri genitori e noi siamo cambiati davanti (e dietro) la macchina fotografica. Questo volume speciale di Focus Storia è il ritratto, e spesso l’autoritratto, degli italiani nel XX secolo. Vi hanno contribuito grandi maestri della pellicola, ignoti fotografi ambulanti e tanti lettori del nostro giornale!
FOCUS STORIA: EMOZIONANTE, SORPRENDENTE, COINVOLGENTE PIU’ CHE MAI
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focusstoria.it
Gennaio 2015
Storia Una condanna ad bestias in versione ottocentesca.
R
Jacopo Loredan direttore
R UBRICHE
4 LA PAGINA DEI LETTORI 6 NOVITÀ & SCOPERTE 8 TRAPASSATI ALLA STORIA 9 AGENDA 10 MICROSTORIA 13 CURIOSARIO 15 SCIENZA E SCIENZIATI 72 PITTORACCONTI 76 DOMANDE & RISPOSTE 110 FLASHBACK
IN PIÙ...
16 TECNOLOGIA Il vetro
allo specchio
Dagli Egizi a Murano, l’arte del vetro.
24 IlMEDIOEVO Falco della
Val d’Orcia
Ghino di Tacco, brigante del Duecento.
30 LaMISTERImoglie
di Gesù (o no) Tutte le ipotesi su Maria Maddalena.
32 IlNOVECENTO “Che” africano
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oma, faro della civiltà. Capitale di un impero che, quindici secoli dopo la scomparsa, è ancora capace di esercitare la propria influenza culturale. Culla del diritto, cuore del cristianesimo, madre dell’Occidente. Ma anche centro di potere assoluto, dove i sovrani, grandi o mediocri che fossero, hanno sempre esercitato la loro autorità senza farsi scrupoli. Dove i processi penali si concludevano con punizioni tanto meticolose quanto crudeli. Dove i generali consideravano la rappresaglia cosa di ordinaria amministrazione e lo sterminio il più scontato epilogo di qualsiasi campagna bellica. Roma, con la sua corte imperiale nido di congiure, dove governare significava principalmente colpire per primi. È a questa Roma, eterna anche perché spietata, che abbiamo dedicato il tema di copertina di Focus Storia. Buona lettura.
CI TROVI ANCHE SU:
La forza dell’impero 40 Sangue e potere
Fin dalla sua fondazione Roma ha conosciuto il significato della violenza. Congiure e complotti sanguinari hanno segnato la sua storia.
46
Cattivissimi re I dieci imperatori romani più efferati (almeno secondo gli storici antichi) e le loro imprese senza scrupoli.
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A ferro e fuoco I Romani sapevano essere aperti. Ma i popoli che si ribellavano dovevano fare i conti con la repressione delle legioni. Come accadde in Giudea.
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Mammina cara Agrippina Minore, madre di Nerone, fece di tutto per conquistare e conservare il potere della sua famiglia. Ma morì vittima del figlio.
60
Durissima lex Pene capitali e supplizi per chi violava le leggi romane (o divine) erano un campionario di torture, ma nulla era affidato al caso.
66
L’ultimo dei Romani Ascesa e caduta di Flavio Ezio, “l’uomo forte” che tentò di far rivivere la grandezza militare di Roma alla vigilia della caduta dell’impero.
In copertina: Un legionario tardoimperiale in un’elaborazione al computer. ARCANGEL
Thomas Sankara, il leader del Burkina Faso che sfidò l’Occidente.
COSTUME 78 Un regalo per te
Le radici antichissime dello scambio di doni.
ANNIVERSARI 84 Gli ultimi giorni
di Franceschiello L’ultimo re delle Due Sicilie morì in esilio nel 1894, in Trentino.
STORIE D’ITALIA 90 Un “Pantani”
d’epoca
La morte misteriosa di Ottavio Bottecchia.
94 LaPERSONAGGI routine
della creatività
Le giornate-tipo dei grandi creativi: genio e regolatezza.
GRANDI TEMI 96 Lumi di Toscana
Le riforme illuministe di Pietro Leopoldo.
NOVECENTO 102 Louis Lafond,
medico fotografo L’album inedito dal fronte francese della Grande guerra.
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LA PAGINA DEI LETTORI Inviateci opinioni, idee, proposte, critiche. Pubblicheremo le più interessanti oltre a una selezione dei commenti alla nostra pagina Facebook. (www.facebook.com/FocusStoria). Scrivete a Focus Storia, via Battistotti Sassi 11/a, 20133 Milano o all’e-mail
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italia 1914
97 novembre 2014 rivista + allegato
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� 9,90
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di applausi califfato
in Italia
re il preSente
Storia Scoprire il
paSSato, capi
QUESTO MESE CON TION COLLEC O FASCISM€ A 9,90
Dedicato ai tanti che non tornarono
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egizia baghdad casa ■
catari del piemonte ■
ostia antica ■ ■
rodrigo de playboy polidori ■
jerez
Mi chiamo Angela Vitale e sono nata a della la vigilira l’italia al er a Busto Arsizio. grande gu Volevo complimentarmi per il dossier sull’Italia alla vigilia della Prima guerra mondiale. L’ho trovato molto interessante, di rilievo storico ed umano. Mi lascio andare alle emozioni, perché fin da bambina, mi è giunto il ricordo, di un mio prozio, disperso a Caporetto. Di lui non è rimasta nessuna foto, nessuna lettera, solo un nome inciso su un monumento dedicato ai caduti della “Grande guerra”. Invio, se può essere d’interesse, un mio breve racconto, dedicato ai tanti soldati, che non tornarono più. Ai tanti giovani di tutta Italia, che vennero strappati dalle loro famiglie e che combatterono gloriosamente. Chi ritornò, riportò ferite non solo sul corpo, ma anche nell’animo. Per tutti loro sono le mie parole. Un piccolo contributo per continuare a ricordare.
1914
Tra campagne e metropoli, o fabbriche d’aut e filande, gli rlo italiani sull’o del conflitto
L’Europa divisa mondo e il resto del
IN PIù...
OSTIA ANTICA
il porto di roma 2mila anni fa, ricostruito in base alle e ultime scopert
ato: quattro il vero califfori tra Baghdad secoli di splend di e Damasco i: il marinaio eSplor azion scoprì il tabacco colombo che càtari l’enigma dei meDioevo: al rogo piemontesi finiti
AUgUrI ! CONIgLIETTE playboy: la rivoluzione del sesso “pop” so vista attraver sei decenni di copertine
Angela Vitale, Busto Arsizio (Va)
Non possiamo pubblicare qui il racconto che ci ha inviato la signora Vitale, ma la ringraziamo molto per aver condiviso con noi i suoi ricordi e le emozioni suscitate dalla lettura di Focus Storia.
Chiesa san Claudio Riguardo al palazzo di Carlo Magno ad Aquisgrana (Focus Storia n° 98, pag. 46-47), così ben illustrato da Giorgio Albertini, vorrei segnalare che lo studioso di archeologia cristiana Giovanni Carnevale avrebbe riconosciuto nella chiesa di San Claudio al Chienti, in 4
provincia di Macerata, un edificio costruito con i medesimi criteri architettonici del palatium di Aquisgrana “così simile da essere sovrapponibile”. L’ipotesi è suffragata dalla presenza nelle Marche di Franchi d’Aquitania, fuggiti nella prima metà dell’VIII secolo dagli Arabi e accolti dai monaci dell’Abbazia di Farfa. Inoltre Carlo Magno si fece costruire un palazzo simile a quello di Aquisgrana anche a Roma, vicino a San Pietro. Fabio Lambertucci
San Claudio al Chienti (Macerata), piccola Aquisgrana italica.
Maria Teresa: dall’istruzione alla libertà Nel XVIII secolo l’imperatrice Maria Teresa d’Austria incoraggiò la diffusione dell’istruzione con un editto: la Ratio educationis. Non sapeva che in tal modo, indirettamente e involontariamente, avviava i moti rivoluzionari che avrebbero porta-
to alla fine del suo impero meno di due secoli dopo; peccò in lungimiranza credendo che ciò avrebbe solo portato a rinforzare l’impero con un apparato burocratico istrui to. Boemi, Sloveni, Bulgari: come in un circolo vizioso l’educazione dilagava e con essa la capacità di leggere la storia del proprio popolo, conservata a lungo e aggiornata nei monasteri. Filologi e storici diedero il loro contributo alla riscoperta o creazione delle lingue, gettando un primo passo verso il nazionalismo, che avrebbe generato il conflitto mondiale e causato la fine dei grandi imperi austriaco e ottomano. Mi piacerebbe leggere un articolo su questa storia di popoli [...] che, attraverso l’istruzione e la conoscenza della Storia, si resero liberi ed intrapresero la strada dell’indipendenza. Ilaria Di alcuni di questi popoli (specie balcanici) ci siamo già occupati. Ma torneremo ad occuparcene ancora in futuro.
La storia dei confessori Leggo sempre con passione Focus Storia, ma a volte per mancanza di tempo un po’ in ritardo. Come in
questo caso: sto ancora leggendo il numero di settembre. Mi dispiace aver notato a pag. 71 del n° 95 che indicate come giallo il colore della stola dei confessori nel cristianesimo. Come catechista mi è subito parso sbagliato e sono andata immediatamente a ricercare i colori delle stole: il colore del pentimento e della richiesta di perdono è sempre il viola (quindi è il viola il colore liturgico della quaresima, della confessione e dell’unzione degli infermi); Il giallo-oro può essere utilizzato nelle occasioni più solenni sostituendo il colore liturgico del giorno ad eccezione del viola che non può essere sostituito. Lisa, Trento
La ringraziamo della precisazione, anche se, stando agli storici del cristianesimo, i significati simbolici dei colori liturgici non sono sempre stati gli stessi in tutte le epoche.
La fortuna dei Fieschi Nel numero 96 di Focus Storia avete trattato della congiura di Gian Luigi Fieschi. Questa congiura viene anche descritta da Agostino Mascardi nell’opera Congiura del Conte Gio. Luigi de’ Fieschi, stam-
Una “gavetta di ghiaccio” dall’Ucraina della Seconda guerra mondiale Sono la moglie di un funzionario dell’Ambasciata Italiana a Kiev. Mio marito ha avuto da una signora ucraina una gavetta di ferro donata a sua madre per ricordo da un ufficiale (?) italiano che si trovava in Ucraina (non so perché) dopo il 1940. Questa signora vorrebbe poter restituire questa gavetta (v. foto a destra) ai familiari del soldato, come spiega nella lettera inviata
all’Ambasciata, ma non sa come rintracciarli [...]. Ho chiesto al distretto militare
di Roma, ma con così pochi elementi e senza neppure sapere se era di Roma non hanno potuto fare nulla. [...] Il militare si chiamava Emilio Motta, era del 2° Reggimento granatieri Compagnia Roma, fu congedato il 2 giugno 1934, ma fu richiamato l’8 maggio 1935. Questo lo sappiamo perché è inciso sulla gavetta. Lettera firmata
Simona Ravasi
Ma quando eruttò davvero il Vesuvio? In merito all’articolo della rubrica Scienza e scienziati su Plinio il Vecchio, a pagina 76 di Focus Storia n° 97, tengo a precisare che ho riscontrato un’imprecisione sulla data dell’eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei ed Ercolano nel ’79 d.C. In una nota trasmissione televisiva di divulgazione (Ulisse, il piacere della scoperta, di Alberto Angela) dedicata all’eruzione vesuviana ho sentito che essa non è avvenuta il 24 agosto del 79 d.C., bensì il 24 novembre di quell’anno, come indicano reperti archeologici ritrovati da poco, tra i quali manoscritti datati 24 novembre del 79. A tutto dà conferma l’archeologa Grete Stefani, direttrice degli scavi archeologici di Pompei, dicendo che nei reperti sono stati rinvenuti dei frutti di stagione tipicamente
Per la scienza La morte di Plinio il Vecchio, sotto i lapilli del Vesuvio, nel 79 d.C.
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pato nel 1629. Mascardi voleva continuare la Storia d’Italia del Guicciardini. Lo scrittore si documenta a lungo prima di redigere la sua opera che ha ben tre edizioni diverse con alcune modifiche tra loro. L’opera di Mascardi viene poi tradotta anche in altre lingue, tra cui il tedesco e il francese. Per la lingua tedesca sarà il poeta Schiller a riprendere l’opera, adattandola affinché sia più adatta alla tragedia. Diversa vicenda riguarda la traduzione francese fatta da JeanJacques Bouchard. Mascardi e Bouchard si conoscono alla corte barberina e il francese è al corrente dei tagli che il testo di Agostino Mascardi ha dovuto subire a causa delle censure: nonostante questo viene tradotta e pubblicata nel 1639. Una seconda personalità, sempre francese, s’interessa all’opera: è il cardinale di Retz, François-Paul de Gondi, nell’anno 1665. Quest’ultima opera ha delle caratteristiche diverse rispetto all’originale. Resta singolare il fatto che questa congiura abbia suscitato curiosità tra gli intellettuali andando a far nascere diverse edizioni in più parti d’Europa.
autunnali quali castagne sbucciate, dei melograni, delle noci; era già avvenuta da tempo la vendemmia, perché sono stati ritrovati dei cocci in terracotta contenenti del mosto. Infine sono stati ritrovati degli indumenti autunnali. Adriano Giacomozzi, Trento
Vero. Anche noi, su Focus Storia, abbiamo più volte parlato di questi indizi, che farebbero datare a novembre e non ad agosto l’eruzione pliniana. Va detto però che non tutti sono d’accordo, in quanto vanno tenuti presenti i mutamenti climatici avvenuti in 2mila anni. In ogni caso, nella rubrica in questione non abbiamo approfondito questo aspetto, essendo la pagina incentrata soprattutto sulla figura di Plinio il Vecchio.
Non dimenticate il Biennio rosso Sono un lettore della vostra rivista, appassionato di Storia, in particolare modo di quella del Ventesimo secolo. Volevo complimentarmi per gli interessanti articoli riferiti alla storia d’Italia degli anni antecedenti il primo conflitto mondiale. Tali articoli fanno il punto su un periodo poco conosciuto del nostro Paese, sebbene siano stati il prologo a un triennio che avrebbe per sempre cambiato non solo la Storia ma gli italiani stessi. Vorrei suggerire di approfondire anche un altro periodo che, secondo il mio modesto parere, ha segnato un periodo di transizione del nostro Paese e per questo non sotto i riflettori: il Biennio rosso. È stata la porta d’ingresso che ha condotto le Camicie Nere a Roma e mai fino ad allora il nostro Paese è stato sull’orlo di una guerra civile come nei primi anni Venti.
Carnefici e vittime non sempre sono stati giudicati dalla Storia come avrebbero meritato. [...] Alberto Garlandini da Cecina (LI)
Civiltà dimenticate Ho apprezzato il contenuto di Focus Storia Collection sulle civiltà perdute e ben capisco che avete dovuto fare una selezione molto stringente, ma almeno 2 omissioni mi paiono del tutto inopportune, per non dire altro. 1. La First Nation del Nord degli Usa e Sud del Canada manca completamente, eppure sono presenti sul territorio da oltre 10.000 anni. Hanno dato vita a tante nazioni di nativi nordamericani. Hanno una cultura, religione, tradizioni ben radicate e ancora presenti sul territorio. Non voglio farne qui un lungo elenco, ma sarebbe piacevole e giusto da parte vostra di prendere atto di questa vivente civiltà [...]. 2. Non ho trovato, con rammarico, i Longobardi! A detta delle ricerche sul Dna degli italiani di oggi appare chiaro che non siamo più solo discendenti dei popoli della penisola italica alla fine dell’ Impero romano ma siamo frutto dell’ assimilazione di essi con i Longobardi. Si studia ovunque che il fenomeno dell’assimiliazione dei Longobardi con i popoli incontrati nella Penisola è unico nella storia occidentale, perché non fu una mera convivenza né un’imposizione di cultura diversa imposta ai vinti ma di vera e propria assimilazione di varie culture con quella longobarda, il cui frutto siamo noi. Difatti basta guardare all’aumento di altezza delle persone dopo i due secoli di permanenza dei Longobardi nella Penisola italica. Vorrei ricordare che di Italia allora non se ne parlava proprio, neanche durante l’ Impero romano – c’era Roma e il resto, ma
di Italia non si era mai accennato fino al 1800 circa. Per questo fatto, l’assimilazione, il Dna precedente alla venuta dei Longobardi non è più quello che abbiamo noi, salvo che per l’estremo Sud e le isole dell’ attuale Italia. Questo fatto peculiare mi pareva appropriato che venisse illustrato e spiegato perché unico nella nostra civiltà occidentale e forse anche universale, perché si è sempre assistito alla eliminazione di ciò che atteneva al perdente e all’ imposizione dei vincitori che si distinguevano sempre dai vinti anche nei matrimoni, cosa che non avvenne in questo caso. Distinti saluti Sergio Lorenzutti
L’assenza delle nazioni indiane dipende dal fatto che abbiamo scelto prevalentemente civiltà palaziali che hanno lasciato evidenze archeologiche monumentali, e oggi scomparse. Quanto ai Longobardi (che abbiamo escluso per la loro relativa “modernità”) ce ne occuperemo sicuramente, e in modo ampio, su Focus Storia.
I NOSTRI ERRORI Focus Storia n° 98, pag. 33: Marco Claudio Marcello non era figlio di Antonia Minore, ma di Ottavia (sorella di Ottaviano Augusto); pag. 10: nella didascalia, i soldati della carica sono inglesi (come scritto nell’articolo) e non austriaci; pag. 18: Viggiù è in provincia di Varese, non di Como. 5
novità e scoperte
Sotto la piramide
Gli scarafaggi del dottor Livingstone, suppongo
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Trovato un tesoro di 50mila pezzi nella città di Teotihuacán, in Messico. È preazteco e risale a 1.800 anni fa.
1904), che lo salutò dicendo: “Il dottor Livingstone, suppongo”). Eredità. Nessuno immaginava che dai suoi viaggi Livingstone avesse riportato esemplari di insetti. Si è poi scoperto che le blatte furono donate al museo dall’avvocato ed entomologo Edward Young Western (18371924) che aveva probabilmente comprato gli insetti (utili per studiare il clima africano di due secoli fa) da un membro della spedizione. (f. x. b.)
S
H.TAYLOR/NHM
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urante un inventario nel Museo di storia naturale di Londra, il conservatore Max Barclay ha scoperto una scatola che riportava il nome dell’esploratore britannico David Livingstone (1813-1873). Nella scatola, venti blatte africane catalogate. Li vingstone è noto per aver navigato il fiume Zambesi e aver scoperto le cascate Vittoria e il lago Malawi. Dichiarato scomparso, fu ritrovato dal collega e giornalista Henry Morton Stanley (1841-
Dimenticati Sopra, l’incontro fra Livingstone e Stanley, nel 1871. A sinistra, uno dei venti insetti ritrovati negli archivi del Museo di storia naturale di Londra, con il nome di Livingstone sul cartellino.
IN PILLOLE
1
Il “kamikaze” di Kublai Khan
I relitti delle navi mongole che nel 1281 tentarono di invadere il Giappone erano noti. Geologi Usa hanno ora trovato le prove che fu davvero un tifone (kamikaze) a respingerle. 6
2
tatue di pietra e di legno, pietre preziose, palle per i giochi sacri e semi la cui datazione rimanda a 1.800 anni fa: è questa una parte dello straordinario tesoro scoperto a Teotihuacán (Messico), sotto la piramide del dio Quetzalcoatl, il Serpente piumato. In tutto, sono almeno 50mila le preziose offerte votive rinvenute in un tunnel individuato già nel 2003 a 18 metri di profondità, ma che solo oggi comincia a restituire i suoi tesori. E che potrebbe condurre alle tombe reali, cercate da anni. Lungo scavo. Il tunnel ha pareti e soffitto con tracce di un rivestimento metallico che rifletteva la luce delle torce, ricreando l’atmosfera dell’inframondo in cui credeva quel popolo, ed è lungo circa 100 metri. Dal 2010 si scava con due robot realizzati appositamente per questo progetto, guidato dall’archeologo Sergio Gomez dell’Istituto nazionale di Antropologia e Storia messicano. Ma nell’ultimo tratto si dovrà proseguire sca-
La sfinge di Hollywood
Sepolta nella sabbia, ma di una spiaggia californiana. È stata ritrovata la sfinge di gesso del film I 10 Comandamenti, del regista Cecil B. DeMille, un kolossal del 1956.
3
vando manualmente, a causa del terreno franoso e instabile. I lavori finiranno forse l’anno prossimo. La “città degli dèi” (questo il significato di Teotihuacán nella lingua locale), fondata circa 2.500 fa, si estende su una superficie di 40 chilometri quadrati, dei quali è stato esplorato solo il 5 per cento. Al suo apogeo, tra il 250 e il 500 d.C., con i suoi 150.000 abitanti era tra le città più popolose del mondo. • Giuliana Lomazzi
Ultimissime da Amfipolis
Continua a far parlare di sé la tomba ellenistica scoperta ad Amfipolis (Grecia): nella terza sala è stato trovato uno scheletro, il cui sesso non è stato ancora determinato.
INAH
L’Fbi contro Luther King
L
ettere minatorie e attacchi erano all’ordine del giorno per Martin Luther King, leader del movimento contro le discriminazioni dei neri negli Stati Uniti, che venne assassinato nel 1968. Una delle missive più inquietanti è stata rintracciata da una ricercatrice di Storia a Yale, Beverly Gage, e pubblicata dal New York Times: la scrisse l’Fbi per indurre al suicidio il leader nero. Posta! Il 1963 era l’anno che culminò con la marcia a Washington di centinaia di migliaia di persone, per i diritti civili degli afroamericani. E fu lo stesso anno dell’assassinio del presidente Kennedy, che sosteneva King. In questo clima, nel 1964 King ricevette il premio Nobel per la pace, mentre l’Fbi, guidata da John Edgar Hoover, fece arrivare questa lettera, di un ipotetico attivista deluso: “Sei stato registrato: tutti i tuoi atti di adulterio, le tue orge!”; “Tu sei un imbroglione colossale e un demonio”. “C’è solo una cosa da fare. Tu sai quale”, conclude la lettera, suggerendo appunto il suicidio al leader. (a. b.)
Offerte votive
GAMMA/GETTY IMAGES
Sopra, una delle statue scoperte nel tunnel al di sotto della piramide del Serpente piumato, nel sito di Teotihuacán (a sinistra, una panoramica dell’area archeologica).
4
Bombardate Stalin!
Un attacco nucleare preventivo per “cancellare” il Cremlino e annientare Stalin. Era l’idea di Winston Churchill nel 1947, stando a un memorandum dei servizi Usa.
5
Il beverone dei gladiatori
Una ricerca condotta su resti umani trovati in un cimitero a Efeso (Turchia) ha rivelato che lì i gladiatori erano vegetariani e bevevano un tonico a base di cenere.
Martin Luther King e (sopra) la lettera anonima scritta dall’Fbi.
novità e scoperte
A sinistra, una foto della Battaglia dello Jutland (1916). Sotto, l’Hms Caroline, oggetto del futuro restauro.
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Napoleone all’asta
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o scorso novembre è stata messa in vendita dalla casa d’aste Osenat, a Fontainebleau, presso Parigi, la collezione del museo napoleonico della famiglia Grimaldi di Monaco, inaugurato nel 1970. La raccolta fu costituita da Luigi II e arricchita da Ranieri III. Tra i vari oggetti in vendita, il pezzo forte è stato senz’altro un cappello di Napoleone (sotto), uno dei 19 bicorni autenticati. Il cappello, in feltro detto “castoro nero”, fu indossato dall’imperatore durante il suo esilio all’isola d’Elba. La stima era di “soli” 300400.000 euro, ma è stato acquistato per ben 1.884.000 euro da un collezionista sudcoreano.
Una nave per non dimenticare A Belfast (Irlanda del Nord) sarà trasformata in un museo l’ultima nave della Battaglia dello Jutland.
AP/LAPRESSE
L’
Heritage Lottery Fund britannico (il fondo finanziato dalla lotteria e destinato ai Beni culturali inglesi) ha messo sul piatto 12 milioni di sterline per trasformare l’incrociatore Caroline in un museo galleggiante ancorato a Belfast (Irlanda del Nord). Il restauro segnerà l’inizio delle celebrazioni del cen-
tenario della battaglia navale dello Jutland (31 maggio-2 giugno 1916). Longevo. L’Hms Caroline era un incrociatore leggero, varato il 29 settembre 1914, appena qualche settimana dopo l’inizio della Prima guerra mondiale, ed entrò in servizio il 4 dicembre dello stesso anno. Lo scontro, al largo della Penisola
TRAPASSATI ALLA STORIA Personaggi sconosciuti che sono stati, in vita, protagonisti.
STANLEY STOOKEY
Inventore
Morto a 99 anni, è il padre di un tipo di vetroceramica, il più resistente e versatile. Un materiale che aprì la strada a nuovi impieghi in cucina (recipienti e piastre di cottura), ma anche per sistemi di difesa, ogive di missili e parti dello Space shuttle. Guasto fortunato. L’invenzione fu dovuta a un malfunzionamento del forno, che in sua assenza non si era fermato a 600 °C, ma aveva raggiunto i 900. Visto l’ottimo risultato, Stookey ne studiò le condizioni per poterle riprodurre a piacimento. 8
JERRIE MOCK
Aviatrice
Negli Usa la chiamavano “la casalinga volante”, visto che era un’impeccabile madre di 3 figli, oltre che la prima donna a volare sola intorno al mondo. Avventure volanti. Studiò ingegneria aeronautica e ottenne il brevetto di pilota nel 1958, a 33 anni. Nel 1964 partì per la trasvolata con il proprio Cessna adattato per l’occasione. Rientrò dopo 29 giorni, 37.000 km e vari scali. In Algeria rischiò un incendio in volo, al Cairo atterrò per sbaglio in una zona militare. Aveva 88 anni.
dello Jutland (Danimarca), vide fronteggiarsi Royal Navy e Marina tedesca e fu il più grande del primo conflitto. La nave che sarà restaurata è l’unica, tra quelle che parteciparono alla battaglia, arrivata fino a noi, nonostante abbia partecipato anche alla Seconda guerra mondiale. • François-Xavier Bernard
A cura di Giuliana Lomazzi
AUGUSTO MARTELLI
Compositore
Chi è cresciuto negli Anni ’80 ricorda le sigle che aveva composto per la tv: Ok il prezzo è giusto, Bim bum bam, Grand Prix, Casa Vianello, Il pranzo è servito o il jingle di Canale 5 usato fino al 1994. Figlio d’arte. Il nonno era violinista d’orchestra, il padre compositore. Augusto iniziò a lavorare come arrangiatore per Mina, poi collaborò con altri artisti. Negli Anni ’70 compose la colonna sonora del film Il dio serpente (il brano Djamballà, che ebbe un successo internazionale). È morto a 74 anni.
agenda A cura di Irene Merli
MOSTRA
NOVARA
All’origine del “tutto” Arte e scienza Il sismografo Palmieri (del 1856), il primo a corrente elettrica.
RESTAURI
MONZA
La regina da vicino Dopo 5 anni di lavori gli affreschi della Cappella di Teodolinda, nel Duomo, si potranno eccezionalmente vedere dai ponteggi. dal 15/1/2015 a Pasqua. Info e prenotazione: 039 326383; www.museoduomomonza.it
ANNIVERSARI
WATERLOO
Napoleone kaput! Un viaggio sui luoghi della disfatta due secoli dopo, con la possibilità di assistere anche alla rievocazione della battaglia.
C
onoscenza e curiosità si possono sposare a contemplazione e a meraviglia. Non accade spesso, ma quando capita il risultato è interessante. La mostra In principio. Dalla nascita dell’universo al principio dell’arte va proprio in questa direzione. E nella cornice del complesso monumentale del Broletto, a Novara, offre ai visitatori un percorso alla scoperta del Big Bang e delle idee sull’origine del “tutto”. Nel percorso si affiancano, per esempio, i disegni originali di Galileo Galilei, la prima edizione del suo Sidereus nuncius e la rappresentazione pittorica del mito
di Atlante; il trattato Philosophiae naturalis principia mathematica di Isaac Newton e il mito di Medusa. E poi rari meteoriti, peli di mammut, i primi manufatti dell’umanità, accanto opere di artisti
Atlante, del Guercino (1645-46).
di ieri (Guercino e Kircher, con il Mundus Subterraneus e la Torre di Babele) e di oggi (Fontana, Burri, Paolini, Boetti, Paladino, Kapoor, Ruff). Scienza-tour. L’esposizione si sviluppa attraverso sette ambienti tematici: Big Bang (astronomia e astrofisica); Terra e dintorni (geologia); Comincia la vita (biologia); La sfida di Prometeo (antropologia); Il buio oltre la siepe (neuroscienze); Bla bla bla (linguistica); Perché non parli? (estetica). Sette scienziati italiani hanno collaborato al progetto e accompagnano virtualmente i visitatori alla scoperta di ogni sezione. •
Fino al 6/4/2015. Broletto, Novara. Info e prenotazioni: 199 151115, www.mostrainprincipio.it
10-17/6/2015 (prenotazioni entro gennaio). www.rusconiviaggi.com
TRADIZIONI
NAPOLI
Mercato di Natale
San Gregorio Armeno è la via degli artigiani dei presepi, in piazza Gaetano ci sono i presepi viventi, al Gesù Nuovo si trovano quelli realizzati nei gusci delle noci.
Fino all’Epifania. Tutti i giorni dalle 10 alle 21
RIEVOCAZIONI
ALPE DI SIUSI
Nozze d’altura La rievocazione storica del matrimonio contadino, con il tradizionale corteo in slitta e carrozze da San Valentino a Castelrotto (Bz), e banchetto finale. 11/1/2015. Ufficio informazioni Castelrotto: 0471 706333 9
microstoria A cura di Aldo Carioli, Marta Erba, Giuliana Rotondi, Daniele Venturoli
PAROLE DIMENTICATE
B A D A L U C C O
DEA/GETTY IMAGES
Probabilmente derivato da badare e alloccare (tendere insidie), può indicare un piccolo scontro, una scaramuccia per tenere a bada il nemico o un passatempo.
La SFINGE più celebre è l’enorme scultura in pietra (alta 57 metri) a Giza, in Egitto, che forse rappresenta il faraone Chefren (2600 a.C.): suo sarebbe il volto, mentre il corpo di leone ne simboleggiava l’invincibilità (una rappresentazione comune nelle raffigurazioni di faraoni). Femmina. Per i Greci la Sfinge era invece una figura mostruosa con testa femminile, corpo di leone e generalmente alata (sopra, la Sfinge dei Nassi a Delfi): era il demone della morte che si appostava sul ciglio della strada, poneva un enigma ai passanti e divorava chi non sapeva rispondere. Secondo Diodoro Siculo, a sconfiggere la Sfinge fu Edipo, che al suo indovinello: “Chi è contemporaneamente bipede, tripede e quadrupede?” rispose correttamente: l’uomo, che gattona quando è piccolo, mentre cammina con il bastone da anziano. 10
FOTOTECA STORICA GILARDI
IL MITO
LA VIGNETTA
VISTI DA NAPOLI “Mentre Garibaldi le mena all’austriaco, Napoleone III porta via all’Italia Nizza e la Savoia”. Così recita la didascalia di questa illustrazione di Melchiorre de Filippis, datata 1860 e pubblicata in un Album di caricature edito a Napoli nel 1860. Il riferimento è al Trattato di Torino del 24 marzo di quell’anno, nel quale fu sancita l’annessione alla Francia dei due territori, in precedenza appartenenti al Regno di Sardegna. A confermare l’annessione fu un plebiscito con maggioranze bulgare a favore del passaggio alla Francia (in entrambe le regioni i sì vinsero con circa il 99%). Infedeltà. Nizza e la Savoia sono rappresentati come “figli illegittimi”, con le facce di Vittorio Ema-
nuele II e di Cavour, portati via da Napoleone III, che aveva appoggiato i piemontesi nelle Guerre d’indipendenza. L’allegoria dell’Italia (la ragazza in tricolore) allude alla “facilità di costumi” del nascente regno unitario. E Napoleone III le canta infatti una romanza dall’opera di Giuseppe Verdi, Rigoletto: “Bella figlia dell’amore, schiavo son de’ vezzi tuoi”. La vignetta fu realizzata naturalmente con l’intento di denigrare l’operato dei Savoia e di Garibaldi: in quello stesso anno 1860 il Regno delle Due Sicilie, di cui Napoli era la capitale e dove l’album fu pubblicato, fu invaso dai volontari di Garibaldi, che sbarcarono in Sicilia l’11 maggio.
ALINARI
IL NUMERO
300
MILA
Il valore (in fiorini) di una dote principesca nel Trecento, pari a una tonnellata d’oro a 24 carati.
TOP TEN
CHI L’HA DETTO? “Datevi all’ippica!”
GLI EPITETI MENO REGALI
Lo disse il gerarca fascista Achille Starace (sopra, una delle iniziative ginniche che promosse). Nel 1931, giunto in ritardo a un convegno di medicina, si giustificò sostenendo che non avrebbe mai rinunciato alla sua cavalcata quotidiana. Poiché i presenti protestarono, si rivolse loro esortandoli a una vita meno intellettuale e più “fascista”: “Fate ginnastica e non medicina. Abbandonate i libri e datevi all’ippica”. Oggi il consiglio ha un significato offensivo.
Ha l’aspetto di un vaso ed è in vetro soffiato. È alto 14 centimetri e largo 12. Su un lato del contenitore si trova un manico, appiattito e zigrinato. Di che cosa si tratta? Aspettiamo le vostre risposte, indicando anche la località, a: Focus Storia, via Battistotti Sassi, 11/a - 20133 Milano oppure a
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D.VITTIMBERGA
L’OGGETTO MISTERIOSO
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È stato Donato Codella di Cermenate (Como) il lettore più rapido nell’indovinare l’oggetto misterioso del numero scorso. Si tratta di un attrezzo da camino, con molla di ferro, usato per aggiungere carbone al fuoco o togliere dalla brace castagne o patate.
VOCABOLARIO: OMAGGIO Indicava nel Medioevo l’atto di sottomissione con cui un signore feudale riconosceva la superiorità di un altro nobile. Il termine deriva dal latino homo (“uomo”, ma anche nel senso di servo) e agere (“condurre”): con l’atto di omaggio, infatti, ci si dichiarava uomo fedele, pronti a farsi condurre dal proprio signore. Nella foto, un omaggio di papa Francesco a Barack Obama.
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Carlo il Malvagio (1332-87) Carlo II di Navarra, pretendente al trono di Francia, si alleò prima con gli inglesi, poi con i re di Aragona e di Castiglia.
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Pietro il Crudele (1334-69) Pietro I re di Castiglia e di León combatté a lungo contro la nobiltà. Era detto “il Giustiziere” dai suoi sostenitori.
3
Luigi il Fannullone (967-987) Luigi V di Francia era noto anche come “l’Ignavo” o “l’Indolente”: non realizzò nulla durante il suo breve e contestato regno.
4
Etelredo l’Esitante (968-1016) Etelredo II d’Inghilterra si rivelò incapace di respingere l’invasione danese, e venne perciò soprannominato “the Unready”.
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Luigi l’Attaccabrighe (1289-1316) Luigi X di Francia, durante il suo breve regno, fece eliminare i consiglieri dell’illustre padre, Filippo il Bello.
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Ferdinando l’Incostante (1345-83) Ferdinando I del Portogallo, dopo aver trattato per sposare la figlia del re di Castiglia, si unì in matrimonio a un’altra donna.
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Carlo il Folle (1368-1422) Carlo VI di Francia, che salì al trono a 12 anni come “il Beneamato”, tra i 20 e i 30 anni cominciò a soffrire di psicosi.
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Carlo il Semplice (879-929) Carlo III re dei Franchi fece troppe concessioni ai Normanni, tanto da dare sua figlia in moglie al loro capo Rollone.
9
Luigi il Grosso (1081-1137) Re di Francia obeso come suo padre, Filippo I, a quarantasei anni non riusciva neanche a montare a cavallo. Ivan il Terribile (1530-84) In realtà la traduzione letterale del soprannome di Ivan IV di Russia sarebbe “il Minaccioso”: così lo chiamavano i boiardi.
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V. SIRIANNI
Hegel: la testa in fiamme
I
l mito del filosofo un po’ svampito che, mentre pensa alle sorti dell’umanità, inciampa in ostacoli e mette i piedi nelle pozzanghere – come si dice fosse accaduto al greco Pitagora nel VI secolo a.C. – è duro a morire. Complici di queste dicerie sono spesso le mogli dei grandi pensatori che si dipingono come il “braccio” di uomini considerati le “menti”. Anche il padre dell’idealismo tedesco, Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) non è sfuggito al cliché. Un aneddoto servirebbe infatti a dimostrare che quando si dedicava alle sue elucubrazioni filosofiche non voleva essere disturbato da nessuno, per nessuna ragione. Ma proprio nessuna. Al fuoco! Un giorno la sua casa prese fuoco, e un servo corse nel suo studiolo urlandogli che l’edificio era avvolto da fumo e fiamme. Lui, imperturbabile, lo avrebbe guardato trasognato, dicendo: “Vai a dirlo a mia moglie! Sai bene che degli affari di casa io non mi occupo mai!”. E rimanendosene seduto al suo tavolo tornò ai suoi studi e alle proprie meditazioni. Non sappiamo come andò a finire. Di certo il filosofo quella volta portò a casa la pelle: morì infatti anni dopo, durante un’epidemia di colera (come risulta dagli atti) o per un disturbo gastrico (come sostenne la moglie).
Basta saper chiedere
L’imperturbabile Livia
L
M
a classe, al seduttore più discusso della Storia, non mancava. E non solo nell’irretire le donne, ma anche nel chiedere aiuto. Si racconta che Giacomo Casanova (1725-1798), a Varsavia (Polonia) per un ricevimento alla corte del re Stanislao Augusto I, abbia portato la conversazione sui classici della letteratura. Discorrendo di Orazio, il re domandò all’ospite quale dei versi del poeta preferisse.
A buon intenditor... A quel punto Casanova, che si trovava a corto di soldi e aveva parecchi creditori alle calcagna, declamò i versi che dicevano: “Coloro che dinanzi al re non parlano mai della loro povertà otterranno di più di coloro che chiedono”. Il re capì l’antifona e il giorno dopo fece avere all’avventuriero veneziano un rotolo di 200 ducati, con i quali Casanova pagò i propri debiti.
adre della patria (Mater Patriae). Così veniva definita Livia, moglie di Augusto, dagli storiografi del tempo. Basterebbe questo per far capire come, alla donna più in vista dell’impero, tutto sarebbe stato concesso fuorché lasciarsi andare ad atteggiamenti lascivi o sbarazzini. Complice un’indole austera e riservata, impersonò così per tutta la vita i valori della nuova Roma imperiale.
Propaganda. Gli storici di regime fecero il resto, tramandando aneddoti che enfatizzavano il suo rigore. Si dice che, passeggiando lungo il Tevere, si imbatté in un gruppo di uomini che si apprestavano a fare un bagno, completamente nudi. Il senato, saputolo, era pronto a condannarli a morte. Ma lei volle intercedere per loro: “Gli uomini nudi, per una donna onesta, non sono altro che delle statue”. 13
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scienza & scienziati
Maria Merian, l’artista degli insetti
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lcuni scienziati hanno saputo coniugare ricerca scientifica e arte in maniera sorprendente. È il caso dell’entomologa e pittrice tedesca Maria Sibylla Merian (1647-1717), autrice di alcune delle più belle illustrazioni naturalistiche di tutti i tempi. Figlia dell’incisore Matthäus Merian il Vecchio, iniziò a dipingere giovanissima sotto la guida del patrigno, Jacob Marrel, esponente della pittura fiamminga di nature morte. Cresciuta in una famiglia di artisti, Merian si appassionò alla storia naturale, facendo del disegno lo strumento per studiare la natura.
Bruchi, che passione! Negli anni in cui si stava affermando l’uso del microscopio, la sua attenzione era tutta per piccole creature come gli insetti. Ad affascinarla era il misterioso fenomeno della metamorfosi da bruco a farfalla. Le prime osservazioni sul campo le fece nella sua città natale, Francoforte, con i bachi da seta, che allevava in scatole e monitorava nel suo laboratorio. Il frutto del suo paziente lavoro confluì nel 1679 in un’opera monumentale, il cosiddetto “Libro dei bruchi”: 50 tavole che immortalavano la metamorfosi delle farfalle insieme alle piante di cui si cibavano.
Anticonvenzionale. La viLa sua passione per gli insetti non era comune in quegli ta di Merian fu poco convenanni, soprattutto per una don- zionale. A 18 anni si sposò con na. Se le piante erano conside- un pittore conosciuto nello sturate un rispettabile passatempo dio del patrigno. A 45 divorper signore, gli insetti (“bestie ziò, trasferendosi con le due figlie in Olanda, in diaboliche” per un castello abitala superstizione A 52 anni partì to da una comupopolare) erano per il Suriname nità religiosa proguardati con sotestante della setspetto. La teoria alla ricerca di ta dei labadisti. della generazione insetti tropicali Dopo sei anni si spontanea allora in voga spiegava la loro origine trasferì ad Amsterdam, vivace da materia organica in putrefa- centro di scambi, dove transizione. Soltanto nel 1668 il na- tavano piante e animali di ogni turalista italiano Francesco Re- angolo del mondo. L’atmosfedi era riuscito a confutare que- ra della città la spinse a tensta tesi, che si tramandava dai tare un’impresa all’apparenza impossibile: partire per il Sutempi di Aristotele. riname, una colonia olandese dell’America Meridionale, per osservare con i suoi occhi gli insetti e le loro metamorfosi. Fu così che nel giugno 1699, a 52 anni, con la guida di indios e schiavi africani, Merian esplorò le impenetrabili foreste del Paese tropicale: raccolse insetti e rettili, descrisse e disegnò piante, fiori e frutti, molti ancora sconosciuti in Europa, annotò le loro proprietà e il loro uso da parte degli indigeni. La vita nella giungla mise a dura prova la salute di Merian, che dopo due anni fu costretta a tornare in Olanda. La pittrice pubblicò le sue ricerche nel SCALA 1705, nel libro MetamorphoLa grazia sis insectorum surinamensium. dei bruchi Stimata anche dal grande Linneo, che mezzo secolo dopo La naturalista citò più volte il suo lavoro, Metedesca Maria rian ispirò generazioni di natuSybilla Merian. ralisti, affascinati dagli insetSopra, uno dei ti e dalle piante da lei così madisegni fatti durante il viaggio gistralmente dipinti. • in Suriname.
Elena Canadelli 15
VETRO SPECCHIO
TECNOLOGIA
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Il allo
Q
uando la Galleria degli Specchi di Versailles fu presentata al pubblico, nel 1682, grida di ammirazione si levarono tra gli invitati. Cronisti e scrittori di panegirici trovarono a stento le parole per celebrare 16
quel tripudio di luci che incantava e seduceva. La gloria dell’arte vetraria – riflesso, è il caso di dire, di quella della monarchia francese – era al suo apogeo. Prima di entrare nei palazzi reali, però, il vetro aveva conosciuto per secoli una vita umile, nel-
le case della gente comune, come composto grezzo. Si otteneva, fin dall’antichità, scaldando l’argilla, ricca di ossido di silicio. Con questa e con il fuoco si poteva ottenere una pasta modellabile con la quale i Fenici producevano coppe, monili e de-
È entrato nelle case, negli studi di architettura e nei laboratori, contribuendo alla rivoluzione scientifica. Trasformando una città come Venezia in una “Silicon Valley”
corazioni. In pochi secoli fu un susseguirsi di innovazioni, fino all’ingresso ufficiale del vetro nei laboratori arabi, nel Medioevo. A questo punto però non per produrre gioielli o vasellame. Ma per diventare il motore della rivoluzione scientifica. Senza
il vetro, la nostra civiltà non sarebbe infatti stata la stessa. Bene domestico. Lo scrittore britannico Samuel Johnson già nel nel 1750 si pose il problema: “Colui che per primo vide sabbia e ceneri fondersi per una casuale in-
Splendore rococò La Galleria degli specchi di Versailles inaugurata nel 1682: la lavorazione dello specchio affiancò quella del vetro a partire dal XIV secolo. I migliori maestri vetrai già allora venivano da Venezia. 17
RICOTTURA Il piano alto del forno era destinato a una seconda cottura, a temperature più basse.
PRIMA COTTURA Il ripiano più basso del forno era riservato alla prima cottura, cui seguiva la soffiatura.
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FUOCO Mantenere attiva una fornace implicava il disboscamento di vaste aree.
SOFFIATURA Un vetraio lavora con una canna da soffio: la pratica già conosciuta dagli Egizi, si diffuse soprattutto dal I secolo a.C.
CRON OLOGI A
Un’arte millenaria 18
III millennio a.C. Prime lavorazioni del vetro in Mesopotamia e tra i Fenici.
II millennio a.C. Prime testimonianze dell’arte vetraria in Cina e in Egitto.
I secolo a.C. I Romani introducono la soffiatura a stampo per produrre oggetti.
V secolo d.C. La lavorazione del vetro è ormai diffusa in tutta Europa.
Antiche soffiature
In una vetreria del Quattrocento lavoravano in media una trentina di operai tensità di calore in una formula metallina, irta di escrescenze e venata di impurità, avrebbe mai immaginato che quella massa informe richiudeva in sé tante cose utili per la vita e che, col tempo, sarebbe giunta a costituire una parte rilevante della felicità del mondo?”. Probabilmente no. Almeno stando alle prime testimonianze, che ci vengono dalla Fenicia, dalla Mesopotamia e dalla cultura egizia, dove il vetro veniva usato principalmente per produrre tazze, vasellame e suppellettili. O considerando i reperti romani e cinesi, che raffinarono tecniche di produzione avviate nel I secolo a.C. in Siria e in Iraq. Seppur con qualche innovazione: la principale fu la soffiatura a stampo (utilizzando apposite forme) che dava vita a oggetti di vetro trasparente decorabili con smalti e vernici. I ricchi patrizi ne andavano matti. Esibivano nelle case vasi e piatti dai co-
Rilievi dipinti egizi del II millennio a.C., che mostrano artigiani del vetro nell’atto della soffiatura. Sotto, due vasi veneziani in vetro di inizio Novecento.
lori sgargianti. E non disdegnavano pavimenti e pareti con mosaici di vetro. Anticipando un’arte che esplose dopo l’Anno Mille (v. riquadro nelle pagine successive). Vetri e vetrini. Fosse stato per i Romani, oggi avremmo coppe in vetro e splendidi vasi, ma vivremmo ancora convinti che sia il Sole a ruotare intorno alla Terra. Se non è così e se siamo potuti addirittura arrivare sulla Luna è merito anche dei
pensatori arabi. Furono loro nell’Alto Medioevo – mentre Carlo Magno faceva rivivere la romanità con il Sacro romano impero – a recuperare gli studi dei classici, sperimentando anche le potenzialità del vetro. Produssero, per esempio, bolle in vetro trasparente e le riempirono d’acqua, ragionando sugli effetti che queste avevano nel campo visivo. Questi studi arrivarono in Europa soltanto nel XIII secolo.
I SEGRETI DEI COLORI La colorazione naturale verde-bluastra, verde chiara e giallo-verdastra degli antichi manufatti era dovuta agli ossidi di ferro e a impurità presenti nella miscela. Ma con altri “ingredienti” si ottengono quasi tutte le colorazioni. AZZURRO, VERDE, ROSSO OPACO Con il rame si ottiene un vetro azzurro, verde o rosso opaco.
ROSSO Selenio in grandi quantità dà il rosso.
TURCHESE Aggiunte del 2 o 3% di ossido di rame producono un colore turchese.
BLU Piccole concentrazioni di cobalto danno il blu. TRASPARENTE Per ottenere il vetro trasparente si aggiunge manganese o antimonio, che neutralizza l’effetto dovuto alle impurità del ferro.
GIALLO-MARRONE L’aggiunta di titanio dà un vetro giallo-marrone.
IX-XIII secolo Scienziati arabi conducono i primi esperimenti di ottica usando il vetro.
AMETISTA Il manganese, se abbondante, dà la tinta violacea.
XII secolo Si diffondono le vetrate nell’architettura gotica (e le finestre).
XIII secolo A Venezia viene inventato il cristallo; si realizzano le prime lenti.
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BIANCO OPACO Ossido di stagno con ossidi di arsenico e antimonio danno il vetro bianco (simile alla porcellana).
XVI-XVII sec. Grazie alle lenti e a studi di ottica nascono microscopi e telescopi.
1700 In Inghilterra si costruiscono forni a carbone per la produzione industriale. 19
I MAESTRI DELLE VETRATE
Lo stile vetrario veneziano del ’400 fu molto influenzato da quello arabo e siriano
Le vetrate colorate delle cattedrali medioevali suscitano ancora oggi meraviglia. Realizzarle, quasi mille anni fa, non era facile.
Pensiero scientifico. I padri europei della svolta “scientifica” si chiamavano Roberto Grossatesta (1175-1253) e Ruggero Bacone (1214-1294). Il primo era un vescovo e per primo condusse esperimenti sulla luce. Il secondo era il filosofo che parlò esplicitamente di metodo empirico (teoria secondo cui la conoscenza deriva dall’esperienza, non da intuizioni o atti di fede, ndr), applicandolo ai suoi studi di ottica. Entrambi osservarono che le bolle di vetro riempite di acqua permettevano di ingrandire le immagini, seppure invertite. Le si poteva quindi utilizzare per studiare la rifrazione della luce a partire da superfici curve. Non solo: il vetro, o meglio il cristallo, permise di inventare i primi occhiali da vista, per la gioia di amanuensi e studiosi. Per inciso: una volta lucidato, se veniva unito a fogli di stagno e mercurio, diventava uno specchio, venduto come prodotto di lusso. Il vetro smetteva così di essere solo un complemento d’arredo, entrando nei laboratori sotto forma di ampolle, misurini e alambicchi. Permettendo a maghi e ciarlatani di promuovere le loro pozioni, ma anche agli scienziati di condurre esperimenti. Quelli che porteranno nel ’600 a invenzioni epocali, dal telescopio al microscopio.
IL VETRO I grandi laboratori (spesso affidati a monaci) producevano il vetro in proprio, colorato con additivi. Ogni tinta richiedeva la fusione di una lastra diversa.
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Testa fenicia in vetro massiccio cioè non soffiato.
LE LASTRE Estratto a 1.300 °C dal forno, il vetro fuso veniva lavorato su un piano in marmo per farlo raffreddare nella forma voluta. Le lastre si ottenevano “striando” i cilindri di materiale fuso.
IL DISEGNO Tutto partiva da un disegno creato dal maestro vetraio stesso e in seguito affidato a pittori. Il progetto era disegnato su una tavola di legno, sulla quale si poggiava poi la lastra da tagliare.
ABRIL IMAGEM
IL TELAIO Mentre si realizzavano le lastre di vetro, si fondeva il metallo per il telaio da modellare secondo il disegno. Il filo di piombo che fissava le tessere era spesso da 3 a 20 mm, secondo le dimensioni.
IL MONTAGGIO I pezzi venivano ritagliati dalle lastre con un diamante seguendo il disegno e poi montati con filo di piombo sul telaio in ferro. Dettagli come il volto venivano dipinti a mano e fissati tramite cottura.
IL TRASPORTO Una volta finite, le vetrate venivano trasportate fino alla cattedrale su carri. Unite, le diverse sezioni formavano composizioni alte decine di metri, che decoravano facciate e absidi.
Le parole dei vetrai CRISTALLO Vetro trasparente ottenuto con materie prime depurate e decolorato con biossido di manganese. Ogni centro aveva la sua tecnica: quello muranese era diverso da quello di Boemia e da quello inglese.
SOFFIATURA Conosciuta già dagli antichi Egizi, si diffuse nella seconda metà del I secolo a.C. nella regione siro-palestinese e fu sfruttata dall’industria romana. Può essere a mano libera o soffiando il vetro in uno stampo.
CANNA DA SOFFIO Tubo in ferro con una delle due estremità di forma conica, forato nel senso della lunghezza. Si usa per il prelievo del vetro dal crogiolo, la soffiatura e la formatura dell’oggetto, a mano libera o a stampo.
MURRINA Tecnica di lavorazione veneziana: si ottiene per accostamento a freddo di parti diverse in vetro fino a ottenere il disegno voluto. L’insieme viene collocato in un forno dove avviene il rammollimento e l’adesione.
FRITTA Composto in cui vetrificante e fondente sono mescolati insieme e impastati con acqua per essere poi messi in un forno “a riverbero” a bassa temperatura (700-750 °C), dove iniziano le prime reazioni chimiche. 21
I nonni dei Ray-Ban Moderni occhiali da sole appartenuti al doge veneziano Alvise IV Mocenigo (1701-1778).
Mestiere duro. Da morire
I
BIBLIOTECA NAZIONALE MARCIANA VENEZIA
l lavoro nelle vetrerie era estremamente usurante, soprattutto per la manovalanza: un medico nel XVII secolo descrisse questi operai seminudi vicino a forni incandescenti, con lo sguardo fisso sulla fiamma, condannati a danni alla vista e a una sete insaziabile, spesso lenita con il vino, e ad affezioni polmonari per i continui sbalzi di temperatura. Effetti collaterali. Malattie ancor più gravi affliggevano chi lavorava i vetri colorati per realizzare monili. Occorrevano in tal caso miscele di agenti chimici che producevano esalazioni nocive responsabili di complicanze polmonari estremamente gravi, che potevano portare alla morte.
Oltre a Venezia, in Italia c’erano altri importanti centri vetrari. Da Altare in Liguria, a San Gimignano in Toscana, fino alla Milano degli Sforza Intrighi veneziani. Baricentro di tutta la produzione vetraria, dal Medioevo in poi, divenne la Serenissima, che garantiva forniture pregiate a tutte le corti. La laguna diventò una Silicon Valley: il luogo dove si applicavano le tecnologie più avanzate, lavoravano gli artigiani più capaci e circolavano le idee più innovative. Lo sapevano bene i dogi, che nel 1291 decisero di relegare le vetrerie a Murano, con la scusa di evitare il rischio di incendi in città. «Venezia creò intorno ai propri operai un cuscinetto protettivo, costituito da consistenti privilegi – diritto di cittadinanza, esenzione dalle imposte, autorizzazione al
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Due microscopi del XVII secolo: la molatura delle lenti, diffusa dal Trecento, favorì la nascita di questi strumenti e del telescopio.
matrimonio con fanciulle di stirpe nobiliare – e da alcune precise minacce preventive», scrive Sabine Melchior-Bonnet nella sua Storia dello specchio. «Murano è al riparo da sguardi indiscreti e gli operai non possono emigrare o comunicare con Pae-
si stranieri. Se vengono scoperti durante la fuga, o sospettati di voler fuggire, il “terribile tribunale” li accusa di attentato alla sicurezza dello Stato e li perseguita in quanto “traditori della patria”». Chi ci provò ci rimise la pelle. La spystory più nota è forse quella che coinvolse due vetrai veneziani che nel 1667 decisero di farsi assoldare dall’industria francese. Finirono entrambi al Creatore e l’inchiesta dimostrò che dietro c’era la mano della Serenissima. Nuovi centri di produzione però stavano emergendo, soprattutto all’estero. Principale rivale di Venezia, oltre a Parigi, era la Boemia degli Asburgo che produceva cristalli raffinatissimi. Evoluzione costante. La rivoluzione innescata dal vetro, dallo specchio e dal cristallo non si fermò più. La Galleria degli specchi di Versailles, al momento della sua inaugurazione, era illuminata dalla luce di 3mila APERNE candele. Due seDI PIÙ coli dopo quelle candele sarebbero state sostistoria dello tuite, grazie al La specchio, Sabine vetro, da 3mi- Melchior-Bonnet la lampadine. La (Dedalo edizioni). tecnologia, già Una storia invisibile, allora, correva Alan Macfarlane e Gerry Martin molto veloce. • (Laterza).
S+
Giuliana Rotondi
MEDIOEVO
La rocca degli agguati Veduta notturna del Castello di Radicofani, da cui Ghino di Tacco (a destra, la sua statua nel paese) partiva per derubare i viandanti che passavano sulla Via Francigena.
CRONOLOGIA 1085-1123 REALYEASYSTAR (2)
Nelle città dell’Italia Centro-settentrionale si afferma il sistema di governo comunale.
24
1250
Intorno alla seconda metà del Duecento nel castello di La Fratta (Siena) nasce Ghino.
1249-50
Luigi IX di Francia guida la Settima crociata contro i califfi dell’Egitto.
1260
Battaglia di Montaperti (vittoria ghibellina).
1265
A Firenze nasce il poeta Dante Alighieri.
1266
Battaglia di Benevento (definitiva vittoria guelfa).
1270
Ottava crociata, sempre di re Luigi IX.
Chi lo ha sentito nominare lo conosce per lo pseudonimo usato negli Anni ’80 da Bettino Craxi. Ma per gli storici, Ghino di Tacco fu un ghibellino-bandito del Duecento
Il
Falco
della Val d’Orcia “Ghino” Craxi Il libro del disegnatore satirico Forattini, con le vignette sul leader socialista raffigurato come il brigante medioevale.
1286
Il padre di Ghino, il ghibellino Tacco, è giustiziato.
1290
Ghino, sfuggito alla morte, va in esilio a Radicofani (Si).
1294
Viene eletto papa Bonifacio VIII. Ghino prosegue la sua attività.
1301
Cacciata dei guelfi di parte “bianca” da Firenze (tra gli esuli c’è Dante).
1320
Secondo alcune fonti, in quest’anno Ghino muore.
U
na rocca inespugnabile, Radicofani. Su una via di pellegrinaggio strategica, la Francigena. E un nobile ribelle diventato bandito: Ghino di Tacco. Sono gli ingredienti di un avventuroso romanzo, ma il protagonista di questa storia fu tutt’altro che un mito, benché di certo lo divenne. «Tra Valdichiana e Maremma la figura di Ghino di Tacco è ancor oggi l’oggetto di una specie di culto folklorico», sottolinea Franco Cardini, professore emerito all’Istituto Italiano di Scienze Storiche di Firenze. «Il suo nome assurse di nuovo a fama nazionale quando negli anni Ottanta venne preso a prestito come pseudonimo da un politico allora molto famoso». La firma di Bettino. Fu Bettino Craxi, segretario del Partito socialista italiano, a usare il nome del nobile ribelle nel 1985, quando l’allora direttore di Repubblica, Eugenio Scalfari, alludendo ai voti del Psi e al ruolo di ago della bilancia svolto dal partito nella maggioranza parlamentare, aveva dichiarato: “Da lì, come da Radicofani, si deve passare per forza”. Essere paragonato al bandito della rocca lasciò inizialmente un po’ perplesso Craxi. Ma dopo aver scoperto che Ghino era un ribelle ghibellino, perseguitato politico avverso al potere papale, Bettino ne assunse orgogliosamente il nome. Il nome per la verità non era facile da portare: Ghino era un tipo senza scrupoli. Anche se, quando lui era ancora in vita e poco dopo la morte, illustri testimonianze letterarie (Dante e
Boccaccio in primis) lo elevarono al ruolo di brigante gentiluomo, una sorta di Robin Hood italiano. Ma nessun documento storico lo conferma. Una vita alla macchia. «Ghino di Tacco apparteneva alla famiglia dei Cacciaconti, signori di una contea della Valdichiana senese. Era un rappresentante dell’aristocrazia senese del Duecento, molto violento: Dante lo ricorda come assassino di un giudice, che però gli aveva fatto un torto. Esiliato da Siena, tolse al dominio papale la rocca di Radicofani e per alcuni anni la tenne in suo potere, controllando da lì i pellegrini, i mercanti e i viandanti lungo la Francigena, da e per Roma», osserva Cardini. La famiglia di Ghino era da anni in difficoltà. Già all’inizio del secolo aveva perso il proprio feudo a causa dell’espansione del comune di Siena, riuscendo però a conservare qualche diritto e una certa indipendenza. Almeno finché nel comune non prevalse la fazione guelfa (favorevole al papato), avversaria dei ghibellini (filoimperiali), tra i quali i Cacciaconti. A loro volta, questi mal tolleravano l’imposta terriera dovuta alla Chiesa. Come altri nobili della zona iniziarono a compiere razzie e azioni di disturbo contro il comune, che certo non stava a guardare. In questo contesto diventare fuorilegge non era difficile. Così toccò anche al padre di Ghino, Tacco, e allo zio (Ghino di Ugolino). Nelle loro scor-
Fu violento fin da ragazzino. Figlio d’arte, con il padre Tacco, lo zio e il fratello aveva formato la “banda dei quattro”. Le loro specialità? Le imboscate a mercanti e viandanti
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REALYEASYSTAR
TESTATINA
Il volto del bandito? Particolare dell’architrave del Castello di Radicofani, in cui si dice sia scolpito il viso di Ghino. Sotto, la rocca su cui sorge il maniero, a 900 metri di altitudine. Da qui si dominava tutta la valle sottostante.
SCALA
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ribande si portavano dietro il brigante in erba (nato nella seconda metà del XIII secolo) e il suo fratello minore, Turino. Era nata la famigerata “banda dei quattro”. Da buon figlio d’arte, già nel 1288 il giovane Ghino era ricercato dal comune di Siena perché “fecit insultum in stratam publicam”, ovvero per un’imboscata. Ben presto si guadagnò il titolo di “rebelle et inimico manifesto communis et populi senensis”. Scampato. Nel 1279 la banda aveva occupato e dato alle fiamme un castello a Sinalunga, ferendo gravemente un notabile guelfo senese, Jacopino da Guardavalle. Era troppo anche per quei pochi che ancora stavano con i Cacciaconti. Braccati dai senesi, dopo 6 anni i quattro furono catturati. Ghino e il fratello furono risparmiati per la giovane età, ma padre e zio furono giustiziati in piazza del Campo per ordine del giudice aretino Benincasa da Laterina. Scampato alla mannaia, Ghino non cambiò. Quella del taglieggiatore era ormai la sua vita, e lui la proseguì. I suoi grandi nemici erano gli esponenti della nascente borghesia: un modo come un altro, il suo, per recuperare le rendite perdute. Nel 1290 fu lì lì per far costruire una fortezza nei pressi di Sinalunga. Poi pensò bene di impadronirsi di Radicofani, sempre nel Senese, ma al confine con lo Stato pontificio. Difficile scegliere una posizione più strategica: l’inespugnabile roccaforte dominava (e domina ancora oggi) la vallata sottostante. E, ciliegina sulla torta, la Via Francigena, battuta da prelati, pellegrini e mercanti diretti o provenienti da Roma.
Terra di Siena
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In alto, la Porta di Castel Morro, una delle contrade di Radicofani. Qui sopra, particolare di un affresco di Ambrogio Lorenzetti (12851348), in cui è ritratto il paesaggio senese.
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del contado senese per curare “l’adiposità”, cioè il peso eccessivo: tenendolo a una rigorosa dieta di pane arrostito e vino bianco (poco dell’uno e poco dell’altro), Ghino seppe guarirlo», dice Cardini. Cominciò anche a circolare la leggenda del “bandito-gentiluomo”: Ghino chiedeva alle sue vittime quanto denaro avessero, ne prelevava una buona parte e, dopo aver offerto loro un banchetto, li lasciava andare. Tutto vero? Cardini ha qualche dubbio: «non può essere considerato né un bandito di strada, né l’esponente di quello che Eric Hobsbawm definisce “banditismo sociale”, una categoria che ha come rappresentante tipico Robin Hood, personaggio più folklorico che storico, la cui fama si deve ai romanzi ottocenteschi di Walter Scott. Ghino fu un rappresentante dell’aristocrazia cittadina del secolo XIII, che come molti suoi colleghi non seppe adeguarsi alla nuova realtà, che vide nell’Italia duecentesca l’ascesa dei ceti popolani». Un uomo del passato, dunque. In fondo un romantico, che non accettava di veder morire il proprio mondo e sperava di restaurare l’ordine al quale era legato. •
Boccaccio lo rese famoso Cenotafio di Giovanni Boccaccio (1313-1375), ovvero il busto scolpito dopo la sua morte. Lo scrittore descrisse Ghino come bandito cortese. Sotto, una miniatura che illustra la battaglia di Montaperti, del 1260.
Giuliana Lomazzi
Un’Italia divisa (almeno) in due
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iù che sociali, le aspirazioni di Ghino erano politiche. Per capirle, bisogna considerare che nella Toscana del XIII secolo infuriava la lotta tra la guelfa (filopapale) Firenze e la ghibellina (filoim-
periale) Siena. La lotta culminò nella sanguinosa battaglia di Montaperti (1260), in cui Siena ebbe la meglio (“lo strazio e ‘l grande scempio / che fece l’Arbia (un fiume, ndr) colorata in rosso”, scrisse Dante
nel X canto dell’Inferno). La divisione tra sostenitori del papa e dell’imperatore nascondeva a sua volta interessi politici che avevano come posta in gioco il predominio di una delle due città sull’intera regione.
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Ormai Ghino era pronto per trasformarsi nel “Falco della Val d’Orcia”, come lo chiameranno i posteri. Ed era abbastanza forte per vendicare l’uccisione dei familiari. Al comando di 400 uomini partì per il tribunale pontificio, dove esercitava il giudice Benincasa. Ben presto la testa del magistrato, infilzata sulla picca di Ghino, fece bella mostra di sé sulle mura di Radicofani. Un uomo del passato. Fin qui i fatti noti. Come sia finita la vicenda, di preciso non si sa. Boccaccio, che narra di lui nel Decamerone, afferma che Ghino ricevette il perdono papale e non dovette più darsi alla macchia. Secondo Benvenuto da Imola, tra i primi commentatori della Divina Commedia, trovò la morte nel secondo ventennio del 1300 nei pressi di Sinalunga, mentre per alcuni storici finì la propria esistenza a Roma, forse nel 1340. Di sicuro la sua fama gli sopravvisse. La vita alla macchia, fuori dal contesto sociale, lontano dalla famiglia e dagli agi (ma con parecchi appoggi da parte di altri nobili e contadini), contribuì a creare la sua fama già in vita. Dante lo mette nel Purgatorio, tra guastatori e predoni, ricordando di lui solo “le fiere braccia”. Aspetto fisico e fierezza furono sottolineati anche da Benvenuto da Imola: “Non fu infame come alcuni scrivono [...] ma fu uomo mirabile, grande, vigoroso [...]”. Ma a renderlo davvero famoso, rivestendolo dell’aura di bandito gentiluomo fu probabilmente il Decamerone, scritto a metà del XIV secolo. «Boccaccio lo ricorda nella seconda novella della decima giornata con una certa simpatia. Avrebbe infatti tenuto prigioniero per un certo tempo l’abate di Cluny, che si recava ai bagni
SCALA
La fine di Ghino è avvolta dal mistero. Di certo si sa soltanto che morì vicino a Sinalunga, dopo il 1320
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MISTERI
Prostituta redenta, adultera, papessa, sposa di Gesù: di Maria di Magdala è stato detto di tutto. L’ultimo “scoop” viene dall’Inghilterra, dove due ricercatori hanno fornito una loro interpretazione di un antico manoscritto. Ricavandone dettagli, assai controversi, sulla presunta famiglia di Cristo.
LA MOGLIE di
GESÙ
(o no)
A cura di Aldo Bacci
LA NOTIZIA
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elle scorse settimane Barrie Wilson, studioso di religioni dell’Università di Toronto (Canada), e lo scrittore Simcha Jacobovici hanno presentato il libro The Lost Gospel (Il Vangelo perduto), in cui danno una nuova interpretazione di un antico manoscritto della
IL “VANGELO PERDUTO” British Library di Londra. Il testo confermerebbe che Gesù e la Maddalena si sposarono ed ebbero due figli. Rilettura. Quello che gli autori del libro chiamano “Vangelo perduto” è la Storia ecclesiastica di Zaccaria il Retore, codice siriaco del 570 d.C. noto da decenni. I
29 capitoli raccontano la storia del giovane Joseph che sposa Aseneth da cui genera Manasseh ed Ephraim. Per Wilson e Jacobovici si tratta di un racconto in codice: Joseph e Aseneth sarebbero Gesù e Maria di Magdala, la cui vicenda coniugale era allora considerata tabù.
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Prostituta e adultera
I Vangeli gnostici e il “bacio”
Il papiro della discordia
I
primi cristiani, cercando di scovare qualche dettaglio in più sulla Maddalena, incapparono in una catena di equivoci. La Maddalena, originaria di Migdal Nunaya (un villaggio di pescatori in Galilea), si chiamava Maria. Un’altra Maria, di Betania, secondo i Vangeli lavò i piedi a Gesù e lo unse con l’unguento. Lo stesso gesto, in un altro episodio evangelico, viene attribuito a una peccatrice pentita, forse una prostituta, che ben presto fu identificata con la Maddalena. Che infine fu confusa anche con l’adultera che Cristo salvò dalla lapidazione. Così, l’ex indemoniata si trasformò in prostituta, e come tale fu raffigurata per secoli nella storia dell’arte. Identificazioni. La sovrapposizione fu tramandata da papa Gregorio Magno (VI secolo) e dal fortunatissimo Legenda Aurea di Jacopo da Varazze (XIII secolo). Solo nel 1969 la Chiesa cattolica rimise in discussione l’uguaglianza Maddalena-prostituta. 30
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lla base dell’idea che Maria Maddalena fosse la sposa di Gesù c’è un fraintendimento dei Vangeli gnostici, testi del I-IV secolo ritrovati nel 1945 a Nag Hammadi, in Egitto. Essi risentono di una corrente filosoficoreligiosa che nei primi secoli attraversò il cristianesimo. In scritti come il Vangelo di Filippo, il Vangelo di Tommaso, il Vangelo di Maria (attribuito alla Maddalena) e Pistis Sophia, la Maddalena è la “compagna” di Gesù. E nel Vangelo di Filippo Gesù la bacia. Mistica. Lo gnosticismo, però, negava ogni carnalità, e questi testi, come ha chiarito lo storico del cristianesimo Mauro Pesce dell’Università di Bologna, fanno riferimento a figure simboliche: l’unione tra Gesù e la Maddalena non è un matrimonio, ma una relazione mistica tra manifestazioni del divino: Maria rappresenta la sapienza e la conoscenza. E il bacio è un gesto mistico-liturgico.
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rande scalpore ha destato nel 2012 la presentazione di un piccolo frammento di papiro che cita esplicitamente una “moglie di Gesù”. In quelle otto righe di testo si legge ‘’Gesù disse loro: ‘Mia moglie...’ e ‘Lei sarà in grado di essere mia discepola’ ”. Nel frammento compare il nome di Maria, facendo pensare a una prova di quanto ipotizzato da alcuni interpreti dei vangeli gnostici. Dubbi. L’autrice della scoperta, Karen King dell’Università di Harvard (Usa), ha sottolineato però che il testo non prova che Gesù fosse sposato, ma solo che già nell’antichità se ne discuteva. Benché le analisi abbiano datato all’VIII secolo (quando l’Egitto era già islamico) papiro e inchiostro utilizzati, gli studiosi sono convinti che il documento sia un falso storico (realizzato, come si fa in questi casi, con materiale antico). Un altro frammento che pare scritto dalla stessa mano lo è sicuramente.
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La verità “canonica”: poco più che un nome
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e più antiche fonti che parlano di Maria Maddalena sono i quattro Vangeli considerati “canonici”, del I-II secolo. Ma svelano meno di quanto si creda. Secondo Luca, Maria era una delle donne che “assistevano Gesù con i loro beni”, e si era unita a loro dopo essere stata liberata da sette demoni. Di certo era una figura importante: fu presente alla crocifissione di Gesù, alla sua sepoltura e fu la prima cui egli si manifestò dopo la resurrezione. Ma di più non si dice. Proprio questa vaghezza delle uniche fonti riconosciute dalla Chiesa ha lasciato spazio a fantasiose interpretazioni, che riprendono i vangeli apocrifi (antichi, ma non canonici).
Malfamata Statua lignea di inizio Cinquecento con una Maria Maddalena discinta. La tradizione artistica ha sempre rappresentato questa figura come una prostituta redenta, confondendola con altri personaggi evangelici.
IPOTESI 5
LESSING/CONTRASTO
Il Santo Graal? È lei, sotto mentite spoglie
Una tradizione medioevale racconta dell’arrivo in Provenza di Maria Maddalena. A partire da lì alcuni scrittori hanno costruito una teoria piuttosto fantasiosa, in base alla quale la Maddalena sarebbe da identificare come il Santo Graal, un termine che loro traducono “Sangue reale”. Questo perché la presunta sposa di Gesù avrebbe portato in grembo i suoi figli (il suo “sangue reale”). E da quei figli sarebbe nata la stirpe regale francese dei Merovingi. Questa ipotesi (assolutamente fantasiosa) deriva dai famigerati “Dossier Segreti del priorato di Sion” depositati da Pierre Plantard presso la Bibliothèque Nationale di Parigi negli Anni ’60 e rivelatisi dei falsi. La vicenda è poi stata sviluppata nel libro del 1982 Il Santo Graal, degli scrittori Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln, sulla base del quale Dan Brown ha costruito il suo Codice da Vinci nel 2003. 31
Thomas S Il Che africano NOVECENTO
Il primo presidente del Burkina Faso, verso la fine della Guerra fredda, denunciò il neocolonialismo per tentare il riscatto del suo Paese. Ma poi fu ucciso
E
ra una serata calda e umida a Ouagadougou, in Burkina Faso. Nell’ufficio presidenziale entrarono alcuni uomini armati. Il presidente disse all’uomo che gli puntava la pistola: “Blaise, ma tu sei il mio migliore amico, ti chiamavo fratello”. Una versione africana del più famoso “Anche tu Bruto, figlio mio?”. Un gesto di stizza, e partono due colpi, con la freddezza di un’esecuzione. Era il 15 ottobre 1987. Così, quella sera, si compiva il complotto internazionale che tolse di mezzo Thomas Sankara, giovane presidente africano che, nell’ultimo scorcio di Guerra fredda, sfidò Francia e Stati Uni-
A F R I C A BURKINA FASO
SIERRA LEONE
LIBERIA
COSTA D ’AV O R I O
Africa inquieta Il Burkina Faso (ex Alto Volta) e i suoi vicini “scomodi”: Blaise Compaoré, appoggiato dal liberiano Taylor e dagli Usa, guidò il colpo di Stato del 1987 contro Sankara (a destra). 32
ti su un tema caldissimo: il debito pubblico dei Paesi poveri. Complotto internazionale. L’“amico” Blaise, che di cognome faceva Compaoré, divenne il nuovo presidente del Burkina. Era quello stesso Compaoré che lo scorso novembre, dopo 27 anni, ha dovuto lasciare il potere dopo una sollevazione popolare, rifugiandosi in Costa d’Avorio. Nel 2008 il documentarista italiano Silvestro Montanaro ha raccolto con una videocamera nascosta testimoninanze sulla responsabilità di Compaoré e anche della Cia da alcuni degli uomini che liquidarono Sankara: l’attuale senatore liberiano Prince Johnson, il capo dell’ex partito unico liberiano Ciryl Allen e l’ex generale, anch’egli della Liberia, Momo Jiba. Il video, che si può vedere su YouTube (con il titolo E quel giorno uccisero la felicità) ha portato a una commissione d’inchiesta parlamentare in Francia e a un’indagine Onu. Johnson ha confermato a una commissione liberiana di avere avuto un ruolo nel complotto. Ma chi era Thomas Sankara? E perché si scomodarono in tanti per toglierlo di mezzo? Il Paese degli onesti. Avviato alla carriera militare, era diventato la guida di quello che allora si chiamava Alto Volta nel 1983, a 35 anni. Ex colonia francese, indipendente dal 1960, era un Paese di 8 milioni di abitanti, fra i più poveri del mondo, dove la vita media era di 40 anni e due bambini su 10 morivano prima dei cinque anni. Fu Sankara a ribattezzare la nazione Burkina Faso (il “Paese degli onesti”, nella lingua locale). Il nuovo presidente assicurò due pasti al giorno e 5 litri d’acqua a tutti; mandò medici e ostetriche nelle campagne; distribuì 3
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Sankara
Celebrato Manifestazioni per il ventesimo anniversario della morte di Sankara, nell’ottobre del 2007.
Nella recente rivolta è stato rovesciato Blaise Compaoré, presidente del Burkina Faso da 27 anni. Secondo le testimonianze, fu lui a uccidere Sankara 34
milioni di vaccini contro poliomielite e meningite; garantì ospedali e scuole pubbliche. Anticipando quello che oggi sostengono molti sociologi ed economisti, riteneva che lo sviluppo di una nazione non andasse valutato con il Pil. Meglio misurarlo in “gradi di felicità”. Semisconosciuto nel “primo mondo”, Sankara in Africa è considerato un martire, il Che Guevara nero. Era un soldato, ma sul ruolo dei militari aveva idee precise: “Quanti figli di lavoratori vedono i loro padri scioperare e solo per indossare la divisa accettano di combattere in favore di governi ingiusti? Senza una formazione e una preparazione politica, un soldato è un potenziale criminale”. Scelse uno stile sobrio molto prima del presidente dell’Uruguay Pepe Mujica e dello stesso papa Francesco. Preferì continuare a vivere nella casa di due locali di cui pagava il mutuo, spostarsi in bicicletta e ricevere uno stipendio di 120 dollari al mese, invece di attingere a piene mani alle casse dello Stato, come facevano molti altri leader africani. Con la sua “spending review” ordinò di vendere tutte le Mercedes di ministri e funzionari e le sostituì con più economiche Renault 5. Se dovevano prendere l’aereo, erano obbligati a
volare in classe turistica. Colpì la corruzione a tutti i livelli: gli incaricati della gestione pubblica dovevano giustificare le loro entrate. Fu anche tra i primi a sollevare la questione femminile in Africa, portando alcune donne alla carica di ministro e nelle forze armate. All’Onu. La sintesi del suo pensiero divenne pubblica il 4 ottobre 1984, in un discorso all’Assemblea dell’Onu che era un atto d’accusa all’Occidente: “Oggi vi porto i saluti fraterni di un Paese di 274 mila km quadrati i cui abitanti si rifiutano di morire d’ignoranza, fame e sete, non riuscendo più a vivere una vita degna di essere vissuta [...]. Parlo in nome delle madri africane che nei nostri Paesi impoveriti vedono i propri figli morire di malaria o di diarrea, senza sapere dei semplici mezzi che la scienza delle multinazionali non offre loro, preferendo investire nei laboratori cosmetici o nella chirurgia plastica a beneficio del capriccio di pochi uomini e donne il cui fascino è minacciato dagli eccessi di calorie nei loro pasti, così abbondanti e regolari da dare le vertigini a noi del Sahel”. Sankara denunciava, in questo e in altri discorsi, il fatto che dopo la fine del colonialismo il Nord del mondo stava cercando di riprender-
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Ecco i leader africani socialisti che sono riusciti a governare più a lungo.
Prima l’acqua Un pozzo nel Burkina Faso degli Anni ’80. Sankara fu tra i primi a comprendere la necessità per gli africani di essere autosufficienti.
MATHIEU KÉRÉKOU (1933-VIVENTE) Presidente del Benin dal 1972 al 1991 e dal 1996 al 2006. Nel novembre del 1974 adottò un “comunismo flessibile”, stringendo contatti con Cuba e l’Urss. Banche e industrie petrolifere furono nazionalizzate e istituì una sorta di culto della personalità.
JULIUS NYERERE (1922-1999) Presidente della Tanzania dall’indipendenza (1961) al 1985, fondò i “villaggi Ujamaa”, comunità agricole di grande condivisione. Un concetto che, secondo Nyerere, era insito nella tradizione africana, naturalmente vicina al modello socialista.
Inquadrati Ragazzi del Burkina Faso nel 1985: Sankara affiancò all’addestramento militare la formazione politica.
si il continente africano sfruttandone persone e risorse naturali. Questo nuovo colonialismo passava, secondo Sankara, attraverso gli aiuti allo sviluppo: cattivi consiglieri suggerivano ai Paesi africani da poco indipendenti investimenti costosi, che alimentavano il debito pubblico. “Il debito è la riconquista abilmente organizzata dell’Africa, [...] per fare di ciascuno di noi uno schiavo finanziario”. Sankara ne aveva anche per il libero mercato. Gli africani esportavano prodotti agricoli a prezzi bassi, ma ciò che era lavorato in Occidente veniva poi reimportato a caro prezzo, pesando sulla bilancia dei pagamenti. “Quando si mangia miglio, mais o riso d’importazione, significa che il neocolonialismo
è andato oltre”, avvertiva. Gli aiuti alimentari? “Disincentivano le nostre capacità, ci rendono dei poveracci”. Si doveva produrre e trasformare in Africa, iniziando dal controllo dell’acqua e dalla creazione di un settore alimentare in grado di trattenere i prodotti agricoli. A che velocità? “Alla nostra”, rispondeva Sankara. “Noi preferiamo piccole unità a metà strada tra l’industria e l’artigianato”. In tre anni, il Burkina Faso si rese autosufficiente dal punto di vista alimentare. In anticipo. «Sankara fu profetico, denunciando con trent’anni di anticipo la trappola del debito e lo strapotere della finanza internazionale, di cui anche in Europa oggi si conoscono gli
KENNETH KAUNDA (1924-VIVENTE) Salito potere in Zambia nel 1964 dopo una campagna di disobbedienza civile per l’indipendenza e libere elezioni, promosse un “umanesimo zambiano”. Al governo fino al ’91 appoggiò la guerriglia contro il regime razzista della Rhodesia.
Le scuse tardive del Belgio
Sotto accusa Blaise Compaoré appena dopo l’insediamento come nuovo presidente del Burkina Faso, a pochi giorni dall’assassinio di Thomas Sankara. Resterà al potere per 27 anni.
l Burkina Faso non fu l’unica ex colonia la cui storia fu scritta dagli ex padroni. Esemplare è la vicenda di Patrice Lumumba (1925-1961). Lumumba fu il fautore dell’indipendenza della Repubblica democratica del Congo. Il Belgio, nel 1960, concesse un’indipendenza limitata: buona parte dell’amministrazione e dell’esercito dovevano restare belgi. Lumumba, che aveva vinto democraticamente le elezioni, sfidò Belgio e compagnie minerarie africanizzando l’esercito. Liquidatori. Il Belgio rispose inviando truppe nel Katanga, la regione mineraria e fomentò la secessione. Il generale Mobutu Sese Seko arrestò Lumumba e lo fece trasferire nel Katanga, dove fu ucciso e sciolto nell’acido. Altri fedeli a Lumumba furono giustiziati da mercenari. Mobutu prese il potere e impose la “cleptocrazia” fino al 1996: fondi pubblici e aiuti internazionali finivano su conti privati all’estero. Mal d’Africa. Il caso Lumumba dimostra che per gli africani non è mai stato facile “svilupparsi a casa loro”. Oggi si sa che la Cia finanziò gli avversari di Lumumba e fornì armi a Mobutu. Il governo belga ha riconosciuto in parte, nel 2002, le proprie responsabilità: “Alcuni membri del governo di allora e alcuni personaggi belgi dell’epoca portano una indiscutibile responsabilità negli eventi che hanno condotto alla morte di Patrice Lumumba. Il Governo considera perciò appropriato porgere alla famiglia di Patrice Lumumba e al popolo congolese il proprio profondo e sincero rincrescimento e le proprie scuse per il dolore che è stato loro inflitto”. 36
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I Paesi “non allineati”, come il Burkina Faso, provarono a superare (senza riuscirci) la contrapposizione tra Usa e Urss effetti», commenta Montanaro. “Che ci fai con la scritta Levis sulla maglietta?”, rimproverava Sankara. “Questa è pubblicità, ma ti pagano almeno? Perché se non ti pagano è ridicolo. In Burkina, con tutto il cotone che produciamo, possiamo fare di più”. E lui lo fece, sviluppando la manifattura tessile. Ironia contro la Guerra fredda. In un loro incontro, l’allora presidente francese François Mitterrand rimproverò a Sankara di non tenere conto della Guerra fredda. E una giornalista fece notare che era stato a Cuba e a Mosca. Lui rispose che visitava molti Paesi, sia dell’Occidente che dell’Est, alla ricerca di soluzioni per il suo Paese. “Se qualcuno a me vicino vuole darci una mano, incomincio volentieri da lui”. E rivolgendosi a Mitterrand: “A proposito, ci servirebbe un bel Concorde!”. Ma quando Mitterrand ricevette Peter Botha, il presidente sudafricano dell’apartheid, Sankara fu durissimo: “Un uomo con i piedi sporchi di sangue ha calpestato il suolo della democratica Francia [...] la coscien-
za di chi ha permesso questo dovrà risponderne per sempre”. La faccia di Mitterrand, dopo quel discorso, era quella di chi aveva ricevuto una dichiarazione di guerra. Un vicino invadente. Intanto, da un supercarcere degli Stati Uniti, era evaso un cittadino liberiano di nome Charles Taylor. Il suo avvocato era un americano, Ramsey Clark, già avvocato generale di Stato con il presidente statunitense Jimmy Carter. Non si evade facilmente da un carcere del genere. Non solo Taylor ci riuscì, ma riapparve anche carico di armi in Liberia, pronto a rovesciare il presidente Doe. Taylor chiese a Sankara di ospitare alcune sue basi in Burkina. La risposta fu negativa. «Due file resi pubblici da Wikileaks confermano che Charles Taylor lavorava per la Cia», dice oggi Montanaro. «La Liberia è un paradiso fiscale, ma le sue società fanno capo a società di Reston, in Virginia, lo stesso Stato federale dove ha sede la Cia». Inoltre, Burkina Faso e Liberia si trovano sul Golfo di Guinea. «È un’a-
rea strategica, con grandi riserve di petrolio off shore e di uranio». E il figlio di Mitterrand era in affari con Taylor. Il gioco si faceva duro. La goccia che fece traboccare il vaso fu il discorso di Sankara, il 29 luglio 1987, a una conferenza dell’Oua (l’Organizzazione dell’unità africana). “Non possiamo rimborsare il debito, non è una questione morale o di parola [...]. Se non paghiamo, i nostri finanziatori non moriranno. Questo è sicuro. Se invece paghiamo, le nostre popolazioni sì. Hanno voluto giocare, come al casinò: hanno molte volte vinto, ma al gioco si può perdere. Che perdano allora, la vita continuerà [...]. Così possiamo destinare risorse allo sviluppo. Se il Burkina Faso da solo si rifiuta di pagare il debito, io non ci sarò alla prossima conferenza”. Due mesi e mezzo dopo lo uccisero. Il piano fu pensato prima in Mauritania poi in Libia. Stando alle dichiarazioni di Momo Jiba, raccolte da Montanaro, i francesi avrebbero finanziato il colpo di Stato: subito riconobbero il nuovo governo di Compaoré. «C’era un uomo
della Cia all’ambasciata americana, che lavorava con un agente dei servizi segreti francesi. Loro presero le decisioni», racconta Jiba. «Ho visto tutto, ero nella stanza quando Sankara fu colpito. Compaoré aveva fatto finta di andare a casa, ma con il buio si unì a noi». Allen, pure lui nella stanza, conferma: «Sparò Compaoré». Normalizzazione. La restaurazione fu rapida. Si disse che Sankara era morto di morte naturale. Pochissimi ci credettero. La madre e i fratelli pagarono il mutuo della sua casa, ma il debito più grande, quello del Burkina Faso, continuò a essere onorato. Come? Chiudendo scuole e ospedali pubblici e privatizzando persino l’acqua. Charles Taylor ebbe le sue basi in Burkina: da lì si prese la Liberia e poi scatenò una guerra in Sierra Leone per il controllo delle miniere di diamanti. Arruolò anche bambini-soldati che, fra le varie atrocità, tagliarono migliaia di braccia ai civili. I sogni di felicità erano volati via da quell’angolo d’Africa, con l’anima di Sankara. •
Gioco pericoloso Il presidente francese François Mitterrand in visita ufficiale a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, ricevuto da Sankara, il 17 novembre 1986. Il leader africano tenne aperte le relazioni sia con i Paesi occidentali, sia con Cuba e Urss.
Franco Capone 37
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Inarrestabile ROMA ■
POTERE SFRENATO pag. 40 ■
I CATTIVISSIMI pag. 46 ■
Simbolo di potere L’aquila (simbolo delle legioni) e, sullo sfondo, la ricostruzione di un castrum romano.
LA REPRESSIONE IN GIUDEA pag. 48 ■
SPIETATA AGRIPPINA pag. 54 ■
UNA “LEX” DURISSIMA pag. 60 ■
EZIO, ULTIMO ROMANO
ARCANGEL
pag. 66
PRIMO PIANO
La forza delle legioni, la durezza delle leggi, i delitti di governanti senza scrupoli. La grandezza dell’Impero romano passò anche dai suoi eccessi.
PRIMO PIANO
SANGUE E POTERE
Fin dalla fondazione, Roma ha conosciuto il significato della parola violenza. Non solo militare: congiure e complotti sanguinari hanno segnato la sua politica
Altro che Grande Una moderna statua di Costantino I il Grande a York, in Inghilterra, dove fu proclamato imperatore dalle legioni, nel 306. Sei anni dopo sconfisse il suo rivale Massenzio nella Battaglia di Ponte Milvio.
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DREAMSTIME
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e la storia degli imperatori di Roma fosse un colore, sarebbe il rosso. Declinato in due sfumature: il rosso porpora (nobile tintura associata al concetto di regalità) e il rosso sangue, quello che rigò i volti e i corpi di moltissimi imperatori. Già ai suoi albori la successione imperiale nell’Urbe fu infatti regolata da norme poco chiare. Il che contribuì a far scatenare lotte per il potere in cui tutto dipendeva dall’autorità, dall’avidità, dalla scaltrezza e dalla disponibilità a uccidere – o a fare uccidere – dei pretendenti al trono. Nei cinque secoli di vita dell’Impero romano quasi la metà degli imperatori morì ammazzata in sordidi complotti, in un frenetico alternarsi di colpi di Stato e congiure. Pax armata. A ottenere sempre più credito furono, alla lunga, i generali-imperatori, signori della guerra che al pari di moderni caudillos guadagnarono spesso un
potere assoluto. «Se il primo imperatore romano fu Augusto, l’idea di impero prese forma già con Caio Giulio Cesare; un uomo che morì accoltellato dopo una cospirazione di senatori», racconta lo storico dell’antichità Antonio Montesanti dell’Università di Exeter (Inghilterra). «E se fin dagli albori l’impero fu bagnato nel sangue, la scia di violenza proseguì per tutta l’età d’oro, ovvero il lungo periodo di pace – quasi due secoli – passato alle cronache come pax romana». D’altronde quando un imperatore scontentava altri soggetti politici o militari dotati di ampi poteri, per esempio tra le file del Senato o dei pretoriani (le “guardie del corpo” del sovrano), c’era sempre qualcuno pronto a tramare per sbarazzarsi di lui. E se Augusto morì di morte naturale, già sotto il suo successore, Tiberio, la corte prese ad assomigliare al set di un caotico film splatter, a cui parteciparono spes-
so anche le donne. Qualche esempio? Lo stesso Tiberio, sfuggito a un complotto del pretoriano Seiano, morì poi soffocato nel suo letto. Il successore, Caligola, fu accoltellato lasciando spianata la strada a Claudio, che finì i suoi giorni avvelenato dalla consorte Agrippina, madre di Nerone (v. articolo a pag. 54). Il quale, diventato sovrano, dovrà fronteggiare, reprimendola nel sangue, una congiura ordita dal senatore Pisone. Per chiudere il cerchio, Agrippina sarà fatta uccidere dallo stesso Nerone. Dopodiché, sul finire del I secolo, si registrarono gli omicidi degli imperatori Galba, Vitellio e Domiziano. Quest’ultimo si distinse come uno dei sovrani più crudeli, dispotici e dissoluti prima di essere travolto (a suon di pugnalate) dall’ennesimo complotto del Senato. Dall’oro... alla ruggine. Nel 180, dopo la morte (naturale, strano a dirsi) di Marco Aurelio, si concluse l’età d’oro dell’im-
Per arginare i complotti l’imperatore Augusto creò apparati di “intelligence” affidati ai pretoriani. Ma dopo di lui le congiure furono all’ordine del giorno
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pero e iniziò un periodo di decadenza. Lo storico latino Cassio Dione Cocceiano (163-229) lo definì, con una celebre metafora, come il passaggio “da un regno d’oro a uno di ferro e ruggine”. E la ruggine divenne particolarmente corrosiva con la salita al potere del depravato e prepotente Commodo, che su input di un manipolo dei soliti senatori finì i suoi giorni strangolato dal suo allenatore di arte gladiatoria. Solo nel 193 morirono quindi assassinati ben due imperatori: Pertinace, per mano dei pretoriani, e Didio Giulio, con il solito zampino del senato. Una fase particolarmente delicata era di solito il passaggio dinastico. Quando, tra la fine del II e l’inizio del III secolo, si affermò la dinastia dei Severi, fu stabilito un macabro record: a parte il fondatore, Settimio, tutti i sovrani severiani furono vittime di congiure che si conclusero con il loro omicidio.
Largo ai barbari. «L’ultimo dei Severi, Alessandro, fu ucciso dai suoi soldati durante un ammutinamento che portò al potere il generale Massimino Trace (235). Questo evento costituì uno spartiacque, introducendo una novità: la possibilità per un barbaro di diventare imperatore grazie a meriti militari», riprende Montesanti. Proveniente dalla Tracia rurale, Massimino riuscì nella scalata sociale grazie alle qualità di combattente – era un colosso alto oltre due metri – messe in mostra guidando l’esercito romano, da tempo apertissimo agli stranieri. In quegli anni si consolidò un fenomeno già emerso con Settimio Severo: ogni aspirante imperatore doveva contare sul consenso delle milizie più che su quello dei senatori. «Al tempo dei cosiddetti imperatori soldati, se un sovrano non soddisfaceva le truppe, queste semplicemente lo deponevano. E, come in un moderno colpo di
Stato, lo sostituivano con un generale ritenuto più affidabile», spiega lo storico. «Ogni comandante poteva così aspirare alla carica di imperatore, mettendo in conto però di ritrovarsi velocemente scalzato». A ben vedere, era un’eredità arcaica. Prima di assumere connotazioni geopolitiche, la parola imperium si riferiva infatti al potere di alcuni magistrati militari i cui ordini, indiscutibili, erano vincolanti anche in ambiti politici e religiosi. Anarchia militare. Nel III secolo, all’instabilità dei confini dovuta alla crescente minaccia dei popoli barbari si sommarono i pericoli derivanti dalle guerre interne, fomentate dai signori della guerra. Tutto ciò portò all’anarchia. «Se nei primi due secoli il rapporto tra ambito politico e ambito militare era in equilibrio, l’esercito finì per assumere tutto il potere, dettando i tempi e i modi della politica», sottolinea Montesanti. «La per-
Trame di palazzo
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SCALA (2)
A sinistra, la vittoria di Costantino nella Battaglia di Ponte Milvio in un dipinto del Seicento. A destra dall’alto: l’assassinio di Cesare in un quadro di Karl Piloty (1826-1886) e un dipinto del vittoriano Lawrence Alma-Tadema (1836-1912), che raffigura un dialogo tra due Romani: fino al III secolo le congiure furono ordite nelle stanze del potere, poi nelle tende dei generali.
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T RVIO ULLIO E Nel S
repubblica in crisi Catilina, senatore e console, passò dall’opposizione politica (il suo nemico era Cicerone) a quella armata, finendo ucciso nel 62 a.C.
M M ODO
Nel 192 d.C. annunciò che il primo giorno dell’anno si sarebbe presentato al popolo in veste di gladiatore. La sua concubina Marcia Demetriade e il prefetto Emilio Leto decisero allora di accelerare la congiura: su loro ordine, il 31 dicembre, l’atleta Narcisso (con il quale Commodo usava allenarsi) lo strangolò.
LE CONGIURE PIÙ FAMOSE Alcuni storici si sono presi la briga di contarle e sono arrivati a 15. Le cospirazioni, nell’antica Roma, erano all’ordine del giorno.
CLAU
D
O
I Agrippina, quarta moglie dell’imperatore Claudio e madre di Nerone, decise di far fuori il marito avvelenandogli la cena. Siccome la dose non bastò a ucciderlo, si premurò che il medico Senofonte gliene servisse subito un’altra, che fu letale. Era il 13 ottobre del 54 d.C.
GO LI
U GI
LI O C E SA R E Fu
assassinato a pugnalate il 15 marzo del 44 a.C. da alcuni senatori (tra i quali il suo pupillo, Bruto). Tutti aristocratici repubblicani, i congiurati temevano l’accentramento di poteri imposto da Cesare. Furono tutti uccisi.
LA
Il 24 gennaio del 41 Caligola fu ucciso da un gruppo di pretoriani. Infierirono sul suo corpo, forse decapitandolo. I congiurati (aristocratici che volevano sul trono Claudio) trucidarono anche la moglie e la figlia di tre anni.
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TILIN CA Nella A
535 a.C. Tarquinio il Superbo irruppe nel Foro con un gruppo di uomini armati e si autoproclamò re. Quando il suocero Servio Tullio, sesto re di Roma, gli chiese spiegazioni, Tarquinio lo assalì. Mentre arrancava verso casa, i congiurati lo finirono e Tullia Minore, sua figlia, ordinò di passargli sopra con il carro.
A
Quando, dopo la Battaglia di Ponte Milvio (312), fu ritrovato il corpo di Massenzio, le truppe vittoriose portarono la sua testa in parata centuale di sovrani uccisi rimase sempre elevata. Ma se nella prima fase dell’impero la crudeltà era spesso legata alle manie e alle follie dei singoli sovrani, ora a dominare erano le esigenze belliche». Sulla scia di quanto avvenuto con Massimino Trace (che non mise mai piede a Roma), aumentarono i sovrani “esotici”. Esemplare il caso di Marco Giulio Filippo, detto l’Arabo. Nato in terra siriaca, aveva fatto carriera nell’esercito fino a diventare prefetto del pretorio e poi imperatore (nel 244). Non senza aver prima tradito il precedente sovrano Gordiano III, ucciso dai propri soldati sobillati da Filippo. Una curiosità: sarà proprio quest’ultimo a festeggiare i primi mille anni di Roma (fondata, secondo la tradizione, nel 753 a.C.). Poi, 44
dopo un’altra ventina di imperatori, la crisi del III secolo sembrò finire grazie a un comandante proveniente dalla Dalmazia: Diocleziano. Il nuovo sovrano, convinto che ormai il dominio romano aveva troppi fronti caldi, non controllabili da un uomo solo, escogitò nel 293 la cosiddetta tetrarchia, o “governo dei quattro”. Cominciò una tregua per l’instabilità politica, ma non per la violenza. Fiumi di sangue. L’impero fu diviso in quattro aree e a Diocleziano si affiancarono altri tre sovrani: Massimiano, Costanzo Cloro e Galerio. Se i quattro, almeno per un po’, evitarono di farsi la guerra, il sangue tornò a scorrere con una recrudescenza delle persecuzioni contro i cristiani. L’esperimento tetrarchico, durante il quale si
avvicendarono più quaterne di imperatori, finì nel 324. Lo spettacolo si replicò: guerra civile e vittoria finale del più forte, Costantino I. «Con la fondazione di Costantinopoli, dal 395 capitale del neonato Impero romano d’Oriente, gli imperatori d’Occidente furono prevalentemente dei sovrani fantoccio», dice Montesanti. «Questo perché il potere era tornato a concentrarsi nelle mani dei massimi comandanti militari, incarico che nel tardo impero corrispondeva a quello di magister militum, “maestro dei soldati”». «Uno dei più famigerati fu Stilicone (359 ca.-408), di origini germaniche, che resse l’impero dopo la morte dell’imperatore Teodosio». Anni dopo, un potere simile fu raggiunto da Flavio Ezio (390-454), gene-
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Matteo Liberti
Mors tua... potere mio Sopra, l’assassinio di Caligola in un dipinto ottocentesco: dietro la tenda Claudio, suo successore. Sotto, la “statua dei Tetrarchi” a Venezia: la tetrarchia fu una spartizione dell’impero fra capi militari. DREAMSTIME
rale del sovrano Valentiniano III che, dopo aver a lungo frenato la pressione dei barbari, fu ucciso in un complotto con la partecipazione dello stesso imperatore (v. articolo a pag. 66). Un film già visto, con un finale scontato. Nel 455 anche Valentiniano fu assassinato, per volere del prefetto Petronio Massimo, salito sul trono ma destinato pure lui a morte violenta: fu trucidato dal suo popolo. Sipario (rosso). Il rosso porpora e il rosso sangue continuarono a intrecciarsi fino alla fine, sull’immaginaria tela che chiamiamo Impero d’Occidente. Una tela dipinta, specie nel tardo impero, dalle spade dei soldati. E sarà proprio un soldato, il germanico Odoacre, al culmine di una carriera nell’esercito romano, a deporre nel 476 Romolo Augusto. Facendo calare il sipario (rigorosamente rosso) su quel dramma truculento durato cinque secoli. •
PRIMO PIANO
IL DEPRAVATO
1
IL PERSECUTORE
2
12-41 d.C.
CALIGOLA
N
el 37 si ammalò. Quando si riprese divenne uno degli uomini più amorali e malvagi della Storia. Gli si attribuirono rapporti incestuosi con le sorelle, accoppiamenti con le mogli dei suoi ospiti durante i banchetti, gesti folli come nominare console il proprio amato cavallo o pretendere che tutti lo adorassero. Ordinò la tortura o l’uccisione di tutti coloro che erano in disaccordo con lui, anche su questioni banali.
F
244-311
DIOCLEZIANO
u il massimo persecutore dei cristiani nei primi secoli. Con un editto nel 303 costrinse tutti a convertirsi alla religione romana. Chi si rifiutava inizialmente veniva imprigionato, poi la pena divenne più drastica: crocifissione o decapitazione. In meno di 10 anni fece uccidere circa 3mila cristiani. Fu lui a introdurre gli spettacoli al Circo Massimo durante i quali i seguaci della nuova religione venivano condannati a essere divorati vivi.
CATTIVISSIMI A cura di Marta Erba
IL SERIAL KILLER
5
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P
37-68 d.C.
NERONE
oiché la madre Agrippina, per correggerne il brutto carattere (fin da piccolo Nerone rivelò un’indole sadica e violenta), gli portava l’esempio del fratello Britannico, saggio e virtuoso, Nerone prese a odiarlo. Temendo che potesse un giorno portargli via il trono, lo fece avvelenare, rallegrandosi di fronte alla sua straziante agonia. Ci prese gusto: con accuse sommarie uccise tutti coloro di cui non si fidava o che non gli piacevano, compresi la madre, le mogli Ottavia e Poppea e il precettore Seneca. 46
IL PEDOFILO
6 I
42 a.C.-37 d.C.
TIBERIO
l figlio adottivo di Augusto e suo successore nel 14 d.C. non era portato per governare. Preferì quindi delegare la gestione del potere al Senato e al prefetto del pretorio Seiano, per potersi dedicare a ciò che gli interessava di più: gli agi e il lusso. Oggetto di pesanti critiche, nel 26 si ritirò a Capri per il resto della sua lunga vita, tornando a Roma in rare occasioni. Nell’isola fece costruire la Villa Jovis dove passava gran parte del tempo molestando bambini e ragazzi. Tra loro c’era anche il suo futuro successore Caligola.
IL SOSPETTOSO
7 S
51-96 d.C.
DOMIZIANO
econdo alcune fonti fu lui a inaugurare la prima grande persecuzione contro cristiani ed ebrei (l’Apocalisse di san Giovanni, con i suoi toni catastrofici, fu scritta sotto il suo regno). Comportandosi da sovrano assoluto, provocò moti di rivolta e congiure. Reagì instaurando una sorta di “regime del terrore”: eliminava chiunque, anche tra i suoi più stretti collaboratori, fosse sospettato di tramare contro di lui. Finì col peggiorare la situazione: morì vittima di una congiura, pugnalato nella sua camera da letto.
L’ESIBIZIONISTA
3 F
IL VENDICATIVO
4
161-192
COMMODO
iglio degenere di Marco Aurelio (uno dei più grandi sovrani di Roma), Commodo amava mettersi in mostra durante i giochi gladiatori. Ordinava che venissero gettati nell’arena gli storpi, i gobbi e i menomati, per poi avere facilmente la meglio su di loro. Ma la sua passione erano gli animali: abbatteva elefanti, infilzava giraffe, decapitava struzzi. Una volta uccise 100 leoni in un giorno, fino a provocare il disgusto tra gli spettatori.
RE A
CARACALLA
ei primi anni regnò con il fratello Geta ma, non andandoci troppo d’accordo, lo uccise. Per ragioni oscure (forse a causa di uno spettacolo che ridicolizzava l’imperatore), nel 215 fece massacrare tutti i 20mila abitanti maschi di Alessandria d’Egitto, per poi saccheggiare e bruciare la città. Inoltre eliminava chiunque gli sembrasse vagamente ostile all’impero. Fu assassinato da una delle sue guardie mentre urinava sul lato della strada.
Da Caligola a Teodosio il Grande, la classifica degli imperatori romani più crudeli (a detta degli storici antichi). Così prepotenti e disumani da farci addirittura rivalutare i governanti di oggi
L’INVASORE COMPULSIVO
8
N
188-217
173-238
MASSIMINO TRACE
ltissimo (oltre i 2 metri), è ritenuto il responsabile della crisi dell’impero del III secolo. Non fidandosi di nessuno, uccise decine di amici, consulenti e benefattori. Pensando di farsi apprezzare dal popolo con le conquiste territoriali, invase la Germania, la Sarmazia e la Dacia (Balcani), al prezzo di gravi perdite. Al malcontento romano reagì marciando sulla città, ma le truppe erano tanto esauste che in molti disertarono o si rivoltarono contro di lui. Massimino fu assassinato e la sua testa infissa a un palo ed esposta.
IL MILITARISTA
9 D
146-211
SETTIMIO SEVERO
i origini africane, fu il primo dominus (“padrone”, in contrapposizione al princeps, primo tra pari, che implicava la condivisione del potere col Senato) e il primo imperatore a trarre la propria forza dall’appoggio dell’esercito. Perseguitò duramente i cristiani e gli ebrei mettendoli di fronte alla difficile scelta tra rinnegare il loro Dio ed essere decapitati (o crocefissi): fece giustiziare tra 1.000 e 3.000 credenti. Rispettava soltanto l’esercito, da cui traeva il proprio potere (e che temeva potesse toglierglielo).
LO STRAGISTA PENTITO
10 N
347-395
TEODOSIO I
el 390 ordinò il massacro di circa 7.000 abitanti di Tessalonica colpevoli di essersi ribellati all’esecuzione di un loro idolo sportivo, ordinata da Teodosio, e di aver linciato un alto ufficiale dell’imperatore. Per questa strage Teodosio fu duramente rimproverato da sant’Ambrogio, vescovo di Milano, che gli negò in un primo momento il perdono, invitandolo a un lungo periodo di penitenza. Dopo l’episodio, l’imperatore irrigidì la politica religiosa emanando i severissimi “decreti teodosiani” che vietavano i culti pagani. 47
PRIMO PIANO
A FERRO E FUOCO
ALBUM / CONTRASTO
I Romani sapevano essere aperti. Ma distruggevano senza pietà chi osava ribellarsi. Come accadde alla Giudea del 70 d.C.
Preda di guerra Il candelabro dal Tempio di Gerusalemme portato in trionfo come preda di guerra dai Romani, sull’arco che celebra il trionfo del generale Tito. Fu lui il “flagello” degli Zeloti ribelli di Giudea. 48
F
“
anno un deserto e lo chiamano pace”. Parola di Tacito, storico latino. Ma come: il segreto della grandezza dell’impero non era il fatto che i Romani sapevano essere tolleranti con i regni e i popoli che entravano a far parte dei loro domini? Vero. Ma altrettanto vero è che chi entrava nell’orbita capitolina lo faceva spesso scegliendo il minore dei mali. Inoltre, i vantaggi della cittadinanza romana non erano per tutti. E comunque, con chi
non accettava le regole, gli imperatori e i loro governatori nelle province avevano una sola risposta: il pugno di ferro. Provincia inquieta. Due popoli in particolare hanno sostenuto una lotta plurisecolare per non farsi dominare dall’Urbe: le tribù ispaniche, spina nel fianco della Roma repubblicana, e la Giudea, focolaio di rivolte nella prima età imperiale. La Palestina era entrata sotto il controllo dell’Urbe grazie a Pompeo Magno, nel corso del I secolo a.C.
Assedio Gerusalemme sotto assedio nel 70 d.C. da parte delle legioni romane, in un dipinto di Ercole de’ Roberti (1456-1496). La città riuscì a resistere per 5 mesi.
600.000 49
CORBIS
Le vittime della repressione romana nella Prima guerra giudaica (66-73).
L’assedio del 70 a Gerusalemme fu solo l’ultimo di una serie di massacri in altre città
Trionfatore
GETTY IMAGES
Non si può dire che sia mai scattato un feeling tra i dominatori, diffidenti verso il grande zelo religioso dei sottoposti, e gli Ebrei, irritati dall’invadenza capitolina nelle loro tradizioni. Un dialogo tra sordi, insomma, destinato a sfociare in aperto conflitto. A Roma si considerava la Giudea uno scacchiere marginale, poco produttivo e di scarso interesse politico; a governarla non andavano gli uomini più abili e ambiziosi, ma figure di basso profilo. Provocazioni. Le responsabilità dell’Urbe nel provocare il popolo ebraico furono tutt’altro che trascurabili: i procuratori della Giudea si distinsero per ottusità, corruzione e mancanza di diplomazia, tanto da far dire persino a Tacito che “la capacità di sopportazione dei Giudei non andò oltre il periodo in cui fu procuratore Gessio Floro”, il cui mandato ebbe inizio nel 64. A Floro bastarono due anni per portare gli Ebrei alla rivolta. Confiscò parte del tesoro del Tempio di Salomone, per compensare un mancato tributo, senza rendersi conto che il torto economico era meno importante dell’affronto religioso. Floro mandò i soldati a saccheggiare alcuni quartieri di Gerusalemme, facendo oltre 3mila morti. Ottenne soltanto di essere costretto a evacuare la città con tutta la guarnigione, per evitare il linciaggio da parte della popolazione, sobillata dagli Zeloti, promotori della rivolta. Gli Zeloti (traduzione dell’ebraico kannaim, “fedele esecutore”, “seguace”) erano un gruppo ortodosso che si opponeva con le armi all’occupazione. Nerone, fedele all’idea di una Palestina luogo di confino, mandò contro quei “terroristi” un personaggio caduto in disgrazia, Tito Flavio Vespasiano, allora esiliato in Grecia. Da quel momento, la repressione seguì un copione ben collaudato e replicato per secoli. Il nuovo comandante assegnò il co-
Tito in trionfo a Roma, dopo aver distrutto Gerusalemme, in un dipinto di Lawrence Alma-Tadema (18361912). Alle sue spalle la Menorah (il candelabro) del Tempio incendiato.
mando di una legione, la XV Apollinaris, al proprio figlio Tito, raccolse 60.000 effettivi e si pose l’obiettivo di riportare sotto il controllo di Roma l’intera Giudea, prima di affrontare le imponenti difese della capitale. Come prima mossa sfilò in forze per la Galilea, sperando che lo spettacolo delle legioni in parata bastasse a convincere i ribelli alla sottomissione senza com-
battere. Il suo auspicio si rivelò vano fin dalla prima sfida, il baluardo di Iotapata; i difensori costrinsero i Romani a 47 giorni di assedio. Come da copione, una volta presa la città i legionari massacrarono 40mila abitanti, catturando come schiavi 1.200 tra donne e bambini. I Romani avevano sconfitto un esercito ebraico di 12mila uomini inseguendolo oltre la prima cin-
CRONOLOGIA
Le tre Guerre giudaiche 50
66 d.C. Rivolta contro la violazione del Tempio; inizia la Prima guerra giudaica.
66 Al passo di Beth Horon 6mila legionari romani muoiono in un’imboscata.
66 Gaio Cestio Gallo assedia e conquista Giaffa, successivamente rasa al suolo.
Primavera 67 Assedio romano di Iotapata: dopo 47 giorni la città cade.
Seconda distruzione
Le altre repressioni delle legioni romane
Il Secondo Tempio distrutto dai legionari nel 70. Il primo (quello di Salomone) fu raso al suolo dai Babilonesi nel VI secolo a.C.
In epoca imperiale, oltre agli abitanti della Giudea, altri dovettero fare i conti con la violenza romana, che aveva debuttato contro Cartagine, distrutta fino all’ultima pietra nel 146 a.C.
CORBIS
LA VENDETTA SUI GERMANI La sconfitta delle legioni a Teutoburgo (9 d.C.) fu vendicata, sette anni dopo, a Idistaviso (sul fiume Weser, in Germania). Non si sa quante furono le vittime, ma i Germani ribelli di Arminio schierarono forse più di 40mila uomini, molti dei quali morirono.
Luogo simbolo
IL GENOCIDIO DEI DACI I Daci erano gli antichi abitanti dell’attuale Romania. Contro di loro Traiano (imperatore fra il 98 e il 117) fu implacabile. Anche se la documentazione per l’epoca è scarsa, per i Daci si può parlare di genocidio. Il massacro è celebrato dai rilievi dalla Colonna di Traiano, a Roma.
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Il tratto di mura del Tempio sopravvissuto: è tutto ciò che resta, con poche altre tracce archeologiche, della Gerusalemme del I secolo.
ta muraria; quando i cittadini sbarrarono la seconda cinta, i guerrieri ebrei, intrappolati, caddero fino all’ultimo uomo. Seguì la conquista dell’abitato, dopo sei ore di combattimenti strada per strada. Vennero trucidate anche tutte le donne, colpevoli di aver scagliato addosso ai Romani le tegole dei tetti. Solo i bambini sopravvissero, ma furono ridotti in schiavitù.
Settembre 70 Dopo 5 mesi di assedio Tito prende Gerusalemme e distrugge il Tempio.
Capolavoro di crudeltà. Questi attacchi spietati avevano lo scopo di rendere più facile espugnare le successive roccaforti, fino ad assediare Gerusalemme. La morte di Nerone, nel 69, distrasse Vespasiano. Il generale tornò a Roma, dove vinse la lotta di potere per la successione. Così, la repressione in Giudea passò al figlio Tito: sarebbe stata la sua più grande im-
72-73 Assedio di Masada, roccaforte degli Zeloti. I 960 assediati si suicidano in massa.
115-117 Repressione delle rivolte di Alessandria e Cirene (2a guerra giudaica).
I BRITANNI DI BUDICCA Sotto Nerone (54-68), Roma spazzò via gli Iceni della regina Budicca. La sovrana aveva guidato una rivolta iniziata da una strage di Romani e conclusa in breve con un’ecatombe di nativi: circa 80mila.
GLI OSTROGOTI E STILICONE La repressione più feroce nel tardo impero fu inflitta nel 406 dal generale mezzosangue Stilicone all’orda multietnica di forse 400.000 “barbari” guidata dall’ostrogoto Radagaiso, penetrata in Italia fino a Fiesole (Toscana). Pare sia sopravvissuto solo un terzo di quei 400mila. Comunque abbastanza da far crollare nella Penisola il prezzo degli schiavi, che in quei giorni si vendevano, dice un cronista dell’epoca, “alla stregua degli armenti più deprezzati”.
80.000 I Britanni massacrati al tempo di Nerone dopo la rivolta guidata dalla regina Budicca.
132 Scoppia la rivolta guidata dal sedicente Messia Simon Bar Kokhba.
132-135 L’imperatore Adriano reprime la ribellione con la Terza guerra giudaica. 51
ATTREZZATI PER RESISTERE L’altura, usata già dagli Asmonei, sovrani di Giudea nel II secolo a.C., era dotata di magazzini e cisterne per raccogliere l’acqua piovana.
LA RESISTENZA ESTREMA DI MASADA Asserragliati sull’altura nel deserto, circa 960 Zeloti resistettero, nel 73-74 d.C., a un lungo assedio. Prima di suicidarsi in massa. IMPRENDIBILE Sull’altopiano, considerato imprendibile, costruì una propria residenza il re di Giudea Erode (37-4 a.C.).
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FRA TERRA E CIELO Gli archeologi hanno identificato il sito della sinagoga fatta costruire dagli Zeloti che si rifugiarono qui dopo la caduta di Gerusalemme.
IL SENTIERO DEI SERPENTI Alla rupe si saliva lungo il tortuoso Sentiero dei serpenti, stretto e quindi ben difendibile. I Romani costruirono una rampa per le macchine d’assedio.
LE ABITAZIONI Sono stati ritrovati resti di abitazioni. Dopo la caduta, Masada rimase romana fino all’epoca bizantina.
Durante l’assedio di Masada, i legionari resero inutilizzabili le cisterne per presa e uno degli episodi più cruenti del la storia romana. Tito arrivò davanti alla città subito dopo la Pasqua ebraica, che aveva fatto conflui re entro le mura una folla immensa per i tempi. Secondo Tacito, 600mila persone. Con il trascorrere dei mesi, il blocco impo sto agli assedianti impose delle condizio ni di vita tremende agli assediati, ridotti a cibarsi dello sterco trovato nelle fogne. I loro cadaveri ingombravano le strade, senza che nessuno si curasse di seppellir li; quando una casa era chiusa, per i capi zeloti era segno che qualcuno stava man giando: ordinavano pertanto un’irruzione, durante la quale si arrivava a sfilare il cibo dalla bocca dei commensali. C’era chi in 52
ghiottiva le proprie monete d’oro e chi si vedeva infilare ceci nel pene per un tozzo di pane che aveva nascosto. I Romani, da parte loro, non trascuraro no nulla, durante e dopo l’assedio: il cro nista Giuseppe Flavio (v. riquadro a destra) racconta di come colorassero di ne ro le pietre delle catapulte, per evitare che il riflesso del sole consentisse ai difenso ri di accorgersi in tempo della traietto ria del proiettile. Gli assedianti costruiro no terrapieni a ridosso delle mura, facen dovi avanzare sopra torri semoventi, con quistando una dopo l’altra, con pazienza e determinazione, le tre cinte murarie che proteggevano la città. L’epilogo si ebbe nell’agosto-settembre del 70, con l’incen
dio del Tempio, ultimo baluardo dei ribel li. “Intorno all’altare si accumulò un mucchio di cadaveri mentre lungo la scalinata del Tempio correva un fiume di sangue e rotolavano i corpi di quelli che venivano massacrati su in alto”, scrive Giusep pe Flavio. Seguì la “solita” strage di civili, sacerdo ti, vecchi, donne e bambini nella città al ta; i legionari, esasperati da cinque mesi di duro assedio, massacrarono chiunque in contrassero durante il saccheggio, poi giu stiziarono i superstiti, oppure li mandaro no alle miniere, o a morire nei circhi, sal vandone alcuni per farne gladiatori. Sette cento dei più prestanti sfilarono nel trionfo di Tito, a Roma.
FORTIFICATA La rupe fu identificata nel 1834 come quella del celebre assedio romano. Lungo il perimetro c’erano casematte e mura.
Giuseppe Flavio, ribelle pentito
G
ran parte delle notizie sulla Giudea del I secolo si devono a uno storico che fu anche testimone oculare. E in parte anche protagonista. Giuseppe Flavio nel 67 era il responsabile militare zelota di Iotapata durante l’assedio di Vespasiano. Ripensamenti. Dopo la caduta della città, Flavio si rifugiò in un sotterraneo con una quarantina
di sopravvissuti. Qui spinse i suoi al suicidio collettivo, ma quando rimasero solo lui e il subalterno con cui aveva assistito alla carneficina, convinse l’altro ad arrendersi. Fu portato al cospetto di Vespasiano ed ebbe salva la vita grazie all’intercessione di Tito. Quando Vespasiano divenne imperatore se ne guadagnò il favore come biografo ufficiale.
Anzi, l’unico, almeno per noi posteri: i libri delle Storie di Tacito relativi a quel periodo sono infatti perduti. Le opere. Guerra giudaica e Antichità giudaiche sono fonti preziose, seppure tendenziose, per ricostruire quelle che sono probabilmente la rivolta e la repressione meglio documentate del mondo romano.
no giudaici, inclusi sinedrio e sommo sa- mana e un tempio dedicato a Giove Capicerdozio, fu vietato il culto ebraico in quel tolino erano affronti. Furono necessari tre che restava del Tempio e molte terre intor- anni per riportare l’ordine dopo la rivolta no a Gerusalemme furono assegnate ai ve- guidata da Bar Kokhba (“Figlio della stella”), sedicente Messia. terani romani. Seguì la riorganizzaOlocausto. La mizione amministrativa sura della repressiodella Siria-Palestina e ne (alias Terza guerra un’accelerazione delgiudaica) è tutta nelle la diaspora. Ma la loncifre: 985 villaggi conGli Zeloti condotti in ga manus romana arquistati e 50 roccaforti catene a Roma per il rivò anche là dove si distrutte; 580.000 pererano rifugiati gli Zelotrionfo del generale Tito. sone massacrate, alle ti sopravvissuti: Alesquali vanno aggiunti i sandria d’Egitto e Cirene (Libia). Ci pensò morti di fame e per la peste. Un’anticipaTraiano, campione di repressione e regista zione dell’Olocausto. Da allora, gli Ebrei della Seconda guerra giudaica (115-117). cessarono di essere un problema per l’UrUna ventina di anni dopo, l’imperatore be. Ma siccome avevano venduto cara la Adriano alimentò nuove tensioni con al- pelle, i Romani li avrebbero ricordati cocune decisioni: ribattezzare Gerusalemme me i ribelli più tenaci. • Elia Capitolina, istituirvi una colonia roAndrea Frediani
700
l’acqua, che erano vitali Resistenza estrema. Dopo la caduta di Gerusalemme, rimanevano solo tre fortezze in mano agli Zeloti. Di queste, Masada si è guadagnata una fama che arriva fino a oggi grazie al gesto estremo dei suoi 960 difensori, guidati da Eleazar Ben Yair. Alla vigilia dell’assalto finale dei Romani assedianti si uccisero tutti, tranne due donne e cinque bambini. Dopo che i legionari avevano tagliato i rifornimenti idrici alle cisterne ed erano riusciti ad aprire una breccia, non c’era altra alternativa: consegnarsi o uccidersi. L’ultimo capitolo del copione repressivo romano prevedeva l’abolizione di ogni residuo di indipendenza. Furono soppressi pressoché tutti gli organi di autogover-
Scacco momentaneo La trappola zelota contro i Romani al passo di Beth Horon, nel 66. Fu una delle poche vittorie dei ribelli.
OSPREY
PALAZZO REALE L’altopiano fu fortificato da Erode il Grande intorno al 35-30 a.C. Il sovrano dotò la cittadella di caldaie per le terme.
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PRIMO PIANO
L’incantatrice
ALINARI
Statua di Agrippina Minore, sorella di Caligola e moglie in terze nozze dell’imperatore Claudio. Qui è con il piccolo Nerone, avuto dal primo marito, Domizio Enobarbo.
MAMMINA
CARA
Morì per mano del figlio Nerone. Ma prima si impose a sua volta nella politica della corte giulio-claudia grazie alla crudeltà e (forse) all’assassinio del marito imperatore, Claudio. O almeno questo narra la tradizione
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G
Il papà di Nerone Statua del console Gneo Domizio Enobarbo, padre di Nerone e marito di Agrippina: secondo la storiografia, non godette di una buona reputazione e venne accusato di adulterio e di lesa maestà.
iulia Agrippina ricordava l’esaltazione provocata dagli applausi dei Romani. Da un angolo della sua mente riemerse suo padre: l’eroico, valoroso condottiero Germanico sfilava a Roma, nel suo grande trionfo per la vittoria ottenuta in Germania contro i terribili Cherusci. Il popolo lo acclamava con gioia e lo stesso faceva una bambina con i riccioli scuri, che sgambettava felice battendo le manine a fianco di sua madre. Quanti anni aveva allora? Forse due: se non si sbagliava era il 17 d.C. Ora, a distanza di 32 anni, era lei a essere applaudita, mentre si recava in Campidoglio per ricevere l’omaggio dei sacerdoti: un onore che non aveva avuto neppure Livia, la moglie del divino Augusto. Tra il luccichio dei vessilli, delle trombe e dei tamburi, assisa sul carro e circondata dalla guardia personale, vedeva la folla accalcarsi per potersi avvicinare a lei, figlia di Germanico e di Agrippina Maggiore, moglie dell’imperatore Claudio e Augusta. Realtà e pregiudizi. Il popolo e i soldati la amarono molto, eppure passò alla Storia come una delle donne più crudeli dell’impero. Gli storici latini di I-II secolo la descrissero come una tessitrice di inganni, mantide avvelenatrice e ammaliatrice, disposta a usare il proprio corpo per raggiungere il potere. La accusarono inoltre di diversi omicidi, di almeno un paio di congiure e, più volte, di incesto. Ma chi fu davvero Agrippina minore? Di quali crimini si macchiò?
«Gli storici antichi danno una propria interpretazione dei fatti, che non corrisponde sempre alla realtà, soprattutto quando parlano di donne con un ruolo importante a corte», spiega Francesca Cenerini, docente di Storia romana e Storia delle donne nel mondo classico all’Università di Bologna. «Chi, come Tacito, era contrario al potere imperiale, le descrive sempre come licenziose o crudeli: era anche un modo per colpire gli imperatori, mostrandoli deboli e in mano alle proprie mogli o amanti». Fin qui le riserve degli storici moderni. Ma qual è invece il ritratto tramandato dalla tradizione? Cresciuta sul limes. Alta e silenziosa, il viso severo, i capelli neri, Agrippina fu quasi un personaggio da tragedia greca, una tragedia il cui primo atto si apre in un accampamento militare in Germania. La pronipote di Augusto, futura madre, sorella e moglie di imperatori, nacque a Oppidum Ubiorum (l’attuale Colonia), sulla riva sinistra del Reno, il 6 novembre del 15 d.C. Il clangore delle armi e il vociare dei soldati furono la sua ninna nanna, le imprese militari del padre le sue favole della buonanotte. Non le rimasero che quelle, quando a quattro anni perse il genitore. Germanico era stato adottato dall’allora imperatore Tiberio come suo successore. Dopo i successi militari, però, l’imperatore, geloso, lo spedì a combattere in Siria e lì lo fece avvelenare. Prove non ce n’erano, ma la vedova, inconsolabile, ne era sicura: l’errore fu gridarlo per tut55
UNA DINASTIA DA CAMMEO Il Grande cammeo di Francia (conservato a Parigi) è uno dei più celebri gioielli dell’antichità, databile tra il 20 e il 30 d.C. Rappresenta alcuni membri della dinastia giulio-claudia, alla quale apparteneva Agrippina, anche se non tutti concordano sulle identificazioni.
LA DEA ROMA Secondo alcuni, Enea o Apollo, o la divinità Mitra.
AUGUSTO Velato, assunto in cielo. Il cammeo vorrebbe dimostrare la continuità della gens giulioclaudia con lui.
MARCO CLAUDIO MARCELLO Nipote di Augusto, in groppa a un pegaso. Oppure Germanico.
GIULIO CESARE Secondo altre interpretazioni si tratterebbe invece di Druso Maggiore.
GERMANICO Nipote di Tiberio, successore al trono imperiale. Padre di Agrippina.
DRUSO MINORE Figlio dell’imperatore Tiberio e della sua prima moglie Vipsania.
AGRIPPINA MAGGIORE Madre di numerosi figli tra cui Caligola e Agrippina.
LIVILLA Moglie di Druso Minore, figlia di Druso Maggiore (fratello di Tiberio).
ANTONIA MINORE Figlia della sorella di Augusto, Ottavia minore, e di Marco Antonio. TIBERIO L’imperatore sul trono: regnò dal 14 al 37. Sposò la figlia di Augusto.
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LIVIA Moglie di Augusto e madre di Tiberio. Spinse per la sua elezione al trono.
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CALIGOLA Futuro imperatore di Roma, qui ancora bambino, fratello di Agrippina.
Agrippina fu capace di muoversi senza scrupoli dietro le quinte del potere per far rimanere in sella il giovane figlio Nerone ta Roma. Così anche sul resto della famiglia, lentamente, calò la spietata vendetta dell’imperatore. Nel 29, Tiberio diede in moglie Agrippina, neppure quindicenne, al crudele Gneo Domizio Enobarbo, trent’anni più vecchio di lei. Nessuno dei suoi familiari partecipò alle nozze: sua madre era in esilio sull’isola di Pandataria (l’odierna Ventotene, v. Focus Storia n° 98) e i due fratelli maggiori, Nerone e Druso, in carcere. Fu durante questo matrimonio infelice che Agrippina mise al mondo il suo unico figlio: Lucio Domizio Enobarbo, il futuro imperatore Nerone. Atto secondo. Era il 37, l’anno in cui cominciò il secondo atto di questa storia, quello del calcolo e della crudeltà, l’anno che vide non solo la nascita del piccolo Enobarbo, ma anche la morte di Tiberio e l’ascesa al trono di Caligola, il fratello più piccolo di Agrippina, scelto come erede dall’imperatore. Con Caligola al centro della scena, le cose non migliorarono: lo scrittore Svetonio racconta che il nuovo imperatore “intrattenne relazioni incestuose con tutte le sue sorelle: davanti a tutti, a tavola, le collocava a turno sotto di sé, mentre la moglie stava sopra”. La sua preferita pare fosse Drusilla, la più giovane. Quando la ragazza morì, nel 40, Agrippina e l’ultima sorella Livilla furono esiliate a Ponza: pare avessero congiurato contro l’imperatore. Vero o no, le due rimasero sull’isola un anno, giusto il tempo che i pretoriani facessero ciò che a loro non era riuscito. Il nuovo imperatore Claudio, fratello di Germanico, le richiamò a Roma e diede ad Agrippina, rimasta da poco vedova, un marito: Gaio Sallustio Passieno Crispo, suo vecchio e ricchissimo amico. In quell’unione il prezioso sangue della discendenza di Augusto era davvero sprecato: Agrippina sapeva di poter pretendere di più, per se stessa e per il figlio, e agì di conseguenza. Senza guardare in faccia a nessuno. Tacito racconta che fece di tutto per screditare Messalina (al momento moglie di Claudio) agli occhi dello zio, spiandola e raccogliendo accuse contro di lei. Tanta fatica per niente: la ragazza era perfettamente in grado di mettersi nei guai da
Caligola e le sorelle Sesterzio con l’immagine di Caligola raffigurante sul rovescio le sue tre sorelle: Agrippina, Drusilla e Giulia.
sola. Nel 48, mentre Claudio era assente, nell’ebbrezza di una festa dionisiaca sposò il suo amante Gaio Silio: il gesto costò a Messalina la vita. “Augusta”. Dopo la sua morte, Agrippina, vedova per la seconda volta (secondo gli storici non accidentalmente), ebbe gioco facile: la spuntò sulle altre rivali e venne scelta da Claudio come moglie. Il Senato si limitò a notare che, per quanto inusuali, le nozze tra zio e nipote non erano mai state espressamente vietate da alcuna legge. Il censore Lucio Vitellio, che doveva farsi perdonare l’appoggio dato in passato a Messalina, fece anche di più: chiese per la figlia di Germanico il titolo di Augusta. Ed eccola infine, nel 50, acclamata dai Romani sul Campidoglio, al massimo del
suo potere. «Come madre, Agrippina desiderava che il figlio diventasse imperatore, ma al contrario di quanto dicono le fonti fu Claudio a sceglierlo come erede, non lei a imporglielo. Il motivo è semplice: la figura di Nerone portava con sé il retaggio e la forza del sangue di Augusto, che gli veniva dalla madre», spiega Cenerini. “Tuo figlio regnerà, ma porterà la tua rovina”: a nulla era valso l’oracolo di una indovina. Agrippina si impegnò con tutta se stessa per garantire a Lucio Domizio Enobarbo, ribattezzato Nerone dopo l’adozione da parte di Claudio, la successione imperiale. Secondo le fonti antiche l’Augusta eliminò o fece eliminare chiunque si fosse messo di traverso sul suo cammino: Lollia
INTRIGHI TRA PARENTI L’albero genealogico della famiglia di Agrippina.
GNEO DOMIZIO ENOBARBO
DRUSO CESARE
NERONE
(1° MARITO)
DRUSILLA AGRIPPINA MAGGIORE
AGRIPPINA MINORE
CLAUDIO
(3° MARITO)
GERMANICO GAIO CESARE (CALIGOLA)
NERONE CESARE
GIULIA LIVILLA
GAIO SALLUSTIO CRISPO (2° MARITO)
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SCALA
Agrippina e Poppea avevano una visione politica simile, anche se la prima era aristocratica e la seconda rappresentava la classe emergente
Il matricida Profilo di Nerone. Sembra sia stata la sua seconda moglie Poppea a spingerlo al matricidio.
se per la guardia pretoriana. E la madre si dimostrò davvero ottima a reggere le redini dell’impero, a tramare e a uccidere per difendere il trono del figlio. Col tempo, però, la sua prevaricante autonomia cominciò a essere d’intralcio al giovane: stanco della donna che Tacito definisce “infiammata da tutte le voglie di una pessima tiranna”, cominciò a toglierle potere. Allontanò Pallante, il tesoriere imperiale che le dava appoggio, le revocò la scorta di pretoriani e la guardia germanica, poi la sfrattò dal Palazzo. Intuito il pericolo, secondo Tacito, Agrippina non esitò a macchiarsi del crimine di incesto, tentando di sedurre suo figlio: lo scandalo, precisa lo storico, venne evitato solo grazie all’intervento del filosofo Seneca, precettore di Nerone. Poco dopo, la donna fu costretta a difendersi anche dall’accusa di aver congiurato contro suo figlio. Matricidio. Il suo destino fu segnato quando Nerone conobbe Poppea, la donna che avrebbe sposato nel 62: pare sia stata lei, infatti, a spingerlo al matricidio. «La mia opinione è che il vero discrimine fu la diversa politica portata avanti da madre e figlio: Agrippina credeva nella politica aristocratica, che legittimava i discendenti in base all’aristocrazia del sangue. Poppea, invece, rappresentava il ceto della nuova borghesia municipale: Nerone preferì appog-
Paolina, che le aveva conteso la mano di Claudio, Domizia Lepida, madre di Messalina ed ex baby-sitter di Nerone, per il pessimo ascendente sul figlio; i suoi due cugini di secondo grado, Lucio e Marco Giunio Silano, concorrenti al trono; Sosibio, precettore del figlio di Claudio, Britannico, accusato di aver tramato contro Nerone. Delitti in famiglia. «Anche se è impossibile stabilire con sicurezza quali e quanti siano stati, gli atti compiuti da Agrippina rientravano nelle normali dinamiche della corte romana, piena di delitti e intrighi. Per sopravvivere bisognava essere abili: in questo senso il ruolo notevole di Agrippina è chiaro», dice Cenerini. Determinata e capace di zigzagare tra gli intrighi di palazzo, per essere ancora più certa Agrippina non fu la peggiore della successione dispose le nozze, nel 53, fra Nerone e Ottavia, la figlia di Claudio. delle romane. Ecco le altre. Ormai nulla, se non l’imperatore stesso, poteva impedire al ragazzo di regnare. E l’anno dopo Claudio improvvisamenFULVIA (84-40 A.C.) Fu una delle donne più te morì. Tacito, Svetonio e Cassio Dione facoltose della Roma repubblicana scrivono che lo avvelenò Agrippina con e moglie di Marco Antonio, il generale un piatto di funghi, complici l’assagdi Cesare. Risoluta e, secondo Svetonio, giatore Aloto e il medico di corte Se“superba, violenta e prepotente”, si guadagnò nofonte. «Personalmente non credo gli strali di tutti gli storici romani: secondo Velleio sia stata la moglie a ucciderlo», soPatercolo aveva “di femminile solo un corpo caldo stiene Cenerini. «Ma, dopo la sua e attraente”. Cicerone le attribuì la colpa della morte, fu abilissima a mettersi d’acrottura fra Ottaviano e Antonio e lo scoppio cordo con il Senato e con i pretoriani della guerra civile: quando le venne portata per favorire l’ascesa di Nerone». la testa dell’oratore, Fulvia ne riempì “Ottima madre” fu la parola d’ordine la lingua ormai violacea di spilli (43 a.C.). che il diciassettenne neo-imperatore scel-
giarsi anche ad altri ceti e, non potendo più venire incontro alle aspettative di sua madre, la uccise», afferma Cenerini. Nel 59 il sipario si alzò sull’ultimo atto della tragedia di Agrippina: invitata da suo figlio alla festa di Minerva a Baia, su un’insenatura del Golfo di Pozzuoli, dopo cena venne fatta salire su una barca che avrebbe dovuto riaccompagnarla alla sua villa ad Anzio. L’imbarcazione era stata modificata per affondare con il prezioso carico, ma quando il soffitto piombato della cabina di Agrippina crollò, lo scafo si inclinò soltanto. La vittima finì in acqua con la sua ancella, che, scambiata per la padrona, venne uccisa a colpi di remo: in silenzio, ferita a una spalla e molto più profondamente nell’animo, l’optima madre raggiunse la riva. Alcuni pescatori l’accompagnarono in una villa nei pressi del lago Lucrino. Mentre Seneca scriveva al Senato la lettera in cui annunciava la condanna e la morte di Agrippina, colpevole di avere attentato alla vita del figlio, i sicari di Nerone tramortivano la donna a botte. A finirla ci pensò Aniceto, armato di coltello: “Colpisci qui”, avrebbe esclamato la figlia di Germanico indicando il ventre in cui era cresciuto suo figlio. E l’assassino l’accontentò. • Maria Leonarda Leone
LE CATTIVISSIME
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LIVIA DRUSILLA
(58 A.C.-29 D.C.) La moglie di Augusto cercò di assicurare l’impero a suo figlio Tiberio. Non avendo avuto figli con Augusto, l’unica erede diretta era la figlia dell’imperatore, Giulia. Alcune voci vogliono che Marco Claudio Marcello, il nipote preferito di Augusto, sia stato ucciso per volere di Livia (23 a.C.). Lo stesso sarebbe accaduto ai figli maschi di Giulia e del secondo marito Marco Agrippa, adottati da Augusto. Rimasta vedova, per legittimare la successione al trono, Giulia fu costretta a sposare Tiberio.
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Colpita al ventre LOCUSTA
VALERIA MESSALINA (25-48 D.C.) A quindici anni sposò l’imperatore Claudio e a 22 morì, ma in questo breve lasso di tempo si creò una pessima fama. Viziosa e trasgressiva, non fu da meno delle altre madri nel sostenere la corsa al trono di suo figlio Britannico. Si dice che, senza riuscirvi, cercò di far strangolare nel sonno il figlio di Agrippina, il futuro imperatore Nerone, e che, gelosa della bellezza della nipote di suo marito, Livilla, la fece uccidere. Tra le vittime pare ci sia stata anche la madre di Poppea.
(?-69 D.C.) Avvelenatrice ufficiale di palazzo, gli antichi storici le attribuiscono dai cinque ai sette omicidi, anche se il loro numero potrebbe essere più alto. Nata in Gallia, pare gestisse a Roma un emporio di veleni, al quale attingeva a piene mani. I suoi servigi erano molto richiesti dall’aristocrazia: Agrippina avrebbe fatto ricorso a lei per avvelenare i funghi serviti all’imperatore Claudio e Nerone se ne servì per uccidere il fratellastro Britannico.
Nerone e sua madre in un dipinto dell’800 di Antonio Rizzi. A sinistra, cammeo con Claudio e Agrippina Minore (a sinistra) e i genitori Germanico e Agrippina Maggiore.
POPPEA SABINA (30-65 D.C.)
Si dice fosse perfida e bellissima e che istigò il suo amante, l’imperatore Nerone, a liberarsi sia della moglie Ottavia che della madre Agrippina. Tacito aggiunge che fu anche la causa dell’insana follia dell’imperatore. La descrive arida, dissoluta e senz’amore, odiata e temuta da molti a Roma per l’ambizione e la sua mancanza di scrupoli. Si dice che fece uccidere o esiliare chiunque osasse sfidarla, ma in realtà pare fosse una donna colta e legata a Nerone da un affetto sincero. 59
PRIMO PIANO
Le pene e i supplizi inflitti a chi violava la legge romana (o quella divina) erano un campionario di torture. Ma niente era affidato al caso
LEX DURISSIMA I
SCALA
più fortunati venivano decapitati, sca- stità o avessero lasciato spegnere il sacro raventati giù da una rupe o strangola- fuoco, era destinato uno dei supplizi più ti. Altri finivano invece annegati, ar- crudeli: essere murate vive. Dopo una lusi sul rogo, crocifissi, fustigati, lapida- gubre cerimonia, la colpevole veniva conti, mangiati dalle belve o murati vivi... Era dotta nel cosiddetto “campo scellerato” questo il macabro campionario delle pe- (oggi presso Porta Collina, lungo le Mune di morte in uso nell’antica Roma, do- ra Serviane) e fatta entrare in una camera ve a ogni crimine corrispondeva una spe- sotterranea dove erano presenti un letto, pochi viveri e una fiaccola. Veniva quindi cifica punizione. Non tutte le condanne capitali erano chiusa all’interno della sua futura tomba e stabilite da apposite leggi, ma quasi tutte abbandonata a morire di inedia. A livello simbolico, la camera tombale avevano in comune una tetra fantasia. «I supplizi romani non si limitavano a dare rappresentava la casa, la dimensione douna morte più o meno dolorosa, ma impli- mestica, così come i compiti quotidiani cavano riti misteriosi dietro a cui vi erano delle vestali ricalcavano le mansioni delcredenze magiche o religiose», conferma le donne comuni. Non a caso, queste ulEva Cantarella, autrice del saggio I sup- time andavano incontro a una morte anaplizi capitali. Origine e funzioni delle pene loga a quella delle sacerdotesse in caso di di morte in Grecia e a Roma (Feltrinelli). adulterio o se si davano al vino: solo che «Le pene rispondevano inoltre a tre esi- a eseguire la condanna non era il pontefigenze: infliggere un castigo a chi non ave- ce massimo (capo di tutti i sacerdoti), ma va rispettato l’autorità familiare o politica; il pater familias, titolare della patria poteespiare un comportamento che aveva offe- stas. I motivi per cui venivano puniti adulso una divinità; soddisfare il desiderio di terio e ubriachezza sono da ricercare nella vendetta di chi era stato vittima di un tor- cultura del tempo. «A Roma, una delle prime preoccupato». All’origine delle più antiche punizioni, l’indissolubile unione di sacralità e vi- zioni era quella di garantire un’ordinata riproduzione dei cittadini, controllando ta quotidiana nel mondo romano. Morte lenta. Tra le più antiche istitu- di conseguenza il comportamento femminile», spiega Eva Cantarelzioni della città c’era quella la. In quest’ottica, ovviadelle vestali, giovani sacerAd bestias! mente, non potevano esdotesse vergini che avevaMosaico romano di sere ammessi rapporti sesno il compito di tenere semetà imperiale, da El suali illeciti, mentre il vino pre acceso il fuoco sacro alla Djem (Tunisia), con una era vietato poiché portadea Vesta (simbolo della vidamnatio ad bestias, va le donne a “perdere il ta eterna dell’Urbe). Proprio condanna pubblica che controllo” distraendole dai a loro, nel caso in cui avesconsisteva nell’essere propri doveri. sero infranto il voto di cadivorati vivi dalle belve.
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Flagellata
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Scena di flagellazione da un affresco di Pompei. Era una punizione riservata a servi e schiavi insubordinati (o agli amanti delle vestali).
Le donne non erano processate in pubblico. Eseguivano la condanna i familiari, tra le mura domestiche
Presi per il collo. Rispetto alla sorte delle vestali, una pena considerata “privilegiata” era lo strangolamento, a cui ricorrevano molti aspiranti suicidi (spesso condannati a morte, ma intenzionati a evitare il disonore di un supplizio pubblico). «Quando un romano decideva di mettere fine ai suoi giorni, ricorreva in parecchi casi al laqueum, un laccio che, stretto al collo, toglieva il respiro in pochi secon-
IL CATALOGO DEI SUPPLIZI
di risultando indolore», afferma l’esperta. «Peraltro per i Romani togliersi la vita non era un atto di codardia, ma un gesto di libertà». In tal senso, il suicidio più “onorevole” era considerato quello con la spada, l’arma virile per eccellenza. Tornando alle pene capitali, una delle più frequenti era la fustigazione, riservata sia agli amanti delle vestali, sia, in ambito domestico, agli schiavi insubordinati o ai figli che avesse-
Le principali pene previste dal
“ALBERO INFELICE”
CROCIFISSIONE
DAMNATIO AD BESTIAS
DECAPITAZIONE
FUSTIGAZIONE
CONDANNATI Colpevoli di delitti contro lo Stato.
CONDANNATI Schiavi ribelli e altri criminali.
CONDANNATI Schiavi ribelli e altri criminali.
CONDANNATI Colpevoli di delitti contro lo Stato.
ESECUZIONE Il condannato veniva legato a un albero, fustigato e abbandonato.
ESECUZIONE Il condannato veniva prima flagellato, poi legato alla croce.
ESECUZIONE Divoramento da parte delle fiere (a volte legati sulle stesse).
ESECUZIONE Decapitazione con la scure.
CONDANNATI Schiavi insubordinati, amanti delle vestali.
MORTE Emorragie, infarto, soffocamento.
MORTE Soffocamento, emorragie, infarto.
MORTE Lesioni interne, emorragie, infarto.
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MORTE Rapida, per mancato afflusso del sangue al cervello.
ESECUZIONE Il condannato veniva colpito con delle verghe. MORTE Lesioni interne, emorragia.
Anche i Greci non scherzavano
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A lato, il toro di Falaride (tiranno di Agrigento). Sotto, la punizione divina di Prometeo: il fegato divorato da un corvo.
C
ome a Roma, anche nell’antica Grecia erano in uso diversi tipi di pena capitale, alcuni dei quali adottati poi nell’Urbe. Eccone alcuni. CROCIFISSIONE GRECA Chiamata apotympanismos, prevedeva che il condannato fosse incatenato a un palo e percosso con bastoni per poi essere abbandonato a una lunga agonia in preda a fame, sete, intemperie e morsi degli animali. BARATHRON Il Barathron era una fossa profondissima situata secondo Platone lungo la strada tra Atene e l’Epiro. Qui venivano gettati i criminali. CICUTA Dal kóneion, o pianta della cicuta, veniva estratto un potentissimo veleno che intorpidava corpo e mente, poi bloccava il respiro. Tra le vittime celebri, Socrate. IMPALAMENTO A provocare la morte era la lacerazione degli organi, ma se questi non
venivano lesi immediatamente l’agonia poteva durare giorni. IMPICCAGIONE Riservata alle donne, ricalcava la punizione data da Ulisse (una volta tornato a Itaca) alle ancelle a lui infedeli. Si moriva per asfissia.
TORO DI FALARIDE Era una struttura in bronzo a forma di toro, cava all’interno e con una porticina per farvi entrare il condannato di turno. Il suo destino? Essere arrostito vivo, a causa del calore proveniente da un fuoco acceso sotto la pancia dell’animale.
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ro tradito i princìpi della civitas (la cittadinanza): venivano uccisi a colpi di verghe. Rimanendo in tema di traditori, i colpevoli di crimini contro lo Stato (il reato si chiamava perduellio) incorrevano spesso nella securi percussio: la decapitazione con la scure, strumento storicamente associato al potere dei re di Roma. Seguito da un folto pubblico, il rito di morte era preceduto da una processione nota come “passeggiata ignominiosa”. «Con le mani legate, il condannato veniva fustigato, pungolato, insultato e preso a sassate», dice l’esperta. «Fino a quando, al suono di una tromba, la scure cadeva sul suo collo ponendo fine a ogni sofferenza». Dagli alberi alle croci. Ai colpevoli di perduellio era destinata anche la pena dell’arbor infelix (“albero infelice”). Secondo lo storico Tito Livio (59 a.C.-17) il supplizio prevedeva che il reo, con il capo coperto, fosse “sospeso con una corda all’albero” e poi frustato. Alcuni hanno letto tale narrazione pensando a un rituale di impiccagione, ma l’ipotesi è da scartare. «Per i Romani, impiccagione e pena capitale erano inconciliabili, poiché si credeva che le anime degli impiccati, avendo esalato l’ultimo respiro sospesi in aria, non riuscissero a tornare a terra, nel regno dei defunti, e vagassero tra i vivi, terrorizzandoli», spiega Cantarella. L’arbor infelix era invece assimilabile alla crocifissione: il condannato veniva legato a un tronco con una corda e lasciato al suo destino. Questa pena (come molte altre nel mondo antico) aveva inoltre caratteri sacrifica-
Tra mito e Storia
diritto romano e dalla tradizione, e le colpe alle quali erano associate. ROGO
SEPOLTURA DA VIVI
RUPE TARPEA
CONDANNATI Disertori ed omicidi.
CONDANNATI Rei di crimini religiosi, incendiari, omosessuali passivi.
CONDANNATI Vestali infedeli, donne adultere o che si dedicavano al vino.
CONDANNATI Traditori della patria.
ESECUZIONE Legato a un palo e arso vivo.
ESECUZIONE Rinchiusa per sempre in una camera.
ESECUZIONE Lancio di pietre contro il condannato. MORTE Emorragia, lesione degli organi.
MORTE Soffocamento, ustioni, infarto.
MORTE Per inedia.
ESECUZIONE Condannato a essere gettato vivo da un dirupo. MORTE Lesione degli organi e della spina dorsale.
PENA DEL SACCO
CONDANNATI Parricidi. ESECUZIONE Lanciato in acqua in un sacco con 4 animali: cane, gallinaccio, scimmia e vipera. MORTE Emorragia e soffocamento. 63
INFOGRAFICA: VITTORIO SACCHI
LAPIDAZIONE
Qualsiasi patibolo in legno affisso nel terreno veniva genericamente chiamato crux, ovvero “croce”
ALTO PATROCINIO Nella parte alta del reperto, alcune figure sono forse i santi protettori.
LEGIONARI A protezione della città (anonima) c’era una guarnigione romana.
TROFEI I capi degli assedianti sconfitti esposti sulle furcae: era il tipo di crocifissione più rapida nel dare la morte. In molti casi avevano anche un’asse orizzontale.
BPK/SCALA
ANTEFATTO In basso, sono raffigurate scene della battaglia con la quale la città fu liberata.
A ciascuno la sua croce Scultura in legno dall’Egitto romano (V secolo), raffigurante la liberazione di una città cristiana assediata dai barbari. Gli assedianti catturati sono mostrati appesi alle furcae. 64
li. Ai condannati veniva coperta la testa, proprio come avveniva quando si consacrava una vittima agli dèi. La crocifissione vera e propria, destinata soprattutto a schiavi e stranieri, implicava uno specifico strumento, costituito da un’asse verticale detta stipes e da una orizzontale nota come patibulum, unita alla prima dopo che il condannato l’aveva faticosamente trasportata sulle proprie spalle. Come i Vangeli raccontano sia accaduto a Gesù. Non è però vero che i chiodi furono usati per Cristo in un eccesso di disprezzo e crudeltà: i resti di un condannato alla crocifissione, ritrovati presso Gerusalemme, hanno confermato che questa era la regola, non l’eccezione. Il malcapitato, appeso alla croce, veniva torturato con ferri roventi e colpito alle gambe fino a spezzargli le ossa. La morte sopraggiungeva per infarto, blocco respiratorio o emorragia. A metà tra l’“albero infelice” e la croce si collocava la furca: a forma di Y, vi si poggiava il collo del condannato, che moriva per soffocamento (v. a sinistra). Al rogo. Molte esecuzioni capitali erano eventi pubblici altamente scenografici, come nel caso della damnatio ad bestias, o condanna alle belve, introdotta nel II secolo a.C. e riservata soprattutto agli schiavi. Per consentire lo svolgimento dello spettacolo mortale, i cui protagonisti erano leoni e tigri, furono costruiti gli anfiteatri. Un atroce impatto scenografico lo avevano anche le condanne al rogo, eseguite in particolare per i crimini religiosi e usate durante le persecuzioni dei cristiani (v. riquadro a destra). Legati a un palo rivestito di legni ai quali si dava fuoco, era una pena tra le più atroci. Per aumentare l’effetto scenografico dei roghi veniva fatta indossare la tunica molesta, una veste intrisa di pece e zolfo che contribuiva a far divampare le fiamme. Oltre ai cristiani, tra i destinatari della pena del rogo c’era chi dava fuoco ai campi coltivati: così, il condannato si trasformava in sacrificio umano alla dea della fertilità, Cerere. «Nel 390, l’imperatore Teodosio I (quello che rese il cristianesimo religione di Stato, ndr) stabilì che venissero arsi vivi tutti quelli che commettevano “l’infamia di condannare il corpo virile [...] a sopportare pratiche riservate all’altro sesso”», aggiunge Cantarella. «In altri termini, tutti gli omosessuali passivi». Giù dalla rupe. Preferibile al rogo era il destino che attendeva disertori e doppiogiochisti, condannati alla precipitazione, o
SCALA
Il martirio di san Pietro, di Luca Della Robbia (1400-1482).
un imperatore: Aulo Vitellio, scalzato con la forza da Vespasiano. Vitellio, narra Svetonio, fu trascinato nel Foro con una corda al collo mentre la folla “gli gettava addosso dello sterco e del fango”, fino a che, “scarnificato [...], fu ucciso e trascinato con l’uncino nel Tevere”. Ancora scene da film horror, dunque. «Sarebbe però ingiustificato e anacronistico pensare che i Romani avessero una
particolare tendenza alla crudeltà», avverte la storica. A riprova, il fatto che molti supplizi dell’antica Roma sono tuttora in auge in alcuni dei Paesi dove vige la pena capitale, mentre altrove, a partire dagli Usa, ne sono stati escogitati di nuovi. In molti casi, oggi come ieri, prevedendo la presenza di un piccolo pubblico in cerca di castigo, di espiazione o di vendetta.• Matteo Liberti
Sangue e arena Statuetta del II secolo trovata in Siria, con un condannato legato al toro e assalito da un felino: una pena riservata soprattutto agli schiavi, ed eseguita nelle arene.
RMN/ALINARI
meglio a essere gettati dall’alto della Rupe Tarpea. Si trattava di uno sperone di roccia del Campidoglio dove, secondo la leggenda, era morta una giovane (Tarpea) dopo essersi venduta ai Sabini. Tra le morti più appariscenti c’era infine la lapidazione, ossia il lancio di pietre contro il colpevole di turno. Era una pratica diffusa soprattutto in ambito privato: la usavano i parenti delle vittime di omicidio, autorizzati – secondo l’antica legge del taglione – a uccidere l’assassino. Cani, gallinacci, scimmie e vipere. Dato il valore, per i Romani, dell’istituzione familiare, il reato peggiore era però il parricidio. Di conseguenza, il relativo supplizio era tra i più elaborati e crudeli: la pena del sacco (poena cullei). «Al parricida venivano fatti indossare degli zoccoli di legno e un cappuccio di pelle di lupo», riprende l’esperta. «Poi, dopo essere stato percosso, il condannato veniva cucito dentro a un sacco con un cane, un gallo, una vipera e una scimmia, quindi gettato in mare o nel più vicino corso d’acqua». Si moriva per mancanza d’aria o per le ferite inferte dagli animali, la cui presenza aveva valore simbolico: il cane godeva di pessima fama per la parentela con i feroci lupi; il gallo era sinonimo di violenza; la scimmia era considerata un “uomo mostruoso” e della vipera si diceva che i piccoli fossero soliti uccidere la madre. Per quel che riguarda la pelle di lupo, anch’essa alludeva alla ferocia del parricida, mentre gli zoccoli di legno erano legati alla credenza che tale materiale avesse la capacità di “isolare” gli influssi malefici del condannato. A finire trucidato e gettato in acqua (ma senza sacco), fu anche
I cristiani nel mirino di Roma
E
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coloro che morivano furono pure scherniti: coperti di pelli di bestie perché morissero dilaniati dai cani oppure affissi alle croci e dati alle fiamme perché, caduto il giorno, bruciassero come fiaccole notturne”. Così Tacito, negli Annali, descrive la condanna “creativa” riservata da Nerone ai cristiani, durante una delle prime persecuzioni anticristiane, seguita al grande incendio di Roma del 64 d.C.
Sediziosi. A far finire i cristiani nel mirino della repressione furono le accuse di sedizione e la confusione tra i seguaci di Gesù e quelli di altre sette (in particolare gli Zeloti). Ma fu soltanto quando il loro numero crebbe tra gli aristocratici, minando l’unità fra paganesimo e organizzazione statale, che i cristiani divennero nemici dello Stato, oltre che un perfetto capro espiatorio in tempi di crisi.
Molti subirono la condanna ad bestias: i Romani non erano tipi da guerre di religione, ma non offrire sacrifici agli dèi o all’Augusto era un tradimento. Emanarono leggi ad hoc Decio e Valeriano (III secolo), ma l’ultima grande ondata di condanne la firmarono Diocleziano e Galerio, all’inizio del IV secolo. Poi, nel 313, Costantino “depenalizzò” quel culto ormai parte della società romana.
PRIMO PIANO
L’ULTIMO
Potere femminile Moneta d’oro del IV-V secolo (trasformata in pendente) con la potente Galla Placidia, madre dell’imperatore Valentiniano III. 66
I
n un giorno della tarda primavera del 425 d.C. il popolo di Aquileia si raccolse nel circo per assistere a un crudele spettacolo: l’esecuzione capitale di Giovanni, per due anni usurpatore del trono di Ravenna. Sulla tribuna, circondata da guardie del corpo, c’era la reggente Galla Placidia, figlia di Teodosio I; con lei,
suo figlio Valentiniano III, di appena 6 anni, da quel momento Augusto d’Occidente. Per l’ambiziosa Placidia era un trionfo, ma non poté gioirne a lungo. Tre giorni dopo sotto le mura della città si presentò un’armata di cavalieri unni fedeli all’usurpatore ormai liquidato. Il loro comandante era un ufficiale illirico, Flavio Ezio.
L’ascesa e la caduta di Ezio, ”uomo forte” che, con l’appoggio degli Unni e poi dei Visigoti, fece rivivere, alla vigilia della caduta, i fasti militari dell’Urbe
Generalissimo Il comandante romano Flavio Ezio in una stampa che riprende una statua antica. A sinistra, la Battaglia dei Campi Catalaunici, in cui Ezio sconfisse Attila, re degli Unni (451).
DEI ROMANI Mezzo barbaro. Fino a quel momento rimasto ai margini della grande politica, Ezio non si lasciò sfuggire l’occasione per conquistare una posizione di potere nell’impero. Galla Placidia non aveva altra scelta che scendere a patti con chi le chiedeva udienza alla testa di un esercito così temibile, in pieno assetto di guerra.
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Ezio tentò di trovare un equilibrio tra i vari popoli dell’impero. Fino al punto Quel nome, Flavio Ezio, sarebbe diventato presto sinonimo di condottiero micidiale, l’ultimo grande generale delle legioni romane. E pensare che era un barbaro. Ezio aveva allora circa 35 anni. Originario di Durostorum sul basso Danubio (oggi Silistra, in Bulgaria), aveva trascorso l’adolescenza e una parte della giovinezza come ostaggio, prima alla corte del re visigoto Alarico e poi presso gli Unni. I qua-
li non erano più i feroci selvaggi descritti dallo storiografo Ammiano Marcellino alla fine del IV secolo. Ma facevano ancora paura. Sicuro della loro lealtà, Ezio offrì a Galla Placidia la pace in cambio di un risarcimento (terre e ricchezze) per i soldati e del titolo di comes per sé, ovvero di un ruolo nel governo dell’Impero romano d’Occidente. Galla Placidia, a malincuore, fu costretta a cedere.
Doppia anima. Cominciò in questo modo la carriera di quello che lo storico Procopio di Cesarea, attorno alla metà del VI secolo, avrebbe definito “l’ultimo vero romano” per la sua virtus (un mix di coraggio e audacia, temperate da disciplina e spirito di sacrificio) e per l’abilità nel gestire l’intricata situazione politica salvando quel che rimaneva del prestigio imperiale. Flavio Ezio ci riuscì perché seppe unire alla spietatezza militare la novità rappresentata da lui stesso: un nuovo tipo di condottiero, mezzo barbaro e mezzo romano. Questa doppia anima lo portò a cercare un equilibrio tra le diverse popolazioni ormai insediate sul territorio romano, nella consapevolezza che soltanto sfruttandone la forza sarebbe stato possibile evitare la dissoluzione dell’impero. Ezio giocò la sua partita su due fronti: combattendo per gli interessi dell’impero in Gallia e in difesa dei propri in Italia. Nell’uno e nell’altro caso contò su un’arma insuperabile: i reparti di cavalieri unni, che il suo amico Rua continuò a fornirgli. Tra il 426 e il 429 Ezio spezzò l’assedio di Arelate (Arles) da parte dei Goti, respinse i Visigoti in Armorica (l’attuale Bretagna), rintuzzò le scorrerie dei Franchi a nord della Senna e ristabilì l’autorità romana ai confini con la Germania: come avrebbe recitato il cantore ufficiale Merobaude, “anche il Reno gioisce, perché su entrambe le sue sponde si accresce la potenza del Tevere”. Il “dado” di Ezio. Ma la vera partita per il potere si giocava a Ravenna, alla corte di Valentiniano III. Galla Placidia continuava a non fidarsi di Ezio. Nel 431 la reggente decise di promuovere il comes Africae Bonifacio alla massima carica militare dell’impero (magister utriusque militiae). Come Giulio Cesare prima di lui, anche Ezio, vittorioso in Gallia, si trovò di fronte al suo “Rubicone”: accettare un ruolo di secondo piano o marciare sull’Italia con il proprio esercito e combattere per conquistare il potere. Come Cesare, anche Ezio attraversò le Alpi, la Pianura Padana e il fiume Rubi-
di allearsi con gli Unni cone, scontrandosi con l’esercito di Bonifacio tra Ravenna e Rimini, nell’estate del 432. E qui il parallelo con Cesare finisce. Ezio subì qui la sua unica sconfitta in uno scontro campale. Dovette fuggire, prima a Roma e poi nell’unico luogo davvero sicuro: la corte unna di Rua. La rivincita non si fece attendere. Morto Bonifacio, per la terza volta Ezio marciò sull’Italia alla testa di un’armata di cavalieri unni e mercenari goti. Trovò ad attenderlo il genero di Bonifacio, Sebastiano, con quel che restava dell’esercito fedele a Galla Placidia e Valentiniano. Ancora una volta Ezio si presentò sotto le mura (a Ravenna) e Galla Placidia fu costretta ad accettare il fatto compiuto: Ezio fu nominato magister utriusque militiae, “generalissimo” dell’impero e arbitro incontrastato del suo destino politico e militare. Il massacro dei Burgundi. Gli anni successivi, poco documentati dalle fonti, furono determinanti per la formazione della nuova Europa romano-barbarica. Ezio la forgiò con l’esercito, applicando con meto-
Insoliti alleati In primo piano, un cavaliere unno (con l’arco lungo e un gladio alla cintura), un cavaliere romano dei bucellarii (guerrieri barbarici assoldati dai Romani) e un generale romano. A sinistra, il re degli Unni Attila in una stampa d’epoca.
I mosaici del Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna, capolavoro di arte bizantina.
I CO-PROTAGONISTI Galla Placidia
Bonifacio
Rua
Figlia di Teodosio I, madre dell’imperatore Valentiniano III, di cui fu reggente.
Generale (comes) dell’Impero romano e governatore della “diocesi” d’Africa.
Re degli Unni (e zio di Attila), appoggiò Ezio aiutandolo contro Bonifacio.
do pochi princìpi fondamentali: rinunciare alla dimensione mediterranea del vecchio impero, concentrare le risorse in Italia e in Gallia; sfruttare cinicamente le divisioni esistenti tra i popoli barbari, blandirli, ricompensarli o punirli a seconda della loro fedeltà, favorendone la progressiva assimilazione attraverso forme di parziale autonomia. Per realizzare questa politica di “controllo attivo”, Ezio sfruttò la sua solita arma vincente, ovvero l’alleanza con i temutissimi guerrieri unni: grazie al loro aiuto, nel 436, decimò i Burgundi, che dalla regione intorno alle attuali Worms e Strasburgo conducevano continue scorrerie in Gallia. La punizione inflitta ai Burgundi dai mercenari unni ebbe la dimensione di una tragedia collettiva: la cultura germanica ne conservò memoria nella saga dei Nibelunghi. La campagna del 436 fu però l’ultima in cui Ezio poté contare sull’appoggio degli Unni. Il suo vecchio amico Rua morì proprio in quell’anno, lasciando il potere ai propri nipoti Attila e Bleda. Che, inizialmente, attaccarono le province controllate da Costantinopoli, imponendo a Teodosio II una pace onerosa nel 443. A quel punto, Attila decise di sbarazzarsi del fratello e rivolse le sue mire all’Occidente. 69
Il mistero dei Campi Catalaunici
Quando Attila avanzò su Roma, il pragmatico Ezio si alleò con i Visigoti. Così sconfisse gli ex alleati unni Il ciclone Attila. Spregiudicato e ambizioso – oltre che molto più “civilizzato” di quanto non racconti la tradizione sul “flagello di Dio” – Attila aveva deciso di espandere il proprio dominio in Europa. Se possibile con le buone, per esempio sposando la sorella maggiore di Valentiniano III, Onoria, altrimenti con la forza. Ezio si trovò così non solo privo dell’aiuto militare degli Unni, ma addirittura costretto a fronteggiare la minaccia di un’invasione da parte loro: la politica aggressiva di Attila metteva impietosamente a nudo la sua fragilità, costringendolo a creare in tutta fretta una nuova alleanza con i Visigoti. La resa dei conti fra l’ex alleato e Attila avvenne in Gallia, nella Battaglia dei Campi Catalaunici, ultima grande vittoria romana (v. riquadro in basso). L’avanzata unna. Nonostante la vittoria su Attila, le difficoltà per Ezio aumentarono. Torrismondo, figlio del re visigoto Teodorico, attaccò subito l’impero, e anche Attila preparava una nuova offensiva. Dopo aver fatto sgomberare la corte da Ravenna, a Ezio non restò che temporeggiare, contando sulla solidità delle mura cittadine e sulla vulnerabilità del nemico alle malattie nel clima sfavorevole della Pianura Padana. Dopo un lungo assedio Aqui leia cadde e fu rasa al suolo. Ma Attila aveva subìto perdite gravi e sprecato tempo prezioso, trovandosi costretto ad avanzare verso il Po nel pieno dell’estate. A quel punto si sarebbe verificato il celebre incontro sulla riva del Min-
Attila erige un rogo dopo la sconfitta subita da parte di Ezio, pronto a bruciarsi piuttosto che arrendersi. In realtà, il romano lo lascerà andare.
cio con papa Leone I, che avrebbe persuaso il re unno a ritirarsi. La leggenda potrebbe contenere un nocciolo di verità: la decisione di tornare sui propri passi Attila potrebbe averla presa davvero, ma per sfuggire alle epidemie che decimavano i suoi uomini. L’anno successivo, dopo una notte movimentata, fu trovato morto nel suo letto dalla giovane che aveva appena preso in moglie. I cavalieri unni svanirono con lui dalla storia europea. La fine di Ezio (e dell’impero). Non era invece svanito Ezio. Nel 453 Torrismondo fu liquidato dall’ennesima congiura e la situazione in Gallia tornò relativamente tranquilla. Sembrava non esserci più bisogno di un “uomo forte”: la condotta pru-
dente di Ezio dopo la vittoria su Attila, giustificata dal pragmatismo, fu utilizzata dai nemici per screditarlo. L’ambizioso Petronio Massimo, ministro delle finanze di Valentiniano III, convinse l’imperatore che il magister utriusque militiae progettava di ucciderlo e impadronirsi del trono. Per togliersi il pensiero, il 21 settembre 454 Valentiniano III uccise Ezio con l’aiuto di un ciambellano. Ma l’imperatore, come gli venne ben presto fatto notare, “con la mano sinistra si era tagliato il braccio destro”: da quel giorno, con la scomparsa dell’“ultimo dei Romani”, nessuno sarebbe stato più in grado di difendere gli interessi dell’Impero d’Occidente. • Gastone Breccia
Perché Ezio, dopo aver sconfitto Attila, non lo inseguì?
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ttila invase la Gallia nella primavera del 451 alla testa di un esercito costituito in larga parte dai suoi sudditi germanici. Contro questa armata possente (anche se le cifre delle fonti antiche, che parlano di 500.000
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uomini, sono certamente gonfiate) Ezio schierò una coalizione di Franchi, Burgundi e Visigoti, il cui re Teoderico si fece persuadere a opporsi all’invasione. Ezio dapprima sorprese l’armata nemica mentre stava per assediare
Aurelianum (Orléans), costringendola a ripiegare oltre la Loira. Attila si accampò per riorganizzare le proprie forze in una località indicata come Campi Catalaunici, nei pressi dell’attuale Châlonsen-Champagne: qui
lo raggiunse l’esercito romano-visigoto e qui, il 20 giugno del 451, fu sconfitto dopo una durissima battaglia. Mistero. Ezio non volle inseguire Attila sconfitto. Perché? Secondo il cronista goto Giordane, temeva che,
se gli Unni fossero stati annientati, i Visigoti avrebbero potuto rompere l’alleanza e diventare a loro volta una minaccia per l’impero. Ma è più probabile che il suo esercito fosse altrettanto provato di quello nemico.
ROMA VIOLENTA
LESSING/CONTRASTO
Perché la storia dell’antica Roma è costellata da episodi di crudeltà e di sangue? Le risposte, oltre l’aneddotica. I supplizi capitali Eva Cantarella (Feltrinelli) Attingendo a fonti giuridiche, religiose e letterarie, la storica traccia il ritratto di una classicità poco conosciuta, fatta di luci e ombre, ragione e istinto, senso civico e pulsione tribale. Analizzando origini, significato e funzioni della morte di Stato in Grecia e nell’antica Roma. Il supplizio come spettacolo Cinzia Vismara (Edizioni Quasar) La visione delle torture, delle esecuzioni dei condannati a morte e della violenza era frequente nelle città romane: fra gli intrattenimenti più graditi al pubblico non a caso c’erano i combattimenti tra gladiatori. Il saggio (parte di una collana del Museo della civiltà romana) descrive gli aspetti
del supplizio in età imperiale. Mettendo in luce elementi che coinvolgono diritto, morale e che sollevano discussioni . Servizi segreti in Roma antica Anna Maria Liberati, Enrico Silverio (L’Erma di Bretschneider ) Informazioni e sicurezza dalla fondazione di Roma alla creazione dell’impero universale. Lo sviluppo dei “servizi segreti” dell’ antichità, dai tempi della sfida tra Orazi e Curiazi fino alla difesa delle frontiere contro i barbari. Gladiatori. Sangue e spettacolo nell’antica Roma Kostantin Nossov (Editrice Goriziana) L’opera raccoglie i risultati delle ricerche più recenti riguardanti i gladiatori, per offrire un quadro più completo della loro storia. Per conoscere l’evoluzione della gladiatura anche attraverso l’apparato iconografico.
Cristiani messi al rogo da Nerone, in un dipinto ottocentesco di Henryk Siemiradzki.
Memorie di Agrippina Pierre Grimal (Garzanti) Pronipote di Augusto, sorella di Caligola, madre di Nerone, Agrippina domina con il suo tragico destino, una delle epoche più fosche e insieme più importanti della storia romana. Pierre Grimal combina, in questo pregevole saggio, il rigore della ricostruzione storica con gli intrecci della narrativa. Nerone Edward Champlin (Laterza) La dubbia fama di Nerone per due millenni è stata fondata su una serie di gesti pubblici stravaganti,
talvolta violenti. Senza tentare di riabilitare “il mostro” che la Storia ci ha consegnato, Edward Champlin, docente alla Princeton University, mette in luce la determinazione con cui Nerone plasmò la propria vicenda ispirandosi alla mitologia greca e romana. La guerra giudaica Flavio Giuseppe (Mondadori) Il disperato tentativo del popolo ebreo, guidato dalla fazione degli Zeloti, di sottrarsi al dominio romano nel drammatico resoconto dello storico ebreo Flavio Giuseppe (38-103 d.C.), testimone oculare (e parte in causa) di quella tragedia.
La Storia raccontata in queste pagine rivive anche in tv
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nche questo mese History, il canale di Sky dedicato alla Storia, affronta il tema in primo piano su questo numero di Focus Storia. Lo fa con tre documentari “psicologici” su altrettante figure spregiudicate della Roma antica. CALIGOLA Caligola è passato alla Storia come uno degli imperatori romani più viziosi. Ma fu davvero così? Nel documentario vengono ripercorse le tappe principali della sua vita per capire quali sono state le espe-
rienze che potrebbero averlo indotto ad agire così. Mercoledì 7 gennaio, ore 8:45
delle figure più chiacchierate dell’antica Roma. Venerdì 9 gennaio, ore 8:45
NERONE Nerone fu un crudele tiranno, o almeno questo è quello che la storiografia antica ci ha tramandato. La verità è che fu un bambino allevato da una madre con gravi problemi psicologici, incapace di impartire un’educazione equilibrata al figlio (che non voleva nemmeno diventare imperatore). Il documentario ricostruisce il profilo psicologico di una
GIULIO CESARE Il successo di Cesare non fu costruito solo con il genio militare. Questa “indagine psicologica” rivela l’indole di un uomo disposto a qualsiasi cosa per raggiungere i suoi obbiettivi: era dotato di un’ambizione sfrenata e di una megalomania che contribuirono a renderlo l’uomo più potente del suo tempo. Venerdì 16 gennaio, ore 14:15
Caligola (da una miniserie britannica per la televisione).
MONDADORI PORTFOLIO
PRIMO PIANO
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BPK/SCALA
pittoracconti 1
A pranzo dal sindaco di Anversa I banchetti di un notabile borghese nelle Fiandre del ’600 servivano anche a esibire ricchezza e cultura del padrone di casa.
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e Fiandre, a cavallo fra Cinquecento e Seicento, stavano emergendo come potenza commerciale di scala mondiale. La città di Anversa era uno dei centri principali della regione belga e Nicolaas Rockox (1560-1640), borgomastro (cioè il sindaco), ricco borghese e avvocato, ne fu un tipico esponente. Questo dipinto di Frans Francken del 1630-35 (conservato nella Alte Pinakothek di Monaco di Baviera) ritrae un banchetto a casa Rockox. Convivio. Al centro della scena raffigurata nel dipinto si vede l’allegra convivialità di un pranzo tenuto nella sala grande del palazzo del sindaco. L’edificio fu acquistato da Rockox nel 1603, ed era affacciato sulla centralissima Keizerstraat: ancora esistente, è oggi un museo. La sala ospitava la ricca collezione d’arte del borgomastro, uomo di raffinata cultura umanistica che, seguendo il gusto del tempo, costituì nel corso degli anni una raccolta eterogenea. Tra i suoi “pezzi” figuravano antichi reperti di scultura greco-romana, dipinti della sua epoca (fu amico e grande sostenitore di Rubens, autentica “star” dell’arte fiamminga), libri, monete antiche, curiosità naturalistiche. Questa collezione d’arte e la sua esaltazione in un dipinto testimoniano di una grande passione, ma riflettono anche il desiderio di imitare lo stile di vita della nobiltà. Soprattutto, esprimono la volontà di esibire la propria ricchezza: una questione di grande rilievo in una società mercantile come quella fiamminga, fondata in primo luogo sul credito e sul capitale. •
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Edoardo Monti
1 I dipinti sono disposti sulle pareti fino quasi al soffitto. Ai prevalenti soggetti sacri e biblici si accostavano nature morte, scene di genere, ritratti e paesaggi. 2 Oltre la porta si scorge un’opera di Pieter Paul Rubens: l’Incredulità di san Tommaso (1614 ca.), pannello centrale di un trittico commissionato da Rockox per la cappella di famiglia nella chiesa dei Recolletti di Anversa (oggi in un museo cittadino). 72
3 Sopra il camino domina la sala uno dei più noti dipinti di Rubens, Sansone e Dalila (1609-10), commissionato all’artista dal borgomastro. Oggi è alla National Gallery di Londra.
5 Quando acquistò il palazzo, Rockox lo fece ristrutturare ispirandosi ai celebrati modelli del Rinascimento italiano, come testimoniano le sontuose cornici delle porte e il camino.
7 I libri sottolineano la ricchezza del padrone di casa: la biblioteca del borgomastro ospitava oltre 200 volumi, un numero più che ragguardevole per l’epoca.
4 Il quadro Il cambiavalute con la moglie, ispirato a una celebre opera del fiammingo Quentin Metsys (oggi al Louvre), rimanda all’importanza dei commerci internazionali nelle Fiandre.
6 Rockox possedeva una collezione di conchiglie. Arrivavano con le navi mercantili dai mari più lontani ed erano oggetti costosi, talvolta elaborati da orafi e argentieri.
8 Le grandi e spesse gorgiere ancora di moda all’inizio del secolo lasciarono il posto, nella moda femminile come in quella maschile, ad ampi colletti di pizzo ricadenti sulle spalle.
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9 Gli abiti femminili alla moda erano più morbidi, con scollature più generose, bordate da colletti di pizzo. Cappelli e cuffie non erano più d’obbligo, nemmeno in pubblico.
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te e non esenti da significati simbolici, in genere sessuali: a questi molluschi si attribuivano poteri afrodisiaci.
12 Gli stivali di cuoio, con gli speroni e la “farfalla” (un fiocco in pelle sul collo del piede), erano indispensabili per i gentiluomini. Una fodera di lino proteggeva poi le delicate calze di seta. 11 Negli anni Trenta del ’600 i farsetti maschili si fecero più morbidi e le maniche più larghe, di foggia rinascimentale. I pantaloni si allungarono fin sotto il ginocchio e i cappelli diventarono a tesa più ampia e mossa.
13 I bicchieri più pregiati venivano dalle vetrerie di Murano, dove a metà del ’400 era stato scoperto il procedimento per creare il cristallo. Dalla fine del ’500 si erano diffusi in Europa.
14 I pappagalli colorati erano simboli del giardino dell’Eden (le foreste brasiliane scoperte da poco più di un secolo erano viste come un paradiso terrestre) e di Eva. La loro presenza in questa scena può essere interpretata come un’allusione alla lussuria e al desiderio, in relazione all’allegra promiscuità nella stanza. 73
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A cura di Marta Erba e Maria Lombardi
Queste pagine sono aperte a soddisfare le curiosità dei lettori, purché i quesiti siano di interesse generale. Non si forniscono risposte private. Scrivete a Focus Storia, via Battistotti Sassi 11/a, 20133 Milano o all’e-mail
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Da dove viene il motto “keep calm and carry on”?
Domanda posta da Jacopo Silvestri.
Domanda posta da Alessandra Bernardi. I tre poster prodotti nel 1939 dal governo britannico.
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uesto motto inglese, che invita a mantenere la calma e ad andare avanti – e che nei social network è diventato un vero tormentone, con moltissime varianti e parodie – risale alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Faceva parte di un poster prodotto dal ministero dell’Informazione britannica tra il 27 giugno e il 6 luglio 1939, quando per l’Inghilterra si prospettavano tempi difficili.
Doveva servire a incoraggiare la popolazione a non farsi prendere dal panico in caso di eventi bellici. Padre sconosciuto. Il poster, realizzato da un designer rimasto ignoto, era il terzo di una serie, tutti sovrastati dalla corona simbolo del Regno Unito. Ma a differenza dei due precedenti (“Il tuo coraggio, il tuo vigore e la tua fermezza ci porteranno alla vittoria” e “La libertà è in pericolo. Difendila con tutte le
tue forze”), distribuiti in centinaia di migliaia di copie, quello oggi più famoso ebbe allora scarsissima diffusione: si era infatti deciso di utilizzarlo in caso di raid aerei, ma poi si ritenne l’intera operazione troppo costosa e fu quindi abbandonata. Riscoperto nel 2000, da allora è stato usato da compagnie private per pubblicizzare una vasta gamma di prodotti, ed è finito su più di un gadget.
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ra il 1846 quando nacque l’anestesia moderna, quella indotta usando un gas: l’etere. Prima di questa data, subire un intervento chirurgico significava soffrire in modo orribile: il paziente rimaneva sveglio e semicosciente, se non del tutto cosciente.
Che cosa avvenne realmente a Tunguska il 30 giugno 1908? Domanda posta da Anna Parisi. a mattina del 30 giugno 1908 nei cieli vicino a Tunguska, località della Siberia Centrale che prende il nome dal fiume Tunguska Pietrosa, si verificò un’esplosione di potenza pari a mille atomiche di Hiroshima. Fu probabilmente l’effetto dell’impatto di un asteroide di circa 30 km di diametro con la nostra atmosfera. La deflagrazione del corpo celeste avvenne a un’altezza di 8 km, causando un’onda d’urto che colpì il suolo: fra 60 e 80 76
milioni di alberi furono abbattuti, i vagoni della Transiberiana (a 600 chilometri di distanza) rischiarono di deragliare e i cieli si illuminarono Alberi abbattuti a Tunguska nel 1908.
in luoghi lontanissimi (si racconta che a Londra, dove era mezzanotte, si poteva leggere un giornale senza bisogno di luce artificiale). GETTY IMAGES
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Ricerche. Tra il 1927 e il 1939, il mineralologo russo Leonid Alekseevič Kulik organizzò quattro spedizioni nella regione, ma non fu mai trovato alcun cratere o altre prove dell’impatto, né frammenti. Tuttavia, nel 1991, il dipartimento di Fisica dell’Università di Bologna ipotizzò che un frammento dalle dimensioni di pochi metri colpì il suolo formando il lago Cheko, situato a una decina di chilometri dall’epicentro dell’esplosione.
Il primo a servirsi dell’etere fu Crawford Long nel 1842, che però non pubblicò i risultati ottenuti. Perdendo così la paternità di una scoperta che rivoluzionò la medicina. Leggenda vuole che l’idea di servirsi di questo gas in ambito sanitario sia nata in un luna park, dove la sostanza era l’at-
Chi erano i Carni? Domanda posta da Roberto Santellani.
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i chiamava così una popolazione celtica che nel V secolo a.C., a causa della crescita demografica e delle pressioni dei popoli germanici, si spostò dalle originarie pianure tra Reno e Danubio fino alle regioni alpine corrispondenti alle attuali Carnia (in Friuli) e Carinzia (in Austria).Qui i Carni si dedicarono alla caccia e alla pastorizia, ma
anche alla lavorazione del ferro e del legno. Queste genti erano comandate da un re e da una casta sacerdotale composta, come nelle tradizioni celtiche, da druidi. Data storica. Intorno al 186 a.C., 12mila Carni scesero verso le zone pianeggianti e vi fondarono un insediamento fortificato, Akileja. I Romani reagirono quasi immedia-
trazione nello spettacolo di un saltimbanco. Scopritore ufficiale. Al di là degli aneddoti, non sempre attendibili, nel 1846 l’etere iniziò a diffondersi come narcotico. Fu il dentista William Morton, su suggerimento del collega Charles Jackson (con il quale ebbe poi una disputa
legale per la proprietà intellettuale della scoperta), il primo a usare il gas per estrarre un dente. Vista l’esperienza positiva, lo consigliò ai chirurghi. La prima operazione “indolore” fu compiuta da John Collins Warren su un paziente a cui doveva essere asportato un tumore al collo. •
Il panorama friulano, con le Alpi Carniche.
tamente e, nel 183 a.C., ricacciarono i Carni oltre le Alpi, fondando a difesa dei confini una colonia che chiamarono Aquileia, riprendendo il primo nome dell’ insediamento. L’assoggettamento dei Carni ai Romani avvenne nel 115 a.C., a opera del console Marco Emilio Scauro, che avviò anche una progressiva latinizzazione della loro lingua.
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Per tentare di alleviare il dolore, per lungo tempo si utilizzarono sostanze stupefacenti come l’oppio, l’hashish e anche l’alcol. Mentre nell’ultimo decennio del Settecento si iniziarono i primi esperimenti di anestesia moderna con l’utilizzo del “gas esilarante” (il protossido d’azoto).
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William Morton illustra ai colleghi il funzionamento dell’etere, in un dipinto ottocentesco.
TESTATINA COSTUME
UN REGALO
L’usanza di scambiarsi doni è vecchia quanto l’uomo. Ma nel corso dei secoli ha mutato significato. Che cosa ci si regalava e quale fu il primo regalo?
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“
e si vuol che l’amicizia si mantenga, bisogna che una borsa vada e l’altra venga”, dice il proverbio. E mai come a Natale le borse, vuoi per amicizia, vuoi per ragioni di circostanza, vanno e vengono. La pratica dello scambio dei doni il 25 dicembre però è antica ed è figlia di un crogiolo di tradizioni: alcune pagane, altre religiose, tutte arcaiche. C’è chi dice per esempio sia stato un vescovo bizantino – in Italia
PER TE Oro, incenso e mirra
FSN GILARDI
A sinistra, mosaico con l’Adorazione dei Magi a Ravenna (VI secolo). A destra, rappresentazione di Babbo Natale di inizio ’900. In origine la sua casacca era verde.
Mauss: l’economia del dono
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conosciuto come san Nicola di Bari – a dar vita nel IV secolo all’usanza di nascondere piccoli doni nelle scarpe che i bambini lasciavano fuori dalla porta a Natale. Gettando il seme della tradizione di Santa Claus (alias Sankt Nikolaus). La celebrazione della nascita di Gesù proprio a fine anno sarebbe invece una cristianizzazione di un precedente rito pagano. Ma perché ci si scambiano regali? E che significato hanno avuto nei secoli?
antropologo fran cese Marcel Mauss a inizio ’900 analizzò il dono in diverse socie tà primitive. E raccon tò le sue conclusioni nel Saggio sul dono (1923). In queste cul ture, spiegò, lo scam bio assumeva una for ma differente rispetto a quella a cui ci ha abituato la logica utili taristica dello scambio di mercato. Le transa zioni economiche si basavano infatti sulla logica della reciproci tà, riassumibile nella formula “dare, riceve re, ricambiare”. Chi faceva un dono a un altro lo obbligava a sua volta a ricambiare. Si trattava di un obbli go morale, non perse guibile per legge, né sanzionabile. Il valore del dono stava quindi nell’assenza di garan zie per il donatore. Il che presupponeva
una grande fiducia negli altri. Il potlatch. Un’altra pratica “sovversiva” rispetto alle logiche dell’economia di mer cato era il potlatch, cerimonia rituale tipi ca dei nativi nordame ricani che serviva a stipulare o rinforzare le relazioni gerarchi che tra i vari gruppi. Attraverso il potlatch individui dello stesso status sociale distribu vano doni o facevano a gara a distruggere beni preziosi per affer mare pubblicamente il proprio rango (o per riacquistarlo nel caso lo avessero perso). Così si bruciava carne di foca e di salmone, si incenerivano i vestiti, si spargeva per terra olio e sale. Chi più “distruggeva” o “spre cava”, più saliva nella gara alla conquista del primato sociale. 79
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590 A.C. GIARDINI PENSILI
II MILLENNIO A.C. IL CAVALLO DI TROIA
Durante la guerra con gli Achei, i Troiani fecero entrare il famigerato cavallo all’interno della città, convinti che fosse un dono di pace da parte dei nemici.
Il re babilonese Nabucodonosor II si dice che fece costruire i celebri giardini con le piante preferite della moglie Amytis, che soffriva di nostalgia per la sua patria, l’antico Iran.
ARCHIVIO
Circolo virtuoso. «Fin dall’epoca degli eroi omerici lo scambio di doni poteva sottoli neare un rapporto paritario fra due individui, ma anche disuguale, creando dipendenza e subordinazione», spiega Gianluca Cuniberti, docente di Storia greca all’Università di Tori no. «Poteva segnare per esempio il passaggio di oggetti preziosi e talismanici che davano il potere a chi li deteneva; e poteva addirittura essere il mezzo di un’azione risarcitoria che riparava un danno subìto, evitando altre so luzioni, magari violente». Il grande ruolo svolto dai doni nella cultu ra greca, spiegherebbe così perché proprio un regalo – il famigerato cavallo di Troia – se gna uno degli episodi più epici dell’antichità. Quando i Troiani trovarono l’animale di legno davanti alle loro mura non si insospettirono. Credettero in buona fede che si trattasse di un dono di pace, fatto dagli Achei, ovvero i Gre ci. Pratica frequente allora. Lo stesso re gre co Agamennone aveva provato a placare l’i ra di Achille a forza di doni, a conferma che la pratica era assai diffusa. Su cosa donare, ci si poteva sbizzarrire. «Gli oggetti erano spes so simbolici», precisa lo storico. «Solitamen te rappresentavano un oggetto importante in scala ridotta. Per questo sono frequenti ritro vamenti di carri e armi in miniatura, statuine antropomorfe di ogni tipo e oggetti che si de finiscono pre-monetari perché, usati in gran numero, hanno svolto una funzione che poi è stato assunta dalla moneta». Regali “firmati”. La pratica di scambiarsi doni simbolici, per cementare alleanze o risol vere conflitti, si tramandò anche tra gli Etru schi. I ritrovamenti archeologici hanno con fermato che questo popolo offriva agli dèi og getti in miniatura (rappresentazioni di ani mali, cibo o beni preziosi), usati anche come merce di scambio all’interno della comunità. Spesso chi li donava vi incideva la propria fir ma. Il tutto per una ragione di prestigio: ini zialmente la società etrusca era strutturata in torno a pochissime famiglie aristocratiche che dovevano ribadire e ostentare il loro potere. E uno dei modi per farlo era servirsi del cosid detto “circuito del dono”. Regalare a qualcuno
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Per i Greci l’ospite era sacro. Dopo il suo soggiorno lo si omaggiava con uno xenia: un simbolico dono d’ addio
798 ABUL-ABBAS
1596 BACCO DI CARAVAGGIO
1840 REGINA FORMAGGIATA
1888 ORECCHIO D’ARTISTA
Era il nome dell’elefante albino asiatico di Carlo Magno, ricevuto in dono dal califfo di Baghdad, Harun al-Rashid, nel 798.
Per il suo matrimonio, la regina Vittoria d’Inghilterra, tra i vari regali, ricevette una gigantesca forma di formaggio del diametro di 3 metri e pesante mezza tonnellata.
Fu donato dal cardinale Del Monte a Ferdinando I de’ Medici, in occasione delle nozze del figlio di questi, Cosimo II.
Van Gogh si tagliò un orecchio nel 1888. Secondo alcuni biografi, il pittore inviò la parte mozzata a Rachele, prostituta di cui si era invaghito, come pegno d’amore.
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I DIECI REGALI PIÙ CURIOSI DELLA STORIA 1945 AQUILA “AVVELENATA”
Durante la Guerra fredda un ambasciatore russo donò al governo Usa una versione dello stemma americano. Nel becco c’era però una sofisticata cimice. Fu scoperta solo nel 1952.
1947 PISTA DA BOWLING
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Il presidente americano Harry Truman ricevette per il compleanno una pista da bowling a due corsie. Venne installata alla Casa Bianca.
1889 LA STATUA DELLA LIBERTÀ
Fu costruita in Francia e donata agli americani in segno di alleanza per celebrare il centenario della nascita degli Stati Uniti.
1969 A 68 CARATI
Nel 1969 l’attore Richard Burton donò alla moglie Liz Taylor un diamante da 68 carati a forma di goccia, venduto poi nel 1979 per ben 5 milioni di dollari. 81
della propria cerchia un manufatto “firmato” che il destinatario a sua volta poteva riciclare, facendo così circolare il nome del primo donatore. Il circuito consisteva, secondo gli studiosi, proprio in questo: nell’atto del regalare, senza avere la garanzia di una contropartita. Secondo la definizione del sociologo canadese Jacques T. Godbout, un dono è “ogni prestazione di beni e servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone”. Natale alla romana. A Roma si diffuse l’usanza di scambiarsi i regali proprio a fine anno, a ridosso di quello che nella cultura cristiana sarà il Natale: non a caso fin dalla prima fondazione dell’Urbe si omaggiava il cosiddetto dio degli inizi, Giano, e la dea Strenia (dalla quale deriva la parola “strenna”, regalo), per avere prosperità per il nuovo anno. Come rito augurale ci si scambiavano ramoscelli di alloro, ulivo, fico, che vennero poi sostituiti da piccoli oggetti, per la gioia dei bambini che invece ricevevano in dono dolcetti di pasta e marzapane. Nello stesso mese invernale si tenevano anche i Saturnalia (dal 17 al 23 dicembre): festeggiamenti, banchetti e sacrifici al dio Saturno. Da alcuni epigrammi di Marziale scopriamo che i Romani in questa occasione si scambiavano regali economici come dadi, candele di cera colorata, abiti, libri, una moneta, piccoli animali domestici. La diffusione del cristianesimo comportò un “giro di vite” per il sistema del dono. Se da un lato la nuova religione fece proprie molte tradizioni pagane, scegliendo per esempio il 25 dicembre (festa di fertilità del Sol Invictus) per celebrare la nascita di Gesù, dall’altra reinterpretò l’idea di regalo. «La religione cristiana ha sdoganato la concezione del dono come atto gratuito nei confronti dell’altro, secondo gli insegnamenti di Gesù. Il dono per eccellenza divenne fare offerte ai poveri», precisa Andrea Salvini, docente di Metodologia e ricerca sociale all’Università di Pisa. Il regalo non serviva più a ribadire il proprio ruolo sociale. Diventava semplicemente un modo per guadagnarsi un posto in Paradiso. Era un atto di carità. Magnificenza. La sobrietà chiesta al popolo di Dio rimase invece estranea alla sfera politica. Già nel Medioevo e ancor più nel Rinascimento: alla corte di Lorenzo il Magnifico, nella Firenze del ’400, approdavano spesso sontuosi regali, doni degli ambasciatori stranieri. Tra i regali più simbolici, il Magnifico ricevette per il figlio Giovanni il cappello cardinalizio dal pontefice 82
La Befana del vigile Vigili urbani ricevono i doni per l’Epifania in piazza Barberini, a Roma, nel 1957. In basso, fibula etrusca in oro, del VII secolo a.C. L’iscrizione dice “Io [sono] la fibula di Arath Valavesna; [mi] ha donato Manurke Tursikina”.
Giulio II. Senza immaginare cosa, anni dopo, lo stesso Giovanni, divenuto papa con il nome di Leone X, avrebbe ricevuto per la sua incoronazione: re Manuele d’Aviz di Portogallo gli spedì un elefante albino (stesso dono fatto a suo tempo dal califfo di Baghdad a Carlo Magno). Le cronache narrano che la nave che trasportava Annone (la bestia fu chiamata così in onore del generale cartaginese) arrivò da Lisbona a Roma il 12 marzo 1514. Il cucciolo di 4 anni fu portato in processione per le strade tra l’entusiasmo della folla, insieme a due leopardi, una pantera, pappagalli, tacchini rari e cavalli indiani. Il papa lo attese a Castel Sant’Angelo. La leggenda vuole che una volta giunto davanti a lui, l’elefante bianco si sia inginocchiato per tre volte in segno di omaggio, strofinandogli la proboscide sulle pantofole; poi, obbedendo a un cenno del suo custode indiano, aspirò l’acqua con la proboscide da un secchio e la spruzzò contro i cardinali e la folla.
Per gli antichi gli oggetti avevano un’anima. Questo contribuiva a potenziare il valore di “collante sociale” di doni e regali
I regali per dire “ti amo”: dalle uova di Fabergé al maritozzo
ALINARI
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Uova d’amore Una delle uova del gioielliere francese Fabergé, capolavori per la corte dello zar Alessandro III di Russia: all’interno contenevano altri oggetti preziosi.
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La gara a chi faceva il regalo più raffinato proseguì ininterrotta. Alla corte di Versailles Luigi XIV donava ai diplomatici bombonie re in madreperla e avorio dipinto o in oro. E, sempre lui, durante la visita del doge di Ge nova, donò all’ospite propri ritratti personali incorniciati di gemme e vari arazzi. Tempi moderni. «Oggi, l’aspetto del legame e del mostrare affetto attraverso un dono è ri masto intatto», commenta Raffaello Ciucci, docente di Sociologia a Pisa. «La pratica del Natale o quella del compleanno, soprattutto nella ristretta cerchia di familiari e amici, go de ancora di ottima salute». È venuto meno, invece, il ruolo comunita rio del dono, tipico dell’antichità e delle so cietà arcaiche (v. riquadro in apertura di servizio), l’idea che il regalo possa avere “un’a nima” e sia in grado di alimentare un circui to virtuoso di coesione sociale. Si trattava di un pensiero magico, estraneo alla nostra cul tura razionalista. «Sarebbe il dono di sociali tà, che da noi sopravvive sotto forma di vo lontariato», conclude Ciucci. «Il regalo per ec cellenza, che mantiene la gratuità e la nobiltà del gesto». • Arianna Pescini e Giuliana Rotondi
idanzamenti, matrimoni e nascite erano suggellati da regali e simboli d’amore sin dal tempo degli antichi Egizi. Coi Romani si affermò l’usanza di donare un fiore agli appuntamenti, mentre con il fidanzamento le amate ricevevano oggetti e gioielli. Nel III secolo per esempio, il figlio dell’imperatore Massimino il Trace regalò alla fidanzata una gigantesca collana di perle e smeraldi, un bracciale, vesti ornate d’oro e di gemme e altri oggetti preziosi. Durante il Medioevo, poi, il promesso sposo lasciava non di rado come pegno d’amore anche una camicia, mentre nei secoli successivi a dame e nobildonne venivano donati per le nozze monili, pregiate suppellettili, costose cinture (simbolo dell’unione), stoviglie in maiolica, bauli e persino bacinelle da parto. Uova d’amore. Furono un inno al lusso, invece, le celebri uova create dal gioielliere Fabergé per lo zar Alessandro III di Russia (1845-1894). L’intento era fare una sorpresa di Pasqua alla moglie, Maria Fjodorovna, che rimase abbagliata
dal prezioso oggetto, creato con smalti, oro e rubini. Ogni uovo aveva una struttura a scatole cinesi e conteneva all’interno una piccola sorpresa. Un dono d’amore che venne ripetuto anche dal successore, Nicola II ogni anno fino al 1917, rendendo le uova un puro oggetto di collezionismo. Mariti e maritozzi. E chi abitava nella Roma settecentesca invece delle uova in oro, poteva sperare di ricevere un maritozzo con la panna. La tradizione vuole infatti che i fidanzati lo donassero alle promesse spose, ogni primo venerdì di marzo. Le ragazze soprannominavano i loro donatori “maritozzi”; da qui l’origine del nome. Costituito da pane morbido, pinoli e uvetta, pare derivi da una specialità degli antichi Romani: pagnotte con miele e uva passa.
ANNIVERSARI
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ra il 27 dicembre del 1894 e, con un secco telegramma (“Re di Napoli è morto”) indirizzato alla corte di Vienna, il borgomastro di Arco di Trento annunciava la notizia: Francesco II di Borbone non c’era più. L’ultimo re Borbone delle Due Sicilie, sul trono dal maggio 1859 al febbraio 1861, non ce l’aveva fatta. Una violenta crisi di diabete gli era stata fatale, mentre si trovava nella cittadina asburgica, oggi in provincia di Trento. Francesco, che aveva 58 anni (più della metà passati in esilio), era arrivato qualche giorno prima, come si diceva allora a “passare le acque”: curarsi bevendo acqua di fonte, seguendo la prescrizione medica per guarire da una grave forma di diabete, trasformatasi nel tempo in mielite. Presagio di morte. Già a 51 anni l’ex re aveva pensato al “dopo”, disponendo sulla sua successione, con una lettera spedita al fratello Alfonso di Borbone: “Re in diritto tu sei dal momento della mia morte: ma non ne hai l’esercizio. Tuo debito è di comunicare la mia morte e l’essermi tu successo. [...] Ricordati che quello di duca di Castro è nostro familiare di primogenito in primogenito”. Così scrisse il 18 novembre 1887. “Duca di Castro” era il titolo scelto dall’ex re per indicare il capo della dinastia (in quel momento, lui stesso), mentre il “primogenito” del duca di Castro aveva il titolo di duca di Calabria. I titoli di re e principi, tra i Borbone in esilio, si usavano poco: inutili finezze dinastiche. Francesco II, da piccolo, veniva ad esempio chiamato “Lasa” dal padre Ferdinando II per la sua passione culinaria nei confronti della lasagna napoletana. Per gli abitanti di Arco l’ex re (chiamato Franceschiello dagli storici unitari) era un villeggian-
Esattamente 120 anni fa moriva, ad Arco di Trento dove si curava sotto falso nome, l’ultimo re delle Due Sicilie. Al termine di un esilio durato oltre tre decenni
Gli ultimi giorni di 84
FRANCES
Da Napoli alle Alpi
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A sinistra, Francesco II delle Due Sicilie (18361894) fotografato poco prima di lasciare per sempre Napoli (1860). Sotto, il funerale dell’ex re ad Arco di Trento.
CHIELLO
ALINARI
Tappa a Roma
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Francesco II da papa Pio IX, a Roma, dove iniziarono i lunghi anni di esilio, proseguiti in Baviera e in Francia.
Fino all’ultimo Maria Sofia di Baviera, consorte dell’ex sovrano e sorella della principessa Sissi.
te qualsiasi: il signor Fabiani, un uomo distinto, di poche parole, aristocratico nei modi anche quando si limitava a passeggiare per la città con il suo cane. Amava confondersi tra la gente. Ed era molto religioso: si confessava una volta a settimana sempre alla stessa ora, tra le 6 e le 6:30 del mattino, e frequentava ogni sera la chiesa al Rosario della Collegiata in compagnia dell’arciduca d’Austria, Alberto. Il prete di Arco, Giuseppe Maria Chini, nelle sue memorie lo ricorda come un uomo di “gran modestia e spirito di sopportazione”. E racconta ancora: “Lo si incontrava soletto, oppure in compagnia di qualche principe, raramente da altri accompagnato”. Negli ultimi giorni, però, il signor Fabiani aveva perso il suo elegante incedere. Lo si vedeva trascinarsi per le vie di Arco, con gambe deboli ma sempre cortese con chi incontrava. Nelle ultime settimane lo accompagnava la moglie Maria Sofia di Baviera, sorella dell’imperatrice Sissi. Si aggravò in dicembre e morì poco dopo Natale. I solenni funerali furono organizzati dagli Asburgo, ad Arco, il 3 gennaio successivo: due cordoni di soldati austriaci allineati delimitavano il percorso. Dal monte Brione i cannoni spararono a salve e la bara, dove fu deposta una biografia del sovrano, fu portata a spalla dai Cacciatori imperiali tirolesi. In prima fila l’arciduca Alberto, e nelle file successive parenti e principi del regno di cui Francesco II era stato sovrano. Ma non c’erano solo nomi illustri. Il corteo era animato anche da una grande folla di gente comune che volle portare l’ultimo saluto al gentile e aristocratico signor Fabiani. Assediato e esiliato. Sembrava passato un secolo dal 1860, quando i piemontesi, che avevano già preso la Calabria e la Sicilia, su ordine di Cavour marciarono verso Napoli per unirla al Regno d’Italia. Francesco II abbandonò la città partenopea per, scrisse, “salvarla dagli orrori di una guerra e combattere in più favorevole situazione strategica”. Il 13 dicembre di quell’anno da Gaeta, dove si trovava con la moglie per l’estrema difesa del regno, scrisse all’imperatore francese Napoleone III che gli consigliava di arrendersi: “Sire, Vostra Maestà lo sa, i re che par-
Durante il soggiorno ad Arco di Trento l’ex sovrano delle Due Sicilie adottò un nome fittizio: si faceva chiamare “signor Fabiani” 86
tono ritornano difficilmente sul trono, se un raggio di gloria non abbia indorato la loro sventura e la loro caduta”. Furono giorni di sofferenze e sangue. Eppure il re li ricordava con rimpianto nell’esilio: “Eravamo più felici, e di molto, allora”, confidò a Pietro Calà Ulloa, capo dell’ultimo governo delle Due Sicilie, riferendosi ai 3 mesi trascorsi a Gaeta sotto l’assedio dell’esercito sardo-piemontese. Alla fine, il re dovette capitolare andando in esilio a Roma, ospite del papa Pio IX. A nord! Dopo il soggiorno romano, trascorso prima al Quirinale e poi a Palazzo Farnese (proprietà dei Borbone), Francesco II e Maria
Sofia si trasferirono in Baviera: Garathausen, Hohenschwangau e infine Egern. Nonostante i frequenti viaggi per l’Europa, l’inquieto Francesco non trovava pace. Così, con la moglie, si trasferì nella villa di Saint Mandé, vicino a Parigi. In famiglia. Senza impegni di governo, l’ex re ebbe modo di dedicarsi alla famiglia, esercitando il ruolo di capo di dinastia, cercando con paternalismo di tenere a bada le irrequietezze dei fratelli più piccoli. Su tutti gli diede molti grattacapi Luigi, conte di Trani, che conduceva una vita dispendiosa, si dava all’alcol e giocava d’azzardo. Questo ruolo impegnava molto Francesco. Troppo, secondo qualcuno che gli
Ultimo re, per 17 mesi
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el regno delle Due Sicilie, l’ultimo re salì al trono a 23 anni, nel maggio 1859, e lo perse nel febbraio 1861, 25enne. “Io sono napoletano, né potrei senza grave rammarico dirigere parole di addio ai miei amatissimi popoli. Qualunque sarà il mio destino, prospero od avverso, serberò sempre per essi forti ed amorevoli rimembranze”. Con queste parole, contenute nel suo proclama di giovedì 6 settembre 1860, Francesco II lasciava Napoli. Non ci sarebbe più tornato. In viaggio. Ancora re, si spostò a Gaeta, per organizzare l’estremo tentativo di difendere il Regno delle Due Sicilie. Con lui, migliaia di militari che, in sei mesi, affrontarono garibaldini ed esercito
regolare piemontese, che il 9 ottobre avevano invaso il regno senza dichiarare guerra. Volturno, Capua, Macerone, Garigliano, Caiazzo, Pontelatone, Mola, Gaeta furono i luoghi degli scontri dal settembre 1860 al febbraio 1861. Poi, si aggiunsero, a marzo, gli assedi di Messina e Civitella del Tronto (Teramo). Francesco II si considerò per decreto in “istato di guerra” solo alla partenza da Napoli. Prima, considerava i combattimenti con i garibaldini solo azioni di “filibustieri invasori”. Fu una sottovalutazione che gli costò cara. Un re così giovane aveva bisogno di affidarsi alla vecchia classe dirigente, quella di Ferdinando II, che però non si dimostrò all’altezza.
Gaeta addio Francesco II e Maria Sofia salutano la guarnigione borbonica lasciando Gaeta, il 14 febbraio 1861, giorno di San Valentino.
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Il corpo di Francesco II fu riportato a Napoli soltanto nel 1984. Insieme a quello della regina, Maria Sofia di Baviera, riposa nella Basilica di Santa Chiara
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mai la sua amata Napoli. Nella ex-capitale del suo regno tornò solo a più di cento anni dalla morte, nel 1984. In quell’anno i suoi resti, con quelli di Maria Sofia, furono trasferiti nella Basilica di Santa Chiara, il Pantheon dei Borbone delle Due Sicilie. • Gigi Di Fiore
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era sempre stato molto vicino, l’ufficiale e precettore di Luigi, Pietro Quandel. Nelle sue memorie, Quandel riporta una conversazione del 27 agosto 1874 con Alfonso di Borbone, fratello dell’ex re. Argomento, proprio Francesco II. “D’un sol difetto si è potuto accusare il re. In ogni tempo e oggi più che mai, cioè di una gran debolezza. Ma chi ha contribuito a sviluppare questa debolezza sono stati i suoi fratelli, sorelle e zii con le loro pretensioni continue e i continui maltrattamenti. Se il re avesse avuto l’energia di suo padre, avrebbe ben saputo tener a fronte i suoi parenti, e a via di far concessioni e cedere non sarebbe giunto al punto in cui è”. Nel 1884, Quandel rinunciò al suo incarico. Dopo due anni, Luigi morì in circostanze misteriose, forse suicida. Sul suo diario, annota Francesco II: “Martedì 8 giugno. Alle 4:10 a. m. perdo il mio caro fratello Luigi. Triste giorno”. Ritorno a casa. Francesco II condusse quei 33 anni d’esilio oppresso dai problemi finanziari: i suoi beni furono sequestrati già all’arrivo a Napoli dei garibaldini. L’ex re provò anche il dolore della perdita della figlia Maria Pia, morta a Roma all’età di 3 mesi, che si aggiunse ai problemi che gli davano i fratelli. Non rivide
Famiglia difficile Sopra, la famiglia reale di Francesco II: zii e fratelli furono, secondo molti, tra le cause della debolezza politica dell’ultimo re delle Due Sicilie. Sotto, i partecipanti al funerale, tra i quali c’erano anche Cacciatori imperiali.
STORIE D’ITALIA TRASAGHIS (UD)
Nel 1927 il campione del ciclismo Ottavio Bottecchia fu trovato agonizzante lungo una strada friulana. Una morte misteriosa, che ricorda quella del “Pirata” romagnolo
UN PANTANI D’EPOCA
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giugno 1927, 9 e 30 del mattino. A Peo nis, frazione di Trasaghis (all’epoca in provincia di Udine), lungo la strada stretta e sconnessa incassata tra la mon tagna e il Tagliamento, Ottavio Bottecchia, cor ridore di fama mondiale, viene trovato privo di conoscenza accanto alla sua bicicletta: una feri ta gli squarcia la nuca e sanguina in abbondan za. Portato a braccia dai primi soccorritori in una vicina osteria, poi caricato su un carretto, il ferito raggiunge l’ospedale di Gemona dove morirà il 15 giugno dopo lunga agonia. Una fine tragica, che alimenterà dubbi e sospetti, so prattutto a partire dagli anni Cinquanta. All’epoca la versione ufficiale par lò di una caduta accidentale. Bot tecchia, quel mattino in allena mento solitario sulle strade di casa, avrebbe sbattuto la te sta contro un paracarro o una pietra dopo aver sban dato nell’atto di chinarsi per allacciare i cinturini del pedale, oppure nel tentativo di scansare un’auto, o ancora in seguito a un improvviso “ma lore”, una delle poche parole da lui stesso biascicate nei rari momenti di lucidità. Tra i giornali, solo il Messaggero scrisse di “una tragedia avvolta nel mistero”. Mancavano testimoni oculari. Si dice che un brigadiere di Gemona troppo zelante nel le indagini fosse stato convocato nella locale se
Mistero friulano Nel disegno, la scena del ritrovamento del ciclista agonizzante, nel 1927. A sinistra, Bottecchia nel 1920.
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A. MOLINO
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Doppio successo Il 21 luglio 1925, Ottavio Bottecchia insegue il belga Lucien Buysse durante l’ultima tappa del Tour de France (che vinse l’italiano). A destra, la vittoria al Tour dell’anno precedente (1924).
Autodidatta di origini poverissime, all’inizio correva come gregario dei francesi al Tour. Ma poi divenne simbolo del riscatto italiano 92
de del Fascio e persuaso ad archiviare il caso e che anche la vedova di Bottecchia fosse d’accordo: il marito aveva stipulato una forte assicurazione sulla vita il cui premio sarebbe stato pagato solo in caso di incidente avvenuto durante l’attività ciclistica. Dalla fame alla fama. Nato a Colle San Martino (Treviso) nel 1894, ultimo di 8 figli, Ottavio Bottecchia aveva conosciuto da giovane la fame e la miseria: era stato carrettiere, muratore, tagliaboschi, bersagliere portaordini durante la guerra e poi emigrante in Francia. Gare tra i commilitoni a parte, cominciò a correre in bicicletta da dilettante a 25 anni; da professionista in Italia era fra gli “isolati”, quelli che speravano di racimolare qualche premio di consolazione e che, se sospettati di parteggiare per una delle squadre in lotta per il primato, potevano incorrere in spiacevoli disavventure. Risparmiava su tutto: anche la sacchetta del rifornimento rime-
diata nel corso di una durissima Milano-Sanremo era cibo prezioso da portare a casa. Il primo vero ingaggio venne dai francesi dell’Automoto. Era il 1923, i più noti Brunero e Girardengo non volevano partecipare al Tour e per questo si ripiegò su Bottecchia, primo al Giro di quell’anno tra gli “isolati”. Avrebbe fatto il gregario dei fratelli Pélissier, affermati campioni francesi, ma lo si guardava con sufficienza: “Pagagli tre giorni in anticipo, tanto questo più di tre tappe non fa”, aveva ordinato il padrone dell’Automoto al suo contabile. Il trionfo del Botescià. Di tutte le corse il Tour era la più massacrante, tappe di “trasferimento” di quasi 500 km, venti ore e più sempre in sella; tappe pirenaiche e alpine di immensa fatica su impervie strade sterrate. Fra quelle montagne il ventinovenne gregario italiano compì imprese strabilianti. Conquistata la maglia gialla, la cedette solo nel finale a Henri
FOTOTECA ST. NAZ. ANDO GILARDI
Gianpaolo Fissore
Alfonsina, unica “corriditrice”
S
e il Tour del 1924 vide Bottecchia sempre in giallo, il Giro d’Italia di quell’anno fu più che mai una “corsa rosa”. Protagonista assoluta Alfonsina Strada (1891-1959), trentatreenne emiliana di origini poverissime e con la bicicletta come strumento di emancipazione. L’attrazione del Giro. Alfonsina aveva corso le prime volte travestita da maschio e nelle competizioni femminili non aveva avuto rivali. Nel Giro del 1924, orfano di grandi campioni, diventò un’inedita attrazione. I giornali abbondarono in doppi sensi e falsità. Lei, paffutella, capelli corti, gambe nude e muscolose, riuscì a portare a termine anche le tappe più dure. A Roma ricevette da un ufficiale a cavallo un mazzo di rose e una busta con 5mila lire da parte del re. A Bologna, dopo che finì fuori tempo massimo, fu lo stesso direttore di gara a consentirle di proseguire, pagando di tasca sua vitto e alloggio. Lei resistette fino alla fine, a Milano, arrivando con i 30 “sopravvissuti” sui 90 partiti. La presenza di una “corriditrice” tra i maschi non fu in seguito più consentita. Ma Alfonsina restò a lungo una celebrità nei velodromi d’Europa. FOTOTECA GILARDI
Pélissier per obblighi di scuderia. Al Parco dei Principi i francesi portarono in trionfo anche lui, ribattezzandolo Botescià. La Gazzetta dello Sport bandì una sottoscrizione: una lira a testa per esprimere “la riconoscenza degli italiani” a quel povero ex muratore che contribuiva a tenere alto l’onore della patria all’estero. Benito Mussolini, pur non avendo alcuna passione per il ciclismo, volle comparire al primo posto. Quell’eroe del pedale, simbolo del riscatto nazionale e per giunta decorato in guerra con medaglia di bronzo, sembrava perfetto per la propaganda fascista. Si raccolsero 61.725 lire, che Bottecchia impiegò per costruirsi una casa a Pordenone e per vestire i suoi 32 nipoti. Ma la gloria e altri soldi tornò a cercarli oltralpe. Nel 1924, in maglia gialla dalla prima tappa all’ultima, fu il primo italiano a vincere il Tour. Replicò l’anno successivo. Era una sorta di Lance Armstrong degli anni Venti, agli avversa-
ri non lasciava quasi nulla. “Corro per gli sghei”, affermava senza perifrasi. I successi al Tour gli valsero anche nei due anni successivi contratti ben remunerati nei velodromi di tutta Europa. Aggressione fascista? Pur avendo preso nel 1923 la tessera del Partito nazionale fascista, Bottecchia era noto per le sue simpatie socialiste, alimentate nel corso dei lunghi soggiorni in Francia dalla frequentazione dei fuoriusciti antifascisti. Tra le sue amicizie pericolose si segnala anche l’anarchico Alberto Meschi, carrarese, compagno di quel Gino Lucetti, che come Bottecchia aveva fatto il carrettiere nel dopoguerra sull’altopiano di Asiago e che, nel 1926, fu autore di un fallito attentato al duce. Chi sostiene che Bottecchia finì vittima di una vendetta squadristica si basa su questi antefatti. Ai quali si aggiungerebbe un alterco piuttosto vivace avvenuto proprio la mattina del 3 giugno, durante una sosta in un’osteria, con alcuni fascisti di passaggio. Secondo questa ricostruzione il ciclista, aggredito lungo il percorso, avrebbe tentato di rimettersi in sella, seppure ferito, ricadendo più volte e infine accasciandosi nel luogo dove fu ritrovato dai primi soccorritori. L’ombra del racket. Il delitto avrebbe però potuto avere anche altre cause, in parte le stesse tirate in ballo dopo la tragica fine, nel 2004, di Marco Pantani: uno sgarbo al racket delle scommesse clandestine. A decenni di distanza spuntarono improbabili rei confessi, tra cui un contadino che sul letto di morte dichiarò di aver colpito il ciclista sorpreso a rubare della frutta. I referti medici, che non individuarono sul corpo di Bottecchia tracce di resistenza a un’ipotetica aggressione, avvalorano la tesi di un banale incidente. Banalità che mal si concilia con l’immagine dell’eroe inossidabile alle prove più dure. Per questo resiste l’alone di mistero su uno dei più grandi campioni del ciclismo italiano. •
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PERSONAGGI Genio e... regolatezza: sono queste le caratteristiche dei grandi creativi. I loro risultati sono infatti favoriti da abitudini giornaliere ripetitive.
LA ROUTINE
A CIASCUNO I SUOI RITUALI
I
l giornalista americano Mason Currey ha raccolto dettagli biografici di 168 artisti, mostrando che tutti, anche quelli considerati sregolati e istintivi, seguivano un preciso programma di abitudini giornaliere. A conferma (come già illustrato su Focus Storia n° 96) che il genio creativo non è frutto di ispirazioni momentanee ma di applicazione costante. Riportiamo alcuni esempi: le date sotto ai nomi si riferiscono al periodo in cui il personaggio ha seguito quella particolare “routine creativa”.
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MEZZOGIORNO
Sveglio nel letto a ragionare Sonno
PASTI, TOILETTE E VITA SOCIALE
SONNO
I COLORI DELLE ATTIVITÀ
6
15
1842-1859
Lettura libri scientifici
3
24 ORE
18
Charles Darwin (1809-1882) Ozio, tè con un uovo, backgammon con Emma
ATTIVITÀ PRINCIPALE
MEZZANOTTE
9
ALTRE ATTIVITÀ ESERCIZIO FISICO
SBARCARE IL LUNARIO
Benjamin Franklin (1706-1790)
W. A. Mozart (1756-1791)
1771
Pensiero serale: cosa ho fatto di buono oggi?
Sonno Toilette e colazione mentre progetta la giornata
Lavori in sospeso
1781
Sonno
Composizione Corteggiamento di Constanze (futura moglie)
Vestizione
Passeggiata Passeggiata Colazione solitaria
Scrittura lettere, lettura giornali
Lavoro e tabacco da fiuto
Pranzo Passeggiata col cane (il fox terrier Polly)
Lettura posta con la moglie Emma
Lavoro
GETTY (15), IDA DAILY RITUALS DI M. CURTEY (KNOPF), VISUALIZZAZIONE GRAFICA R. J. ANDREWS
Le Corbusier (1887-1965)
Esercizi a corpo libero
Caffè con la moglie
94
Lavoro Lettura, controllo situazione finanziaria, pranzo
1822-27
Sonno
Ore d’ufficio: i suoi impiegati lavorano sulle idee della mattina
Composizione o concerti
L. Van Beethoven (1770-1827)
1930-40
A casa
Riordino, cena, musica e conversazione
Colazione con la moglie Contemplazione artistica: pittura, disegno, scrittura
Cena leggera
Sonno
Alla taverna, leggendo il giornale
Pranzo e attività sociale
Lezioni di musica
Sigmund Freud (1856-1939) 1910
Sonno
Cena e gioco a carte con la moglie o la figlia
Consulti e altre analisi di pazienti
Lunga passeggiata (con penna e carta da musica appresso) Pasto principale (con vino)
Composizione
Composizione
Elaborata preparazione del caffè (60 chicchi macinati per tazza)
Passeggiata di buon passo sulla Ringstrasse (il viale intorno al centro di Vienna)
Pranzo
Analisi dei pazienti (fumando fino a 20 sigari al giorno)
Colazione, toilette
creatività
DELLA Gustave Flaubert (1821-1880)
Thomas Mann (1875-1955)
1851-1856 (STESURA DI MADAME BOVARY) Chiacchiere con la mamma
Scrittura
Cena
Victor Hugo (1802-1885)
1943
Conversazione con ospiti, lettura e grammofono
1852
Sonno
Revisioni e articoli
Caffè e bagno
Lettura
Giornali, posta, riempire la pipa, bagno caldo
Lezioni private Passeggiata in famiglia
Immanuel Kant (1724-1804) 1764-1804
Sonno
Lettura
Esercizi sulla spiaggia
Pisolino Lettura
Pranzo e sigaro
Scrittura, sigarette
Scrittura
Passeggiata
Carne e vino al pub
Corsi di logica, metafisica e altro (fu un ottimo docente per 40 anni)
Wystan H. Auden (1907-1973)
Sonno
Cena
NEI LUNGHI PERIODI DI SUPERLAVORO
Scrittura
Sonno Meditazione solitaria; un aiutante gli legge la Bibbia per mezz’ora
Pranzo
Sonno (aiutato da un barbiturico)
Ospiti e vodka martini
Caffè e parole crociate
Esercizio fisico
Scrittura (e 50 tazze di caffè al giorno)
Pisolino
Lavoro
Charles Dickens (1812-1870)
Piotr I. Cajkovskij (1840-1893)
1851-1860
Amici e famiglia
Sonno
Pranzo
Lavoro con dose quotidiana di anfetamina per concentrarsi
1885-1893
Sonno
Cena, vita sociale con ospiti oppure lettura
Tè, fumo, lettura Bibbia e testi filosofici
Composizione
Visitatori; cena leggera, pipa Passeggiata su e giù per il giardino
“GLI ANNI CHIMICI” (1930-40)
Bagno e visite di amici e conoscenti
John Milton (1608-1674) 1660
Ospiti e pranzo
Caffè, due uova crude e lettura della lettera quotidiana dall’amante Juliette Drouet Bagni di ghiaccio
Honoré de Balzac (1799-1850)
Tè, pipa, meditazione
Visita all’amico Joseph Green
Giro in carrozza con Juliette Dal barbiere
Tè con la famiglia
Pranzo leggero e cioccolato
Sonno
Scrittura, risposta alle lettere
Passeggiata
Sonno
Cena, gioco a carte con amici
Cena
Dettatura poesie (Milton era cieco dall’età di 40 anni) Lettura (con aiutante)
Camminata vigorosa in campagna o a Londra
Colazione Scrittura nello studio, in quiete assoluta
Tè e lettura quotidiani o giornali di storia Pranzo
Passeggiata Lunga passeggiata
Composizione Correzione di bozze e corrispondenza 95
I GRANDI TEMI - Leopoldo d’Asburgo
LUMI DI
TOSCANA
Leopoldo I di Toscana, con le sue riforme, ispirate ai princìpi illuministi, trasformò il granducato in uno Stato all’avanguardia
S
apeva che per ben governare era necessario conoscere di persona il territorio. Per questo il suo primo incarico fu viaggiare. Era il 1765 e Pietro Leopoldo d’AsburgoLorena era appena diventato granduca di Toscana succedendo al padre Francesco Stefano di Lorena, che di quel pezzo di Italia annesso al suo regno (il Sacro romano impero) si era sempre disinteressato. Invece il diciottenne Leopoldo, che visitò la Toscana in lungo e in largo per capirne a fondo la società e i problemi, aveva le idee chiare sui suoi nuovi dominii: voleva trasformarli in un laboratorio di nuove esperienze culturali e politiche nel tentativo di mettere in pratica quelle idee illuministe con cui era cresciuto, era figlio infatti di Maria Teresa d’Austria, regina (e poi regnante di fatto) illuminata. Un tuffo nella realtà. Viaggiando nel suo nuovo regno Leopoldo ebbe modo di osservare situazioni diverse tra loro seppur a poca distanza. Se infatti la Toscana Centrale era una zona prospera, legata a contratti agrari più avanzati, come la mezzadria, e caratterizzata da coltivazioni specializzate come gli olivi, le viti e gli alberi da frutta, la parte più meridionale, la Maremma, era una zona ancora poco popolata dove regnavano il latifondo e la malaria. Nel Nord del regno invece allevatori e piccoli proprieta-
INTANTO NEL MONDO Granducato di Toscana 1747 Pietro Leopoldo Giuseppe d’Asburgo-Lorena nasce a Vienna, il 5 maggio. Sua madre è Maria Teresa d’Austria.
1762 Pietro Leopoldo sposa a Innsbruck (Austria) Maria Luisa, figlia di Carlo III di Spagna.
Sdoganati a Palazzo Vecchio Veduta di Palazzo Vecchio, sede del governo. Nel palazzo, Leopoldo (sopra) istituì la dogana, dove le merci, provenienti da altri regni, venivano depositate in attesa che il destinatario le ritirasse, pagando una tassa.
1765 Il 18 agosto Pietro Leopoldo diventa granduca di Toscana.
Altri regni 1740-48 Guerra di successione austriaca ed espansione della Prussia.
1760 Gli inglesi si espandono in India e in Canada, ai danni dei francesi.
Cultura e società
1748 Montesquieu pubblica Lo spirito delle leggi, che introduce il concetto della divisione dei poteri, alla base della moderna concezione dello Stato.
1762 Caterina II diventa zarina di Russia. 1763 La Pace di Parigi pone fine alla Guerra dei Sette anni.
1765 Giuseppe II (fratello di Pietro Leopoldo) diventa coreggente del Sacro romano impero con Maria Teresa.
1768-74 Con la guerra russo-turca l’Impero ottomano viene ridimensionato.
1764 L’illuminista Cesare Beccaria pubblica a Livorno Dei delitti e delle pene, schierandosi contro la pena di morte.
1768 L’inglese James Cook esplora la costa dell’Australia. A Venezia muore il pittore Canaletto.
1773 Papa Clemente XIV scioglie la Compagnia di Gesù. 1774 Tumulti popolari nel granducato.
1770 James Watt costruisce la sua macchina a vapore. Inizia la rivoluzione industriale.
1774 Maria Antonietta, sorella di Pietro Leopoldo, sposa Luigi XVI e diventa regina di Francia. 97
I GRANDI TEMI - Leopoldo d’Asburgo
La Toscana, per i Lorena, era sempre stata la periferia dell’impero. Ma con Leopoldo tutto cambiò
Pietro Leopoldo
Maria Teresa
Francesco I
Granduca di Toscana dal 1765 al 1790. Alla morte del fratello (l’imperatore Giuseppe II) la corona imperiale passò a lui.
Dal 1745 al 1765 fu imperatrice consorte di Francesco I. Con la morte di lui, divenne regnante di fatto dell’impero.
Imperatore dal 1745 al 1765, cedette la Lorena alla Francia in cambio della corona del Granducato di Toscana.
ri terrieri la facevano da padroni. Anche se con sacche di ricchez- Oltre che con Roma. Per collegare il Granducato con il Ducato di za e progresso, la società toscana, come quelle di molti altri regni Modena furono costruite strade di montagna, come per esempio del Settecento, era caratterizzata da miseria, povertà, carestie e quella che tutt’oggi collega Pistoia a Modena passando per l’Apprevaricazione da parte dei ceti privilegiati su quelli più deboli. pennino, scollinando al passo dell’Abetone. Fece inoltre bonifiE sicuramente questo non sfuggì al neo-granduca, che per prima care paludi in Maremma e in Val di Chiana. cosa volle rendere più efficiente l’amministrazione municipale e Maledetti toscani. L’idea che si fece in quel tour, e nei succesmigliorare le vie di comunicazione. sivi anni di regno, era che i toscaQuest’ultima “opera infrastruttuni mancassero in qualche modo di ASSOLUTISMO ILLUMINATO rale” aveva lo scopo di collegare in un’educazione morale. Una responEvoluzione della monarchia caratteristica del modo più sicuro il granducato con la sabilità che attribuiva soprattutto al Settecento, nella quale il re, pur mantenendo Pianura padana, con i porti adriatici clero. In una delle sue relazioni sul il potere assoluto, promuove riforme giuridie con il fulcro dell’impero, Vienna. regno scrisse che i toscani, caratteche e sociali influenzate dagli ideali illuministi, riducendo i privilegi di nobiltà e clero.
Calcio in piazza Una partita di calcio fiorentino in piazza Santa Croce, all’epoca di Leopoldo I.
1775 Viene eletto papa Pio VI, timido riformatore.
Giuseppe II
Maria Luisa
Nel 1765 successe al padre Francesco I sul trono imperiale e regnò fino al 1790. Esponente dell’assolutismo illuminato.
Maria Luisa di Borbone (1745-1792), figlia di Carlo III di Spagna, sposò Leopoldo nel 1765: uno dei figli fu Ferdinando III.
rizzati più da furbizia che da violenza e coraggio, tendevano a commettere reati contro il patrimonio più che contro la persona. Leggendo le opinioni di Leopoldo sui sudditi, si scopre che per il granduca la società toscana era pericolosamente divisa: “sempre disuniti fra loro, diffidenti e invidiosi l’un l’altro, eccessivamente minuti, sfogano il loro cattivo umore in maldicenze, in ciarle, in calunnie ed intrighi di piccolissimo momento”. Aggiungeva tuttavia che i toscani hanno molto ingegno, vivacità di intelletto e talento, seppur poco coltivato con lo studio. I maggiori ostacoli ai suoi progetti di riforma li individuò proprio nella nobiltà, soprattutto fiorentina, “sempre contraria e sempre nemica del
1778 Lungo soggiorno a Vienna, dove studia le riforme del fratello Giuseppe.
1780 Pietro Leopoldo affida a vescovi riformisti (giansenisti) i rapporti con la Chiesa.
1776 Dichiarazione d’indipendenza delle colonie inglesi del Nord America (4 luglio).
1780 Muore Maria Teresa d’Austria; Giuseppe II governa da solo.
1782 Abolizione in Toscana del Tribunale dell’Inquisizione e adozione di un’unica unità di misura.
1786 Proclamazione della Leopoldina, la riforma che introduce il nuovo codice penale e abolisce la pena di morte nel granducato.
1774 Maria Teresa d’Austria introduce l’istruzione primaria obbligatoria.
1777 L’illuminista Pietro Verri pubblica le Osservazioni sulla tortura.
1781 L’astronomo inglese di origine tedesca William Herschel scopre il pianeta Urano.
1787 Prima rappresentazione, a Praga, del Don Giovanni di Mozart.
1789 In Francia scoppia la rivoluzione che rovescia Luigi XVI e l’ancien régime. 1790 Pietro Leopoldo abdica a favore del figlio (Ferdinando III) per diventare imperatore del Sacro romano impero.
I neonati Stati Uniti adottano la nuova Costituzione e George Washington è il primo presidente.
1790 Kant pubblica la Critica del giudizio, che anticipa l’estetica romantica.
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I GRANDI TEMI - Leopoldo d’Asburgo
A remare contro le riforme leopoldine furono soprattutto Chiesa e aristocrazia toscana. A sostenerlo erano invece il ceto borghese e i professionisti
Belle arti Artisti fiorentini al lavoro: l’Accademia di Belle arti di Firenze fu fondata nel 1784.
governo”, nonché poco istruita, oziosa, falsa e superba. E nel clero, giudicato il maggiore responsabile dell’arretratezza e dell’ignoranza della società a tutti i livelli, seminatore di “inquietudini e di disunioni”. Per cui cominciò una riforma religiosa, ispirata ai principi del giurisdizionalismo, chiudendo confraternite e ridimensionando conventi, e utilizzandone i beni in favore degli ospedali. Tentò inoltre di contenere il potere degli ecclesiastici, abolendo i vincoli manomorta (i beni posti sotto questo vincolo sono inalienabili e non soggetti a imposte di successione o vendita). L’opera moralizzatrice raggiunse anche i nobili: “Il lusso smoderato è uno dei vizi del Paese”, scrisse il granduca nelle Relazioni del 1790. “Quello che si può fare si è che chi governa dia nella sua persona e famiglia l’esempio del contrario, non tol-
Un libro illuminante La copertina del saggio di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene (pubblicato a Livorno nel 1764), nel quale il giurista illuminato solleva dubbi sulle pene allora in vigore. Sullo sfondo, il palio delle bighe, a Firenze, per l’incoronazione di Ferdinando III, figlio e successore di Leopoldo sul trono di Toscana.
lerando il lusso negli impiegati e persone della sua casa e servizio e procurando con l’esempio e colle parole di screditarlo”. Per questo, nel 1781, aveva inviato agli aristocratici una circolare sul contenimento del lusso. All’avanguardia. Se questi erano i “poteri forti” che remavano contro, Leopoldo poté invece contare su una larga parte di cittadini, ossia su quel ceto, a suo dire più istruito ed educato, di “dottori e procuratori”. Borghesi e professionisti che appoggiarono da subito il riformismo illuminato. Come Pompeo Neri, che si occupò del nuovo codice penale, e Giulio Rucellai, che ispirò al granduca la riforma del clero. L’opera riformatrice durò per tutto l’arco del suo regno dal 1765 al 1790. Leopoldo ci aveva visto giusto. Grazie al rinnovamento della società toscana il suo piccolo regno
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APERNE DI PIÙ
Le riforme di Pietro Leopoldo e la nascita della Toscana moderna, a cura di Valentino Baldacci (Mandragora).
divenne un territorio all’avanguardia volentieri, nel 1790 dovette fare i baGIURISDIZIONALISMO in Europa e nel mondo. gagli per Vienna: era diventato impeLaicizzazione dello Stato attraverso la riduzione Per capirlo basta considerare che il ratore. Morì dopo due anni, passano l’abolizione dei privilegi ecclesiastici. Granducato di Toscana fu il primo Stado alla Storia più che altro per quello to al mondo ad abolire, cancellandola che fece a Firenze. dal codice penale, la pena capitale. Il 30 novembre 1786, in seguiEsempio. La sua opera ebbe grande eco tra gli intellettuali euto alla promulgazione del nuovo codice (Riforma criminale tosca- ropei che videro in Leopoldo il buon governante capace di metna o Leopoldina), nel cortile del Palazzo del Bargello vennero bru- tere un freno allo sfarzo e al potere della Chiesa, al servizio dei ciati tutti gli strumenti di tortura e i patiboli utilizzati fino a quel suoi sudditi fino al punto da concedere udienza a chiunque gliemomento. Leopoldo aveva messo in pratica i princìpi del giurista la chiedesse. Così non fu per il popolo toscano: durante il suo lombardo Cesare Beccaria, espressi nel suo Dei delitti e delle pene regno furono molti i tumulti popolari, a Livorno, Firenze, Pra(non a caso pubblicato a Livorno, dove non c’era l’Inquisizione). to. E la sua figura non ebbe il consenso che si potrebbe pensare Oltre l’Illuminismo. Le idee più progredite Leopoldo le aveva oggi. La ragione? Probabilmente la sua politica religiosa. La posullo Stato. “La mia convinzione è che un sovrano, anche eredita- polazione era ancora legata al devozionismo popolare e mal verio, è soltanto un delegato e un impiegato del popolo, per il qua- deva il tentativo (rimasto tale) di Leopoldo di riformare la Chiele egli è fatto e al quale deve tutte le cure, pene, veglie […] il pote- sa secondo i princìpi del giansenismo: rigore nei costumi e ridure esecutivo è nel sovrano, ma quello legislativo è nel popolo e nei zione del potere papale. La riforma naufragò, ma uno spiraglio suoi rappresentanti, ché il popolo, a ogni cambiamento di sovra- verso la laicizzazione delle istituzioni, grazie al piccolo Granno, può aggiungere nuove condizioni all’autorità del sovrano stes- ducato di Toscana, era stato aperto. • so”, scrisse in una lettera alla sorella Maria Cristina, il 25 gennaio Federica Ceccherini 1790). Leopoldo era convinto che una monarchia non si potesse reggere senza un “contratto” tra popolo e sovrano. Un patto che limitasse i poteri di quest’ultimo e condizionasse il sovrano stesso: se il re non avesse osservato la legge fondamentale, i sudditi non erano tenuti a obbedirgli. Un pensiero che per alcuni storici andava al di là del riformismo illuminista anticipando le costituzioni del XIX secolo. È in quest’ottica che cominciò a lavorare a un progetto di costituzione, che però non portò a termine perché, anche se mal-
La sala delle cere anatomiche, alla Specola.
Il primato della Specola fiorentina
È
aperto al pubblico da 239 anni. Era il 1775, quando l’Imperiale e reale museo di Fisica e Storia naturale fu istituito, per volere di Pietro Leopoldo. Oggi si chiama Museo della Specola (“specola” significa osservatorio astronomico, e infatti c’era anche quello) ed è il museo di storia naturale dell’Università fiorentina. Scienza per tutti. L’idea di raccontare la natura in modo scientifico nacque dalle idee illuministe: il sapere doveva essere condiviso, e la ricerca, come l’esplorazione di
nuove terre, non doveva essere spinta dal desiderio di conquista e di dominio, bensì dal desiderio di conoscenza. La collezione di reperti naturalistici, in origine una Wunderkammer (“stanza delle meraviglie”) come ce n’erano in tutte le corti europee, fu catalogata dal fiorentino Giovanni Targioni Tozzetti seguendo i criteri scientifici di Linneo, allora una novità assoluta. Si trasformò così in museo naturalistico, uno dei primi al mondo e, appunto da 239 anni, il primo in Italia. (a. c.) 101
NOVECENTO Sotto le frasche A
Elegante
Autoritratto di Lafond nel 1901, giovane studente di farmacia.
Saint-Malo, in Bretagna, nell’estate del 1901, Lafond fotografa tutta la “banda” dei suoi amici più stretti e compagni alla facoltà, in un caffè del Bois du Lapin.
LouisLafond Medico e fotografo Selfie Autoritratto
LAFOND/CONTRSTO
di Lafond studente di farmacia con un suo compagno d’università, nel 1901. All’epoca i prodotti chimici per lo sviluppo delle pellicole si acquistavano nelle farmacie: da lì scaturì la sua passione.
L’album di un soldato dei reparti sanitari, appassionato di fotografia, che ritrasse la vita quotidiana nelle retrovie della Prima guerra mondiale In Bretagna
Cancale, Bretagna, 1901. Il France, una barca a vela, entra nel porto di La Houle dopo aver partecipato a una regata.
Nel conflitto Campo di servizio sanitario nei Vosges, dove servì Lafond durante la Grande guerra. Gli oltre 2.000 farmacisti dell’Armée nel 1914-18 svolsero spesso gli stessi compiti dei medici.
La leva A Toul, in Lorena, alcuni ufficiali francesi osservano le manovre a cui Lafond partecipò durante il servizio militare, nel 1904. Fu subito assegnato al servizio sanitario dell’Esercito.
La macchina
L’apparecchio stereoscopico con cui Lafond fotografò su lastre di vetro sensibile il “dietro le quinte” della guerra. 103
Marchons Agosto 1914: Louis Lafond ritrae un reggimento che parte per il fronte, tra ali di folla festante. Nessuno immagina a quale terribile destino andranno incontro molti di questi uomini. Sfinito
Autoritratto di Lafond con il camice e gli strumenti usati per gli interventi chirurgici, ai quali molto spesso prendeva parte.
“In vino pax” Una pausa degli uomini del servizio sanitario in un caffè, attorno a un bicchiere di vino. Le foto di Lafond sono attente agli aspetti più umani della lunga assenza dei soldati da casa. 104
In prima linea Louis
Lafond mentre entra in uno dei baraccamenti del servizio sanitario dell’esercito, nelle retrovie.
Ambulanza express
Lafond sul suo auto-chir, un camion attrezzato per sterilizzare gli strumenti e per la radiologia, dotato di baracca operatoria montabile.
Dal Mare del Nord all’Alsazia, raccoglieva i feriti della prima linea. E allestì ospedali mobili nelle fattorie e nei monasteri Guerra aerea Un caccia Farman F40. È il 5
ottobre 1914 e siamo vicino a Reims, dove quel giorno si svolse il primo combattimento (con velivolo abbattuto) nella storia dell’aviazione.
Come bambini Lafond (in primo piano) in un villaggio francese mentre scivola sul ghiaccio di una via gelata.
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Cheese! Lafond si ritrae con i colleghi del servizio sanitario dell’esercito, in una fattoria trasformata in ospedale. Accanto a loro, anche due infermiere: indispensabili come i medici e i farmacisti. Pausa tecnica Lafond (il secondo da destra) durante una giornata di revisione delle ambulanze militari, parcheggiate in una fattoria.
Quasi felici Verdun (Lorena), 1916. Gli
uomini del servizio sanitario hanno finalmente l’occasione, rara per chi stava al fronte, di lavarsi, in un ruscello vicino a una fattoria-ospedale
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I morti erano troppi Si scavano le fosse comuni per accogliere i corpi dei soldati uccisi. I cimiteri ormai erano pieni.
Verdun L’Altopiano di Allemant durante la Battaglia di Verdun, il 23 ottobre 1917. Un’immagine di desolazione assoluta, con un’unica presenza umana nel paesaggio devastato.
Le ultime foto del “reportage” di Lafond sono del 1919. A guerra finita, girando in bicicletta, documentò la devastazione della Francia Morte dal cielo Soissons, in Piccardia: una delle “città martiri” della Prima guerra mondiale. Era stata bombardata di continuo, dall’agosto 1914 fino al 1917. Lafond ne mostrò le macerie.
Scena bucolica St. Prix, 1917.
Jeanne, la moglie di Lafond, osserva i figli giocare. Un week-end strappato alla guerra, grazie a un permesso ottenuto dal marito soldato.
neI prossimI numerI
IN EDICOLA dal 22 gennaio con tante altre storie e personaggi
RINASCIMENTO RIA NOVOSTI/ALINARI
NOVECENTO
Le streghe della notte
Grandi corti d’Italia
Si chiamava così un gruppo di aviatrici che la propaganda sovietica della Seconda guerra mondiale trasformò in eroine.
Da Milano a Napoli, da Ferrara a Urbino, il Rinascimento nasconde tanti aspetti poco conosciuti.
GERUSALEMME
Un geologo alla deriva
Tutti i popoli di Gerusalemme
Nel 1930 Alfred Wegener, scienziato-esploratore, partì per la Groenlandia a caccia di prove della sua teoria sui continenti.
Nel corso dei millenni i popoli che sono passati dalla Città Santa sono stati moltissimi. E tutti hanno lasciato qualche eredità nei quartieri.
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AVVENTURE
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flashback
Hans “il cavallo intelligente” con il padrone Wilhelm von Osten in uno scatto di inizio Novecento. Si riteneva che l’animale fosse in grado di eseguire operazioni aritmetiche e von Osten lo esibì in spettacoli in Europa e negli Usa. Uno psicologo dimostrò però che Hans non faceva operazioni mentali, ma rispondeva soltanto ai segnali involontari lanciati con il linguaggio del corpo dall’addestratore. 110
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