Storia SCOPRIRE IL PASSATO, CAPIRE IL PRESENTE
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n°103
L’architetto di Hitler
Albert Speer, il ministro del Reich che scampò alla forca
L’AVVENTURA DELL’AMISTAD Gli schiavi che si ribellarono e conquistarono New York
Confini impazziti
Isole condivise, microstati e altre stranezze
DA NORD A SUD I PRIMI RE D’ITALIA
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VITA QUOTIDIANA, PROTAGONISTI E CONQUISTE, DA PAVIA A BENEVENTO NOVECENTO
DAL CONFLITTO DEL 1898 A CASTRO, LE MANI DEGLI STATI UNITI SU CUBA
PASTA, PIZZA & Co. CIBI E RICETTE DIVENTATI SIMBOLI DEL MADE IN ITALY PER CASO
MAGNA GRECIA QUANDO GLI ELLENICI SEMINAVANO CIVILTÀ (E QUALCHE GUERRA)
57 a Fiera del Collezionismo Militare
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Storia
L
iutprando e Alboino, la regina Teodolinda, Rosmunda che beve nel teschio del padre e, per i più attenti, la morte di Ermengarda che giace, “sparsa, le trecce morbide sull’affannoso petto”, come canta Alessandro Manzoni nell’Adelchi. I Longobardi, per moltissimi di noi, sono questo: una reminiscenza scolastica, inserita nella cronologia tra gli Ostrogoti e i Franchi. Eppure questi germanici, varcate le Alpi nel 568, sono stati il vero anello di congiunzione tra l’Impero romano e l’Italia dei secoli successivi. E non soltanto perché da barbari guerrieri si sono trasformati in raffinati cultori delle arti, del diritto e della teologia. Ma anche perché, come vi raccontiamo in questo numero di Focus Storia, hanno (quasi) unificato la Penisola e, con la loro resistenza a Sud, contribuito fortemente ad alcuni caratteri specifici del Mezzogiorno... visto che hanno regnato più a lungo in Irpinia che a Pavia. Jacopo Loredan direttore
rubriche 4 LA PAGINA DEI LETTORI
6 NOVITÀ & SCOPERTE
8 TRAPASSATI ALLA STORIA
9 AGENDA
10 MICROSTORIA 12 CURIOSARIO 13 SCIENZA & SCIENZIATI 70 PITTORACCONTI 72 DOMANDE & RISPOSTE 74 UNA FOTO, UN FATTO
110 FLASHBACK
IN PIÙ...
DEA/SCALA
103
CI TROVI ANCHE SU:
PERSONAGGI 16 L’architetto
del diavolo
Albert Speer, l’urbanista di Hitler.
ALIMENTAZIONE 22 Ricettario
made in Italy
Storie curiose dei più noti piatti italiani.
26 LeNOVECENTO mani su Cuba
Gli alti e bassi dei rapporti fra Stati Uniti e l’isola caraibica.
Fibula d’oro longobarda del VII secolo.
L’Italia dei Longobardi 34
I barbari di Odino Litigiosi, guerrieri implacabili, convertiti al cristianesimo ma fedeli alle tradizioni pagane. I Longobardi erano tutto questo, ma non solo.
42
Una regina quasi santa Teodolinda ebbe due mariti, un figlio sfortunato e un eccezionale fiuto diplomatico. E fece della sua reggia di Monza un centro di potere.
50 L’Italia longobarda L’avanzata a partire dall’anno 568, le rapide conquiste, l’espansione al Sud. E i luoghi che, dal Friuli al Meridione, conservano oggi i loro tesori.
54
Liutprando il Grande Tentò di realizzare il sogno di unificare la Penisola. Non ci riuscì, ma sotto il suo scettro il suo popolo divenne una nazione.
60
Gli altri protagonisti Da Alboino il conquistatore a Rotari il legislatore, dall’ultimo re, Desiderio, allo storico Paolo Diacono, i Longobardi che hanno fatto la Storia.
62
Benvenuti al Sud Nel 774 Carlo Magno pose fine al regno longobardo al Nord. Ma i ducati del Sud sopravvissero e la “questione meridionale” iniziò proprio allora.
In copertina: un reenactor in tenuta da guerriero longobardo. FOTO C. BALOSSINI/ASSOCIAZIONE CULTURALE LA FARA - UDINE
76 LeOTTOCENTO catene spezzate
Gli schiavi ribelli dell’Amistad.
STORIE D’ITALIA 84 L’oste che
fece un ’48
Ciceruacchio, il capopopolo che difese la Repubblica romana.
88 10CURIOSITÀ tesori
inaspettati
Acquistati nei mercatini per pochi soldi, si sono rivelati antiche rarità.
MEDICINA 90 Non chiamateli
scemi di guerra
I soldati della Prima guerra mondiale con la mente devastata.
TEMI 96 IlGRANDI bello dei
migranti
Le meraviglie e le eredità della Magna Grecia.
102 N CAZIONI onfini pazzi
Le incredibili vicende dietro a microstati e isole in condivisione. 3
LA PAGINA DEI LETTORI Inviateci opinioni, idee, proposte, critiche. Pubblicheremo le più interessanti oltre a una selezione dei commenti alla nostra pagina Facebook. (www.facebook.com/FocusStoria). Scrivete a Focus Storia, via Battistotti Sassi 11/a, 20133 Milano o all’e-mail
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Storia Scoprire il paSSato, capire il preSente
n° 102
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MENSILE – Austria, Belgio, Francia, Lussemburgo, Portogallo, Spagna � 8 - Germania � 11,50 - Svizzera CHF 12 - Svizzera Canton Ticino CHF 11,50 - Canada CAd 11,50 - USA $ 11,50
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esploratori axum guerre di vandea profumi nella storia shostakovich radar umiliati
Un radar per vincere
Hitler lo snobbò. E Churchill ne fece l’arma finale
rivoluzione? no grazie 1792: la rivolta in Vandea che poteva cambiare la Francia
complotti, denaro, avventura... da erodoto a colombo a gagarin, perché siamo andati verso l’ignoto
I segreti del profumo
Curiosità e aneddoti in 4000 anni di fragranze
le età d’oro delle
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eretici d’italia
furono i nonni dei protestanti. Ma finirono MalissiMo
regina di saba
i Misteri dell’iMpero di axuM che custodì l’arca dell’alleanza
stalin in musica
il coMpositore shostakovich: dal palco al rischio gulag
Cristoforo Colombo da Savona... A pagina 48 del numero 102 di Focus Storia si affronta il problema del luogo di nascita e dell’origine di Cristoforo Colombo che, come scritto, rimane ufficialmente genovese. La nostra associazione ritiene invece che il celebre navigatore non fosse figlio del lanaiolo Domenico di Genova-Quinto. L’ipotesi più probabile è che fosse nato a Savona nel 1436. Bisogna precisare che genovese, all’epoca, si riferiva ai cittadini della Repubblica di Genova e non indicava, come oggi, un luogo di nascita o di residenza. Tutti coloro che oggi chiamiamo liguri, erano cittadini genovesi. Non ne facciamo una questione di campanilismo, ma di identità stessa del personaggio. Il motivo principale, ma non il solo, per il quale riteniamo che la famiglia Colombo di GenovaQuinto non fosse quella dello scopritore dell’America è che, in Spagna, a partire dal 1497, sono presenti due parenti di Cristoforo, Giovanni Antonio e Andrea Colombo, che non si trovano nei documenti dell’Archivio di Stato di Genova riguardanti i Colombo di Quinto. Di Andrea, nipote di Cristoforo, non c’è traccia, e, quanto a Giovanni Antonio, viene identificato con un Giovanni. Ma né il nome, né il grado di parentela, né 4
la professione corrispondono a quelli dei documenti spagnoli. Personalmente ritengo che lo Scopritore appartenesse alla famiglia dei Colombo di Cuccaro, nel Monferrato, e che fosse nato a Savona nel 1436. La data di nascita si desume dalla testimonianza di Andrés Bernáldez, che ospitò Colombo nella sua casa nel 1496, e corrisponde a quanto ci dice di sé l’Ammiraglio, che parla di un lungo periodo di navigazione continuativa in mare, 23 anni e anche più, il che è inconciliabile con la data di nascita ufficiale, il 1451. Il luogo di nascita si desume invece da due importanti documenti: il Memorial o Registro Breve della corte di Spagna dove, nel 1491, Colombo è detto genovese e nativo di Savona, e dal documento De Uhagon, dove, nel 1535, i testimoni convocati a favore di un nipote di Cristoforo affermano che l’Ammiraglio era genovese e nativo di Savona. Filippo De Nobili, presidente dell’Associazione Culturale Cristoforo Colombo, Savona
...o Cristoforo Colombo da Cogoleto? Recenti e approfonditi studi hanno portato alla luce importanti documenti che attestano chiaramente che Colombo era nato in Cogoleto
(Ge) e non a Genova. Esiste una sostanziale differenza tra i due personaggi: quello di Genova, nato nel 1451, è un tessitore di panni, mentre Cristoforo di Cogoleto, nato presumibilmente nel 1436, è un esperto uomo di mare che inizia a navigare in giovane età [...]. Anche la Repubblica di Genova attesta che lo scopritore era di Cogoleto. Tali documenti sono custoditi presso l’Archivio di Stato di Genova, la Biblioteca Apostolica Vaticana, l’Archivio de Indias di Siviglia e altri archivi nazionali ed esteri. Per quanto concerne l’argomento relativo alla “prescoperta” e la carta del turco Piri Rais, preciso che sulla stessa il nome di Colombo è così indicato: Kolon-bo, il quale è definito “infedele genovese” e non infedele “di Genova” come riportato nell’articolo [...], ossia cittadino della Repubblica di Genova. Esistono altri documenti che fanno pensare a una possibile “prescoperta”. Tra questi le Capitulaciones de Santa Fé [...] del 17 aprile 1492. Ebbene, nel preambolo si legge chiaramente: ha “descubierto”, ossia ha scoperto [...]. Per approfondire l’argomento segnalo il sito www.cristoforocolombostoria.it e il volume a carattere scientifico edito dal Comune di Cogoleto (2009) Svelati i segreti di Cristoforo Colombo. Dalla nascita dell’Ammiraglio alla causa ereditaria
La lapide misteriosa: qualcuno ci può aiutare? Buonasera! Vorrei porre alla Vostra attenzione la lapide ritrovata nella nostra chiesa parrocchiale di Vibonati (Salerno), paesino ubicato nel basso Cilento. Vi riporto le incisioni che, nella foto e sulla pietra stessa, non sono chiaramente leggibili: La frase “perimetrica” dice
“spectatum admissi risu teneatis amici?”; all’interno, è riportata la scritta “vigilo noli me tangere”; nella parte bassa si legge “A.P.M. DE PACCHA F.F.A.”; la data è 1143 o 1743 (la seconda cifra non si legge bene). Antonio Scognamiglio
intrapresa da Bernardo Colombo di Cogoleto. Antonio Calcagno, Cogoleto (Genova)
Altri dettagli sulla fuga di Mussolini Ho letto l’articolo riguardante la cosiddetta “fuga” di Mussolini [...]. Io ne conosco una versione differente, che mi è stata riferita da un mio parente, il quale l’ha ascoltata da suo padre, che è stato uno dei protagonisti di una vicenda che, secondo me, contribuirà a fare nuova luce su un episodio sul quale si è molto ricamato, spesso a sproposito. Nell’aprile del 1945 era chiaro che la guerra era ormai perduta e che si doveva pensare a cosa fare una volta che gli Alleati avessero messo piede nella Pianura padana. Tra i gerarchi le opinioni erano molto discordanti [...]. Alla fine prevalse la tesi di raggiungere il ridotto e lì dare luogo all’ultima resistenza repubblicana. Si poneva ora un altro problema: a chi affidare la scorta del convoglio di Mussolini fino in Valtellina? Per questo motivo venne convocata a Milano una persona di provata fede fascista e che godeva della stima del duce: era Stefano Motta, federale di Mantova e comandante della XIII Brigata Nera “Marcello Turchetti” [...]. Dopo un incontro personale con Mussolini, Motta fu
ricevuto da Pavolini nel suo studio, che gli riferì i seguenti ordini: avrebbe dovuto radunare tutti gli effettivi della propria brigata e, passando per la parte orientale del Lago di Garda, riunirsi con il convoglio del duce all’altezza di Dongo e da lì scortarlo verso il ridotto Valtellinese. Il comandante Motta tornò quindi a Mantova dove radunò i suoi uomini: si trattava di all’incirca 2mila militi perfettamente armati e muniti di autocarri militari, motociclette e persino 2 autoblindo AB41 e un carro M11/39. La colonna si mise in marcia il 25 aprile da Mantova lungo il Lago di Garda. Giunti a metà del lago si trovarono la strada sbarrata da un presidio di 300 partigiani comunisti che impedivano il passaggio dei militi; allora il comandante Motta radunò i suoi ufficiali e pose due alternative: procedere con un rastrellamento delle colline, che avrebbe impiegato almeno tre giorni che non potevano permettersi di sprecare, oppure accordarsi con il comandante partigiano [...] nascondendogli il vero motivo della missione. Venne così raggiunto un accordo: i militi avrebbero potuto attraversare il posto di blocco ma con le armi in spalla e scariche, mentre una jeep partigiana con una bandiera bianca li avrebbe scortati [...]. Poiché i fascisti avevano fretta si fidarono ma, una volta superato il blocco, furono vigliaccamente attaccati alle spalle; siccome la situazione rischiava di risolversi in un massacro il comandante Motta dette ordine di disperdersi e, assieme ad alcuni fedelissimi, raggiunse la Svizzera dove restò per diversi mesi finché non venne proclamata l’amnistia per i fascisti e poté tornare a casa dalla propria famiglia. [...] Enrico Cuthbert
Sloveni perseguitati (e dimenticati) Nel numero 101 ho notato che avete omesso una verità riguardante gli orrori del fascismo. Fino a ora non ho notato alcun numero
Storia di un Imi Tra gli oltre 700mila soldati catturati dai tedeschi dopo l’armistizio firmato da Badoglio nel 1943 vi era anche mio padre Giovanni Silvio Pascarella, classe 1917, originario di Santa Maria a Vico (Ce). Ho già avuto modo di scrivere alla vostra redazione della cattura di mio padre in occasione dello speciale sull’otto settembre (Focus Storia numero 65 marzo 2012). In quell’occasione però non ho riportato la sua testimonianza sulla sua vita da prigioniero nel campo di lavoro di Dortmund in Germania. Anche lui, così come riportate nell’articolo “Nelle mani di Hitler” su Focus Storia n° 101, dopo la cattura nell’isola di Karpathos fece un lungo viaggio, prima via mare e poi in treno lungo i Balcani per arrivare in Germania. Durante il trasferimento rimediò una frustata da un tedesco di cui in tarda età portava ancora il segno sul corpo. Arrivato al campo fu impiegato come operaio in una miniera. A seguito di un incidente con un carrello fu portato in infermeria e da lì, grazie alle simpatie di un ufficiale tedesco che amava le canzoni napoletane (mio padre suonava la chi-
della rivista che parlasse della persecuzione fascista della minoranza slovena a Trieste e in altri territori posseduti dall’Italia dopo la Grande guerra. Comprando il numero 101 e vedendo il titolo principale sulla copertina speravo in un paragrafo che parlasse dei torti fatti alla minoranza slovena. [...] Spero che la mia proposta possa essere presa in considerazione [...]. Andrea Pelikan
Titini a Trieste Finalmente, su Focus Storia n° 101, a pag. 55, vedo che sapete che esi-
tarra e cantava), fu poi destinato ad altri lavori. La vita nel campo non era facile: mio padre raccontava che il cibo era insufficiente e il lavoro tanto, non mi ha mai nemmeno parlato di una paga ricevuta per il suo lavoro. Ciò che mi colpiva nei suoi racconti era il convivere dei momenti di paura e di disperazione con la voglia di lottare per sopravvivere. Un giorno la fame lo spinse a mangiare un pezzo di pane sul quale era stato messo del veleno per i topi dopo averne grattato la superficie. Nel 1945 fu liberato dagli americani dopo un violentissimo bombardamento di cui ricordava i tremendi boati, le urla, i morti e il terrore [...]. Nel giugno 2013 mio padre ha ricevuto la medaglia d’Onore ai cittadini italiani deportati e internati nei lager nazisti. La medaglia, che viene consegnata a chi è stato “schiavo di Hitler” (Legge 296/2006), nel suo rovescio raffigura un filo spinato spezzato [...] con all’interno inciso il nome dell’insignito. Un filo spinato per non dimenticare. Mai! Allego copia di una foto (sopra) di mio padre risalente alla Seconda guerra mondiale. Giovanni Aquino Pascarella, Santa Maria a Vico (Caserta)
ste anche la Venezia Giulia e non solo quello che ormai viene chiamato solo Friuli o, con condiscendenza, “Friuliveneziagiulia” (“uffa, ma cosa vogliono questi?!?”). La Venezia Giulia è geograficamente e storicamente ben distinta dal Friuli con il quale convive forzatamente nell’ambito della regione, ma non ne condivide lingua, cultura e tradizioni. C’è, però, un’inesattezza piuttosto grave. Capisco i problemi di sintesi, ma il periodo dal 1° maggio 1945 al 12 giugno, quando finalmente i titini lasciarono Trieste,
non può e non deve essere dimenticato. Livio Cadelli
Entrambe le lettere precedenti toccano il delicato tema dell’immediato Dopoguerra nei territori dell’attuale Friuli-Venezia Giulia. Ce ne siamo occupati, in passato, ma mai in modo sistematico. Cercheremo di farlo.
Nel regno di Murat A pagina 24 del numero 101 scrivete: ”Murat stava tentando di recuperare da solo il regno perduto nel 1808”. [...] In realtà, Murat diventò re di Napoli proprio nel 1808, succedendo a Giuseppe Bonaparte divenuto re di Spagna. Regnò fino alla battaglia di Tolentino nel 1815. In sèguito alla perdita del regno, tentò la fallimentare riconquista. Quando la notizia della sua fine giunse a Sant’Elena, Napoleone, che aveva il dente avvelenato contro il cognato, che, per salvarsi il trono, non aveva aderito ai 100 giorni, commentò nel “Memoriale”: “Che imbecille ! Ha perso un regno con 80.000 uomini e lo voleva riprendere con 80!”. Renato Reggiani, Bologna
I NOSTRI ERRORI
Focus Storia n° 101, pag. 54: Codevigo è in provincia di Padova, non in quella di Treviso; pag. 18: Cipro fu veneziana dal 1489 al 1571 (e non fino al 1489). 5
novità e scoperte
Quanto costa l’imposta? 100 chili di monete
O
lenti, somma corrisposta con ben 13.500 monete. Passaggi di mano. La cifra, equivalente a 540mila dracme, era enorme: basti pensare che un operaio generico, all’epoca, ne percepiva 18mila all’anno. L’iscrizione, conservata nella McGill Library and Archives di Montréal con altri testi ancora inediti e in corso di studio, fu venduta negli anni Trenta del ’900 dall’antiquario Erik von Scherling, che a sua volta l’acquistò dallo spregiudicato cacciatore di antichità Maurice Nahman. (s. z.)
DE AGOSTINI/SCALA
ltre 100 kg di monete per un’imposta sul trasferimento di proprietà: è quanto sborsato da un gruppo di anonimi cittadini nell’antica Tebe (Egitto) agli inizi del I secolo a.C. L’inedita iscrizione, incisa in lingua greca su un coccio, è stata recentemente decifrata da Brice Jones, della Concordia University di Montréal (Canada). Il frammento attesta che il 22 luglio del 98 a.C. (sotto il regno di Tolomeo X), un individuo il cui nome è illeggibile e alcuni suoi compagni saldarono una tassa pari a 90 ta-
Che tasse d’Egitto! Statua di Tolomeo X (I secolo a.C.): sotto il suo regno fu pagata l’esorbitante tassa riportata nell’iscrizione del 98 a.C. (sotto).
Quel che resta Pannello di istruzioni in giapponese e (a destra) una valvola della Musashi negli scatti subacquei del ritrovamento.
La corazzata Affondata in battaglia nel 1944, la Musashi è stata trovata negli abissi dal co-fondatore di Microsoft.
D
opo il regista James Cameron (autore del ritrovamento del Titanic) e Jeff Bezos, patron di Amazon, che ha recuperato in mare i motori dell’Apollo 11, tocca a un’altra celebrità americana fare parlare di sé con una sensazionale scoperta subacquea. Si tratta di Paul Allen, il co-fondatore della Microsoft, che dopo otto anni di ricerche ha localiz-
zato nel mare delle Filippine il relitto della nave giapponese Musashi, la più grande nave da battaglia del mondo, affondata dagli americani il 24 ottobre 1944. In crociera. Utilizzando il proprio yacht personale come base operativa, Paul Allen e il suo team hanno trovato la Musashi nel mare di Sibuyan, usando un robot acquatico. La Musashi,
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IN PILLOLE
1
Un brezel d’annata
Nella Baviera Orientale gli archeologi hanno trovato prodotti da forno buttati via nel Settecento: ci sono dei croissant, ma anche il più antico brezel di cui si abbia notizia. 6
2
È la tomba di Cervantes
Sono con tutta probabilità di Miguel de Cervantes (1547-1616), “padre” di Don Chisciotte, le ossa sepolte in una cripta a Madrid. Si attende la conferma del Dna.
3
Nazisti nella giungla
Un nascondiglio per nazisti in fuga nella giungla: è l’ipotesi di un team di archeologi di Buenos Aires su alcuni edifici (con monete del Reich) scoperti tra Paraguay e Brasile.
sommersa
L’àncora della Musashi fotografata sul fondale. Sotto, la corazzata sotto il fuoco che l’avrebbe affondata (24 ottobre 1944) e la visita alla nave dell’imperatore Hirohito nel 1943.
U.S. NAVAL HISTORICAL CENTER PHOTOGRAPH (2)
che aveva anche una gemella (la Yamato), fu costruita in gran segreto a Nagasaki e varata nel 1942. Era lunga 263 metri, alta quasi 40 e con una portata a pieno carico di 74mila tonnellate. Quando fu colpita, circa la metà dei 2.399 uomini dell’equipaggio morì nell’affondamento. Allen, esploratore per passione, intende ora lavorare d’intesa con il governo giapponese per assicurare che il sito del ritrovamento sia trattato con rispetto e in accordo con le tradizioni giapponesi. • F.-Xavier Bernard
4
Fino al collo
Venticinque tonnellate di escrementi di piccioni da pulire: erano all’interno di una torre medioevale di Rye, in Inghilterra. Stavano minacciando la stabilità dell’edificio.
5
La birra della bisnonna
In Finlandia sono state esaminate 4 bottiglie di birra trovate su un relitto affondato nel Baltico negli Anni ’40 dell’800: contengono batteri sopravvissuti per 170 anni.
THE ROYAL COLLECTION
Fine ingloriosa
Vittoria paparazzata
B
en prima delle intercettazioni telefoniche, i reali inglesi erano già finiti sotto il mirino dei curiosi. Nel suo diario la regina Vittoria (nella foto, ritratta all’età di 17 anni, nel 1836) esprimeva l’orrore per la sensazione di sentirsi osservata da invadenti giornalisti durante un picnic a Glencoe (Scozia), dove la famiglia reale trascorreva le vacan ze. In mancanza di teleobiettivi, agli antenati dei paparazzi toccava usare il canocchiale: la sovrana aveva sorpreso un reporter mentre ne puntava uno su di lei. Raggiun to da un domestico che chiedeva spiegazioni per il suo comporta mento irrispettoso, il giornalista aveva risposto di avere lo stesso diritto della monarca di sostare là. Al che il servitore gli aveva ingiun to di andarsene subito. Preziosa privacy. Questo e altri aneddoti della vita della famiglia reale compaiono nel libro More Leaves From The Journal Of A Life In The Highlands, from 1862 to 1882, tratto dai diari della regina Vittoria ed esposto nella mostra intitolata “Gold”, in corso al Palace of Holy roodhouse di Edimburgo, dove se ne trova persino una traduzione in persiano miniata in oro. (g. l.) 7
novità e scoperte
È la casa di Gesù?
A Nazareth gli archeologi avrebbero scovato l’edificio dove visse l’infanzia.
I
l pavimento sul quale Gesù ha mosso i primi passi: uno studioso è certo di averlo individuato a Nazareth in quella che fu la casa dove Gesù avrebbe trascorso la sua infanzia. Gli archeologi hanno ritrovato già nei decenni passati i resti di un piccolo villaggio agricolo del I secolo. Ora il britannico Ken Dark, dell’Università di Reading, è sicuro di avervi rintracciato la dimora della famiglia di Giuseppe. Il ricercatore ha analizzato nei dettagli la topografia del villag-
Cristo a Nazareth in un’opera del XIV secolo. A sinistra, la presunta casa della sua famiglia.
Aldo Bacci
DENIS GLIKSMAN, INRAP.
Al lavoro nel cantiere parigino.
GETTY IMAGES
gio confrontandola con una serie di testi antichi, come il De locis sanctis di Adamnano di Iona (VII secolo). Rintracciato. Nelle fonti si dice che l’abitazione era tra due tombe, presso una sorgente, e sotto una chiesa. E in effetti tracce di un edificio sono state trovate in mezzo a due tombe tra i resti di una chiesa bizantina costruita presso una sorgente. Sarebbero rimasti intatti solamente la soglia d’ingresso e la pavimentazione. •
Mega-scavi nella metropoli
P
er una curiosa coincidenza, due cantieri edili aperti a Londra e a Parigi sono all’origine di nuove scoperte archeologiche legate agli ospedali delle due capitali europee. A Parigi, i lavori di ampliamento di un supermercato costruito sulle rovine dell’Ospedale della Trinità, fondato nel 1202 e demolito
nel 1817, hanno portato alla luce i resti di circa 200 scheletri, sepolti in una serie di fosse comuni. Decimati. A Londra, dagli scavi per una nuova linea ferroviaria sono emersi circa 3mila scheletri. Apparterrebbero a vittime della peste che colpì la città inglese tra il 1665 e il 1666 e che falcidiò un
TRAPASSATI ALLA STORIA Personaggi sconosciuti che sono stati, in vita, protagonisti.
KENJI EKUAN
Disegnatore
Gli amanti della cucina del Sol Levante conoscono bene la pratica boccetta di salsa di soia dal tappo rosso, della Kikkoman. Kenji Ekuan, morto all’età di 85 anni, la disegnò nel 1961 pensando alla scomoda bottiglia da mezzo litro della madre. Monaco pentito. Diventato disegnatore dopo un’esperienza da monaco buddista, ha realizzato il design della moto Yamaha VMAX e di due treni, il superveloce Komachi e il Narita Express. Nel 2014 ha ricevuto il premio italiano Compasso d’Oro. 8
COLLEEN MCCULLOUGH
Scrittrice
Chi ha più di 40 anni ricorda di sicuro il successone televisivo Uccelli di rovo. La miniserie si basava su un bestseller (1974) da 30 milioni di copie vendute. L’autrice, Colleen McCullough, è morta a 77 anni nella remota isola di Norfolk, nel Pacifico. Scienziata. Dapprima medico a Sydney e nel Regno Unito, fu poi ricercatrice di neuroscienze e docente di neurologia negli Stati Uniti. Tornata in Australia si dedicò alla narrativa, prima quella romantica, poi storica e “gialla”.
quinto dell’intera popolazione (circa 80mila persone). I corpi erano stati sepolti in una fossa comune al Bedlam, il primo cimitero municipale al di fuori delle mura cittadine. Ospitava chi non poteva permettersi una tomba in chiesa o chi era stato discriminato per motivi religiosi o politici. (f.-x. b.)
A cura di Giuliana Lomazzi
PEPPINO FUMAGALLI
Imprenditore
Grazie a lui, morto a 86 anni, le massaie italiane hanno risparmiato un sacco di fatiche. Nel 1946, infatti, inventò insieme al padre Eden e ai fratelli la prima lavatrice italiana. “Il signor Candy”. Scomparso il padre nel 1970, fu amministratore delegato e portò l’azienda di Brugherio (Mb) a operare con marchi internazionali come Candy e Hoover. Cavaliere del lavoro nel ’73, nel ’98 la regina Elisabetta lo fece Honorary Commander of the British Empire.
agenda A cura di Irene Merli
MOSTRA
MILANO
Dai Visconti agli Sforza Fermaglio con dromedario, di un maestro parigino (1400 circa).
MOSTRA
URBINO
Studiolo rinato
Dopo quasi 400 anni, i 28 dipinti di personaggi illustri (qui, Dante) sono stati ricollocati nello Studiolo di Federico di Montefeltro.
Fino al 4/7. Palazzo Ducale. Info e prenotazioni: 06 32810, www.mostrastudiolourbino.it
EVENTO
MILANO
Tutti a Militalia
M
ilano al centro dell’Europa. Questo è il sottotitolo e il fulcro della prima mostra di Expo 2015, Arte lombarda dai Visconti agli Sforza, che ripercorre il ruolo storico di Milano e della Lombardia dal primo Trecento al primo Cinquecento, quando la città si affermò come una delle più importanti del continente. Espansione. L’evoluzione manifatturiera e commerciale e la progressiva espansione territoriale del ducato lombardo ebbero forti benefici sullo sviluppo culturale della città. Tanto che la corte attrasse artisti, scienziati e letterati. E fu sotto i governi dei Visconti e degli Sforza che sorsero importanti monumenti come il
Castello Sforzesco, il Duomo e Santa Maria delle Grazie. Mecenati. In esposizione, a Palazzo Reale, si trovano più di 250 opere, frutto di un periodo che, grazie al mecenatismo dei duchi, raggiunse vertici altissimi in tutti i campi: dalla miniatura all’oreficeria, dall’arte vetraria alla pittura, dalla scultura all’architettura. La selezione di dipinti, documenti storici, codici miniati, monete e gioielli illustra l’antica vocazione internazionale di Milano. •
Gloria a Dio Una pagina del Libro d’ore, fortemente voluto da Gian Galeazzo Visconti.
Fino al 28 giugno. Palazzo Reale. Info e prenotazioni: 02 0202, www.comune.milano.it/palazzoreale
Nell’ambito della più importante Fiera del Collezionismo Militare, Focus Storia Wars sarà presente con uno stand e i suoi esperti. 16-17/5. Novegro. Info: www.parcoesposizioninovegro.it/ le-fiere-a-z/militalia.html SAGRE
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La Sagra del pellegrino Sbandieratori e musici si sfidano nel Torneo del Pellegrino a colpi di evoluzioni ginniche. 26-27/4. Info: 0546 680808, www.prolocofaenza.it FOTOGRAFIA
LONDRA
I cani-eroi della Grande guerra
Una raccolta di fotografie e cartoline sul ruolo dei cani nella Grande guerra, come compagni dei soldati e come “lavoratori”.
Fino al 26/6. Bishopsgate Institute, www.bishopsgate.org.uk 9
microstoria
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A cura di Aldo Carioli, Marta Erba, Giuliana Rotondi e Daniele Venturoli
PAROLE DIMENTICATE
P I P P I O N E
FOTOTECA ST. NAZ. ANDO GILARDI
Dal latino tardo pipio (“piccione”) indica un piccione giovane. In senso figurato è una persona ingenua, che si lascia facilmente raggirare; al plurale indica scherzosamente i testicoli.
IL MITO PANDORA era, secondo un mito narrato da Esiodo, la prima donna, creata da Efesto per ordine di Zeus, che voleva vendicarsi dopo che Prometeo aveva donato il fuoco agli uomini. Il vaso. Andata in sposa a Epimeteo (il fratello di Prometeo), Pandora recò con sé un contenitore (in alcune versioni del mito, un vaso) che aveva l’ordine di tenere chiuso. Ma, divorata dalla curiosità, decise di sollevarne il coperchio (sopra, in un’illustrazione di fine ’800). Tutti i mali (vecchiaia, gelosia, malattie, pazzia, vizi) si diffusero tra gli uomini e il mondo si trasformò in un luogo desolato. Finché Pandora non decise di fare uscire anche la speranza, l’ultima rimasta nel vaso, permettendo agli uomini di tornare a vivere. Oggi l’espressione “aprire il vaso di Pandora” allude all’improvvisa scoperta di problemi a lungo nascosti, e alle conseguenze che ne derivano. 10
LA VIGNETTA
BASTA FURBETTI L’illustrazione qui sopra apparve su L’asino, rivista satirica italiana (di orientamento socialista) nata nel 1892. Malcostume politico e uso disinvolto della repressione fornivano abbondante materiale ai vignettisti del tempo. Ma niente eguagliò lo scandalo della Banca Romana, scoppiato proprio nel dicembre 1892. Corruzione. Nella vignetta si vede Giolitti che tenta di aggiustare i conti della Banca Romana attingendo ai fondi della cassa pensioni. I fatti risalivano al 1889, ma i risultati della commissione d’inchiesta furono presentati al parlamento soltanto pochi giorni prima del Natale 1892. La Banca Romana era uno dei sei istituti di credito italiani
autorizzati a emettere cartamoneta (la Banca d’Italia nascerà nel 1893, proprio a seguito di quei fatti). E dal 1889 nascondeva con carte false e coperture eccellenti (funzionari, politici, giornalisti) un “fondo nero” di banconote illegali pari a oltre 90 milioni di euro di oggi. Banconote fatte stampare in Inghilterra e usate per finanziare amici degli amici, coprire finanziamenti occulti e garantire simpatie influenti alla banca. Giolitti, che tentò di insabbiare il tutto, come denuncia la vignetta, fu costretto a dimettersi nell’autunno del 1893. Bernardo Tanlongo, governatore della Banca Romana e prototipo dei bancarottieri italiani, fu assolto nel 1894 con una sentenza altrettanto scandalosa.
La frase è attribuita a Mao Tsetung (foto), dal 1949 presidente della Repubblica popolare cinese, noto per il ricorso alla repressione e ai lavori forzati a “scopo rieducativo”. Lo stesso slogan fu ripreso dall’organizzazione terroristica delle Brigate Rosse, che il 3 marzo 1972 fotografò l’ingegnere Idalgo Macchiarini, dirigente della SitSiemens, con un cartello al collo che diceva: “Mordi e fuggi. Niente resterà impunito. Colpiscine uno per educarne cento. Tutto il potere al popolo armato!”.
È stato il giovanissimo Francesco Buttani di Visano (Brescia), di soli 10 anni, il lettore più veloce nell’indovinare l’oggetto misterioso del numero scorso: si trattava di una bilancia usata per pesare le uova, derivata della più nota bilancia pesalettere.
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7,2
MILIONI
Il prezzo in dollari (pari oggi a 120 milioni di euro) al quale la Russia vendette l’Alaska agli Usa, nel 1867.
LE PRIGIONI PIÙ FAMOSE
D.VITTIMBERGA
Aspettiamo le vostre risposte, indicando anche la località, a: Focus Storia, via Battistotti Sassi, 11/a - 20133 Milano oppure a
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IL NUMERO
TOP TEN
L’OGGETTO MISTERIOSO È di ferro ma ha un manico di legno. È lungo 36 centimetri, largo 19 e pesa circa 1 chilogrammo. Il manico è fissato a un’asta a vite che regolava l’apertura di una morsa. Per cosa si usava?
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CHI L’HA DETTO? “Colpirne 1 per educarne 100”
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Bastiglia (Parigi, Francia) Fortezza nel XIV secolo, divenne carcere dal XVII. La sua “presa”, il 14 luglio 1789, innescò la Rivoluzione francese.
2
Spielberg (Brno, Repubblica Ceca) Nella ex fortezza asburgica sono stati imprigionati vari patrioti italiani, tra cui Silvio Pellico, che vi scrisse Le mie prigioni.
3
Robben Island (Sudafrica) L’isola “delle foche” nel XX secolo divenne prigione per detenuti politici. Vi fu rinchiuso Nelson Mandela.
4
Carcere di Turi (Bari) Vi furono imprigionati diversi antifascisti. Tra questi Antonio Gramsci, che qui scrisse i Quaderni del carcere.
5
Reading Gaol (Inghilterra) È il carcere inglese dove fu rinchiuso, per circa due anni, il poeta e scrittore irlandese Oscar Wilde.
6
Alcatraz (San Francisco, California) L’isola della baia di San Francisco è stata la sede di un carcere di massima sicurezza. Tra gli “ospiti”, nel 1934, Al Capone.
7
Santo Stefano (Isole Ponziane) Costruito nel 1795 secondo i principi del “panopticon”, sorge nel Tirreno; tra i detenuti, Sandro Pertini (nel 1930).
8
I Piombi (Venezia) Prigione ricavata nel sottotetto (il tetto era in piombo) del Palazzo Ducale: ospitò Giacomo Casanova che riuscì a evaderne.
9
Mamertino (Roma) Risale all’VIII-VII secolo a.C. e vi furono incarcerati Vercingetorige, re dei Galli, e Giugurta, re della Numidia (Nord Africa).
VOCABOLARIO: CIPRIA Il diffuso cosmetico usato per rendere vellutata la pelle e fissare il trucco era chiamato, in origine, “polvere di Cipro”. Questo perché l’isola del Mediterraneo era considerata l’isola di Venere, dea della bellezza, e la cipria veniva utilizzata fin dall’antichità come cosmetico. Inoltre, la cipria dà alla pelle il colore del rame, in latino cuprum, termine da cui a sua volta deriva il nome di Cipro, isola sulla quale si estraeva il rame.
Isola del Diavolo (Guyana Francese) Ospitava un carcere, noto in Francia come bagne de Cayenne. Vi fu rinchiuso, nel 1895, il capitano Alfred Dreyfus.
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11
curiosario A cura di Giuliana Rotondi
V. SIRIANNI
Il dandy che inventò lo “stile british”
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eorge Bryan Brummell (1778-1840) è considerato ancora oggi il primo dandy della Storia. In effetti il bell’inglese fu così carismatico e affascinante da imporsi e farsi ricordare come un maestro di stile. Figlio di un impiegato inglese, frequentò Oxford e, favorito anche dalla protezione del principe di Galles (il futuro Giorgio IV), si impose in città come arbitro dell’eleganza londinese. A contraddistinguerlo, una raffinata sobrietà nel vestire e un atteggiamento freddo e sprezzante. British style. Il dandy fece subito scalpore, tanto più in un’epoca in cui dominavano ancora i colori più sgargianti, si usavano parrucche incipriate e l’igiene era cosa da donnette. Ma in cosa consisteva esattamente il suo trend? In quello che chiamiamo “stile british”. Ovvero in armadi dove dominavano abiti blu, pantaloni lunghi a tubo e giacchette da frac. Bryan Brummell era poi maniaco dell’igiene. Si dice cambiasse una camicia al giorno e soprattutto non indossasse parrucche, come si usava allora. Il tutto condito con un’attitudine all’arte e alla cultura e con pose sofisticate. Non a caso c’è chi ha visto in lui l’Ottocento che si affermava e seppelliva definitivamente le corti del Settecento.
Prima dell’anestesia
C
i fu un tempo in cui l’anestesia non esisteva. Per ridurre la sofferenza fisica, si ricorreva ai metodi più svariati. In Mesopotamia, per esempio, si narcotizzava il paziente comprimendo le carotidi per fargli perdere coscienza. Tra gli antichi Egizi si usava la neve per ridurre la circolazione sanguigna e diminuire la sensibilità epidermica. Non si disdegnava però nemmeno la cosiddetta “pietra di Menfi”, una pietra sbriciolata da mettere sulla ferita con effetti, si diceva, miracolosi. 12
Progressi. Se nel mondo romano alla mandragola erano attribuite proprietà sedative, con il passare dei secoli si diffuse l’anestesia attraverso la somministrazione di hashish, oppio o alcool. Per l’anestesia vera e propria si dovette aspettare l’epoca dei lumi: è nell’ultimo decennio del ’700 che grazie alle sperimentazioni sul protossido d’azoto ci si avvicinò all’anestesia moderna. Finché nel 1842 Crawford Williamson Long iniziò a usare con successo l’etere negli interventi chirurgici.
Fumate filosofiche
S
iamo abituati a immaginare i filosofi del passato chiusi nel loro mondo e assorti in ragionamenti concettuali e complessi. Difficilmente li pensiamo in balia degli effetti della cannabis, come sballoni un po’ freak. Eppure, nel 1932, i due tedeschi Ernst Bloch e Walter Benjamin, pensatori rigorosissimi e sistematici, si offrirono volontari per esperimenti sull’hashish, con esiti in parte divertenti: il primo credette di essere Rasputin, consigliere privato dello zar Nico-
la II di Russia. Benjamin immaginò invece di partecipare a un colloquio tra Petrarca e Dante, mettendosi a parlare in italiano. Lo studio. In realtà il loro obiettivo non era sballare, ovviamente. Volevano piuttosto condurre un’indagine conoscitiva complessa sull’impatto che le droghe avevano sulla psiche. Walter Benjamin, in particolare, trascrisse poi sotto forma di flussi di coscienza i verbali degli esperimenti fatti, successivamente pubblicati in volume.
scienza & scienziati
Il cervello più ricercato di tutti i tempi
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A
nche la scienza ha le sue macabre reliquie. Nei musei scientifici di tutto il mondo si trovano reperti come il cervello del matematico Carl Friedrich Gauss, lo scheletro del medico Cesare Lombroso, il dito medio della mano destra di Galileo Galilei. Alcuni hanno volontariamente donato il proprio corpo alla scienza, altri invece sono finiti loro malgrado sotto i riflettori. È questa la strana sorte toccata al cervello di uno dei più popolari scienziati di tutti i tempi, Albert Einstein. Da secoli la scienza cerca di svelare il segreto della genialità, alla ricerca di una particolare conformazione anatomica del cervello che possa essere ritenuta responsabile dell’eccezionale intelligenza di poeti, artisti e scienziati: una corRapido teccia cerebrale più spessa, un corpo calloso più pronunciato, Thomas Harvey un lobo parietale anomalo. In seziona il cervello di Einstein, il 18 aprile molti sperano che i cervelli in 1955, giorno della formalina, pesati, misurati, dismorte dello scienziato sezionati, scansionati, possa(nel tondo). no rivelare indizi sulla genialità dei loro proprietari. Contro la sua volontà. Esa- tare un morboso pellegrinaggio minare il cervello di Einstein alla sua tomba, Einstein aveva era un’occasione da non per- disposto che i suoi resti venisdere: che cosa l’aveva reso un sero cremati e le sue ceneri disperse in un luogenio? Premio Nobel per la fisica e Nonostante tanti go segreto. Le però, sapadre della teostudi, il cervello cose, rebbero andate ria della relatività, diversamente. Einstein lasciò la di Einstein non Il 18 aprile Germania nazista pare “speciale” 1955, all’età di nel 1933 per tra76 anni, Einstein sferirsi negli Stati Uniti. Convinto pacifista, di- morì al Princeton Hospital, in ventò molto popolare. Per evi- New Jersey, per un aneurisma
aortico. Thomas Harvey, il patologo in servizio quella notte, eseguì l’autopsia sul cadavere, rimuovendone il cervello senza un’autorizzazione ufficiale. Trapelata la notizia, il figlio di Einstein, Hans Albert, non poté far altro che prenderne atto. Chiese tuttavia che il cervello del padre venisse utilizzato esclusivamene per finalità scientifiche. Licenziato dall’ospedale per essersi rifiutato di restituire il
maltolto, Harvey vide stroncata la propria carriera. Giallo. La vicenda presenta ancora oggi aspetti poco chiari. Difficile dire che cosa lo avesse spinto, dato che la sua versione dei fatti è cambiata nel tempo. Potrebbe avere agito su richiesta del suo vecchio insegnante, il medico Harry Zimmerman, o essersi ispirato allo studio condotto dal neurologo Oskar Vogt sul cervello di Lenin, oppure avere semplicemente colto l’occasione di stringere letteralmente “tra le mani” il cervello di uno dei più grandi geni dell’umanità. Quel che è certo è che nei mesi successivi Harvey scattò alcune fotografie dell’eccezionale reperto e preparò numerosi vetrini con fettine della materia cerebrale di Einstein (alcuni visibili oggi al Mütter Museum di Filadelfia). Il resto, sezionato in centinaia di pezzi, finì in barattoli di vetro. Cervello in fuga. Il patologo non si separò facilmente dai resti dello scienziato. Solo verso la fine degli Anni ’90, dopo un incredibile viaggio in macchina per gli Stati Uniti insieme al reporter Michael Paterniti, che ha raccontato quest’avventura nel libro Driving Mr. Albert, il cervello tornò nell’ospedale dove tutto era iniziato. Negli anni sono stati pubblicati molti studi su quel cervello, ma la chiave della genialità di Einstein resta un mistero. • Elena Canadelli 13
Belmonte Piceno
Grottazzolina
Ponzano di Fermo
La Fermo medievale e
L
’area Fermana è da sempre un territorio ricco di storia, cultura e bellezze paesaggistiche. Già nel Medioevo i Longobardi la posero a capo di un ducato in seguito trasformato dai Franchi nella vasta Marca fermana. Basta ammirare il territorio per immergersi nella storia, avventurarsi nelle vie e nei vicoli dei borghi per rivivere il Medioevo, rileggerne la storia nei suoi aspetti più accattivanti e meno noti, scoprire castelli, chiese romaniche di alto contenuto artistico con pitture murali del Duecento e Trecento raffiguranti immagini della religione cristiana. Alcune tradizioni collegate a fatti storici sono state recuperate e valorizzate in manifestazioni fortemente evocative, tra queste un particolare rilievo il “Palio dell’Assunta” che si tiene a Fermo, “I giorni di Azzolino”, che si svolge a Grottazzolina e “Torneo cavalleresco Castel Clementino” a Servigliano. Le rievocazioni si svolgono tutte in Agosto e si riferiscono a fatti storici del periodo medievale, dei secoli XII e XIII, diventando importanti occasioni per valorizzare il ricco patrimonio artistico-culturale, collegandosi ad una serie di itinerari turistici che si snodano nei Comuni dell’area rurale
religiosa che dalla chiesa di S. Lucia saliva in cattedrale, in seguito vi partecipano magistrati, notabili, corporazioni e delegazioni dei numerosi castelli soggetti alla città. La città di Fermo conserva attualmente importanti vestigia di epoca medievale. Il castello Un’altra tematica storico-culturale che carat- di Fermo sorgeva dove attualmente troviamo terizza i Comuni dell’area rurale fermana, è la spianata del Girfalco. Fu abbattuto alla fine legata ai Piceni, in alcuni di essi ci sono in- del Quattrocento dalla furia popolare che lo fatti tracce degli insediamenti di questa civil- identificava quale strumento di potere detà, uno dei popoli più importanti dell’epoca gli Sforza. Oggi sono visitabili le chiese (la pre-romana. Il progetto di promozione e va- Cattedrale, Sant’Agostino, Oratorio di Santa lorizzazione turistica “Fermo medievale ed i Monica, San Zenone, San Pietro) e gli edifici suoi castelli” - cofinanziato dal GAL Fermano pubblici (il Palazzo dei Priori nella Piazza del Leader nell’ambito del PSR Marche 2007-2013 Popolo, la Torre Matteucci) di epoca medioevale. La frazione di Torre di Palme, di an- è focalizzato sui seguenti Comuni: tiche origini picene, nel periodo medioevale La Cavalcata dell’Assunta è Il battesimo di Grottazzolina fu anch’essa un Castello considerato il Palio più antico d’Italia di Fermo. Un Meravie si tiene ogni anno il 15 di Agosto. È glioso borgo medievale, del 1182 il primo documento che parla conosciuto anche come dell’obbligo di offrire un Palio da parte “La terrazza dell’Adriatidei Castelli, in un periodo storico in cui co” per la sua posizione Fermo era la città principale di un vasto panoramica a picco sul territorio, la Marca Fermana, che si estenmare. deva sulle odierne province di Macerata, Borgo Fermo e Ascoli Piceno. Originariamente la di origini picene e antico Cavalcata era una solenne processione (i Castelli della Marca Fermana medievale) e dell’entroterra della Provincia di Fermo.
Fermo
Grottazzolina
AKROVISIONE
Panoramica aerea di Fermo
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FOCUS STORIA PROMO
Monsampietro Morico
Monte Giberto
Servigliano
i suoi castelli Castello fermano, nel 1217 papa Onorio III concesse la marca ad Azzo VII (Azzolino) d’Este, signore di Ferrara. La manifestazione “I giorni di Azzolino” rievoca la figura storica di Azzo VII e si tiene nel mese di Agosto di ogni anno. Il potente signore estense nell´anno 1225, contro la volontà di Rinaldo, Vescovo di Fermo, conquistò i tre castelli della Marca tra cui lo strategico fortilizio di Grottazzolina. La vicenda culminò col battesimo della città, l´antica Cripta Canonicorum, diventando GruptaeAczolini.
Per rivivere la storia nei suoi aspetti più accattivanti e meno noti in un contesto unico.
Monsampietro e Morico Due antichi
nomia e la manifestazione storica “1570, da insediamenti di epoca picena, la fondazio- Castello a Comune autonomo” rievoca tale ne e l’attribuzione dei nomi Monsampietro accadimento, ogni anno nel mese di Luglio Morico e Sant’Elpidio Morico risalirebbe al vengono proposti il corteggio storico ed il “Pa1061 quando Malugero Melo, figlio del conte lio delle botti” dove gareggiano le tre contrade delle Puglie Dragone Normanno, dedicò i ca- del paese. stelli ai figli. Nel 1316 Sant’Elpidio Morico e nel 1317 Monsampietro Morico fecero atto di Prende nome da Publio Sersottomissione alla città di Fermo. vilio Rullo, tribuno, il quale possedeva qui Nella frazione di Sant’Elpidio Morico è con- terreni intorno al 29 a. C. Durante il Medioevo servato il magnifico polittico di Vittogli abitanti di Servigliano si Il palio di Servigliano re Crivelli (1496). trasferrono nella parte alta rispetto agli antichi stanziaImportante menti romani, La zona bassa centro di epoca Farfense, i monaci vi rimase disabitata diventanavevano costruito un vasto insediado un latifondo fino all’età mento rurale di cui rimane la pieve longobarda quando venne romanica di Santa Maria Mater Domiinglobata dai monaci all’Abni (S. Marco). La chiesa di Santa Maria bazia di Farfa. Il Torneo CaMater Domini oggi è l’ambientazione valleresco di Castel Clemenprincipale del Festival di musica da tino e la Giostra dell’anello camera “Armonie della sera” che si sono sicuramente gli eventi tiene nei mesi di Luglio e Agosto. Ponzano di grande importanza. nel 1214 era un Castello di Fermo di una certa Il Torneo si caratterizza per la contesa del Palio, importanza, in quell’anno il marchese Aldo- a rendere dura e selettiva la competizione sono vrandino, figlio di Azzo d’Este, confermava le quattro tornate, massacranti (per il binomio a Fermo i privilegi del conio, del monte e dei cavaliere-destriero), assicurando però un nomercati. Nel 1570 Ponzano riacquista l’auto- tevole spettacolo.
Servigliano
Belmonte Piceno Antico borgo di ori- Ponzano di Fermo gini picene e romane, fu possedimento dei potenti monaci Farfensi fino al 1263, quando il Castello venne assoggettato a Fermo. Si riconosce ancora oggi la struttura medievale del borgo, al di fuori del quale si trova la chiesa romanica di Santa Maria in Muris.
Monte Giberto
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Di epoca picena e romana, il borgo fin dal 1356 disponeva di una cinta muraria con quattro torrioni, due dei quali ancora esistenti. E’ ancora presente l’antica struttura urbana che si snoda secondo una caratteristica pianta compatta che fa convergere l’abitato sulla piazza principale.
Rievocazioni storiche della tradizione Fermana
fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale: l’europa investe nelle zone rurali Progetto cofinanziato nell’ambito del Piano di Sviluppo Locale del Gal Fermano Leader - sottomisura 4.1.3.7 Promozione territoriale e certificazione d’area
Unione Europea / Regione Marche programma di sviluppo rurale 2007-2013
ministero politiche agricole alimentari e forestali
unione europea
PERSONAGGI
Progettò la Nuova Berlino, poi divenne responsabile della produzione bellica
L’architetto del DIAVOLO
Scenografie monumentali Un Reichsparteitag (raduno nazionale del partito nazista) a Norimberga nel 1937. L’architetto Albert Speer (1905-1981, a destra) fu l’artefice delle imponenti scenografie di quelle manifestazioni propagandistiche. 16
E fu un fedelissimo di Hitler
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durante la guerra.
N
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“
ei limiti in cui Hitler mi ha impartito degli ordini e io li ho eseguiti me ne sento responsabile, però preciso anche di non aver eseguito tutti i suoi ordini”. È il 19 giugno 1946, siamo a Norimberga, nel tribunale allestito per giudicare i crimini nazisti. Alla sbarra un uomo che nei giorni precedenti aveva uno sguardo smarrito e il volto segnato dai tic nervosi: è Albert Speer, l’architetto del Terzo Reich. 17
Hitler non di rado “fuggiva” dalla Cancelleria per recarsi nell’ufficio di Speer ALINARI
1937-40 SPEER, SOPRINTENDENTE ALL’URBANISTICA, PROGETTA GLI EDIFICI DELLA “NUOVA BERLINO”, DI CUI POCHI REALIZZATI
Riunione sul Vallo Nel 1943, Hitler e Speer parlano del Vallo Atlantico, che prevedeva una serie di fortificazioni lungo le coste dell’Europa Nord-occidentale. 18
Speer infatti era stupito di essere tra gli imputati. Era convinto che i “tecnici” come lui non potessero essere ritenuti responsabili come gerarchi e politici nazisti. Lui non si era mai occupato di politica e con Hitler aveva condiviso solo grandi sogni: il primo, da architetto, era quello di una Berlino caput mundi (o Welthauptstadt, alla tedesca); l’altro, dal 1942, anno in cui fu nominato ministro degli Armamenti, era quello di vincere la guerra. Non si realizzarono né l’uno né l’altro e alla fine tutto si trasformò in un incubo. Archistar ante litteram. Il giovane Speer era molto ambizioso e, una volta uscito dall’università, era, come affermò lui stesso, disposto a vendere l’anima al diavolo per diventare quella che oggi si direbbe un’archistar. La sua occasione arrivò nel dicembre del 1930, a 25 anni, quando alcuni studenti lo convinsero a partecipare al comizio di un nuovo politico: Adolph Hitler, capo del partito nazionalsocialista, che stava facendo proseliti nell’università. Albert aveva trovato il diavolo a cui vendere la propria anima. Speer, schivo e introverso, proveniva da una famiglia borghese e liberale di Mannheim. Non amava la politica, ma nemmeno la odiava; semplicemente non voleva averci a che fare. Eppure, quel pomeriggio d’inverno, come racconta nelle sue Memorie del Terzo Reich (1971), lo segnò. Era diventato un’altra persona, capace di provare vera ammirazione per Hitler, freddo ma appassionatamente votato alla causa della Germania. Si iscrisse al partito, e fu la sua fortuna professionale. Iniziò con lavoretti in case e ville di esponenti del partito e quando Hitler prese il potere, nel gennaio del 1933, Speer era già suo fedele collaboratore. Arrivò finalmente un incarico importante: Joseph Goebbels, ministro della Propaganda, gli affidò il rifacimento del palazzo del suo dicastero. Da quel momento la scalata fu inarrestabile e nel 1934 Speer divenne l’architetto ufficiale del partito. Speer e Hitler passavano molto tempo a discutere di progetti che anche Hitler stes-
per parlare di nuovi progetti architettonici. Lo chiamava anche di notte IL SOGNO DI UNA CAPITALE TUTTA NUOVA
I
Luoghi di cultura. Uno spazio era poi destinato all’intrattenimento e alla cultura. A metà della via erano previsti infatti il Palazzo dell’opera e teatri, uno per la prosa, uno per l’operetta e uno per il varietà. Un gigantesco cinematografo in grado di ospitare circa 6mila spettatori. All’inizio e alla fine della grande strada dovevano sorgere due maestosi edifici: una cupola, disegnata dallo
stesso Hitler, di 220 metri di altezza e 250 metri di diametro ispirata alla Basilica di San Pietro di Roma. Nella Volkshalle (Sala del popolo, sotto) si sarebbero potute radunare fino a 180mila persone. All’estremità opposta, un Arco di Trionfo che avrebbe ridicolizzato quello di Parigi (50 m): alto 120 metri, avrebbe avuto incisi i nomi dei caduti tedeschi nella Prima guerra mondiale. Vicino alla cupola era previsto un monumentale Palazzo del Führer, concepito su modello di Palazzo Pitti a Firenze.
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deare una nuova Germania era per Hitler uno dei “passatempi” a cui si dedicava con maggior piacere. Tra il 1937 e il 1940, con Speer lavorò molto sul progetto di una nuova Berlino, vero fiore all’occhiello del Terzo Reich. La capitale doveva essere attraversata da una lunga via, la “Strada Grande”. Sui suoi 5 km si sarebbero dovuti affacciare i più importanti palazzi di rappresentaza del Reich e del partito. E poi aziende commerciali, musei, enti pubblici e alberghi di lusso.
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so disegnava, vagheggiando una nuova Germania, splendida e monumentale, simile all’antica Roma. E proprio come per Roma, le sue rovine avrebbero “parlato” ai posteri della grandiosità del Terzo Reich. Ambizioni monumentali. Hitler in architettura aspirava al maestoso e al mai visto: voleva lo stadio più grande del mondo a Norimberga, il grattacielo più alto ad Amburgo, il più vasto stabilimento balneare in Pomerania. Questa tendenza al monumentale si manifestava soprattutto in quella che avrebbe dovuto essere la Nuova Berlino, dove si progettò di abbattere 50mila edifici per fare spazio a enormi e sfarzosi palazzi del potere e della cultura (v. riquadro a destra). “Ero alla ricerca di un architetto cui poter un giorno confidare i miei progetti edilizi”, disse Hitler a Speer. “Lo volevo giovane perché come lei sa questi progetti sono proiettati nel futuro. Io ho bisogno che anche dopo la mia morte possa continuare a percorrere questa strada con l’autorità che io gli avrò conferito. E l’ho visto in lei”. Così, nel 1937, lo nominò soprintendente all’urbanistica e volle il suo ufficio vicino alla Cancelleria, per poterlo raggiungere con discrezione ogni volta che lo desiderava. Di giorno, ma anche di notte. Non di rado dopo la mezzanotte, Speer riceveva una telefonata da casa Hitler: di solito era un aiutante che gli chiedeva se avesse qualche nuovo progetto di cui parla-
POSE PLASTICHE
Hitler osserva un plastico insieme a Speer, nel 1936. Il Führer voleva ricostruire le principali città tedesche.
GRANDI OPERE
Nel 1937, Hilter con Fritz Todt, all’epoca ispettore alle strade; a destra (indicato dalla freccia), il suo collaboratore Speer. 19
Albert Speer al processo re, poiché il Führer aveva bisogno di distrarsi. Ma poi arrivò la guerra e con lei l’inaspettata (quanto sospetta) morte, nel 1942, di Fritz Todt, ministro degli Armamenti, per il quale Speer aveva lavorato e di cui diventò, per ordine di Hitler stesso, il successore. Inizialmente perplesso vista la propria inesperienza di guerra, Speer si convinse in fretta: “Ricordo ancora quale sensazione di grandezza mi venisse dal fatto di poter disporre, con una firma, di miliardi e dirigere centinaia di migliaia di persone che lavoravano nei cantieri”. Corsa agli armamenti. Speer, abbandonati riga e compasso, si buttò sul nuovo incarico. Tanto da prendere, nel 1943, il pieno controllo dell’apparato produttivo bellico tedesco. Godeva (cosa rara) della stima di Hitler e di un certo prestigio nell’opinione pubblica per la sua capacità di amministratore. Perfino un pezzo da novanta come Goebbels aveva mostrato per quell’uomo, un po’ incolore dal punto di vista dell’ideoPER VOLERE DI HITLER logia, una certa ammirazione, SPEER DIVENTA tanto da considerarlo un “auMINISTRO DEGLI tentico nazionalsocialista”. La strategia di Speer come ARMAMENTI ministro era proteggere, delocalizzandole, le industrie che producevano pezzi indispensabili per i mezzi da guerra. Per esempio i cuscinetti a sfera. Erano prodotti in maggioranza nel territorio di Scheinfurt. Il bombardamento del 1943 su quella zona provocò la riduzione della produzione del 40%. La strategia degli Alleati era quella di bombardare le città tedesche per demoralizzare la popolazione concentrandosi poco sugli obiettivi sensibili, come le fabbriche di armamenti. Questo, sommato allo sfruttamento del lavoro coatto di deportati e prigionieri (dopo l’8 settembre 1943 tra questi anche molti soldati italiani internati), portò a una grandissima produzione di armamenti. Troppi. Nell’estate del 1944 la situazione era paradossale. La Germania al tracollo in guerra toccò il suo apice nella produzione bellica suscitando un senso di euforia prima della
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1942
Un architetto agli armamenti
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Speer negli Anni ’40 parla in uno stabilimento di produzione bellica. Abile simulatore, oltre che stretto collaboratore di Hitler, riuscì a conquistarsi la fiducia di molti dirigenti del settore.
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di Norimberga scampò alla pena capitale: fu condannato a 20 anni di carcere
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fine: erano stati prodotti equipaggiamenti per 270 divisioni e la Wehrmacht ne contava a malapena 150. Fu allora che iniziarono gli screzi: S peer non era d’accordo sulla strategia bellica e chiese (inascoltato) di bombardare le industrie nemiche, in particolare quelle sovietiche. Gli alti comandi invece si concentrarono sulla battaglia aerea, che nei piani di Hitler avrebbe dovuto servirsi di mezzi e armi nuovi. Speer, anni dopo, affermò che quella nei cieli fu “la più grande battaglia perduta” dai tedeschi nel conflitto.
industrie, magazzini di provviste, centrali telefoniche, documenti anagrafici, bancari e catastali, monumenti e fattorie. Il nemico avrebbe dovuto trovare solo il “deserto”. Speer disattese i suoi ordini fingendo di credere che il Reich, non ancora sconfitto, avrebbe ripreso in mano le sorti della guerra. I due però erano ormai ai ferri corti. Secondo quanto Speer ha affermato a Norimberga, pensò perfino di uccidere il Führer (ma non ci sono prove) immettendo gas nell’impianto di aeLA CATTURA razione del bunker di Berlino. Era Da sinistra, Speer, l’ammiraglio il 1945 e, con il nemico alle porKarl Dönitz e il generale te, l’ex architetto decise di pensaAlfred Jodl nel 1945, arrestati dagli Alleati. re solo alla sopravvivenza. Mandò la moglie e i sei figli da un amico nello Schlewig-Holstein, lui li avrebbe Fine dell’idillio. Con il crollo sul fronte poi raggiunti. Non prima di aver incontraoccidentale, nell’agosto del 1944 Hitler di- to per l’ultima volta Hitler nel bunker, pochiarò: “Se il popolo tedesco dovesse usci- co prima che si suicidasse. Nel maggio ’45 Speer fu arrestato dagli re sconfitto dalla lotta questo vorrebbe dire che non avrà saputo superare la prova Alleati e processato un anno dopo. Conimpostagli dalla Storia, e quindi non po- dannato a 20 anni di carcere poiché aveva trebbe che essere votato alla fine”. La ca- ammesso le sue responsabilità e perché, a rica distruttiva del nazismo stava per ri- suo dire, non sapeva ciò che avveniva nei volgersi contro il popolo tedesco e Speer lager. Scarcerato nel ’66 fu travolto dalle avrebbe dovuto esserne l’esecutore mate- polemiche: la sua difesa a Norimberga e le riale: doveva smantellare gli stabilimenti sue Memorie per molti storici minimizzaper la produzione di energia. Ma era solo no il ruolo che ebbe nei crimini nazisti. • l’inizio, il Führer ordinò la distruzione di Federica Ceccherini
FUORI DAL CARCERE Speer nel 1971, nella casa di Heidelberg dove visse dopo aver scontato 20 anni nel carcere di Spandau (Berlino).
IL PROCESSO
A Norimberga nel 1946, nonostante il parere contrario dell’avvocato, decise di assumersi la responsabilità dei fatti. 21
ALIMENTAZIONE
Come sono nati il pesto, gli spaghetti, la polenta, lo zampone, il tiramisù e la
IL
RICETTARIO Simbolo nazionale
BRIDGEMANART/MONDADORI PORTFOLIO
Il mercato italiano, dipinto da Jean Mieg (1791-1862), con gli immancabili spaghetti.
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pizza? Le sorprese dei piatti che ci hanno resi famosi sulle tavole del mondo
made in Italy Dal caffè all’espresso Il caffè entrò in Europa passando per Venezia. Il primo a notare la “nera bevanda”, nel 1573, fu Costantino Garzoni, già ambasciatore della Serenissima a Costantinopoli. Ma sino a fine Ottocento il caffè si beveva “alla turca”, cioè in infusione. Proprio in Italia si inventarono invece le varie macchine a percolazione: per prima la napoletana, verso metà XIX secolo, poi i grandi apparecchi da bar e infine, nel 1933, la Moka Express Bialetti. In realtà, già nel 1910 fu brevettata la Victoria Arduino, primo successo globale nella storia delle macchine da caffè. Nacque pensando alle caldaie delle locomotive a vapore: Pier Teresio Arduino, il suo ideatore, era stato infatti arruolato nel genio ferrovieri. Alfonso Bialetti concepì invece la sua Moka guardando la moglie fare il bucato. Al tempo si usava una specie di pentolone, con all’interno un tubo da cui l’acqua, quando bolliva, fuoriusciva per poi scendere spargendosi sui panni. Infine Alfonso Gaggia, a Milano, nel 1948 mise a punto la prima macchina per l’espresso-crema, come lo beviamo ancora oggi al bar.
Cotoletta alla milanese. Anzi no La prima citazione della Wiener Schnit zel è del 1831, la prima della cotoletta alla milanese è del 1855: questo valga a smentire le fandonie che si raccontano
sulle origini di queste due ricette molto simili, ma forse nemmeno parenti. La favola del feldmaresciallo Radetzky che magnifica a Vienna la cotoletta degustata a Milano è una “bufala” riportata nel 1963 da un giornalista siciliano di origine e milanese di adozione, Felice Cunsolo. La storiella sarà poi immortalata nel 1969 dalla Guida gastronomica d’Italia del Touring Club (autore: Cunsolo). In realtà la cotoletta milanese nacque a Parigi, dove in un ricettario del 1746 ritroviamo una cotoletta impanata e cotta sulla griglia. La ricetta fu tradotta in italiano una ventina d’anni dopo e giunse a Milano passando per Torino. Nel 1855 lo chef Giuseppe Sorbiatti le diede l’assetto definitivo: “Costoline di vitello fritte alla milanese”.
Mozzarelle da buongustai “Mozzarelle fresche romanesche” scrive Bartolomeo Scappi nella sua Opera (1570). Fu allora che il formaggio a pasta filata di latte bufalino entrò ufficialmente nella gastronomia italiana. Scappi cita anche la “neve di latte”, probabilmente il fior di latte, formaggio a pasta filata di latte vaccino. A chiamare “mozzarella” anche quest’ultimo formaggio furono gli industriali del Nord, nel 1942, con un colpo di mano ai danni di quelli del Sud. Un impulso fondamentale alla produzione di mozzarella lo diedero i Borbo-
ZUPPA ALLA PAVESE
N
on si sa chi per primo abbia mescolato pane casereccio raffermo, formaggio, uova e brodo, ma la tradizione lega questo piatto a Francesco I. Nella Battaglia di Pavia (1525), il re di Francia guidava l’esercito contro le armate dell’imperatore Carlo V. Stremato, il re fu catturato nei pressi del muro del parco visconteo e portato lì vicino alla
cascina Repentita. I contadini assecondarono la sua richiesta di mangiare qualcosa di caldo mettendo insieme ciò che avevano in casa: brodo di borragine, pane raffermo, formaggio e uova. La zuppa piacque al re tanto che, ritornato in Francia dopo un anno di prigionia, diede ordine ai suoi cuochi di preparargli la “soupe à la pavoise”.
ne, che verso la metà del Settecento costruirono la Reale industria della Pagliara delle bufale di Carditello, primo caseificio nella storia di questo formaggio. Soltanto negli anni Trenta del ’900, con l’arrivo della ferrovia e dei carri refrigerati, divenne possibile per la mozzarella lasciare i luoghi d’origine e affacciarsi sul mercato nazionale.
Parmigiano... piacentino Ci fu un tempo in cui il grana di qualità era detto piacentino e non parmigiano reggiano, come si chiama oggi. Lo sapevano i veneziani, che omaggiavano il sultano ottomano con forme di “cacio piacentino”, e lo sapeva l’imperatore Carlo V che nel 1527 volle vedere di persona la confezione della forma che i piacentini intendevano regalargli. Il “piacentino” era ben conosciuto. Lo cita Boccaccio, quando descrive la contrada di Berlinzone (ovvero il “paese di Cuccagna”), dove “eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato”. E durante il rovinoso incendio di Londra, nel 1666, tal Samuel Pepys, segretario dell’Ammiragliato, scavò una buca in giardino per salvare dalle fiamme le sue forme di grana. La svolta arrivò nell’Ottocento, quando sia Piacenza sia Lodi abbandonarono quasi del tutto la produzione di formaggio grana per dedicarsi ai più reddi-
CIBREO
P
iatto toscano, nella sua versione originale era a base di rigaglie di pollo cotte nel brodo insieme a uova sbattute e succo di limone. Ne era ghiottissima Caterina de’ Medici, dal 1533 regina di Francia: una volta mangiò tanto cibreo da rischiare di morire per indigestione. Ma più che l’origine del piatto in questo caso è interessante citare
l’etimologia del nome. Sembra infatti che derivi dall’antico francese civet (intingolo) a sua volta derivato da cive (cipolla), ingrediente oggi scomparso dalla ricetta. Oppure dal latino gigeria, che indicava gli intestini del pollo. La parola è passata poi a indicare, in senso figurato, un discorso sconclusionato. O, in ambito culinario, un guazzetto.
AA MONDADORI PORTFOLIO FSNGILARDI (2)
Da sinistra, manifesto di un parmigiano reggiano (1930), venditrice ambulante di caffè (1850) e venditori di polenta nel XVII secolo.
Il mais fu usato a lungo come mangime: furono le carestie a spingere i contadini a usarlo per la polenta. E la passata la inventò un piemontese tizi formaggi freschi (e a Lodi si inventa il mascarpone). Così il primato venne lasciato a Parma, Reggio e Modena.
Pesto, il rinfresco dei marinai Dopo mesi e mesi di mare, mangiando puzzolenti alimenti mal conservati e gallette dure come il legno imbevute nell’acqua putrida o nel vino andato in aceto, consumare un po’ di erbe verdi e profumate doveva essere una specie di miraggio. È probabile che l’origine del pesto sia da cercare proprio nel desiderio dei marinai genovesi, e in generale liguri, di mettere finalmente in bocca qualcosa di fresco e gradevole. Qualcosa che poteva essere coltivato nei vasi collocati sui balconi degli stretti caruggi (i vicoli di Genova): il basilico. La prima ricetta conosciuta risale al
1863, ma l’uso del mortaio per “pestare” ingredienti (da cui il nome pesto) è ben più antico, almeno rinascimentale. Le citazioni più antiche mostrano una preparazione non codificata come oggi: potevano essere usate noci anziché pinoli, maggiorana o prezzemolo al posto del basilico, addirittura formaggio olandese invece del pecorino.
La pizza di Enea L’origine della pizza è antichissima e... greca. In principio serviva da piatto: lo spiega Virgilio, che nell’Eneide descrive i Troiani così affamati da mangiarsi le stoviglie, ovvero le focacce su cui erano appoggiati gli alimenti. In Italia la portarono i Greci: a Napoli, capitale della Magna Grecia, e nella versione non lievitata – la piadina – a Ravenna, capitale dell’esar-
POLLO ALLA MARENGO
L’
invenzione di questa ricetta è attribuita al cuoco di Napoleone, Dunand figlio, dopo la vittoriosa Battaglia di Marengo (1800). I carri con le provviste erano lontani ma il Còrso aveva fame. Sarebbe così nato un piatto povero, realizzato con quello che si riusciva a trovare nelle campagne devastate, usando salnitro e polvere da sparo per 24
salare il pollo. Giovanni Vialardi, cuciniere di Casa Savoia, intorno alla metà dell’800 pubblicò poi una delle prime ricette del pollo “alla Marengo”. Da allora nacque un profluvio di versioni. E se oggi si chiede il pollo alla Marengo, in genere arriva in tavola la rielaborazione del celebre Escoffier, con gamberi, funghi e pomodori.
cato bizantino. A Napoli la pizza si trasformò in cibo di strada. Si mangiava condita con lardo, sugna (strutto) o pesciolini. Il pomodoro è un’aggiunta ottocentesca, epoca in cui però si metteva sopra (e non sotto, come oggi) alla mozzarella. Quando la regina Margherita di Savoia si recò in visita a Napoli, nel giugno 1889, Raffaele Esposito fu chiamato nella reggia di Capodimonte dove preparò tre pizze. Quando gli chiesero come si chiamasse quella che era piaciuta di più alla sovrana, rispose senza esitare: “margherita”. La pizza pomodoro, mozzarella e basilico esisteva già, ma Esposito ebbe la prontezza di battezzarla.
La “torta di mais”: la polenta Quando il mais giunse dall’America, gli europei non sapevano che cosa farsene:
ZAMPONE DI MODENA
L
a storia di una battaglia, o meglio di un assedio, è legata anche alle origini di un prodotto che oggi vanta il prestigioso marchio Igp: lo Zampone Modena. Potrebbe infatti essere nato nel 1511, in occasione dell’assedio di papa Giulio II a Mirandola (Mo). Quando l’assedio era solo una minaccia, nell’inverno tra il 1510 e il 1511, i cittadini della
località avrebbero portato in città, feudo della famiglia Pico, un gran numero di maiali. Il cuoco dei Pico pensò poi di conservarne la carne, macinata e speziata, all’interno delle zampe stesse dei suini e in un budello ricavato dagli intestini. Sarebbero così nati due degli insaccati più famosi di quell’area: lo zampone e il cotechino.
La lunga attesa della passata Tra i nuovi alimenti arrivati da Oltreoceano dopo il 1492, il pomodoro fu l’ultimo a entrare nelle abitudini alimentari. Non somigliava a nulla di esistente e non saziava, come facevano polenta di mais e patate. Così, la prima citazione della salsa di pomodoro è del 1690; e per trovarla abbinata alla pasta si dovette aspettare il 1839. Dopo l’Unità d’Italia, ai pomodori coltivati nell’ex Regno delle Due Sicilie si aprirono i mercati settentrionali. A Parma qualcuno ebbe una brillante idea: preparare concentrato e conserva di pomodoro su scala industriale. Il perché è presto detto. Prima dell’avvento della refrigerazione, il maiale si lavorava soltanto d’inver-
no. Gli operai dei prosciuttifici e dei salumifici d’estate restavano disoccupati. Metterli a lavorare sui pomodori, che proprio d’estate maturano, sembrava la quadratura del cerchio. La prima azienda di trasformazione aprì nel 1874 a Felino (Parma), località oggi nota per il salame. E fu un piemontese, Francesco Cirio, a mettersi a inscatolare pelati.
Spaghetti: italiani o cinesi? È uno dei dubbi amletici della gastronomia nostrana: gli spaghetti sono cinesi o italiani? La risposta non è semplice. Su chi sia stato il primo a produrre vermicelli non dovrebbero esserci dubbi: nel 2005 un archeologo ha rinvenuto in Cina, a Lajia, sul Fiume Giallo, una ciotola al cui interno c’erano alcuni fili di pasta ancora ben conservati, risalenti al 4000 a.C. Lunghi, gialli e di farina di miglio, quei primi spaghetti si sono subito dissolti, lasciando appen ail tempo di scattare una foto. Non si sa se quei vermicelli abbiano poi viaggiato lungo la Via della Seta giungendo in Italia, o se siano stati inventati autonomamente dalle nostre parti. La parola greca itrion (pasta cotta in acqua) compare nel Talmud nel VI secolo. La ritroviamo, arabizzata in itriyya, nel Libro di Ruggero del geografo al-Idrisi (1154). E a Trabia (Palermo), si produceva lo stesso tipo di pasta: oggi in siciliano tria indica i capelli d’angelo. Da lì gli spaghetti partirono alla conquista dell’Italia intera.
I biancomangiare è una ricetta di origine orientale. Può essere dolce o salato, l’importante è che gli ingredienti non ne rovinino il candore garantito dai due ingredienti principali, latte e mandorle, cui si aggiungono lardo, zucchero, pollo e altro. Questo piatto può essere stato portato in Italia dagli Arabi, quando conquistarono la Sicilia,
S+
Alessandro Marzo Magno (ha collaborato Daniele Venturoli)
Napoli street food Un pizzaiolo napoletano in una stampa italiana del 1820 circa. La pizza si mangiava per strada.
Tiramisù, l’ultimo arrivato L’ultimo nato tra i portabandiera della cucina italiana ha bruciato le tappe: debuttò nel 1970 ma il tiramisù oggi è, con pasta e pizza, uno dei cibi italiani più conosciuti nel mondo. In Giappone è addirittura al primo posto: sono tutti pazzi per il “tilàmizu”, come più o meno lo
BIANCOMANGIARE
I
pronunciano a T okyo e dintorni. Il padre è (quasi) certo: Roberto Linguanotto, detto Loli, al tempo cuoco del ristorante Alle Beccherie di Treviso. Loli improvvisa un dolce per “tirar su” la nuora della proprietaria dalla debolezza post partum. APERNE DI PIÙ Aggiunge mascarpone al classico uovo sbattuto (che “tirava su” anche genio del ai tempi di Casanova), Ilgusto, Alessandro colloca il tutto su savo- Marzo Magno iardi imbevuti nel caf- (Garzanti). Come il italiano fè (variazione della zup- mangiare ha conquistato il pa inglese, che vuole l’al- mondo. chermes) e il gioco è fatto. Ma questa paternità è contestata: i discendenti dei titolari del ristorante Roma di Tolmezzo (in provincia di Udine), ora chiuso, rivendicano il primato e per questo hanno avviato un’azione legale. •
ma può anche essere arrivato dalla Francia: nei ricettari più antichi è indicato con termini francesi come blanche mangieri, balmagier o bramagère. Da noi si è diffuso intorno all’XI secolo, e sarebbe stato servito durante il grandioso banchetto organizzato da Matilde di Canossa per celebrare la riconciliazione tra papa Gregorio VII ed Enrico IV.
DEA/ALINARI
lo trattarono come una curiosità da raffigurare in festoni dipinti a motivi di frutta e ortaggi. Fu Giovanni da Udine a dipingere le prime immagini europee di pannocchie nel 1517, nella Villa Farnesina di Roma. A metà Cinquecento, è vero, si coltivava mais nel Polesine, e presto la coltura si diffuse nelle pianure ricche d’acqua della pedemontana veneta, friulana e in parte lombarda. Ma per parecchi decenni il mais rimase un mangime per animali. Quanto alla polenta, ottenuta però con farina di farro o altri cereali bolliti nell’acqua, era conosciuta già dai Romani: la chiamavano puls. Nel Medioevo si passò a farine di ogni tipo. Lo testimonia la “polenta bigia”, di grano saraceno, citata da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi. Ci vorranno fame e carestie per convincere gli esseri umani a nutrirsi di quel cibo per le bestie: nel 1634 i contadini del bellunese furono tra i primi a riempirsi la pancia con polenta di mais. Il che, alla lunga, rese endemica la pellagra, una malattia causata da carenze vitaminiche legate appunto alla cottura della farina di mais.
NOVECENTO
LE MANI SU
CUBA I rapporti fra gli Stati Uniti e l’isola caraibica hanno conosciuto alti e bassi. A cominciare dalla fine dell’Ottocento, con la guerra ispano-americana
L
e relazioni fra Stati Uniti e Cuba, torna- a caratteri cubitali, fumetti e un prezzo sempre te di attualità dopo la distensione avvia- più basso si erano imposti come i più venduti. ta dal presidente Barack Obama, hanno Remember the Maine. Non furono però i giorradici lontane. Più che centenarie. Era nali a far entrare in guerra gli Stati Uniti. Preocil 1898 quando gli Usa intervennero a Cuba, li- cupato per la situazione, il governo americano berando l’isola occupata dagli spagnoli. Passato nel gennaio del 1898 aveva deciso di inviare a alla Storia come Guerra ispano-americana, quel Cuba la corazzata Maine. Avrebbe dovuto esseconflitto segnò il debutto dell’ingerenza armata re una missione di pace, con il compito di racstatunitense, ma fu l’ultimo atto di un braccio di cogliere informazioni e di mettere in salvo i citferro che durava da decenni, fra gli indipenden- tadini americani. La notizia dell’imminente artisti cubani e la Corona spagnola. rivo di una nave da battaglia rese ancora più teContro Madrid. Tre anni prima, nel 1895, si i già difficili rapporti tra Stati Uniti e Spagna. Il 15 febbraio, mentre si trovava nelle acque nell’allora colonia spagnola gli indipendentisti avevano alzato il livello della rivolta, nella spe- della baia dell’Avana, la nave esplose provoranza di porre fine al regime imposto da Madrid. cando la morte di 266 americani. Per la stampa O almeno di provocare un intervento degli ame- fu facile addossare la responsabilità a una mina ricani a tutela dei loro investimenti nell’isola. La spagnola, nonostante la mancanza di prove. La Spagna non rimase a guardare. Inviò il genera- vicenda non sarà mai del tutto chiarita: le ipole Valeriano Weyler, noto come “il macellaio” tesi, oggi, vanno dalla deflagrazione accidentale per i suoi brutali metodi repressivi. Terrà fede al fino all’autosabotaggio con lo scopo di giustifisuo soprannome costringendo buona parte del- care l’intervento. Comunque fosse andata, “Rela popolazione in campi di concentramento, do- member the Maine! To Hell with Spain!” (“Ricordate il Maine! All’inferno la Spagna”) divenve i cubani moriranno a migliaia. La stampa statunitense raccontò con dovizia tò il grido di battaglia degli interventisti. In realtà, il nuovo presidente repubblicano di particolari, anche falsi, gli orrori che si consumavano al largo della Florida. Lo scopo era cre- William McKinley, eletto nel 1896, era contraare un’opinione pubblica favorevole a un “inter- rio alla guerra. Proprio come il suo predecesvento umanitario”. La guerra mediatica, una del- sore democratico, Grover Cleveland. E contrari erano anche i suoi più importanti sole prime documentate, riuscì nel suo instenitori, gli affaristi di Wall Street, tento. Le voci sulle violenze furono per i quali il conflitto rischiava di sfruttate dal “giornalismo giallo”, danneggiare l’economia americachiamato così dal nome di Yellow na in ripresa dopo i recenti anni Kid, personaggio dei fumetti che Gli Stati Uniti, dopo di crisi. McKinley finì per cedere quei giornali si contendevano. l’affondamento del Maine, al Congresso e a repubblicani coErano quotidiani che attraverso entrano in guerra contro me il giovane Theodore Roosevelt, sensazionalismo, immagini, titoli
1898 la Spagna.
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Casus belli THE GRANGER COLLECTION/ALINARI (2)
A destra, il Maine affondato. Sotto, la carica americana nella battaglia di San Juan (1° luglio 1898), vittoria che trasformò Cuba in protettorato statunitense.
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THE GRANGER COLLECTION/ALINARI
THE NEW YORK TIMES/REDUX/CONTRASTO
In contemporanea gli Stati Uniti sfidarono la Spagna nelle Filippine. Con Cuba, diventeranno teste di ponte strategiche per la nuova potenza Usa
suo successore alla Casa Bianca e al tempo vice ministro della Marina. Come accadrà anche in seguito sulle questioni cubane, il presidente veniva attaccato dagli interventisti per la sua “debolezza” e “mancanza di carattere”. Gli interventisti avevano le idee chiare: la tradizionale politica isolazionista americana andava abbandonata e gli Stati Uniti dovevano avere un ruolo ben maggiore sullo scacchiere. La guerra per Cuba era solo un tassello di una politica più ampia. E infatti, appena scoppiato il conflitto, la flotta americana nel Pacifico attaccherà un’altra colonia spagnola: le Filippine. Fase due. Ma perché proprio Cuba finì nelle mire degli interventisti? Intanto per eliminare la presenza di una potenza europea a poche miglia dalla costa (che decenni dopo, con Castro, diventerà una potenza comunista nel “cortile di casa”). Poi per la volontà di tutelare i propri interessi nei Caraibi, che si intrecciavano con l’espansionismo statunitense in generale. Come ha ricostruito la storica Alessandra Lorini nel suo L’impero della libertà e l’isola strategica (Liguori), una volta raggiunta con i propri confini la
costa del Pacifico gli Stati Uniti non potevano più contare sulla valvola di sfogo che per decenni era stata offerta dalla frontiera verso l’Ovest, ormai del tutto colonizzato. Per non pochi politici, intellettuali e uomini d’affari, si era chiusa la prima fase della storia americana, ed era giunto il momento, per continuare a prosperare, di aprire la seconda. Una visione che prometteva materie prime e nuovi mercati per lo straordinario sviluppo dell’industria nazionale. Inoltre, dato che secondo le teorie al tempo influenti le grandi potenze mondiali sarebbero state le maggiori potenze navali, sia Cuba, e a maggior ragione le Filippine, offrivano l’occasione per costruire nel mondo una serie di basi dove le navi americane avrebbero potuto rifornirsi del carbone che le alimentava. Una piccola guerra. Così, verso la fine di aprile del 1898, il casus belli del Maine, il blocco navale americano del porto dell’Avana e il rifiuto spagnolo di concedere a Cuba l’indipendenza segnarono l’inizio delle ostilità. Nati da una guerra contro una potenza coloniale, gli Stati Uniti cercarono di prendere le distanze dal
Sul campo Sopra a sinistra, un soldato americano durante il conflitto a Cuba legge una lettera da casa. Qui sopra, ribelli cubani in trincea attendono le truppe spagnole (1898).
1934
Fulgencio Batista prende il controllo del Paese, con l’aiuto Usa. Nel 1952 imporrà la dittatura.
La “guerra gialla” dei giornali americani
P
rima il New York World di Joseph Pulitzer, poi anche il New York Journal (a sinistra, il numero in cui si insinua che il Maine fosse stato affondato da una mina spagnola) di William Randolph Hearst: pur di far lievitare le tirature, inventavano di sana pianta le notizie da Cuba.
Il ruolo del “giornalismo giallo” (yellow journalism) nella campagna interventista fu tale che presto si diffuse l’espressione “guerra gialla”. Il World e il Journal soprattutto, con articoli e immagini sensazionali vendute ai giornali delle altre città americane, trasformarono l’insurrezione
cubana in un dramma nazionale. Forzature. La situazione a Cuba era presentata dai “giornali gialli” nei termini di un’oppressione feudale, imposta da una potenza cattolica e dispotica con un bagno di sangue che non risparmiava donne e bambini. Le autorità spagnole rea-
Lo sbarco dei “Rudi cavalieri”
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gimento di volontari a cavallo meglio noto come Rough Riders (“Rudi cavalieri”). Lo componevano giovani dell’alta società della parte orientale del Paese e uomini cresciuti nella dura vita delle terre dell’Ovest. Appiedati. Nonostante il loro spirito guerriero si rivelarono disorganizzati e inesperti. Circa la metà non arrivò in tempo in Florida per l’imbarco sulle navi e solo in pochi riuscirono a imbarcare i cavalli. Il quarantenne colonnello Roosevelt guidò
personalmente l’assalto alla collina nella decisiva battaglia di San Juan e divenne un eroe nazionale. Poi si scoprì che ad arrivare in cima per primi erano stati i reparti di colore, ma i giornalisti avevano preferito riportare i nomi altisonanti dei “Rudi cavalieri”. Tra l’altro, nella carica dei Rough Riders alla collina di San Juan solo Roosevelt era in sella al suo destriero. Gli altri “cavalieri” invece arrivarono correndo, visto che i loro cavalli erano rimasti in Florida.
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na volta attuato il contenimento della flotta spagnola, ai primi di giugno del 1898 seicento marines sbarcarono a Cuba. Qualche giorno dopo furono raggiunti da 17mila militari, tra i quali il 9° e il 10° Cavalleria e il 25° Fanteria, tutti composti da soldati di colore. Arrivò anche un reparto d’assalto messo insieme da Theodore Roosevelt, che per l’occasione si era dimesso da vice ministro della Marina. Era il First United States Voluntary Cavalry, reg-
Versioni ipotetiche girono con la censura e le espulsioni, costringendo spesso i giornalisti a lavorare dalla Florida e a basarsi su notizie incontrollate che arrivavano dai ribelli isolani. Esemplare. Nel dicembre del 1896 Hearst inviò sull’isola Frederic Remington, uno dei
più celebri disegnatori americani dell’epoca, per ritrarre gli abusi degli spagnoli. Ma quando l’artista riferì che si trattava soltanto di esagerazioni e che non si prospettava nessuna guerra, il giovane editore gli avrebbe risposto: “Tu fai i disegni, che alla guerra ci penso io”.
L’ipotesi, lanciata dal giornale statunitense The World, secondo la quale il Maine fu affondato da una bomba o da un siluro spagnolo. A oggi, non vi è certezza sulle cause dell’esplosione.
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Per decenni l’isola caraibica fu il “cortile di casa” per gli Usa.
L’affaire Cisneros
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vangelina Cisneros (nella foto) era la giovane e bellissima figlia di un ufficiale cubano che aveva preso parte all’insurrezione del 1895 e che gli spagnoli avevano deportato all’Isola dei Pini, 60 km a sud di Cuba. Condotta lì, Evangelina si trovò a respingere le avances del locale governatore. Tuttavia, accettò il piano del padre: sfruttare l’infatuazione del governatore per intrappolarlo e liberare i prigionieri. Ma il piano fallì e lei fu trasferita all’Avana con l’accusa di avere attentato alla vita del governatore. Liberata. Qui entrò in gioco il Journal di Hearst, che dalle sue pagine lanciò una campagna per la liberazione della Cisneros, mobilitando eminenti donne americane e inviando Karl Decker, uno dei suoi reporter, per farla fuggire. Arrivato segretamente sull’isola, Decker, probabilmente grazie all’aiuto dei diplomatici statunitensi sul posto, riuscì a liberarla e a portarla via nave a New York travestita da ragazzo. Hearst, dopo aver dato spazio all’affaire Cisneros per mesi, all’arrivo di Evangelina organizzò una gigantesca festa al Madison Square Garden. In seguito la donna fu ospite alla Casa Bianca e, in quell’occasione, il Journal la raffigurò in un grande disegno in prima pagina mentre stringeva la mano al presidente McKinley.
1959
I guerriglieri di Fidel Castro costringono il dittatore Batista a fuggire e prendono il potere.
contemporaneo imperialismo europeo. Anche per questo nel mese di maggio il Congresso approvò l’emendamento Teller, in cui si prometteva di non voler annettere Cuba, ma di renderla uno Stato libero e indipendente. Sulla carta, dal punto di vista militare, la flotta spagnola era favorita. Aveva maggiore esperienza ed era più grande. Ma si sarebbe rivelata troppo vecchia e in pessime condizioni, tanto da essere resa in breve inoffensiva. Dopo lo sbarco sull’isola, gli americani ebbero presto la meglio nelle due decisive battaglie di El Caney e San Juan Hill. Il 12 agosto gli spagnoli firmarono l’armistizio: Cuba diventava indipendente, mentre agli Stati Uniti spettava il controllo sulle isole spagnole di Guam e Porto Rico, occupate con un attacco a sorpresa sul finire della guerra. Le Filippine, che si erano arrese dopo la firma dell’armistizio cubano, furono acquistate per la modica cifra di 20 milioni di dollari.
Protettorato. La possibilità che gli Stati Uniti si ritrovassero a possedere nuovi territori sollevava proteste da parte di chi, in America, aveva ancora a cuore la tradizione anticoloniale. Come lo scrittore Mark Twain, o il filosofo William James. Comunque, dopo un paio di governi d’occupazione, per tener fede all’emendamento Teller gli americani lasciarono Cuba. Era il 1902. C’era però da tutelare i propri interessi nell’isola. Con la scusa che Cuba poteva essere conquistata da un’altra grande potenza, introdussero nella costituzione del nuovo Stato caraibico il diritto degli Stati Uniti di “intervenire per la difesa dell’indipendenza cubana e la conservazione di un governo atto a proteggere la vita, la proprietà e la libertà individuale”. In pratica, si sanciva la dipendenza politica ed economica di Cuba, oltre alla concessione agli americani della base navale di Guantánamo, sede della famigerata prigione.
La pratica bellica si era chiusa in fretta. Ma il risultato fu il contrario di quello che gli isolani si aspettavano. Iniziata come “ispano-cubana”, la guerra diventò “ispano-americana”, relegando del tutto sullo sfondo il movimento Cuba Libre (v. riquadro in basso). Non solo. Se gli Stati Uniti avevano subìto pochissime perdite, i cubani, tra il 1895 e il 1898, avevano contato 300mila morti, in prevalenza civili. Gli americani evitarono di riconoscere il contributo dell’esercito locale composto in prevalenza da neri e, d’accordo con gli spagnoli, impedirono ai capi militari cubani di partecipare alla cerimonia di resa della Spagna nella città di Santiago. Onda lunga. Ridotta a protettorato statunitense, Cuba vide una crescita esponenziale degli investimenti americani nell’industria della canna da zucchero. L’instabilità politica e le proteste per la riduzione della sovranità nazionale condurranno a ripetuti interventi militari americani (giustificati dalla costituzione cubana) e a una pluridecennale ingerenza. Il malcontento intanto cresceva: esplose nel 1933 con la “rivoluzione dei sergenti”, guidata da Fulgencio Batista. Dal golpe, appoggiato dalla sinistra, uscì un nuovo presidente: Ramón Grau San Martín, che però prese misure contro gli interessi americani. Tanto bastò. Nel gennaio del 1934 un “controgolpe” mise di nuovo in sella Batista, che manterrà il controllo del Pae se fino al decennio successivo. Nel 1952 Batista, temendo di perdere le elezioni, sempre con l’appoggio di Washington instaurò la dittatura e fece di Cuba la capitale del gioco d’azzardo e della prostituzione gestita dalla mafia americana. Fu a questo stato di cose che, negli Anni ’50, si ribellarono i barbudos guidati da Fidel Castro ed Ernesto “Che” Guevara. Il nuovo gover-
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Vi prosperavano le attività commerciali gestite dalla criminalità organizzata
no, nato nel 1959, si avvicinerà al comunismo sovietico dopo l’ennesimo intervento americano nel “cortile di casa”: la fallimentare invasione della Baia dei Porci dell’aprile del 1961, autorizzata dal presidente Kennedy. Come nel 1898, Cuba tornò a giocare il ruolo di pretesto in una sfida tra potenze: in risposta all’installazione in Turchia di missili a testata nucleare puntati su Mosca, l’Unione Sovietica rispose installando missili a Cuba e aprendo una crisi che portò il mondo a un passo dal conflitto. Finirà con lo smantellamento dei missili da entrambe le parti e la promessa americana di non aggredire Cuba. Subito dopo il fallimento della Baia dei Porci, Kennedy aveva decretato l’embargo totale che sarebbe durato fino alla storica riapertura dei rapporti diplomatici voluta dal presidente Obama nel dicembre scorso. •
Ex isola-casinò Nella pagina a fianco, la popolazione dell’Avana festeggia i castristi vincitori della rivoluzione cubana (1959). Qui sopra, a sinistra, Fulgencio Batista e (a destra) alcune ragazze in uno dei night club dell’isola, nel 1950.
1961
Il presidente Kennedy autorizza lo sbarco di marine alla Baia dei Porci. È un fallimento.
Gian Domenico Iachini
Il movimento Cuba Libre
D
a secoli spagnola, Cuba nella prima metà dell’Ottocento rimaneva ancora fedele a Madrid, mentre le altre colonie nel Nuovo Mondo diventavano indipendenti una dopo l’altra. Era in genere stata l’élite creola bianca a voler rimanere legata alla Spagna, in primo luogo per il timore di una possibile rivoluzione nera sul modello di quanto accaduto nella vicina Haiti. Non in vendita. Verso la metà del secolo, gli Usa tentarono più volte di acquistare l’isola dalla Spagna. Ma gli spagnoli preferirono tenersela, sia per la posizione strategica, sia per la sua importante produzione di zucchero. Sull’isola erano
però cresciuti i sostenitori di vario tipo dell’annessione agli Stati Uniti. Alcuni speravano che così si preservasse il sistema schiavista, mentre altri erano a favore di un modello repubblicano e non credevano possibile una riforma del governo coloniale spagnolo. Rivolta. Nel 1868 ebbe inizio la prima (fallita) guerra per l’indipendenza, del movimento Cuba Libre. Durò dieci anni e vide membri dell’élite locale uniti a schiavi liberati e neri liberi contro gli spagnoli. La restaurazione dell’autorità spagnola pose tuttavia le basi per la seconda, iniziata nel 1895 e finita con l’intervento statunitense. 31
LONGOBARDI La civiltà, le credenze, i protagonisti del popolo “dalle lunghe barbe” che nel 568 invase l’Italia. E che segnò per sempre i destini della Penisola.
Il re dei Longobardi Alboino chiede a Rosmunda di bere in una coppa ricavata dal cranio del padre, in un dipinto di Rubens.
CHI ERANO E COME VIVEVANO
AVANZATA INARRESTABILE
LE CONQUISTE DI RE LIUTPRANDO
I SIGNORI DEL MERIDIONE
TEODOLINDA: UNA REGINA SUPERSTAR
LE LORO TRACCE OGGI
IL “CHI È CHI” DEI LONGOBARDI
NORD E SUD: UNA LORO EREDITÀ?
pag. 34 ■
pag. 42
DEA/SCALA
Barbarismi
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pag. 54 ■
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pag. 62 ■
pag. 67
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PRIMO PIANO
NEL REGNO DEI
PRIMO PIANO
Litigiosi, guerrieri implacabili, cristiani ma fedeli alle usanze germaniche:
I BARBARI I
l tuono degli zoccoli era il loro tamburo di guerra. Quando i contadini e i pastori della Pianura padana li videro emergere dalla fitta bruma che avvolgeva la brughiera, credettero che un esercito infernale stesse marciando sulla terra: quei cavalieri indossavano mostruose maschere a testa di cane. Era l’anno 569 e dal Nord-est stavano dilagando i Longobardi, i futuri padroni, per due secoli, della Penisola. Chi erano veramente? Per uno storico romano che li aveva conosciuti cinque secoli prima, erano “più feroci della ferocia germanica”. Per uno dei nostri giorni, il medievista Massimo Montanari, «erano innanzitutto un popolo in armi». Armati fino ai denti. Di armi non ne mancavano certo, al seguito di quei guerrieri. Ma il loro capo, re Alboino, non si portava dietro solo un
carico di lance e spade. Con lui c’erano anche le masserizie di centomila persone tra donne, vecchi e bambini. Era il popolo dei Winnili, che nel corso dei secoli precedenti era migrato dalla Scandinavia attraverso le terre germaniche fino a giungere in Pannonia (l’attuale Ungheria). Da qui erano calati in Italia per fare razzia. Durante la loro secolare migrazione i Winnili avevano cambiato nome: adesso erano i Longobardi, ossia i guerrieri “dalle lunghe barbe” (dal germanico langbaerte). Un cambio di nome che era un atto di devozione verso Odino, il potente dio della guerra degli uomini del Nord, detto appunto “Lungabarba”. Per questo i Longobardi tenevano più che a ogni altra cosa a barba e capelli. Le capigliature degli uomini venivano tagliate una sola volta, a mezzo tonsura rituale, nella cerimonia di passaggio dall’infanzia all’e-
gli uomini “dalle
lunghe barbe” furono tutto questo. Ma non solo
DI ODINO Tesori germanici Sotto, la “lamina di Agilulfo”, frontale di un elmo, in bronzo dorato: raffigura il trionfo del re longobardo. In senso orario nella pagina: un corno da cerimonia, una collana longobarda e un pettine appartenuto a Teodolinda.
SCALA (4)
tà adulta. Dopodiché non vedevano più un rasoio per tutta la vita. Tranne che sulla nuca, dove i capelli erano tenuti cortissimi. Davanti si pettinavano ai lati del volto, divisi da una scriminatura centrale, fino a sembrare tutt’uno con la barba fluente. Fluente e intoccabile: chi tirava la barba a un guerriero rischiava, per le leggi longobarde, pene pesantissime. I più barbari. Con quell’aspetto, non c’è da stupirsi che fossero considerati poco più che selvaggi dai padroni di casa, gente che aveva memoria dei fasti della corte imperiale di Milano o di quella ostrogoto-bizantina di Ravenna. Una “perfida e puzzolentissima stirpe, che non viene neppure enumerata tra i popoli, e dalla quale è certo che abbia avuto origine la razza dei lebbrosi”, scrisse nel 770 papa Stefano III, senza
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SCALA (3)
I guerrieri tenevano molto alla loro barba, lasciata crescere dopo la tonsura che segnava il passaggio all’età adulta
LOMBARDIA A metà strada Rilievo da una scena di processione del VII secolo: i Longobardi aderirono al cristianesimo, ma i culti pagani rimasero vivi a lungo.
Deriva da Longobardia (o Langobardia), nome che indicava i territori longobardi. Nel Nord Italia sono inoltre molti i toponimi derivati da fara, che indicava un insediamento militare o rurale longobardo.
nascondere il suo odio. Del resto, il papato era parte in causa (e faceva il tifo per i Franchi, che non erano precisamente dandy). I guerrieri, gli arimanni, erano l’avanguardia dei “più barbari fra i barbari”. Spada lunga a doppio taglio al fianco, lama corta e ricurva a un solo taglio (la temutissima scramasax) per il combattimento a cavallo e un coltello erano il corredo-base dell’arimanno. Per non parlare della micidiale lancia in legno con cuspidi e puntali metallici. Ciliegina sulla torta: i guerrieri longobardi ingerivano o aspiravano sostanze stupefacenti prima della battaglia, che combattevano in uno stato di esaltazione, indossando le maschere a forma di testa di cane di cui sopra. Armi letali, istinto predatorio e terrore dei sottomessi spianarono la strada agli invasori nel Nord Italia. Fu l’inizio di un’occupazione brutale e disordinata, lasciata all’iniziativa delle singole fare (le famiglie nobili). «I Longobardi portarono in Italia un tipo di dominazione ben diversa da quella dei Goti, che godeva della legittimazione bizantina», spiega il medievista Alessandro Barbero. «La loro sovranità dipendeva unicamente dalla forza delle armi ed era ispirata alle usanze ancora fortemente “barbariche” che li caratterizzavano. Le popolazioni sottomesse erano considerate alla stregua di schiavi e non possedevano quindi alcun diritto». Quando una tribù occupava una grande fattoria di origine romana, uccideva o metteva in fuga i proprietari. Idem quando si trattava di prendere città e roccaforti in posizioni strategiche, per assicurarsi il controllo del territorio. Autostima. I conquistati, dunque, contavano zero. I Longobardi, in compenso, avevano di sé una stima sconfinata. Erano tutti uomini liberi, con pari dignità e pari pretese. Il che, alla lunga, portò all’anarchia. Il re era un capo militare supremo, ma non un’autorità politica riconosciuta. Era un vero duce, letteralmente: infatti “duca” deriva dal latino dux. E loro, i duchi, ovvero i condottieri delle fare che diedero vita ai ducati, non si facevano certo scrupoli se c’era da eliminare i sovrani che pretendevano di comandare sul popolo longobardo. Accadde proprio con Alboino, nel 572, e con il suo successore, Clefi. D’altra parte, anche quel-
G. ALBERTINI
SULLA “MOTTA” LONGOBARDA I Longobardi non costruirono città: ogni fara (la cellula base della loro società) si insediava in un villaggio fortificato. Oppure si occupavano ville e centri urbani abbandonati dai Romani.
LA CASA LUNGA Costruita prevalentemente in legno e con un tetto in paglia, raggiungeva i 70 metri e ospitava la fara con il capo militare e i suoi famigliari.
RICICLATORI In qualche caso i Longobardi riutilizzarono ville romane occupate.
RIALZATI I villaggi erano costruiti su piccole alture, naturali o artificiali, dette “motte”.
PALIZZATE Il villaggio era protetto da una palizzata in legno, raramente in muratura.
CAPANNE Attorno alla casa lunga sorgevano i laboratori e le capanne per i servi.
Capanne, ville occupate e una fortezza-monastero
I
Longobardi non conoscevano le tecniche per costruire edi fici in pietra e muratura. Perciò nei centri urbani si installaro no negli edifici già esistenti, concentrandosi in quartieri in modo da rimanere separati dal resto della popolazione. Nelle campagne utilizzarono ville romane abbandonate o in rovi na, oppure costruirono le loro tipiche “case lunghe” in legno:
70 metri di lunghezza in cui vi vevano assieme i membri della fara e le loro famiglie. Attorno a questo edificio sorgevano le case dei servi e i laboratori mentre una palizzata circonda va e proteggeva il complesso. Monastero. Uno dei pochi esempi di insediamento lon gobardo giunti fino a noi è il monastero fortificato di Torba, presso Varese, oggi Patrimonio
Unesco e tutelato dal Fai. Nato come presidio con torre di av vistamento in epoca romana, Torba fu occupata dai Longo bardi nel VI secolo per la sua posizione strategica. Alla torre vennero affiancate le abitazioni della guarnigione e dei servi e il complesso venne circondato da mura. Nell’VIII secolo, termi nato il periodo delle invasioni da nord, Torba si trasformò in
monastero femminile bene dettino e la torre di guardia fu trasformata in oratorio (ai piani alti) e in sepolcreto e cripta (ai piani bassi). Vi fu anche costrui ta una chiesa. All’interno della torre sono stati ritrovati alcuni rari affreschi altomedioevali dai quali ci osservano alcune monache dagli inconfondibili nomi longobardi: la badessa si chiamava Aliberga. 37
Secondo l’Editto di Rotari per entrare in possesso di un’eredità bisognava recitare i nomi di sette generazioni di antenati
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Artigianato locale Sopra, cucchiai in osso rinvenuti in Veneto. Sotto, brocca longobarda a forma di animale.
1
SCALA (2)
lo del re era un potere della crudeltà. Basti un esempio fra i tanti. All’inizio dell’VIII secolo re Ariperto II, insidiato dal ribelle Ansprando, non riuscendo a catturare il rivale decise di rivalersi sui suoi cari. Fece cavare gli occhi al figlio maggiore di Ansprando e mozzare naso e orecchie alla moglie e alla figlia. La legge del più forte. Questa tendenza congenita alla prevaricazione e alla violenza non favoriva certo la coesione dei Longobardi. Né fu d’aiuto la mancanza di leggi scritte. Erano grandi guerrieri, gli ex Winnili, ma analfabeti. Si affidavano alle consuetudini, tramandate oralmente dagli “uomini-memoria”, gli anziani e i bardi delle tribù. Erano leggi dure, basate più sulla vendetta (la faida) che sulla giustizia. A preva38
“Masterchef” alla longobarda
D
ella vita quotidiana longobarda conosciamo alcune abitudini alimentari. Per esempio siamo in grado, grazie agli scavi archeologici, di ricostruire l’interno di una casa lunga. In questo disegno, in particolare, si vede la zona del focolare, ovvero la parte della casa dove si cucinava e si viveva.
4
1 Il pavimento era in semplice terra battuta. La casa lunga era costituita da un unico ambiente (a volte con un “soppalco”), senza suddivisioni particolari a seconda della funzione. Sulle pareti a volte si mettevano pelli.
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2 Protetto da pietre, il focolare era poggiato sulla terra nuda. Nel tetto di paglia c’era l’apertura per il fumo.
G. ALBERTINI
3 Per le carni si usavano lunghe cotture in pentola, antenate dei nostri lessi, brasati, bolliti, stracotti e stufati.
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4 Alle donne, oltre che tessere e lavorare le pelli, toccava la preparazione dei pasti. 5 Per cucinare si usavano coltelli e cucchiai in osso e legno. 6 Gli ingredienti della cucina longobarda erano semplici: prodotti della terra e maiale. La carne di maiale veniva conservata sotto sale, importato dalle saline di Comacchio.
lere era sempre il più forte, grazie a un giudizio affidato all’ordalia – una prova di coraggio o un duello – e non a un processo. E le poche norme che non prevedevano spargimenti di sangue dovevano apparire quantomeno bizzarre a chi era abituato al diritto romano. Quando re Rotari mise per iscritto alcune delle leggi longobarde (nel 643), il suo editto stabilì, per esempio, che un uomo libero per dimostrare il diritto di entrare in possesso di una eredità doveva saper recitare i nomi dei propri antenati risalendo indietro di sette generazioni: circa duecento anni. Donne merce di scambio. Se non essere longobardo era una iattura, essere longobarda non era esattamente come vincere la lotteria. Le donne longobarde, è vero, erano più libere di
quelle di tanti popoli. Ma erano del tutto sottoposte all’autorità del capofamiglia (padre, marito o fratello), che ne disponeva come merce di scambio per sancire alleanze e costruire patrimoni attraverso il mundio. Nessuna concessione al romanticismo: il mundio era né più né meno il prezzo di mercato della donna e doveva essere pagato dallo sposo alla famiglia della moglie in caso di matrimonio, per ottenere il “diritto di protezione” sulla sua compagna. Le donne non trattavano mai in prima persona e le longobarde potevano possedere soltanto la meta, cioè la dote e il morgengab, il “dono del mattino” che lo sposo faceva alla moglie per averla trovata illibata. Con un quadretto famigliare così, si capisce perché Teodolinda (re-
STAMBERGA (DI LUSSO) Stamberga, oggi, è uno squallido tugurio. Per i Longobardi era invece una residenza di pregio: un palazzetto in pietra (stain,”pietra”, e berg, “edificio”) che spiccava tra le case in legno e frasche. Ma a chi era abituato ai palazzi romani quelle abitazioni dovevano sembrare vere... stamberghe.
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Sepolti con le armi
I
guerrieri longobardi non si separavano mai dalle loro armi: spade, lance, pugnali, elmi, scudi e speroni venivano sepolti assieme a loro. In particolare, un grande significato simbolico era attribuito alla lancia, l’arma preferita di Odino e, quindi, simbolo dell’autorità regia: durante il rituale di nomina del re veniva consegnata al sovrano come insegna del suo comando. Lancia e cavallo. Inoltre la lancia era l’arma prediletta dai cavalieri. I Longobardi, in seguito al lungo contatto con i popoli nomadi che erano giunti in Europa dall’Asia (Unni, Avari), avevano infatti imparato (e preferito) combattere a cavallo invece che appiedati.
L’eredità dei Longobardi è intorno a noi: nei nomi di persone e località, nelle tradizioni e persino in cucina gina longobarda, ma di stirpe bàvara) passò alla Storia come eccezionale (v. articolo a pag. 42). Pagani dentro. Questi tipi poco raccomandabili, formalmente erano cristiani, anche se ariani e quindi eretici per la Chiesa cattolica. Il che non impedì al longobardo medio, almeno nei primi tempi, di restare pagano dentro. Continuava a essere devoto a Odino, magari di nascosto, e considerava sacri le fonti, gli alberi e animali come la vipera. Secondo papa Gregorio Magno (590-604), adoravano il diavolo danzando in suo onore e portando in giro una testa di capro. Esagerazioni faziose. Eppure gli antichi culti pagani diffusi tra i Longobardi sopravvissero davvero a lungo prima della definitiva cristianizzazione. Ancora nel VII secolo, a Benevento, presso un albero di noce considerato sacro, venivano appese le spoglie di una pecora o di un altro animale. I cavalieri si lanciavano in una folle corsa a cavallo
senza esclusione di colpi – una sorta di Palio di Siena – partendo dall’albero e lungo un circuito stabilito. L’obbiettivo era appropriarsi prima degli avversari della bestia appesa, strapparne dei pezzi e mangiarseli, facendo nel frattempo dei voti. Era un rituale per garantirsi la benevolenza delle divinità dei boschi. Barbaro e pagano è anche l’episodio più famoso degli annali longobardi: l’umiliazione subita da Rosmunda, costretta dal marito, il solito Alboino, a bere in una coppa ricavata nel cranio del padre, re dei Gepidi, ucciso da Alboino stesso in battaglia. «Tagliare la testa al nemico e bere dal suo cranio», spiega la storica Gabriella Piccinni, «era in realtà un atto di “omaggio” verso il vinto, del quale si “bevevano” la forza, il coraggio e le virtù». Alla fine, però, come accadde a tanti “popoli in armi”, la civiltà che avevano sottomesso finì per soggiogare i Longobardi. Ne nacque un mondo nuovo. Persino un’arte nuova, che univa la tradizione romana al gusto germanico per l’oro e le pietre preziose, la scultura all’oreficeria. Nel 713 gli ex Winnili erano cambiati al punto che re Liutprando poteva definirsi “cristiano re dei Longobardi, anzi della felicissima e cattolica e diletta da Dio gente longobarda”. Odino, nel grido di battaglia, fu spodestato da San Michele. Che era pur sempre un arcangelo guerriero, impegnato a combattere il male con una spada fiammeggiante che non aveva nulla da invidiare alla scramasax. • Roberto Roveda
Al galoppo A sinistra, placca in bronzo dorato raffigurante un cavaliere. Decorava uno scudo da parata rinvenuto a Stabio (oggi in Svizzera, nel Canton Ticino).
La “nuvola” delle parole longobarde
BRIDGEMAN/MONDADORI PORTFOLIO
N
on conosciamo molto della lingua dei Longobardi, che scomparve rapidamente dopo il loro insediamento in Italia. Questo perché, a differenza dell’idioma dei Goti, il longobardo non venne mai messo per iscritto. Di fatto, si mescolò al latino parlato, antenato dell’italiano, nel VI-VII secolo. E infatti sono molte le parole di origine longobarda che usiamo ancora, tutti i giorni. Eccone alcune.
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balcone BALLA banca bara CRUSCA federa fodera GNOCCO guancia
GRAFFIARE
grinza
groppa
palco
panca
melma NOCCA ricco scherzare riga RUSSARE stalla scherno SCHIENA lisca
MANIGOLDO
SCHIUMA
sguattero
spaccare
spanna
STRALE tuffare zanna ZATTERA stormo
STINCO spiedo
stucco tanfo
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PRIMO PIANO
Teodolinda, regina dei Longobardi dal 589, ebbe due mariti, un erede sfortunato e un eccezionale fiuto diplomatico
UNA REGINA QUASI SANTA
A
ppena Teodolinda fece il suo ingresso nel grande salone, Autari ammutolì, ammirato. Il re dei Longobardi rimase senza fiato di fronte alla sua futura sposa: l’incarnato chiaro, il viso perfetto incorniciato dai capelli biondi tenuti da spille d’argento e coperti da un velo ricamato d’oro, pochissimi gioielli sulla semplice veste lunga fino ai piedi. Poi si scosse, ricordando che era venuto alla corte di Garibaldo I di Baviera sotto mentite spoglie, fingendosi un ambasciatore longobardo, per vedere chi gli era toccata in moglie. “Vostra figlia è davvero bella e merita di essere la nostra regina”, disse rivolgendosi al duca dei Bàvari. “Ora, se non avete nulla in contrario, vorremmo ricevere dalle sue mani una tazza di vino, come ella dovrà fare spesso in avvenire con noi”. Garibaldo guardò la figlia, facendo-
Gioie “barbare”
MONDADORI PORTFOLIO (2)
La croce di re Agilulfo (secondo marito di Teodolinda). A sinistra, l’incontro fra Teodolinda e Autari (il primo consorte), dal ciclo di affreschi del 1444, della bottega Zavattari, nel Duomo di Monza. Gli affreschi (45 storie e 800 personaggi) sono di nuovo visibili, dopo 6 anni di restauro. 43
VITA DA REGINA NELLA Il ciclo di affreschi nel Duomo di Con la vita di Teodolinda, come
1 1 Gli INVIATI DI AUTARI
chiedono in sposa la sorella del re dei Franchi, che prima accetta ma poi cambia idea.
2 AUTARI manda allora gli
inviati in Baviera, chiedendo in sposa TEODOLINDA, della dinastia dei Letingi, nata forse a Ratisbona nel 570 circa.
2
3 PRIMO INCONTRO tra
Autari (recatosi in incognito in Baviera) e Teodolinda, che gli offre la bevanda di benvenuto ma non lo riconosce.
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5
4 I FRANCHI attaccano
i Longobardi e invadono il territorio dei Bavari, sconfiggendoli.
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5 TEODOLINDA
RIPARA in Italia nel 589, per sfuggire ai Franchi.
6 INCONTRO di
Teodolinda e Autari, a Verona.
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7 MATRIMONIO fra
Autari e Teodolinda, che viene celebrato a Verona il 15 MAGGIO 589.
Agilulfo era ariano e Teodolinda aderiva allo scisma dei Tre Capitoli, ma i figli furono cattolici
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le un leggero cenno col capo. Quando Teodolinda porse la coppa ad Autari, lui restituendogliela le sfiorò la mano con un dito, che poi si passò sulla fronte, sul naso e sulla bocca. Lei diventò rossa, ma non osò alzare lo sguardo sull’ospite. Lusinghe e verità. Quella giovane bàvara, arrossita di fronte a tanta passione, era molto di più di una bambola timida, destinata solo a scaldare il trono accanto al marito. Intelligente e tollerante in un’epoca violenta dominata da uomini e guerre, Teodolinda si convinse che l’unico modo per dar vita a un regno forte e unito fosse appianare le divergenze e convivere pacificamente con gli altri abitanti della Penisola. “Ricolma di tutte le virtù, soave nell’eloquio, acuta di ingegno, abbondante nel donare, giusta nel giudicare, clemente nel parlare”. E giù un’altra dozzina di eccezionali complimenti: così la descrisse il re dei Visigoti Sisebuto, in una lettera scritta dopo il 616 d.C. Ma chi fu davvero questa sovrana, una delle donne più famose della storia longobarda e non solo?
«Teodolinda fu regina in un momento cruciale della storia della parte d’Italia divenuta longobarda», spiega Germana Gandino, docente di Storia medioevale, all’Università del Piemonte Orientale. «Gli invasori, che erano alcune decine di migliaia, avevano rischiato di dissolversi nel decennio di anarchia ducale, fra il 572 e il 584. Quando Autari divenne re, e poi con il secondo marito Agilulfo, l’integrazione subì un’accelerazione, almeno a livello di élite: i Longobardi divennero permeabili a stili di vita, modelli, idee e ideali romani». In questa trasformazione ci fu anche lo zampino della regina bàvara. E pensare che per Autari era stata un ripiego: nel gioco delle alleanze, il re longobardo avrebbe preferito sposare una sorella del re dei Franchi, per siglare una tregua con i potenti nemici. Ma all’ultimo si era beccato un due di picche: così, in cerca di un alleato e di una sposa che sancisse l’accordo, nel 588 si rivolse al duca dei Bàvari, che gli promise la sua seconda figlia, Teodolinda, all’epoca diciottenne.
CAPPELLA RESTAURATA Monza è tornato a splendere. l’hanno dipinta nel ’400.
8 Il 5 settembre 590
MUORE AUTARI, forse avvelenato.
9 AGILULFO, duca
di Torino, riceve un messaggio: la regina lo ha scelto come sposo.
3
10 AGILULFO,
secondo marito di Teodolinda, rinnega l’ARIANESIMO.
11 Nel NOVEMBRE 6
del 590 Teodolinda sposa Agilulfo, che sposta la capitale a Milano.
7
12 In seguito a un sogno
11
12
la regina parte da Milano in cerca del luogo in cui fondare la BASILICA di San Giovanni Battista.
13 Nel 595, posa della
prima pietra del palazzo e della chiesa, a Monza.
14 MORTE DI AGILULFO,
15
dopo 25 anni di regno, nel 616.
15 Il 22 GENNAIO 627
Teodolinda MUORE. Viene sepolta a Monza, accanto al marito.
La vendetta di Rosmunda
N
iente fermò il re Alboino nella sua avanzata in Italia. Niente se non una donna: sua moglie Rosmunda. Il sovrano longobardo l’aveva sposata nel 567, dopo averne sconfitto il popolo, i Gepidi, e ucciso personalmente il padre, il re Cunimondo. La leggenda vuole che, durante una notte di baldoria alla corte di Verona, Alboino bevve il suo vino usando come coppa il teschio del re sconfitto, costringendo la moglie a fare altrettanto. Era una pratica abbastanza comune tra i barbari, che in quel modo credevano
di assumere la forza del nemico ucciso. Ma Rosmunda non la prese bene e, col suo amante Elmichi, scudiero del re, nel 572 organizzò una congiura per assassinare Alboino. All’arrivo dei sicari, il sovrano si accorse che sua moglie gli aveva legato la spada al fodero: si difese con uno scranno, ma venne ucciso (a destra, l’assassinio in un dipinto dell’Ottocento). Ma Elmichi e Rosmunda non poterono regnare sui Longobardi: costretti alla fuga, si fermarono alla corte bizantina di Ravenna, dove la loro love-story finì. Rosmun-
da, diventata amante del prefetto Longino, diede del vino avvelenato a Elmichi, che capito l’inganno, la costrinse a bere dalla stessa coppa. E così morirono.
BRIDGEMANART
Matrimoni e funerali. Il matrimonio si celebrò il 15 maggio 589, nei campi di Sardi, vicino a Verona. Al fratello della regina, Gundoaldo, venne dato il titolo di duca d’Asti: sui valichi alpini della Val di Susa, con i Franchi alle porte, Autari aveva infatti bisogno di gente fidata. Da quelle parti, oltre che sul cognato, poteva contare anche sul duca di Torino Agilulfo, parente acquisito, nonché, di lì a poco, suo successore. Accadde tutto nel 590. Il 5 settembre Autari morì avvelenato in una congiura di palazzo, a novembre Teodolinda si era già risposata con Agilulfo. Non era stata regina a lungo, ma secondo Paolo Diacono, il monaco benedettino autore della Historia Langobardorum, quei mesi erano bastati ai sudditi per amarla al punto da farle scegliere da sola il nuovo marito. I due si incontrarono a Lomello (oggi in provincia di Pavia): “No, non baciarmi la mano, tu che dovresti baciarmi la bocca”, pare l’abbia anticipato lei, rivelandogli il suo futuro.
Il figlio Adaloaldo fu deposto nel 626 dai duchi ribelli, guidati dal duca di Torino Arioaldo, suo cognato
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Contro i Bizantini. Il nuovo sovrano si impose in pochi mesi: in puro stile longobardo non esitò a eliminare fisicamente i duchi che si erano accordati con i Franchi e tentò di espandere i propri domini verso sud, a spese dei Bizantini. Nel frattempo Teodolinda non rimase certo davanti al fuoco a ricamare: pur non potendo fermare il conflitto, cercò di rendere quell’espansione meno cruenta possibile, determinando alcune scelte politiche del marito, mitigando la crudeltà di altre e stringendo un amichevole rapporto epistolare con il vescovo di Roma, papa Gregorio Magno. Non sembra un caso che, l’anno prima di siglare la pace con i Franchi (594), Agilulfo abbia deciso, sotto le mura di Roma, di rinunciare all’assedio in cambio di 500 libbre d’oro. È una lettera del pontefice a svelarci chi, in quel frangente, ricoprì il difficile e faticoso ruolo di mediatore: “Abbiamo saputo che la vostra eccellenza si è sacrificata per ottenere
la pace, come è solita, con sollecitudine e largamente […] evitando lo spargimento di sangue da entrambe le parti. [...] vi preghiamo che presso il vostro eccellentissimo marito agiate affinché non rifiuti di allearsi con la repubblica cristiana”. Destinataria dello scritto, datato 598, era naturalmente Teodolinda. Eppure, per quanta sintonia corresse tra la regina e il pontefice sulla necessità di una pace stabile e duratura in tutta la Penisola, sul piano religioso il loro feeling si incrinava. La religione, allora come oggi, era un importante fattore di coesione sociale e sarebbe stato un ottimo collante per amalgamare la popolazione in un nuovo Stato, nato dall’unione delle tradizioni del popolo romano e di quello longobardo. Peccato che nel caso specifico la situazione fosse piuttosto complicata. La grande mediatrice. Regina di un popolo diviso tra ariani e pagani, ma insediato su
Diplomatica e devota
Né “ferrea”, né longobarda
Simbolo di fede e potere La Corona ferrea fu usata per incoronare re e imperatori, da Carlo Magno al Barbarossa, da Carlo V a Napoleone e Ferdinando I d’Austria. Portata a Vienna nel 1859, fu restituita all’Italia nel 1866.
SCALA
una terra di cattolici, Teodolinda era sì cristiana, ma aderente allo scisma dei Tre Capitoli. La divisione, che impiegò un secolo e mezzo a risolversi, era nata nel 553 durante il secondo Concilio di Costantinopoli, quando un gruppo di vescovi rifiutò la condanna per eresia decisa dall’imperatore Giustiniano nei confronti di tre teologi. «Teodolinda dovette agire in questo ambito complesso. E la regina fece poi battezzare come cattolico il figlio. Non deve stupire che nella stessa famiglia regia vi fossero diverse osservanze: ciò permetteva di dialogare con diversi interlocutori», afferma Gandino. I “tricapitolini” non si sentivano sottomessi né al vescovo di Roma né al patriarca di Costantinopoli. Erano perciò la giusta via di mezzo per non mostrarsi né dalla parte dei “nemici cattolici” né dalla parte della nobiltà longobarda, ariana come Agilulfo. Così, se il re aveva fatto di Milano la capitale politica dello Stato longobardo, Teodolinda scelse Monza come residenza estiva e “capitale spirituale” del regno, facendovi costruire, tra il 595 e il 600, una basilica dedicata a san Giovanni Battista. Secondo il cronista del XIV secolo Bonincontro Morigia, quel luogo le era stato indicato dallo Spirito Santo, che sotto forma di colomba le apparve mentre riposava sulle rive del Lambro. “Modo”, cioè “qui”, le avrebbe detto; “Etiam”, cioè “sì” avrebbe risposto lei. Da quelle due parole, narra la leggenda, sarebbe nato il primo nome della città di Monza: Modoetia. E in quel punto Teodolinda ordinò di erigere la basilica, che affidò alla Chiesa tricapitolina di Aquileia e che arricchì di reliquie e tesori. Sempre qui, poi, fece battezzare suo figlio Adaloaldo, nel 603.
O
L’unica macchia. L’anno dopo Agilulfo associò al trono il principino, di due anni appena: l’incoronazione si svolse a Milano, secondo il cerimoniale degli imperatori bizantini. Era un modo neanche troppo velato per annunciare ai sudditi che la monarchia longobarda, sulla falsariga di quella romana, era diventata ereditaria (tradizionalmente, i re longobardi erano invece scelti dall’assemblea dei duchi) e che i futuri sovrani sarebbero stati di fede cattolica. L’unità religiosa appariva sempre più vicina, mano a mano che i rapporti con i Bizantini miglioravano e che di conseguenza lo scisma tricapitolino perdeva valore politico. Tanto che, nel 612, i sovrani concessero il territorio di Bobbio (presso Piacenza) a un futuro santo cattolico, il monaco missionario irlandese Colombano, perché vi fondasse un monastero. Risalirebbe proprio a questo periodo pervaso di un’aura di santità l’unica macchia di sangue sul curriculum
ggi si trova sull’altare centrale della Cappella di Teodolinda, nel Duomo di Monza: è la famosa Corona ferrea, un diadema composto da sei placche d’oro, rivestite di pietre preziose e smalti. Nell’immaginario popolare è associata alla regina Teodolinda, ma in realtà non ha alcun legame storico con la regina. Ostrogota. Secondo studi moderni potrebbe trattarsi di un’insegna reale ostrogota. Gli Ostrogoti avevano fondato nel V-VI secolo il loro regno romano-barbarico a Ravenna, con Teodorico (incoronato nel 493). La presenza della corona nel tesoro del Duomo risalirebbe all’inizio del X secolo. Per il suo grande valore simbolico nei secoli successivi fu usata per incoronare i re d’Italia: il cerchio di metallo (secondo analisi moderne, argento), inserito al suo interno, per la tradizione sarebbe stato ricavato da uno dei chiodi usati nella crocifissione di Gesù. Furono i Visconti, signori di Milano nel XV secolo, ad alimentare la leggenda secondo cui la corona sarebbe appartenuta ai re longobardi: il loro scopo era legittimare, grazie al possesso della corona, la pretesa di dominare sull’Italia.
ALINARI
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A sinistra, le seconde nozze della regina con Agilulfo. A destra, reliquiario con i presunti denti di san Giovanni, dono di Teodolinda a quello che oggi è il Duomo di Monza.
SCALA(2)
Altre nobildonne dell’Alto Medioevo agirono in proprio, influenzando la politica. Ma ben poche con la sua abilità
La scelta di Monza Evangelario di Teodolinda in oro, smalti e pietre preziose. Come altri oggetti devozionali della regina si trova nel tesoro del Duomo di Monza. Sotto, sempre dal Ciclo di Teodolinda, la ricerca del luogo dove far sorgere la futura Basilica di San Giovanni Battista a Monza, sulla quale fu poi eretto il duomo attuale.
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di Teodolinda: la morte del fratello Gundoaldo, di fede tricapitolina, fu colpito da una freccia vagante. Secondo alcuni storici fu assassinato su commissione dei sovrani, timorosi che potesse contestare la successione al trono del loro figlio Adaloaldo. Senza prove certe rimangono solo illazioni: fatto sta che nel 616, alla morte di Agilulfo, nessuno mosse un dito contro il nuovo re, ancora minorenne. Anche perché fu Teodolinda a prendere la reggenza. Reggente. A ben vedere la libertà d’azione di Teodolinda non fu troppo diversa da quella di altre regine. «Nell’Alto Medioevo le donne di alto livello sociale erano attori politicamente attivi: le corti del VI-VII secolo erano coperte da una rete di parentele in cui le donne funzionavano come elemento di raccordo tra diverse realtà e servivano come ga-
ranzia di non belligeranza. Anche per questo troviamo soprattutto regine che agiscono in proprio, a volte determinano indirizzi politici e soprattutto religiosi», precisa la docente. Fedele alla sua politica di pacificazione, la regina intensificò l’appoggio alla Chiesa cattolica e si impegnò nella ricerca di un accordo definitivo con i Bizantini. Ma così facendo si trovò contro i duchi. “Adaloaldo, la mente sconvolta, impazzì, e, dopo avere regnato con la madre dieci anni, fu cacciato dal trono”, narra Paolo Diacono. In realtà furono i ribelli guidati dal cognato ariano del re, il duca di Torino Arioaldo, a deporre il ragazzo con un colpo di Stato. La regina morì pochi mesi dopo, il 22 gennaio del 627. Fu sepolta nella navata sinistra della sua basilica, accanto al marito. Il popolo di Monza la venerò come santa e su di lei fiorirono leggende. Ma, sette secoli dopo, spuntò anche un racconto vagamente piccante, scritto da Boccaccio per il Decamerone. Chissà se Teodolinda, leggendolo, sarebbe arrossita come quella volta in cui Autari le sfiorò la mano. • Maria Leonarda Leone
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TORINO
IVREA
ASTI
M A R L I G U R E
GENOVA
BOBBIO
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PAVIA
MILANO
CASTELSEPRIO
Furono i primi veri “re d’Italia” e il loro dominio sulla Penisola durò circa due secoli (e al Sud fin dopo il Mille) suoi ducati, divenne uno dei più ricchi e longevi regni romano-barbarici. Dilagarono poi nel resto della Penisola. A farne le spese furono gli ultimi esponenti della romanità e, al Sud, i Bizantini. Dopo la ca-
643
603
PISA
PARMA
BRESCIA
Nonantola
FIRENZE
BOLOGNA
VERONA
BOLZANO
RIMINI
AVA R I
M A R E A D R I A T I C O
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1
CIVIDALE
AQUILEIA
Esarcato
RAVENNA
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VENEZIA
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B AVA R I
Abbazia
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Espansione longobarda
Date delle conquiste
Conquiste iniziali (568-590) Conquiste del VII secolo Conquiste al tempo di Liutprando (712-744) Conquiste al tempo di Astolfo (749-756) Dominii bizantini nel 774 Territori contesi tra Longobardi e Bizantini
LEGENDA
lata dei guerrieri dalle lunghe barbe niente fu più come prima: quel che restava della tradizione politica e culturale romana era definitivamente perduto. O meglio, trasformato in qualcosa di nuovo. •
LE CONQUISTE, L’ESPANSIONE, LE DATE CHIAVE
S
i affacciarono al Friuli nel 568. Per la precisione sul finire della primavera, secondo il cronachista Paolo Diacono. Si insediarono prima nel Nord, dove la Longobardìa, con i
L’ITALIA DEI LONGOBARDI
FRANCHI
PRIMO PIANO
568
643
EDITTO DI ROTARI Promulgazione dell’Editto di Rotari, codice (in latino) di leggi germaniche.
REGNO DI ROTARI Rotari consolida il dominio sul Nord Italia, conquista la Liguria e attacca Ravenna.
636-52
REGNO DI AGILULFO Secondo marito di Teodolinda, sposta per un periodo la capitale a Milano.
591-616
REGNO DI AUTARI Dopo un decennio di interregno dei duchi, il figlio di Clefi diventa sovrano.
584-90
L’ESPANSIONE AL SUD Re Clefi attacca i Bizantini e i duchi Faroaldo e Zottone controllano il Centro e il Sud.
572-75
CONQUISTA DI PAVIA La città, dopo un lungo assedio, diventa (col nome di Papìa) capitale del regno.
572
ARRIVO IN ITALIA I Longobardi di re Alboino penetrano in Italia, conquistando Cividale del Friuli.
CRONOLOGIA
1
2
PORTA D’INGRESSO Cividale del Friuli (Civitas Forum Iulii) fu la prima conquista longobarda in Italia (568).
51
PAVIA CAPITALE Il Nord Italia divenne la Longobardìa Maior (Lombardia), di cui Pavia fu la prima capitale e importante centro culturale.
CAGLIARI
DOMINI ARABI
SARDEGNA
CORSICA
5
4
3
M A R T I R R E N O
Elba
6
M A R
Ducato romano
645
AMALFI
SICILIA
Lipari
SIRACUSA
COSENZA
662
7
BARI
M A R I O N I O
TARANTO
L’ULTIMO BALUARDO Benevento fu capitale dell’omonimo ducato, sopravvissuto fino all’arrivo dei Normanni.
REGGIO CALABRIA
POTENZA
Ducato di Benevento
BENEVENTO
REGALO AL PAPA A Sutri, secondo una tradizione ridimensionata dagli storici di oggi, nel 728 prese forma il primo nucleo dello Stato della Chiesa.
AGRIGENTO
PALERMO
6
NAPOLI
Montecassino
7
San Michele Arcangelo
LE DUE LONGOBARDÌE L’Italia fu divisa in due Longobardìe, quella Maior a Nord e quella Minor (con i ducati di Spoleto e Benevento, sopravvissuti fino all’XI secolo) a Sud. In mezzo il Ducato romano e l’Esarcato controllato dai Bizantini.
M E D I T E R R A N E O
Pantelleria
DUCATO SPOLETINO Spoleto fu sede del ducato longobardo nato con Faroaldo I nel 570, che dopo il 774 subì gli attacchi dei Franchi e finì nella loro sfera d’influenza.
640
FERMO
Ducato di Spoleto
FERENTILLO
5 SPOLETO
ROMA
PATRIARCATO Aquileia, sede del patriarcato, entrò in un periodo di decadenza. Non divenne capitale e il patriarca fu trasferito a Cividale, per motivi di sicurezza.
ABATE D’IRLANDA A Bobbio (Piacenza) il monaco irlandese san Colombano fondò nel 614, su un terreno donato da Agilulfo, l’abbazia ancora oggi esistente.
SUTRI
BLERA
605
PERUGIA
CARTINA: F. SPELTA
DONAZIONE DI SUTRI Liutprando dona al papa il castello di Sutri.
728
1053
CADUTA DI BENEVENTO Il normanno Roberto il Guiscardo pone fine al dominio longobardo sul Ducato di Benevento.
CADUTA DI PAVIA Carlo Magno sconfigge re Desiderio, conquista Pavia e pone fine al regno longobardo.
774
ARRIVANO I FRANCHI Il franco Pipino il Breve riprende le terre strappate da Astolfo ai Bizantini e le dà al papa.
756
REGNO DI ASTOLFO Re Astolfo compie le ultime conquiste, inclusa quella di Ravenna.
749-56
LECCE
REGNO DI LIUTPRANDO Re Liutprando compie nuove conquiste: con lui il regno raggiunge il suo apogeo.
712-44
653
DA ARIANI A CATTOLICI Re Ariperto I abolisce l’arianesimo (il cristianesimo dei primi Longobardi) nel regno.
PRIMO PIANO
CIVIDALE DEL FRIULI
La capitale strategica sul Ticino
I
Romani la chiamavano Ticinum, i Longobardi la ribattezzarono Papìa. Quando (dopo tre anni di assedio) fu conquistata da Al boino nel 572, il re insediò la sua corte nel palazzo fatto costrui re dal re ostrogoto Teodorico. Per due secoli la città fu capitale e fulcro dei domini longobardi: qui re Rotari fece redigere il suo editto e qui vennero realizzati grandi edifici, oggi perduti. Della chiesa di Sant’Eusebio, simbolo della conversione al cattolicesi mo, resta solo la cripta mentre San Pietro in Ciel d’Oro (foto), del VII secolo ma rifatta nel XII, ospita la tomba di re Liutprando.
REALYEASYSTAR
GUIDO BAVIERA/SIME
PAVIA
Il baluardo dell’Est
I
l primo ducato longobardo nacque in Friuli. Civitas Fori Iulii, “Città del Friuli”, alias Cividale. Più piccola della vicina Aquileia, era meglio fortificata e perciò fu scelta come capitale. Cividale si arricchì di importanti edifici. Il Complesso del patriarca Callisto, dell’VIII secolo, divenne il cuore religioso della città. Compren deva la basilica, il battistero di San Giovanni Battista e il Palazzo patriarcale. Ne restano il Fonte battesimale del patriarca Callisto e l’Altare del duca Rachis. E il Tempietto di Cividale, o Oratorio di Santa Maria in Valle (foto), tra le eredità meglio conservate.
I LUOGHI DEL POTERE A cura di Roverto Roveda
La maggior parte delle tracce longobarde in Italia è andata perduta nel corso dei secoli. Ma molto di quello che resta è protetto dall’Unesco, in luoghi considerati Patrimonio dell’umanità.
Una minaccia per il papa
P
er alcuni storici il ducato longobardo di Tuscia, con capitale Lucca, si può considerare l’antenato altomedioevale della To scana: i suoi confini, infatti, coincidevano in gran parte con quel li dell’attuale regione. La sua capitale era Lucca, all’epoca molto più importante di Firenze, difesa com’era da solide mura romane (nella foto, i resti). La città controllava i porti del Tirreno e la stra da che univa Roma con la Gallia. Il che impediva i contatti diretti tra i due grandi nemici dei Longobardi: il papa e i Franchi. A Luc ca aveva infine sede una delle maggiori zecche longobarde.
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TONI SPAGONE/REALYEASYSTAR
SPOLETO
SCALA
LUCCA
La spina nel fianco dei Bizantini
I
duchi di Spoleto furono spesso in contrasto sia con i re longo bardi di Pavia, sia con i Bizantini che controllavano Ravenna e l’Esarcato. La Spoleto longobarda arrivò a controllare buona parte delle odierne regioni di Marche e Abruzzo. I signori spo letani, inoltre, volevano che la loro città rivaleggiasse con Pavia in quanto a splendore architettonico. Per questa ragione re staurarono la basilica paleocristiana di San Salvatore (nella foto, un particolare), chiesa che ancora oggi conserva buona parte dell’impianto voluto dai duchi longobardi nell’VIII secolo.
MONZA
Il monastero dei Longobardi
SCALA
ANDREA SAMARITANI - MERIDIANA
BOBBIO
C
olombano era un monaco irlandese con la missione di convertire il popolo longobardo, diviso fra pagani e ariani, al cattolicesimo. Ci riuscì con re Agilulfo, che sancì la sua conversione donando a Colombano una chiesa in rovina presso Bobbio (Piacenza), trasformata dal monaco in monastero. L’Abbazia di San Colombano divenne così un centro della cultura e della religione. La biblioteca del monastero conservava centinaia di codici ed era una delle maggiori della cristianità. L’abbazia esiste ancora (nella foto, un rilievo posteriore) anche se non rimane quasi nulla dell’edificio originario. San Colombano, però, riposa ancora qui.
La città di Teodolinda
L
e vicende di Monza in epoca longobarda sono strettamente legate a Teodolinda. Con il marito Agilulfo la regina spostò temporaneamente la capitale da Pavia a Milano. Monza divenne la residenza estiva, con un palazzo e una basilica dedicata a san Giovanni Battista. Il palazzo e i suoi affreschi vennero distrutti dopo il Mille, mentre la basilica fu incorporata nel Duomo. Tra i capolavori di oreficeria longobarda nel tesoro del Duomo vi è la celebre “chioccia di Teodolinda”, allegoria della Chiesa (foto).
BRESCIA REALYEASYSTAR
La culla dei sovrani
U
na delle prime città occupate dai Longobardi fu Brixia. L’importanza della città è testimoniata dal fatto che “bresciani” sono alcuni dei sovrani più importanti della storia dei Longobardi: Rotari, suo figlio Rodoaldo e Desiderio, l’ultimo re prima della conquista franca. Oggi Brescia ospita una delle maggiori testimonianze architettoniche dell’epoca longobarda, la Basilica di San
La “seconda Pavia”
B
enevento fu la capitale del ducato longobardo più meridionale e longevo. I duchi di Benevento, infatti, mantennero i loro domini fino alla conquista normanna nell’XI secolo. Dopo la caduta del Nord in mano franca (774), Benevento divenne una “seconda Pavia”. Il duca Arechi II (758-784), assunto il titolo di principe, accolse i profughi longobardi settentrionali. E fece costruire la magnifica chiesa di Santa Sofia, con pianta a stella, considerata un santuario perché conservava reliquie sacre per i Longobardi. Santa Sofia esiste ancora, come pure parti delle mura, che resero la città inespugnabile, e il torrione della fortezza (foto).
DA NORD A SUD TONI SPAGONE /REALY EASY STAR
TONI SPAGONE/REALYEASYSTAR
BENEVENTO
Salvatore, che fa parte del complesso monumentale di Santa Giulia. La basilica venne fondata nel 753 da Desiderio e da sua moglie Ansa come chiesa del vicino monastero femminile di San Salvatore, oggi distrutto. È considerata uno dei maggiori esempi di architettura religiosa altomedioevale, un luogo unico dove si fondono arte longobarda, classica e bizantina (nella foto, uno dei reperti della basilica).
La costellazione dei piccoli
A
lcuni piccoli centri conservano importanti testimonianze longobarde. A Castelseprio, presso Varese, ci sono i resti della grande fortezza e della chiesetta di Santa Maria Foris Porta, con affreschi dell’VIII-IX secolo, e i ruderi della Basilica di San Giovanni Evangelista. A Campello sul Clitunno (Perugia) è sopravvissuta la piccola chiesa di San Salvatore, a forma di tempietto greco (foto). Nel Gargano (Puglia) si trova infine il santuario di San Michele Arcangelo, cui erano devotissimi i Longobardi. Del santuario originario restano solo le cripte che conducono alla grotta dove, per la tradizione, sarebbe apparso l’arcangelo. 53
PRIMO PIANO DE AGOSTINI/ALINARI
Atto di fede La traslazione del corpo di sant’Agostino dalla Sardegna a Pavia in una scultura trecentesca presso la basilica di San Pietro in Ciel d’Oro a Pavia. Le reliquie erano state acquistate nel 722 da re Liutprando dai Saraceni per portarle nella capitale del suo regno come dimostrazione di fede. 54
Il (quasi) re d’Italia
RMN/ALINARI
Liutprando, re dei Longobardi dal 712 al 744, in una stampa ottocentesca. Con lui il regno longobardo riuscì quasi a unificare la Penisola.
LIUTPRANDO F
“
IL GRANDE
u uomo di molta saggezza, accorto nel consiglio, di grande pietà e amante della pace, fortissimo in guerra, clemente verso i colpevoli, casto virtuoso, instancabile nel pregare, largo nelle elemosine, ignaro sì di lettere ma degno di essere paragonato ai filosofi, padre della nazione, accrescitore di leggi”. Lo storico Paolo Diacono dell’ultimo grande re longobardo, Liutprando, tesse lodi sperticate nella sua Historia Langobardorum. Fu il re più longevo dei Longobardi con i suoi 31 anni sul trono, dal 712 al 744, e con lui il regno raggiunse il suo apogeo. Un periodo di pace (con svariate eccezioni) e di crescita culturale e artistica che passò alla Storia come “rinascenza liutprandea”: vennero recuperate forme e stili dell’arte romana, rivisitate “alla longobar-
Fu il re che aspirava a unificare l’Italia. Non ci riuscì, ma sotto il suo scettro i Longobardi divennero una nazione
da”. Ma soprattutto quel sovrano tentò di unificare sotto il suo scettro l’intera Penisola. Anche se non ci riuscì, fu quello che più si avvicinò a essere re di tutta l’Italia. Collante. La sua “molta saggezza” Liutprando la usò soprattutto per dare coesione al regno, obiettivo a cui si dedicò non appena salito sul trono. Quando iniziò anche la sua carriera di “accrescitore di leg-
gi”: nel primo anno emanò sei norme giuridiche a integrazione dell’Editto di Rotari. Ma era solo l’inizio: tra il 717 e il 735 furono promulgate altre 147 leggi. Uno sforzo legislativo che lo mette appena dietro a Rotari e che fu cruciale nel favorire l’unità del popolo longobardo (v. riquadro nell’ultima pagina dell’articolo). Ma una nazione non si costruisce a tavolino e Paolo Diacono ci ricorda che pur “di grande pietà e amante della pace”, era “fortissimo in guerra”. Sì, perché Liutprando, che in politica interna mirava a un regno pacificato, in più occasioni agì duramente contro chi turbava questa tranquillità. Sempre con l’obiettivo di conquistare l’Italia intera. «Era già stata questa l’ambizione di re come Agilulfo e Rotari», spiega Lidia Capo, docente di Storia medioevale alla Sapienza di Roma. «Dopo 70 anni e 55
1
Preziosi armamenti
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SCALA (4)
2
Dalle necropoli longobarde di Nocera Umbra e di Castel Trosino (Ascoli Piceno) sono emersi corredi funerari appartenuti a guerrieri longobardi: si tratta di oggetti di alto artigianato. Eccone alcuni. 1. Impugnatura e fodero lavorata di un pugnale del VII secolo. 2. Punta di una lancia, con fascette di un elmo. 3. Dettaglio di uno scudo del VI secolo con scene di battaglia. 4. La notevole qualità artistica della spada (VI secolo), la cui impugnatura è decorata da lamine d’oro, rivela l’appartenenza del suo proprietario all’alta aristocrazia. Secondo gli archeologi è il frutto dei contatti con i cavalieri nomadi delle steppe.
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BRIDGEMANART/MONDADORI PORTFOLIO
Nel 728 il re longobardo donò “ai santi Pietro e Paolo” (e quindi al papa) il castello di Sutri. Per la tradizione, primo nucleo dello Stato della Chiesa
Immagini vietate L’imperatore bizantino Leone III Isaurico che nel 726 vietò le immagini religiose scatenando la reazione del papa di Roma. I Longobardi ne approfittarono per mettersi in mezzo. 56
con maggior consapevolezza, fu ripresa da Liutprando, in un quadro politico che però non la permetteva più». A mettersi di traverso c’erano, da una parte, le sempre più aggressive ambizioni politiche del papa e, dall’altra, i residui bizantini nella Penisola. Destini incrociati. Con i Bizantini, fu una partenza soft: fino al 725 circa, infatti, Liutprando mantenne con loro la pace. «All’inizio del suo regno obbligò il duca di Spoleto, Faroaldo II, che si era impadronito, autonomamente, del porto bizantino di Classe (Ravenna) a restituirlo all’impero: in questo caso erano prevalse ragioni in-
terne – tenere a freno il duca – in un quadro esterno che vedeva l’esistenza di una pace ufficiale tra il regno longobardo e Bisanzio (dal 680) e rapporti non particolarmente problematici tra l’impero e l’Italia bizantina», spiega Lidia Capo. Ma a un certo punto qualcosa si guastò. Per “colpa” di un papa. Il primo dei tre i pontefici che si avvicendarono durante il regno di Liutprando, Gregorio II, si mise a capo di un movimento antiimperiale dopo che l’imperatore bizantino Leone III aveva vietato, nel 726, il culto delle immagini di Dio e dei santi
IL GUERRIERO LONGOBARDO COMBATTEVA COSÌ La lancia in legno con cuspidi e puntali metallici era l’arma più usata.
L’elmo a lamelle è costituito da fascette di ferro sovrapposte e tenute insieme da fili di cuoio.
I guerrieri venivano sepolti con il loro corredo: tanto più ricco quanto più alto era il loro rango.
GIORGIO ALBERTINI
(iconoclastia). Divenne, questo, il pretesto dottrinario per smarcarsi da un potere lontano e malvisto (nonché distratto, a oriente, per contenere i Persiani). Della disputa approfittò Liutprando, che si dichiarò difensore dei “devoti delle immagini”. Saccheggiò l’Esarcato di Ravenna, conquistò terre e città bizantine in Emilia. Si spinse fino alla fortificazione di Sutri, avamposto a nord del ducato bizantino di Roma (oggi in provincia di Viterbo), cruciale per la difesa della città, la assediò e la conquistò. Solo dopo 5 mesi, nel 728, Sutri fu lasciata dai Longobardi, ma non restituita ai Bizantini: Liutprando la donò agli apostoli Pietro e Paolo, cioè alla Chiesa. Un mossa che ha fatto la Storia, visto che da quel nucleo nascerà lo Stato della Chiesa. Convincente. Ecco come erano andate le cose. Dopo aver piegato i potentissimi (e troppo indipendenti) duchi di Spoleto e Benevento, che tra l’altro si erano alleati con il papa, Liutprando si era accampato alle falLa lama corta (scramasax) de di Monte Mario. Gregoveniva usata rio II, che preferiva subire per il coml’autorità di un imperatore battimento a cavallo. eretico ma lontano, piuttosto che quella di un energico re troppo vicino, approfittò del suo ascendente religioso: si recò al campo di Liutprando e semplicemente gli parlò. Il re (“casto virtuoso, instancabile nel pregare, largo nelle elemosine”, ricordiamolo) si commosse e depose la spada. Lo storico tedesco Ferdinand Gregorovius (1821-1891), celebre per i suoi studi sulla Roma medioevale, descrivendo l’episodio lo paragonò a quello che 300 anni prima aveLegata al fianco si portava va coinvolto papa Leone una lunga spaMagno. Quello che con il da (spatha) in suo carisma aveva fermato ferro a doppio taglio. il re degli Unni Attila a un passo dalla calata su Roma. Anche Liutprando, ammaliato e scosso nel profondo, girò i tacchi. “L’avvenire del papato, dominatore del mondo fu deciso durante l’incontro tra il papa Gregorio II e il re longobardo Liutprando alle falde di Monte Mario”, arriva ad affermare Gregorovius. Per altri, quello di Sutri fu solo un episodio dell’altalenante rapporto tra i vertici del regno longobardo e la Chiesa di Roma. Un episodio chiave, però, perché fu l’inizio del potere temporale dei papi. Nuove amicizie. Il papa numero due con cui ebbe a che fare Liutprando fu Gregorio III, che nella partita fece entrare un nuo-
Ci si proteggeva con lo scudo circolare di legno, rivestito di cuoio e metallo. 57
Ispirazione classica
DE AGOSTINI/GETTY IMAGES
Figure di sante scolpite presso l’Oratorio di Santa Maria in Valle, a Cividale del Friuli (Ud). Il tempietto, esempio dell’arte longobarda dell’VIII secolo, mostra l’influenza dell’arte classica.
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Un trono per tre
GREGORIO II
GREGORIO III
ZACCARIA
I tre papi che si succedettero al soglio pontificio tra il 715 e il 744, anni di reggenza di Liutprando: la Chiesa divenne sempre più una forza politica.
Uno dei motivi per cui Liutprando non riuscì a realizzare il suo sogno di unificare l’Italia fu l’eccessiva sudditanza nei confronti del vescovo di Roma ducato romano (743). Il pontefice ne uscì vincitore. «Va detto che Liutprando probabilmente non arrivò mai a considerare il papa un nemico politico e d’altronde ha trovato con Zaccaria quello più disponibile a considerare i Longobardi degli interlocutori “civili”», precisa l’esperta. Passo indietro. Liutprando alla fine dovette rinunciare a quell’unità del suolo italico a cui aveva puntato da principio. Con il papato pagò una certa sottomissione dovuta a una fede autentica. «Ma è possibile che Liutprando fosse arrivato alla conclusione che il quadro politico era, per il momento, bloccato (questa almeno l’idea che se ne fece Paolo Diacono), e che quindi era meglio fermarsi e conservare rapporti civili anche con l’impero bizantino», conclude Lidia Capo. Una cosa però il re longobardo l’aveva ottenuta. I suoi sudditi erano cambiati: non erano più solo guerrieri ma proprietari fondiari e contadini, artigiani e mercanti. Quasi tutti cattolici. E Liutprando era diventato padre di una nazione longobarda sempre più italiana. • SCALA
vo giocatore, i Franchi. Si rivolse infatti a durante il papato del suo predecessore. Per Carlo Martello, “maggiordomo di palaz- convincerlo, anche Zaccaria fece visita al zo” del regno franco di Austrasia e Neu- re nel suo accampamento, dove fu ricevuto stria, chiedendo esplicitamente aiuto mili- con i massimi onori. La predica commostare contro quel re che era diventato trop- se – di nuovo – il pio sovrano che non solo restituì le quattro fortificazioni ma conclupo potente. Ma con scarsi risultati. «Liutprando non solo non fu mai in se una pace ventennale con i Bizantini del guerra con i Franchi, ma anzi fu in rapporti ottimi con i Pipinidi in ascesa», spiega Capo. «Aiutò Carlo Martello contro gli Arabi che attaccavano la Provenza e “adottò”’ Pipino il Breve tagliandogli i capelli [il rito di iniziazione longobardo, ndr]. Da parte sua Carlo non diede seguito alle richieste di aiuto contro Liutprando rivoltegli dal papa e considerò il re longobardo con molto rispetto. Si può dire che l’ideologia del potere dei Pipinidi è stata influenzata dalla cultura politica longobarda, che raggiunse le sue espressioni più complesse e armoniose proprio con Liutprando». Scambi di castelli. Anche per Zaccaria, il terzo pontefice, nel Capolavoro 741, il problema più urgente era il Fonte battesimale del patriarca rapporto con Liutprando: per priCallisto (730-740), capolavoro ma cosa rivoleva indietro i quattro della “rinascenza liutprandea”. castelli conquistati dai Longobardi
Anita Rubini
Il legislatore degli ultimi
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iutprando fu il più attivo legislatore dopo Rotari: a lui va il merito di aver eliminato dal diritto longobardo arbitrii e asprezze, guidato – come diceva – da “volontà e ispirazione di Dio”. Proprio della progressiva cristianizzazione sua e del suo popolo rimane traccia nel corpus di leggi, in primo luo-
go in una nuova concezione dell’uomo: furono inasprite le pene per l’omicidio e limitato il diritto di faida. Ma non solo. E giustizia per tutti. L’obiettivo del sovrano fu la difesa dei più poveri e deboli: grazie a nuove disposizioni, i minorenni furono tutelati per esempio dalla perdita dei beni in caso
di successione; fu regolamentata inoltre la possibilità di ereditare da parte delle donne, equiparando le quote di patrimonio che spettavano alle figlie nubili e a quelle sposate. «L’opera di Liutprando fu attenta sia a mantenere il controllo regio sulla legge, in modo che fosse un elemento
di giustizia e di coesione politica e sociale, sia a prestare attenzione ai problemi, alle esigenze e anche alle soluzioni presenti nella società», spiega la storica Lidia Capo. «Si tratta di una legislazione di grandissimo valore morale, politico, sociale e anche tecnicamente giuridico». 59
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Crudelissimo. Alboino era spietato. Si racconta che quando il re riuscì a entrare a Pavia, voleva passarne a fil di spada la popolazione e radere al suolo la città. Ma gli furono inviate 12 fanciulle, con pani a forma di colomba, simbolo di pace. Preso per la gola, o sedotto dalle giovani, Alboino decise di risparmiare Pavia. (i. m.)
GLI ALTRI
DESIDERIO
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ADELCHI
L’ultimo sovrano (?-dopo il 774)
er Dante meritava di essere ricordato soltanto perché offrì il pretesto per l’intervento decisivo di Carlo Magno in difesa del papato. Intervento che ne fece l’ultimo re longobardo e spianò la strada all’impero carolingio. Per gli storici, nella giungla di alleanze tra pontefici, Bizantini e la riottosa aristocrazia longobarda, il suo nome è piuttosto sinonimo dell’estremo tentativo di tenere in vita il regno. Scomunicato. Nato a Brescia ma cresciuto politicamente facendo il duca di Tuscia (Italia Centrale), Desiderio le provò proprio tutte per cercare di spezzare il patto mortale (per i Longobardi) tra papato e Franchi. Incluso un matrimonio tra una propria figlia (anonima nei documenti, ma passata alla Storia come Ermengarda)
La raccolta è scritta in latino, anche se con molti termini germanici. Altra prova che l’incontro e l’integrazione tra Longobardi e Romani erano giunti a una fase decisiva. Parlando delle leggi, infine, l’Editto di Rotari ci ha fornito molti dettagli e curiosità sui valori, sugli usi e sulle tradizioni di questo popolo barbaro. (i. m.)
S
e Carlo Magno. Ma proprio quelle nozze gli costarono il trono. Nel 773-74 il genero di Desiderio ripudiò Ermengarda e calò in Italia col suo esercito in difesa di papa Adriano I, che intanto aveva scomunicato Desiderio. Caduta Pavia, il re deposto fu rinchiuso in monastero, forse a Liegi (Belgio), dove morì. (a. c.)
Lo sconfitto (?-788 circa)
e non fosse per la tragedia alla quale Alessandro Manzoni, nel 1822, diede il suo nome, di lui ben pochi saprebbero. Governò a fianco del padre Desiderio, l’ultimo re dei Longobardi, e fu forse fidanzato di una sorella di Carlo Magno, Gisela. Il che, come nel caso dell’augusto genitore, non servì a evitare lo scontro ormai aperto con i Franchi. Dai Bizantini. All’inizio il principe Adelchi fu schierato a Ivrea, dove però i nemici calati dalla Valle d’Aosta lo costrinsero a battere in ritirata. Riparò allora a Verona, poi (ironia della Storia) alla corte di Costantinopoli, da dove si dice che ricevette il titolo di patrizio. Da qui tentò di riprendersi il regno degli avi, o almeno la sua parte meridionale, sbarcando in Calabria verso il 787.
SCALA
Dal conquistatore all’ultimo sovrano, dallo storico al vescovo, il “chi è chi” dei Longobardi.
Il legislatore (606-652)
ul trono longobardo dal 636, ampliò i confini del regno verso Veneto e Liguria. Allo stesso tempo, per erodere i domini bizantini, favorì le mire di espansione dei duchi longobardi di Benevento. Leggi barbariche. Ma Rotari è passato alla Storia per ben altro. Nel 643 promulgò l’editto che porta il suo nome, una raccolta di leggi in cui per la prima volta furono messe per iscritto le consuetudini del suo popolo. L’Editto di Rotari raccoglie le norme che regolavano la vita dei Longobardi, nuove disposizioni per eliminare le vendette, proteggere la proprietà privata e sviluppare l’agricoltura. Le tradizionali leggi germaniche di diritto privato e penale risultano in parte adattate allo stanziamento dei Longobardi in Italia.
SCALA
Il conquistatore (530-572)
“ evi Rosmunda, dal teschio di tuo padre!”. Chi non ricorda di aver letto questa frase a scuola? Nella realtà Alboino aveva sconfitto Cunimondo, re dei Gepidi e padre di Rosmunda, aveva fatto prigioniera la giovane e l’aveva costretta al matrimonio. Ma non è certo che la fanciulla fosse stata costretta a bere dalla coppa tratta dal cranio di Cunimondo, come narra la leggenda: la parola “kopf” ai tempi significava sia coppa che testa. In ogni caso Alboino ebbe il merito di condurre il suo popolo dalla Pannonia, nel 568, alla conquista di grandi città del Nord Italia: Cividale, Aquileia, Vicenza, Verona e l’ex capitale imperiale Milano. Per prendere Pavia, nel 571, la sola che gli si oppose, dovette assediarla per tre anni.
SCALA
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ROTARI
LUISA RICCIARINI/LEEMAGE
PRIMO PIANO
ALBOINO
Come finì? Chi dipinge Adelchi come un indomito custode dell’orgoglio longobardo lo immagina caduto in battaglia, e per mano del nipote Grimoaldo III. Secondo quanto racconta il cronachista franco Eginardo terminò invece i suoi giorni a Costantinopoli, ospite dei Bizantini, gli antichi nemici dei Longobardi. (a. c.)
GRIMOALDO
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nemici storici, per bloccare le pretese di indipendenza di Lupo del Friuli, duca reggente. E quando gli Avari cercarono di muovere guerra anche contro il suo popolo, Grimoaldo con un espediente riuscì a far credere di essere al comando di un esercito più numeroso di quanto davvero fosse, inducendoli ad abbandonare le loro posizioni in Friuli. (i. m.)
L’espansionista (?-756)
iglio di Pemmone, duca del Friuli, diventò re dei Longobardi nel 749 dopo aver costretto il fratello Rachis ad abdicare. La sua colpa? Era troppo filo-romano. Astolfo, invece, fin dal suo primo anno di regno si definì rex gentis Langobardorum, riorganizzò profondamente l’esercito, rendendo ogni uomo libero passibile di leva, e tentò di espandere il regno verso zone dell’Italia centrale soggette all’Impero bizantino. Nella sua marcia di conquista, Astolfo riuscì a prendere Ravenna e arrivò a fare scorrerie persino nelle terre pontificie. Arrivano i Franchi. Ma papa Stefano II non restò a guardare. Preoccupato dalle minacce longobarde, chiese aiuto al re dei Franchi, Pipino il Breve, che non si fece pregare e scese
SCALA
L’astuto (?-671)
ato da Gisulfo II, duca del Friuli, nel 647 ebbe il primo titolo importante: duca di Benevento. Ma quando si scatenò la lotta per la successione alla corona, dopo la morte del re Ariperto, in puro stile shakespeariano, prima appoggiò l’ariano Godeperto contro il fratello Pertarito, poi ne sposò la sorella, Teodora, e infine si sbarazzò del sovrano che aveva sostenuto per aprirsi la strada verso il trono. Trucchi e minacce. Scelto come re dai Longobardi, nel 663 dissuase l’imperatore bizantino Costante II dal riprendersi le terre del ducato di Benevento: bastarono poche scaramucce per giungere a una vittoria. Ma dovette stipulare un’alleanza con gli Avari,
ANTONIO CITRIGNO/REALYEASYSTAR
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ASTOLFO
in armi in Italia nel 754 e nel 756, proprio per ridimensionare le ambizioni dell’impudente Astolfo. Ed ebbe la meglio: Astolfo, dopo la sconfitta alle chiuse di San Michele (nella piemontese Val di Susa), fu costretto a rinunciare ai suoi piani. Morì in un incidente di caccia a Pavia, per una brutta caduta da cavallo. (i. m.)
PROTAGONISTI Lo storico (?-799)
grazie a lui se conosciamo le vicende dei Longobardi. Paolo Diacono (dal suo grado nell’ordine ecclesiastico) nella sua Historia Langobardorum li ha infatti raccontati dalle origini alla morte del re Liutprando nel 744. L’opera, che già nel Medioevo aveva avuto un certo successo, fu redatta da Diacono negli ultimi anni della sua vita. Grammatico. Friulano di nascita (nacque a Cividale tra il 720 e il 724 da una famiglia nobile), fu in rapporto diretto con la corte dei duchi friulani e poi educato in quella regia di Pavia, forse proprio ai tempi di Liutprando. Qui Paolo frequentò una scuola di grammatica e ricevette anche un’infarinatura giuridica. Ma a un certo punto abbandonò ogni gloria mondana e si
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ARCHIVIO
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LIUTPRANDO
fece monaco a Montecassino, non si sa se per gli eventi che travolsero il regno longobardo (come l’abdicazione di Rachis del 749) o per una crisi mistica. Fu poi per 5 anni maestro di grammatica alla Corte di Carlo Magno ad Aquisgrana, dove il re stava radunando gli uomini più colti per avviare una rinascita culturale e sociale. (a. r.)
Il grande vescovo (920-972)
isse 150 anni dopo che Desiderio era stato sconfitto da Carlo Magno, quando il regno dei guerrieri dalle lunghe barbe non c’era più. La sua storia dimostra però che quel popolo era integrato nel sistema di potere europeo, al quale continuò a dare un notevole contributo culturale e artistico. Diplomatico. Nato a Pavia da una importante famiglia di funzionari, Liutprando fu vescovo di Cremona e diplomatico al servizio del re d’Italia Berengario prima e di Ottone I del Sacro romano impero, poi. Per conto dell’imperatore andò in missione diplomatica a Costantinopoli, dove lo sprezzante sovrano bizantino Niceforo II Foca gli rispose: “Voi non siete Romani, siete Longobardi!”. Pensava di offenderlo. In realtà era Liutprando a
ARCHIVIO
PAOLO DIACONO
guardare dall’alto in basso i Bizantini, ai ferri corti con il Sacro romano impero per il controllo del Sud. Almeno se si dà retta ai resoconti ai limiti del razzismo che scrisse lo stesso Liutprando. L’orgoglio germanico spinse il vescovo di Cremona a definire Niceforo “un pigmeo con la testa grossa” e una “faccia da porco”. (a. c.) 61
PRIMO PIANO
Molte località del Meridione conservano tracce dei Longobardi. Nei luoghi
BENVENUTI
di culto, nelle architetture e nelle tradizioni popolari
Nella foto grande, affreschi della grotta di San Michele a Faicchio (Bn). Sotto, il santuario a San Michele Arcangelo nel Gargano (Puglia). TONI SPAGONE/REALY EASY STAR
ROBERTO GAETANO /REALYEASYSTAR
AL SUD
I
leghisti “prima maniera”, quelli che si davano appuntamento a Pontida per chiedere la secessione, hanno sempre trascurato questo dato storico: un tempo il nostro Meridione fu abitato da popolazioni germaniche. Erano gli anni in cui la cultura longobarda arrivò a lambire le coste del Mediterraneo e Benevento era considerata geminum (gemella) di Pavia, capitale dell’intero regno longobardo. Non solo: omettono che ci fu un momento di svolta, quando il Nord capitolò nelle mani dei Franchi, mentre il Sud si distinse per “celodurismo” riuscendo a mantenere più a lungo la propria indipendenza. Basta riavvolgere il film della Storia e fermarsi al VI secolo. Quando gli uomini dalla lunga barba, i Longobardi appunto, colonizzarono parte della nostra Penisola, dando vita a due “macroregioni” suddivise in ducati, quelle della Longobardia Maior e della Longobardia Minor. A dividerli, il cosiddetto corridoio bizantino che passava per Orvieto, Chiusi e Perugia. Ancora oggi molte località meridionali portano traccia di quella presenza plurisecolare: nelle architetture, nei luoghi di culto, nei nomi dei paesi e in alcune tradizioni popolari. E c’è chi sostiene che fu quella divisione (e il primato di longevità dei Longobardi del Sud) a porre le basi della “questione meridionale” (v. intervista in fondo a questo articolo).
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Tempio nazionale Capitello nella chiesa di Santa Sofia (Benevento): divenne il tempio nazionale dei Longobardi che, dopo l’invasione dei Franchi, si rifugiarono qui.
Patrimonio mondiale
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L’interno della chiesa di San Salvatore a Spoleto (oggi Patrimonio Unesco): già basilica paleocristiana, fu ricostruita nell’VIII secolo.
ROBERTO GAETANO/REALY EASY STAR
Arrivano i nefandissimi. Di certo quando questo popolo guerriero, “nefandissimo” secondo la definizione di un papa di allora, attraversò le terre meridionali bizantine con carri, mogli e figli, trovò città impoverite da decenni di razzie e malgoverno. Ma a loro sembrò di aver trovato l’America. Non solo perché non ebbero difficoltà a insediarsi con le loro fare, ma anche perché molti di loro avevano già conosciuto quei territori: ci avevano combattuto, in precedenza, a fianco dei Bizantini e conservavano ricordi di verdi pascoli con meleti che “davano frutti ben due volte”. Dal loro punto di vista fu quindi una pacchia. Confiscarono territori appartenenti alla Chiesa, costringendo molti monaci a fuggire e a cercare rifugio in Sicilia. E distrussero i loro monasteri, tra cui quello di Montecassino. Saccheggiarono poi interi villaggi, occupando i campi. «Parliamo di popolazioni barbare, diverse da quelle che avevano occupato fino a quel momento quei territori», spiega Giuseppe Roma, docente di Archeologia cristiana e medioevale all’Università della Calabria. «I Longobardi non conoscevano la cultura romana, erano assai più arretrati anche tecnologicamente: portavano con loro stoviglie fatte a mano, non conoscevano torni e fornaci. Oltre ad avere usi e costumi selvaggi. Ci misero almeno un secolo ad acquisire le competenze tecnologiche e linguistiche che erano state degli antichi Romani». Autonomie locali. Gli anni esatti in cui si insediarono al Sud sono ancora oggetto di discussione. «Mentre gli studi cronologicamente più datati hanno supposto che i primi duchi, Faroaldo di Spoleto e Zottone di Benevento, abbiano conquistato l’Italia Centrale e Meridionale in quanto “ufficiali” di re Alboino, le indagini più
recenti hanno creduto di poter affermare che questi duces erano i comandanti di gruppi militari longobardi al servizio dei Bizantini», scrive nel suo saggio Storia dei Longobardi (Einaudi) lo studioso tedesco Jörg Jarnut. In ogni caso, siamo nel 575 circa. Nell’arco di un secolo assimilarono però moltissime tradizioni, romane e locali. A partire da quelle religiose – nel 658 si convertirono al cattolicesimo – unendole a culti ariani e pagani. San Michele divenne la star dei Longobardi. Nell’angelo che difendeva, spada in pugno, la fede in Dio contro le orde di Satana, i neoconvertiti riconobbero le virtù di Odino, dio nordico della guerra e protettore degli eroi e dei guerrieri. Affreschi Tanto bastava per velongobardi nerarlo e dedicargli della chiesa di luoghi di culto che Santa Sofia a in alcuni casi ancoBenevento. ra oggi è possibile visitare. Uno su tutti: il santuario di San Michele Arcangelo nel Gargano, epicentro del culto micaelico. Edificarono però anche nuovi monasteri, come quello di Farfa nella Sabina (nel Ducato di Spoleto), una delle massime espressioni dello stile longobardo del Sud, o come l’Abbazia di San Vincenzo al Volturno (Isernia). Gli ex devastatori sponsorizzarono la nascita di nuove scritture per i monaci amanuensi, come quella beneventana, e nuove forme di canto e notazione musicale (v. riquadro a destra). Montecassino caput mundi. Tutto il Sud longobardo si trasformò da periferia dell’impero (bizantino) a epicentro di un fiorire di cittadelle fortificate e conventi. Lo stesso monastero di Montecassino fu riaperto e ricostruito. «Per molti fondatori di monasteri devono essere stati decisivi i motivi religiosi. Poiché tuttavia la maggior parte di questi monasteri vennero fondati
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Epicentro del culto di San Michele fu il santuario del Gargano. Da qui si diffuse in tutto il regno e l’arcangelo divenne il santo patrono dell’intero popolo longobardo
Cantare alla beneventana
I
Longobardi del Sud, con il fervore dei convertiti, influirono anche sulla musica religiosa. Mentre al Nord dominava il canto ambrosiano, nei monasteri e nei centri liturgici del Sud longobardo, a partire da Montecassino, si diffuse il cosiddetto canto beneventano (sopra, in un manoscritto). Nella chiesa di Santa Sofia, fondata dal duca di Benevento Arechi II intorno al 760, ci sono testimonianze che confermano la diffusione di un rito beneventano, comprensivo di canto e liturgia. Per oltre un secolo questo sopravvisse a fianco del canto gregoriano – dal nome del papa benedettino Gregorio Magno – nato nell’VIII secolo dall’incontro del canto romano antico con il canto gallicano, nel contesto della rinascita carolingia. Surclassati. Come mai allora del canto beneventano a un certo punto si perse traccia, mentre dilagò a macchia d’olio quello gregoriano? Un momento decisivo fu l’anno 1058, quando il papa Stefano IX, già abate di Montecassino, tornò nell’abbazia e vi proibì il canto beneventano e mabrosiano. Successivamente, crescendo e affermandosi sempre più la fama e l’influenza di Montecassino, la tradizione “alternativa” beneventana fu marginalizzata: oggi rimane solo una gloriosa memoria dell’antica cultura longobarda nel Meridione d’Italia. 65
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barda settentrionale, rimasta senza regno. Soltanto trecento anni dopo, nell’XI secolo, il Meridione longobardo fu travolto dal ciclone normanno. Si concludeva così l’epopea degli “uomini dalla lunga barba”. Un’epopea segnata dalla prima divisione Nord-Sud nel nostro Paese. • Giuliana Rotondi
Frammento delle mura longobarde a Benevento con un bassorilievo che raffigura un uomo con un paniere. In basso, Arechi II ritratto in un codice longobardo.
SCALA
intorno agli anni 754-56, e in alcuni casi intere famiglie si ritirarono nelle nuove fondazioni, è lecito supporre che anche ragioni politiche, l’instabilità e le minacce cui era sottoposto il regno avessero contribuito in maniera determinante a questa scelta di ritirarsi nel chiostro», spiega ancora Jörg Jarnut. Dilettissimi. Questo entusiasmo religioso, qualunque ne fossero le motivazioni, non dispiacque al papato, che nell’arco di poco più di un secolo cambiò la sua opinione sui Longobardi, promuovendoli da nefandissimi a dilettissimi. Si spiega così la missiva inviata dal capo della Chiesa al duca di Benevento Arechi II (734-787), futuro principe di Salerno. Le parole questa volta erano garbate: “de filio nostro confidimus”, gli scrisse. «In gioco c’erano interessi economici», precisa Giuseppe Roma. «Il pontefice chiedeva al duca una mediazione, affinché agevolasse il trasporto di legname verso Roma per l’edificazione delle basiliche di San Pietro e Paolo». Ovviamente, quel popolo guerriero era anche il miglior rimedio all’avanzata bizantina. E un potenziale alleato nelle lotte interne. Per oltre quattro secoli la cultura longobarda al Sud poté quindi prosperare. Spuntarono come funghi nomi inequivocabili che rimandavano a termini germanici come galdi (“boschi”). E si riciclarono tradizioni pagane legate al culto dei boschi sacri, che soprattutto nell’aristocrazia longobarda convivevano con i culti cristiani. Di questo sincretismo resta più di una traccia, come spiega Giuseppe Roma. «Ad Alessandria del Carretto (Cosenza) si celebra ancora la festa della pite (abete), di tradizione longobarda: durante l’ultima domenica di aprile un grosso abete viene tagliato nelle montagne del Massiccio del Pollino e trascinato fino al paese. Il giorno che precede la festa del patrono, sant’Alessandro, l’albero viene privato della corteccia e levigato. Il mattino del 3 maggio gli si aggiunge la cima adornata con prodotti locali, lo si solleva e si crea un albero della cuccagna alto circa 16 metri. Per vincere i premi il concorrente deve scalare l’albero e prenderseli». Sud-Nord 1-0. Quando, per soccorrere papa Adriano I, i Franchi di Carlo Magno occuparono la Longobardia Maior correva l’anno 774. Fu allora che gli abitanti del Ducato di Benevento, comandati da Arechi II, dimostrarono la loro superiorità sui “fratelli” del Nord: respinsero più volte i tentativi di invasione dell’esercito franco sia con le armi, sia con accordi temporanei di non belligeranza. Non solo: accolsero l’élite longo-
Frammenti superstiti
TONI SPAGONE/REALYEASYSTAR
Malgrado l’ostilità dei carolingi, Benevento arrivò a imporre tributi alla città di Napoli e conquistò Amalfi
DESTINI SEPARATI N
Passaggio epocale
ord e Sud? Altro che Unità d’Italia: la questione, secondo lo storico e accademico dei Lincei Giuseppe Galasso, è vecchia di almeno quindici secoli. A differenziare i due regni longobardi non fu, dice, la loro struttura amministrativa – la stessa al Nord come nei ducati del Sud – ma i diversi destini culturali, sociali e politici che ebbero quei territori. Lei afferma che la divisione dell’Italia in due grandi regioni storiche risalirebbe addirittura all’arrivo dei Longobardi nel 568 d.C. Per quale motivo? «Perché con l’invasione dei Longobardi l’Italia fu divisa in due aree: quella del Regno longobardo e quella bizantina, diverse non solo sul piano politico. Poi (774) il Centro-nord fu conquistato da Carlo Magno e seguì l’evoluzione delle istituzioni carolingie (e più tardi del Sacro romano impero germanico). Nel Mezzogiorno ducati e principati longobardi sopravvissero, ma subirono l’influenza bizantina, mentre la Sicilia venne occupata, nel IX secolo, dagli Arabi». Quali differenze iniziarono a emergere nel Sud longobardo-bizantino? «Dopo il Mille ci fu un forte slancio economico e sociale in tutta la Penisola; a livello politico ciò si tradusse nel Mezzogiorno nella formazione del Regno di Sicilia e al Centro-nord nell’esperienza comunale. Anche in relazione a questa diversità di partenza nei tre secoli successivi l’economia del Sud divenne sostanzialmen-
MONDADORI PORTFOLIO
PRIMO PIANO
Per lo storico e accademico dei Lincei Giuseppe Galasso, la lunga vicenda della “questione meridionale” iniziò proprio con la divisione delle due Longobardie.
Un animale fantastico in una decorazione in stile altomedioevale, da Aquileia (IX secolo).
rieri e dei servizi finanziari. Tuttavia se anche il Mezzogiorno non fosse maturato, sviluppando una sua robusta struttura agraria, non avrebbe potuto essere complementare all’economia del Centro-nord. Si determinò così un “sistema” italiano, mentre alla interrelazione economica si aggiungevano altri tratti unitari, come quelli linguistici e culturali». te agraria, mentre il Nord si sviluppò in senso più manifatturiero, mercantile e finanziario. Ma le due realtà erano intimamente connesse in un rapporto di complementarità, governato da quello che tecnicamente si chiama regime dello “scambio ineguale”, e che portò a una dipendenza economica del Meridione dal Nord. Nel Trecento fu larghissima la penetrazione nel Sud di banchieri e mercanti toscani, sostituiti più tardi dai genovesi». La crescente dipendenza dal capitale del Centro-nord vuol dire che il Mezzogiorno era rimasto in qualche modo inattivo? «Tutt’altro. Nel rapporto di “scambio ineguale” uno degli attori è più debole dell’altro, perché in economia i beni primari dell’agricoltura hanno una ragione di scambio (il rapporto in base al quale beni di diversi Paesi vengono scambiati, ndr) inferiore a quella dei beni manifattu-
Insomma, una sorta di simbiosi… «Qualcosa di più, forse. Ma durante il Seicento la Penisola perse il suo secolare primato economico-finanziario in Europa: inglesi, francesi, fiamminghi, tedeschi subentrarono gradualmente all’Italia, che passò nelle retrovie anche dal punto di vista della leadership culturale». Questo come modificò i rapporti tra le diverse “latitudini” dello Stivale? «Alla superiorità del Centro-nord verso il Mezzogiorno – superiorità “integrata” e complementare al Sud – subentrò la supremazia di altri Paesi, nei confronti dei quali il Mezzogiorno non poteva svolgere un ruolo da comprimario. Fu così che il “dualismo” italiano entrò in crisi, senza svanire del tutto: continuò a vivere sottotraccia fino all’unità nazionale, con nuove condizioni storiche che lo trasformarono nella “questione meridionale”». • Adriano Monti Buzzetti Colella
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I “LUNGHE BARBE” Da popolo barbarico a nuovi padroni dell’Italia: i Longobardi spiegati dagli storici attraverso le fonti e le opere d’arte.
Storia dei Longobardi Paolo Diacono (Mondadori) Il popolo longobardo “visto” da uno di loro: scritta attorno al 789, la Historia di Paolo Diacono segue le vicende del popolo longobardo fino all’apogeo raggiunto durante il regno di Liutprando (il testo si conclude infatti alla morte del sovrano, nel 744). Italia longobarda. Il regno, i Franchi, il papato Stefano Gasparri (Laterza) Storia dell’Italia longobarda con
particolare attenzione all’VIII secolo, dove c’era più di una forza in gioco: tra il regno, l’espansione carolingia e le ambizioni politiche del papato. I Longobardi G. P. Brogiolo, A. Chavarría Arnau (Silvana Editoriale) È il catalogo di una delle mostre più importanti dedicate negli ultimi anni al popolo longobardo. Fu organizzata a Palazzo Bricherasio (Torino) nel 2007. Il filo conduttore era quello del confronto culturale e della fusione tra i barbari e le popolazioni romane. Teodolinda. Una regina per l’Europa Felice Bonalumi (Edizioni San Paolo) Un libro per scoprire la vita della sovrana longobarda, grazie
Manoscritto longobardo beneventano dell’XI secolo.
alla ricostruzione che ne fece Paolo Diacono ma anche ai racconti pittorici degli affreschi del Duomo di Monza. I Longobardi e la storia. Un percorso attraverso le fonti Francesco Lo Monaco, Francesco Mores (Viella) Dal più antico autore che ha raccontato i Longobardi (Procopio di Cesarea) fino a Paolo Diacono: sono stati loro i primi a costruire una storia longobarda. Il libro ci racconta come.
Longobardi. Dalle origini mitiche alla caduta del regno in Italia Nicola Bergamo (Libreria Editrice Goriziana) I Longobardi raccontati a 360 gradi fino al loro impatto sulla Penisola italiana dove, con il loro arrivo, si spense ogni velleità bizantina. Costantinopoli infatti non riuscì più a mantenere la provincia italica e furono evidenti le difficoltà di contenere l’espansione barbarica. Nacque così un regno romanobarbarico durato due secoli.
La Storia raccontata in queste pagine rivive anche in tv
A
nche questo mese History HD, il canale di Sky dedicato alla Storia, affronta il tema in primo piano su questo numero di Focus Storia. Lo fa con tre documentari dedicati a tribù germaniche che, come i Longobardi, minacciarono lo scricchiolante Impero romano. I VICHINGHI I Berserker erano feroci guerrieri scandinavi. Secondo alcuni studi, la loro ferocia sarebbe dovuta a un fungo allucinogeno, che questi uo-
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mini mangiavano in piccole quantità prima di scendere in battaglia e scatenare razzie. Mercoledì 6 maggio, ore 6:00 e ore 18:00
I SOLDATI FANTASMA Si presume che i cosiddetti “soldati fantasma” fossero collegati a una coalizione di tribù germaniche responsabili di
L’imperatore Germanico sul luogo della sconfitta romana di Teutoburgo.
una delle peggiori umiliazioni dell’esercito romano: la sconfitta di Teutoburgo nel 9 d.C. Giovedì 7 maggio, ore 6:00 e ore 18:00 I VARIAGHI DI COSTANTINOPOLI Arrivati dal Nord per difendere come mercenari il grande Impero bizantino, i Variaghi erano abili e pericolosi guerrieri in grado di usare in maniera mortale asce, spade e archi. Venerdì 15 maggio, ore 6:00 e ore 18:00
DE AGOSTINI PICTURE LIBRARY/SCALA
Storia dei Longobardi Jörg Jarnut (Piccola Biblioteca Einaudi) I Longobardi visti fin dalle loro prime migrazioni a nord, forse in Scandinavia, Germania settentrionale e nelle attuali Boemia e Ungheria. Quella del VI secolo, verso l’Italia, fu una migrazione definitiva, anch’essa descritta in questo testo classico, scritto dallo storico tedesco.
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pittoracconti 1
Ora di geometria con Luca Pacioli Come studiavano i rampolli della buona società quattrocentesca? Con le lezioni private di un grande matematico.
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U
n severo frate francescano e un giovane abbigliato con eleganza: sono i protagonisti di uno dei dipinti più enigmatici del Rinascimento, del 1495, attribuito a Jacopo de’ Barbari e oggi al Museo di Capodimonte (Napoli). Il frate è il toscano Luca Pacioli (1445 ca.-1517), matematico e grande conoscitore della geometria euclidea. Pacioli era originario di Borgo San Sepolcro (oggi in provinca di Arezzo), come Piero della Francesca di cui fu allievo e amico. Aveva studiato a Venezia, alla celebre scuola di Rialto, e insegnato in molte città, da Perugia a Zara, da Napoli a Roma, entrando in contatto, tra gli altri, con l’architetto Leon Battista Alberti e con Leonardo da Vinci, che disegnò 60 tavole per il trattato di Pacioli De divina proportione (stampato nel 1509). Mistero. Assai più incerta è l’identità del secondo personaggio. Un’ipotesi vuole che sia Guidobaldo da Montefeltro (1472-1508), unico figlio maschio di Federico da Montefeltro e duca di Urbino dal 1482. Fu uomo d’armi, ma ricevette una raffinata educazione umanistica che lo portò a conoscere alcuni tra i maggiori letterati e scienziati del suo tempo. Chiunque sia il giovane, gli oggetti disposti sul tavolo non lasciano dubbi: stiamo assistendo a una lezione impartita a un allievo aristocratico, nella prima raffigurazione nota di un matematico nell’orgoglioso esercizio della propria scienza. • Edoardo Monti 1 Il solido di cristallo appeso è un rombicubottaedro, un poliedro semiregolare composto da 18 facce quadrate e 8 a triangolo equilatero. La sua rappresentazione compare per la prima volta nelle tavole del De divina proportione di Pacioli.
2 Il solido è riempito per metà d’acqua. Sulla sua superficie si riflettono il colore verde del tavolo, una piccola figura di guerriero e un paesaggio visto da una finestra: alcuni ritengono che si tratti della facciata del Palazzo Ducale di Urbino.
3 Il grigio-cinerino era il colore originario dell’abito francescano. Derivava dalla colorazione naturale della lana grezza utilizzata per la tessitura del saio. Il nero e il marrone si affermarono dall’Ottocento.
4 Indossata sopra un elegante farsetto rosso, la sopraveste foderata di pelliccia rivela che la scena si svolge in inverno. Il volto sbarbato e la fluente capigliatura erano d’obbligo tra i giovani aristocratici dell’epoca.
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5 Come si deduce dalla scritta “EVCLIDES” sulla lavagna, Pacioli sta illustrando un teorema degli Elementi di Euclide (300 a.C.). Fino all’Ottocento era questo il testo di riferimento per lo studio della geometria.
6 La lavagna era usata per disegnare le figure, ma anche per le operazioni. In un angolo si scorge un’addizione (478+935+621=2034), sul cui significato ancora si confrontano storici e matematici.
SCALA
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7 La penna (appoggiata nel calamaio portatile, agganciato all’astuccio che li conteneva en trambi) era uno degli strumen ti matematici dell’epoca. Gli altri (sparsi sul tavolo) erano la lava gna, il gesso, la spugna per can cellare, la squadra e il compasso.
8 La mano sinistra indica un passaggio del XIII libro degli Elementi di Euclide. L’edizione usa ta da Pacioli, riprodotta nel di pinto, era la prima disponibile a stampa: fu pubblicata a Venezia nel 1482 dall’editore e tipografo tedesco Erhard Ratdolt.
9 Su questo cartiglio c’è l’i scrizione “IACO.BAR.VIGEN/ NIS. P. 1495”. Potrebbe trattar si della firma dell’autore del di pinto, individuato in Jacopo de’ Barbari, pittore e incisore veneziano.
10 Sul libro chiuso, si legge l’i scrizione “LI.R.LVC.BVR”: Liber reverendi Lucae Burgensis. Si tratta della Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità, dedicata da Pacioli a Gui dobaldo. La ricca rilegatura era tipica dei libri dei nobili. 71
domande & risposte BRIDGEMANART/MONDADORI PORTFOLIO
A cura di Marta Erba, Mattelo Liberti e Maria Lombardi
Queste pagine sono aperte a soddisfare le curiosità dei lettori, purché i quesiti siano di interesse generale. Non si forniscono risposte private. Scrivete a Focus Storia, via Battistotti Sassi 11/a, 20133 Milano o all’e-mail
[email protected]
Chi erano i “martinitt”? Domanda posta da Debora Russo.
F
FOTOTECA ST. NAZ. ANDO GILARDI
urono così chiamati, a partire dal ’500, gli orfani milanesi maschi accolti presso l’oratorio di san Martino (da cui il nome) per volere di Francesco II Sforza. I martinitt
sono diventati famosi soprattutto per il ruolo che hanno svolto nel 1848, durante le Cinque giornate di Milano. In quell’occasione furono reclutati dagli insorti come
Martinitt di fine Ottocento.
staffette. Agli orfani era affidato, nel corso degli scontri, il compito rischiosissimo di passare da una barricata all’altra per consegnare informazioni delle vedette e ordini del Consiglio di guerra. Pony express. Con la loro uniforme, costituita da un cappello basso con visiera e da una giubba di panno, questi giovanissimi uomini svolsero egregiamente i loro compiti, al punto da essere nuovamente reclutati durante le successive battaglie per l’unità nazionale, in particolare nella Terza guerra d’indipendenza del 1866. Tra i noti imprenditori che, orfani in giovane età, hanno frequentato il collegio dei martinitt ci furono l’editore Angelo Rizzoli (fondatore di quella che oggi è la Rcs), Leonardo del Vecchio (fondatore di Luxottica) e Edoardo Bianchi (fondatore dell’omonima azienda produttrice di biciclette).
Come si faceva a dimostrare di essere cittadino romano?
w
Qual è stata Domanda posta da Aldo Galli.
È
stata quella di Melbourne, in Australia, del 1880 (sopra, in un’incisione dell’epoca): ebbe 1,459 milioni di visitatori. Ottava fiera mondiale riconosciuta dall’Ufficio internazionale delle esposizioni e prima nell’emisfero australe, era stata fortemente voluta dalla Gran Bretagna. Si intendeva riprodurre il modello del-
Domanda posta da Paolo Mantenuto.
I
nnanzitutto, dichiarandolo. La frase di rito era la seguente: “Civis Romanus sum”. La pronunciò tra gli altri l’apostolo Paolo di Tarso (I secolo d.C.) il quale, prossimo a essere flagellato a Gerusalemme, ottenne di essere processato a Roma venendo infine condannato alla decapitazione (pena capitale considerata “benevola” e riservata proprio ai cittadini romani). Oltre a tale “autocertificazione orale”, a cui si tendeva peraltro a credere più facilmente se l’interpellato 72
parlava un buon latino e vestiva alla romana, esistevano documenti che attestavano la cittadinanza in modo ufficiale. Carte d’identità. Se in principio la cittadinanza era limitata a chi viveva nell’Urbe, con l’ingrandirsi dello Stato sorsero sistemi di controllo più sofisticati. Come prima cosa fu prevista una registrazione dei cittadini in apposite liste censorie, e dal I secolo a.C. iniziarono ad apparire tavole bronzee (diplomi) in cui si attestava la cittadinan-
za ottenuta da soldati stranieri che avevano fatto carriera nell’esercito romano. I civili ricevevano invece una tabula di legno in cui era an-
notata la registrazione del loro nome negli archivi. Era inoltre chiesto di comunicare prontamente la nascita di eventuali figli. La decapitazione di san Paolo in un dipinto ottocentesco.
l’expo meno visitata di sempre? tenuto l’approvazione, decise di anticipare i tempi e inaugurò la fiera nell’ottobre del 1880, in modo da dare la possibilità a chi aveva preso parte alla fiera di Sydney, terminata l’aprile dello stesso anno, di spostarsi agevolmente. L’affluenza non fu comunque altissima, soprattutto per la difficoltà nel raggiungere il continente. •
Nella tabella, le expo con il maggior numero di visitatori. città
Perché la Festa dei lavoratori è il 1° maggio? Domanda posta da Luca Carbone.
L
a Festa dei lavoratori ha una lunga tradizione. Il Primo maggio nasce infatti a Parigi il 20 luglio del lontano 1889. L’idea venne lanciata durante il congresso della Seconda Internazionale, che in quei giorni era riunito nella capitale francese. Durante i lavori venne indetta una grande manifestazione per chiedere alle autorità pubbliche di ridurre
la giornata lavorativa a otto ore. La scelta della data non fu certo casuale: si optò per il 1° maggio perché tre anni prima, nel 1886, un corteo operaio svoltosi a Chicago era stato represso nel sangue. Oltreconfine. L’iniziativa superò i confini nazionali e divenne il simbolo delle rivendicazioni degli operai che in quegli anni lottavano
per avere diritti e condizioni di lavoro migliori. Così, nonostante la risposta repressiva di molti governi, il 1° maggio del 1890 registrò un’altissima adesione. Oggi quella data è festa nazionale in molti Paesi. Naturalmente Cuba, Russia, Cina, ma anche Messico, Brasile, Turchia e i Paesi dell’Ue. Non lo è, invece, negli Stati Uniti.
anno
Shanghai 2010 Osaka 1970 New York 1964 Montreal 1967 Chicago 1933 New York 1939 Siviglia 1992
visitatori
73 milioni 64 milioni 52 milioni 50 milioni 49 milioni 45 milioni 42 milioni
Poster per il 1° maggio parigino del 1898. DORI PORTFOLIO
trò però la rivalità di Sydney, l’altra grande città australiana emergente e più antica tra le due, che volle organizzare un’esposizione a tempo di record. Essendosi focalizzata soprattutto sull’agricoltura (e quindi non rispondendo ai criteri di universalità), la fiera di Sydney non ottenne il riconoscimento ufficiale. Melbourne, che invece aveva ot-
AKG-IMAGES/MONDA
le grandi esposizioni europee in quella che era una colonia inglese. Come per le altre esposizioni internazionali, l’obiettivo era promuovere il commercio e l’industria del Paese. Ma anche l’arte, la scienza e l’educazione. Rivalità. Melbourne iniziò subito i preparativi e nel 1879 presentò un piano al Parlamento inglese. Incon-
una foto un fatto
Stadio Heysel, la partita maledetta Nel 1985, prima di Juventus-Liverpool, finale della Coppa dei Campioni, sugli spalti è strage tra i tifosi (molti italiani).
È
il 1985: tre anni dopo aver vinto il Campionato del mondo, l’Italia calcistica è di nuovo a un passo da un traguardo prestigioso, la Coppa dei Campioni. La finale si gioca il 29 maggio tra Juventus e Liverpool, l’appuntamento è in Belgio, allo stadio Heysel. Prima del fischio d’inizio, però, la tragedia: sugli spalti perdono la vita 39 spettatori (dei quali 32 italiani) e più di 600 rimangono ferite. Nonostante il caos e i morti, la partita viene fatta giocare. Vince la Juventus, con un rigore messo a segno da Michel Platini. Calca assassina. Che cosa era accaduto? Le tifoserie organizzate delle due squadre erano state posizionate nelle curve opposte dello stadio, per evitare contatti. Ma in uno dei settori “neutri”, contrassegnato con la lettera Z,
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erano entrati anche semplici spettatori e tifosi juventini, separati dagli inglesi da una rete metallica. Un’ora prima dell’inizio della sfida, gli hooligan del Liverpool, al grido di “Prendi la curva”, si spinsero a ondate verso il settore Z, sfondando la rete divisoria. I tifosi impauriti arretrarono in direzione opposta e si ammassarono contro un muro di cemento armato. Molti rimasero schiacciati finché il muro finì per crollare, rivelando le pessime condizioni in cui versava l’Heysel. La polizia belga, impreparata, invece di consentire la fuga dei tifosi verso il campo di gioco li manganellò, tentando di contenerli e peggiorò la situazione. Dopo quella strage, le squadre inglesi rimasero escluse dalle Coppe europee fino al 1990. • Anita Rubini
BRUXELLES (BELGIO) 29 MAGGIO 1985
STUART FRANKLIN/MAGUM/CONTRASTO
In trappola La polizia belga sugli spalti dello stadio Heysel durante gli incidenti prima della finale di Coppa dei Campioni del 1985 tra Liverpool e Juventus. La calca e l’impreparazione degli agenti costarono la vita a 39 persone.
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OTTOCENTO
Nel 1839 un ammutinamento sulla nave negriera La Amistad sfociò in uno storico processo celebrato negli Stati Uniti, che denunciò la tratta atlantica. E rese più forte la causa abolizionista
BRIDGEMANART/MONDADORI PORTFOLIO
JOSEPH
CINQUÉ
AMISTAD CATENE SPEZZATE 76
CONTRASTO (2)
Liberi tutti I sopravvissuti dell’Amistad in una scena del film diretto nel 1997 da Steven Spielberg. Nel tondo a sinistra, Joseph Cinqué, leader dell’ammutinamento.
C’
era sempre un branco di squali nella scia di una nave negriera: si dice fiutassero l’odore della schiavitù. La traversata dall’Africa alle Americhe durava otto settimane, che i deportati passavano incatenati e nudi, ammassati a centinaia gli uni sugli altri in intercapedini della stiva alte poco più di un metro (50 centimetri per i bambini). Le epidemie facevano strage e i capitani gettavano morti e moribondi in mare. Due secoli fa, all’inizio dell’800, l’Inghilterra ave-
va dichiarato illegale il traffico di schiavi e dava ufficialmente la caccia ai vascelli negrieri. Ma il sistema delle piantagioni, fondato sulla schiavitù, faceva ancora ottimi affari negli Stati Uniti del Sud, a Cuba e in Brasile. Così, la tratta continuava a pieno regime clandestinamente. E i pescecani, non solo quelli nel mare, ne approfittavano. Deportati. Nell’estate del 1839, 53 africani finirono sulla nave negriera La Amistad: 49 uomini e 4 bambini. La loro era una storia come tante: provenivano da
una decina di popoli diversi dell’entroterra della Sierra Leone. Per la maggior parte erano di etnia mende, stirpe di guerrieri. Erano diventati schiavi chi per debiti o adulterio, altri erano stati venduti dai parenti ai mercanti di uomini africani, la maggior parte erano stati catturati in guerra o da razziatori di tribù nemiche. I cacciatori di uomini li avevano fatti marciare per settimane fino alla costa, dove erano stati imbarcati con altre centinaia sulla Teçora, una nave negriera brasiliana diretta a Cuba. A L’Avana erano rima77
Il primo a essere ucciso sull’Amistad fu il cuoco: aveva detto agli schiavi che sarebbero stati mangiati dai bianchi sti internati una decina di giorni in mezzo a capre e maiali, per poi essere venduti a due schiavisti spagnoli: José Ruiz e Pedro Montes, che la notte del 28 giugno 1839 li imbarcarono sulla goletta La Amistad per portarli a Puerto Principe (sempre a Cuba), dove sarebbero stati messi a tagliare canna da zucchero, come milioni di altri prima di loro. Oltre a Ruiz e Montes, l’equipaggio era composto dal capitano Ramón Ferrer, due marinai spagnoli e due schiavi mulatti: il cuoco Celestino e il mozzo Antonio. Destinazione ignota. Il trasferimento avrebbe dovuto tre giorni. Ma la seconda notte gli africani dell’Amistad si ripresero la libertà. Aiutandosi con un chiodo, Joseph Cinqué forzò un lucchetto e liberò lui e tre compagni: Faquorna, Moru e Kimbo. I ribelli scivolarono come ombre sul ponte, issandosi dal boccaporto, e si armarono di bastoni. Uccisero subito Celestino, che si era divertito a far loro credere che i bianchi erano cannibali e li avrebbero divorati tutti. Nel frattempo, altri uomini si erano liberati dalle catene e avevano impugnato machete da piantagione recuperati da una cassa nella stiva. I ribelli si gettarono sull’equipaggio, ma il capitano Ferrer ne uccise uno e ne ferì diversi altri. Non bastò a fermarli. Il capitano fu decapitato, Montes e Ruiz furono messi fuori combattimento e due marinai fuggirono su una canoa. L’obiettivo dei ribelli era tornare in Africa. Ma poiché nessuno di loro sapeva governare una goletta dovettero affidarsi agli spagnoli. Esperti marinai, per sette settimane Ruiz e Montez ingannarono gli africani facendo rotta verso est di giorno, ma virando a nord-ovest di notte. Il 26 agosto 1839 la Amistad arrivò a Long Island, Stato di New York. Dove la schiavitù era stata abolita nel 1827. Alcuni bianchi spiegarono, a gesti, che erano approdati in un Paese libero. Gli africani non fecero però in tenpo a festeggiare. La guardia costiera americana li aveva intercettati, per arrestarli tutti come pira78
I NUMERI E I FATTI DELLA TRATTA NEGRIERA
Milioni di africani furono ridotti in schiavitù (da altri africani): fu l’inizio della tratta che fra XVI e XIX secolo deportò e uccise milioni di esseri umani. Usati come merce. NEGRIERI Quelli che deportarono di più furono portoghesi e brasiliani (46%), inglesi (25%) e francesi (11%).
NORD AMERICA
A DESTINAZIONE Gli schiavi erano diretti in Nord America (4%), Brasile (43%), Caraibi (44%). Il 9% in altri Paesi, africani e non. CENTRO AMERICA
O C E A N O A T L A N T I C O
ZUCCHERO AMARO Gli schiavi finivano nelle piantagioni o nelle miniere. A metà del ’700, il 40% lavorava per produrre canna da zucchero.
TRATTA ATLANTICA
SUD AMERICA
LA TRAVERSATA Durava 8 settimane e la mortalità (per epidemie) era circa del 20 per cento.
RIBELLIONI DA SOFFOCARE A volte i deportati organizzavano delle ribellioni che però venivano sempre represse con massacri. Una volta domata la ribellione, i negrieri avevano il diritto di gettare i responsabili in mare, incatenati.
GLI SCHIAVISTI Spagnoli Olandesi Inglesi Francesi Portoghesi
MARCHIATI A FUOCO I mercanti europei, brasiliani e americani compravano prigionieri da trasportare nelle colonie americane, quelli turchi li rivendevano nell’Impero ottomano e in India. Ogni passaggio era certificato da una marchiatura a fuoco sulla spalla per gli uomini e sul seno per le donne. I portoghesi usavano un marchio speciale per gli schiavi battezzati.
20 12,5 10,8
MILIONI
Schiavi catturati per la tratta atlantica: la maggior parte proveniva dall’Africa Centro-occidentale.
MILIONI
Africani imbarcati sulle navi negriere verso le Americhe. Il viaggio ne falcidiava circa 2 su 10.
MILIONI
Il numero di schiavi che giunsero vivi in America. Il Brasile ne importò 10 volte più che gli Usa.
17
4
MILIONI
BRIDGEMANART/MONDADORI PORTFOLIO
Africani deportati nei Paesi islamici, nella tratta orientale.
14
MILIONI
ANTICHI COMMERCI Schiavi neri in catene: nel VII-VIII secolo i mercanti arabi li acquistavano dai re dell’Africa subsahariana. La richiesta aumentò con la colonizzazione dell’America (XV secolo).
Africani deportati nel corso della tratta interna all’Africa.
MARE IGNOTO Molti africani non avevano mai visto l’oceano prima di essere deportati.
AMMASSATI Gli imbarcati erano fino a 500. Avevano a disposizione circa mezzo metro ognuno.
Il totale dei viaggi nel periodo in cui venne praticata la tratta: XVIXIX secolo con picco nel XVIII secolo.
33
PER CENTO
35 MILA
La percentuale di donne imbarcate nella tratta atlantica. Il 28 per cento erano bambini.
LAVORO PER DISPERATI I marinai che prestavano servizio sulle navi negriere erano quasi sempre dei disperati indotti a quel lavoro dalla povertà, dai debiti o perché ingannati dal capitano; altri erano avventurieri senza scrupoli.
SOL90IMAGES
SEMPRE STESI Gli schiavi rimanevano incatenati, talvolta senza spazio per stare seduti.
SECOLI
La tratta degli schiavi durò dal XVI al XIX secolo: per gli storici, è la prima grande tragedia globale.
A CAPO CHINO Nelle stive delle navi negriere gli schiavi avevano a disposizione appena 60-120 centimetri in altezza.
ECONOMIA MALATA Una volta giunti a destinazione, gli schiavi venivano venduti insieme al resto delle merci. Per gli sfruttatori era più conveniente fare lavorare gli schiavi fino alla morte per poi comprarne di nuovi, piuttosto che doverli curare o tenere in vita.
SALUTE A BORDO Per mantenere in salute la “merce” ogni giorno i negrieri lavavano gli schiavi con acqua di mare e li obbligavano a muoversi “danzando” sul ponte. A volte le epidemie che scoppiavano decimavano anche gli equipaggi delle navi negriere.
I ribelli dell’Amistad subirono un lungo processo per pirateria e omicidio. Fu ti. R uiz e Montes furono invece liberati. La Amistad fu rimorchiata fino al porto di New London, nel Connecticut. Il drammatico equivoco (ammesso che di equivoco si trattasse) continuò. Il giudice decise che i ribelli andavano processati per pirateria e omicidio, mentre i due schiavisti indossarono i panni delle vittime. Caso politico. Gli ex schiavi diventati improvvisamente pirati rischiavano la forca. Ma non potevano difendersi, visto che non parlavano né inglese né spagnolo. A far girare nel giusto verso la ruota del loro destino furono gli americani, che si appassionarono alla loro storia. Migliaia di persone di ogni classe sociale si ritrovarono sulle banchine del porto per vedere la nave dei “pirati neri”. La figura del fuorilegge era di moda in un’America ancora in formazione e negli Stati del Nord-est
era forte il movimento abolizionista, che si batteva contro la tratta e la schiavitù. Il primo americano a prendere a cuore il caso dei ribelli dell’Amistad fu un droghiere, Dwight Janes. Mobilitò i più influenti intellettuali abolizionisti d’America, come Lewis Tappan, ricco uomo d’affari newyorkese e fervente evangelico, e Roger S. Baldwin, celebre avvocato del Connecticut. In pochi giorni prese vita
il Comitato Amistad. Missione: salvare i ribelli. Il primo processo era fissato per metà settembre: Cinqué e i suoi guerrieri avevano 15 giorni per imparare a difendersi con le leggi degli Usa. Prime speranze. La priorità era trovare un interprete per stabilire un minimo di comunicazione tra i deportati e i lroo difensori. L’idea giusta venne a Josiah Gibbs, un linguista: si fece insegnare dai
Finanziatore Lewis Tappan (1788-1873): ricco abolizionista di New York, appoggiò e finanziò la causa dei ribelli dell’Amistad.
Guerrieri sotto i riflettori CONTRASTO (3)
In una pausa del processo che li vide coinvolti, i superstiti dell’Amistad (sotto, l’uccisione del capitano della nave, in una stampa dell’epoca) circondati da curiosi.
Danimarca e Inghilterra, abolizionisti della prima ora
P
raticata per secoli da europei, arabi, turchi e dagli stessi africani, la tratta negriera cominciò a essere considerata disumana soltanto verso la fine del ’700, quando crebbe il movimen-
80
to internazionale per la sua abolizione, ispirato all’Illuminismo e al cristianesimo evangelico (protestante). Le sue roccaforti erano gli Stati nord-orientali degli Usa e l’Inghilterra: qui gli abolizio-
nisti coinvolsero l’opinione pubblica e nel 1807 ottennero una legge che abolì il commercio di schiavi. Caccia allo schiavista. La prima nazione a vietare la tratta era stata la Danimarca
nel 1792, ma l’Inghilterra andò oltre facendo (almeno ufficialmente) dell’abolizionismo un pilastro della politica estera: tra i compiti della Royal Navy c’era anche la caccia alle navi negriere.
la Corte Suprema ad assolverli. Nel frattempo erano diventati delle star
Una replica della goletta a due alberi negriera La Amistad, ricostruita e varata nel 2000.
MCT VIA GETTY IMAGES
Versione moderna
lo della questione era stabilire se quegli uomini neri approdati in America erano merci, e cioè schiavi nati nei Caraibi spa gnoli da altri schiavi, o se erano uomi ni liberi, nati in Africa, ridotti in schiavi tù e trasportati oltreoceano in violazione dei trattati internazionali. Se erano merci andavano restituiti ai proprietari, se era no uomini andavano fatti tornare a casa. Nel frattempo i ribelli erano diventati star.
Fenomeni. Migliaia di americani face vano la fila fuori dal carcere e addirittu ra pagavano il biglietto per vederli; si rea lizzarono ritratti, gigantografie e statue di cera che girarono l’America con il Circo Barnum (v. Focus Storia n° 98). Gli incas si però li intascava il secondino William Pendleton, che mise da parte una piccola fortuna. I prigionieri, intanto, passavano i giorni esercitando il fisico e la mente: gra zie all’aiuto di docenti e studenti della vi cina Yale imparavano inglese e teologia. Si arrivò così alla sentenza, il 23 gen naio 1840. A sorpresa, stabilì che gli afri cani erano innocenti e i colpevoli erano gli spagnoli Ruiz e Montes (che evitaro no comunque il carcere e ripararono all’A vana). Sembrava fatta. Ma il presidente Martin Van Buren gelò gli entusiasmi fa cendo ricorso alla Corte suprema per far
I lager di Lomboko
L’
odissea dei deportati dell’Amistad iniziò a Lomboko, al confine tra le attuali Sierra Leone e Liberia, in Africa Occidentale. Qui aveva il suo quartier generale Pedro Blanco, spagnolo a capo di una rete di campi di concentramento; suo alleato era Siaka, potente re del popolo Vai. L’organizzazione era perfetta: i razziatori di Siaka attaccavano le tribù nemiche e vendevano i prigionieri a Pedro Blanco; lui poi li rivendeva a trafficanti brasiliani
e portoghesi che li portavano nelle Americhe. Ogni passaggio di proprietà era certificato da un marchio a fuoco sulla pelle dei deportati. Ritorsioni. In cambio Siaka riceveva armi per le sue guerre, e il cerchio si chiudeva. Nel 1841 un commando anfibio della Royal Navy distrusse i lager di Pedro Blanco, liberando 800 deportati. E la Corona spagnola scatenò una guerra diplomatica per i danni economici subiti dai sudditi. Navi in partenza dalla Sierra Leone.
BRIDGEMANART/MONDADORI PORTFOLIO
prigionieri i numeri da uno a dieci in lin gua mende e andò a passeggiare nel mul tietnico porto di New York, ripetendoli ad alta voce. Conobbe così James Covey, gio vanissimo afroamericano, ex schiavo, che parlava le lingue della Sierra Leone. Grazie a James venne a galla la rea le versione dei fatti: l’accusa di pirate ria cadde nelle prime udienze. Restava da sbrogliare la matassa legale. Il noccio
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Nel maggio del 1841 i deportati dell’Amistad si esibirono in una tournée di spettacoli mende: si pagarono così il viaggio di ritorno verso l’Africa annullare la sentenza: Van Buren era un democratico, ma a quei tempi il suo partito difendeva gli interessi dei latifondisti del Sud. Erano i repubblicani, che sostenevano i capitalisti del Nord, a essere contrari alla schiavitù. Ritorno amaro. Gli abolizionisti giocarono l’ultima carta, l’ex presidente John Quincy Adams, repubblicano e abolizionista. Per convincerlo a difenderli, gli africani gli inviarono la lettera di un ragazzo mende che aveva imparato a scrivere in APERNE DI PIÙ inglese. Funzionò. L’arringa di Adams alla Corte suprema duLa ribellione rò più di otto ore. I giudell’Amistad, Marcus Rediker dici provenivano so(Feltrinelli). prattutto dal Sud schiaUn’odissea tra vista, ma la sentenza fu schiavitù e libertà. confermata: gli africani La tratta degli schiavi, dell’Amistad erano uoOlivier Petremini liberi. Solo il mozGrenouilleau zo Antonio andava re(Il Mulino). stituito ai suoi padroni a L’Avana; ma il ragazzino riuscì a fuggire in Canada, dove la schiavitù era stata abolita a fine ’700. Per Cinqué e i suoi compagni restava da affrontare l’ultimo passo: il ritorno in Africa. Per raccogliere fondi si mise
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in piedi una tournée di spettacoli mende: leggevano in inglese, recitavano inni sacri e rimettevano in scena la ribellione. Lo show fece il tutto esaurito persino a Broadway. Vennero racimolati 4mila dollari (circa 100mila di oggi), con i quali venne armato il Gentleman, che salpò da New York il 26 novembre 1841: a bordo, i 36 africani sopravvissuti all’odissea, un equipaggio di marinai abolizionisti e un gruppo di missionari evangelici, bianchi e ne-
ri. La nave arrivò a Freetown il 13 gennaio 1842. La gioia degli africani durò poco: la Sierra Leone era sconvolta dalle guerre e il traffico di schiavi prosperava. Scampati alle piantagioni, alcuni morirono negli scontri. Fra loro anche James Covey, l’interprete. Ma la ribellione dell’Amistad e la mobilitazione che l’aveva seguita avevano già cambiato la Storia: riconquistare la libertà era un sogno realizzabile. • Giorgio Zerbinati
Schiavi in arrivo BRIDGEMANART/MONDADORI PORTFOLIO (2)
L’arrivo di una nave negriera annunciato in un opuscolo pubblicato in South Carolina (Usa) e datato 24 luglio 1769.
Lo zucchero? Si faceva con il sangue
L
a diffusione della canna da zucchero è una storia lunga un millennio. Originaria dell’Oriente, arrivò nel Mediterraneo nell’VIII secolo grazie agli arabi. Portoghesi e spagnoli impiantarono le prime coltivazioni d’oltremare tra ’400 e ’500, prima
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nelle isole dell’Atlantico e poi nelle Americhe. Nel ’600, i brasiliani svilupparono il sistema della piantagione fondata sulla manodopoera degli schiavi (foto). Gli olandesi lo esportarono nei Caraibi, dove lo perfezionarono inglesi, francesi e spagnoli tra ’700 e ’800.
Amaro. Si ricorse prima a schiavi nativi, poi a forzati europei e infine agli africani. Per sensibilizzare l’opinione pubblica europea (grande consumatrice di dolci) fu lanciata una campagna di boicottaggio, al grido di “Lo zucchero si fa con il sangue”.
STORIE D’ITALIA ROMA
Poco istruito ma gran parlatore, “Ciceruacchio” divenne prima seguace di Pio IX, il papa liberale, e poi uno dei capipopolo della Repubblica romana
L’OSTE CHE FECE UN ’48
L
o definirono “l’ultimo tribuno di Roma”. Per l’anagrafe si chiamava Angelo Brunetti. Ma per tutti era Ciceruacchio, perché sin da bambino era paffutello e in famiglia era vezzeggiato come “Ciccio” o “Cicciotto” o “Ciruacchiotto” (cicciottello, appunto). La sua vita finì poi per intrecciarsi con una pagina memorabile e sfortunata del Risorgimento: la Repubblica romana. Trasteverino. Figlio di un maniscalco, Angelo nacque nel settembre del 1800 a Trastevere, allora quartiere proletario: fin da ragazzino si fece notare in risse e zuffe a ripetizione. Gran parlatore, si costruì presto la fama di trascinatore dei tanti popolani scontenti del governo papalino. Di suo, Ciceruacchio era alquanto ignorante. Riuscì appena a imparare a leggere, a scrivere e far di conto alla scuola dei Padri Carissimi, un’istituzione religiosa. Ovviò però all’interruzione degli studi memorizzando interi brani poetici, soprattutto quelli tratti dalla Gerusalemme liberata del Tasso. Per far colpo sugli amici all’inizio, poi per dare enfasi ai suoi discorsi. Di lui sappiamo, grazie ad alcune litografie, che aveva corporatura robusta, collo taurino, naso affilato, chioma biondiccia e un volto che ispirava simpatia. Vestiva in un modo che oggi diremmo casual: camicia rimboccata, panciotto, giacca, calzoni stretti al ginocchio e larghi al fondo. In testa era solito portare un “cappello a cencio”, di tipo calabrese. Cominciò a lavorare come carrettiere di vino. Si sposò attorno ai vent’anni, e con la do84
te della moglie allargò il suo giro d’affari, comprando cavalli e carretti per trasportare anche cereali e fieno. Poi si mise in proprio e divenne titolare di un’osteria. Fu allora che iniziarono a chiamarlo Padron Angelo. Carbonaro. Padron Angelo era ignorante, ma aveva le idee chiare in fatto di politica. Nel 1828 aderì alla Carboneria e cinque anni più tardi entrò a far parte della Giovine Italia di Mazzini. Era quindi un repubblicano. Intanto, durante l’epidemia di colera del 1837, si mise in luce aiutando i malati. Fu in quel periodo che i romani si accorsero delle sue doti oratorie. I suoi interventi in pubblico, più che infuocati di denuncia, erano improntati all’allegria e alla compassione per il prossimo. Ecco perché lo resero un personaggio noto dentro e fuori lo Stato pontificio. Quando morì papa Gregorio XVI, nel 1846, salì al soglio di Pietro Pio IX, al secolo Giovanni Mastai Ferretti. Il nuovo papa aveva fama di liberale. Al punto che in molti videro avvicinarsi la possibilità di realizzare il progetto politico di Vincenzo Gioberti: una confederazione di Stati italiani sotto la presidenza del papa. Ciceruacchio esultò, aderendo a quell’idea. Pio IX concesse l’amnistia ai detenuti politici e il popolino di Roma reagì alla sua maniera: fece trasportare in piazza del Popolo undici barili di vino e li mise a disposizione di tutti. Fu anche eretto un arco di trionfo. Ciceruacchio, entusiasta, faceva parte del comitato organizzatore di quella festa ad alto tasso alcolico. Sull’arco, a caratteri cubitali, si leggeva: “Onore e glo-
A. MOLINO
Trascinatore all’opera Angelo Brunetti (1800-1849), alias Ciceruacchio, arringa i romani in piazza del Popolo: aveva un grande seguito.
Nel 1848 papa Pio IX concesse la Costituzione. E quando Milano insorse, a Roma furono arruolati volontari repubblicani, tra i quali Ciceruacchio
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“Volemo l’Italia” Ciceruacchio annuncia ai romani che Pio IX ha concesso la Costituzione, nel marzo del 1848. Il dipinto è di Antonio Malchiodi (1848-1915). A sinistra, il busto di Ciceruacchio in via Ripetta, dove abitava.
tari repubblicani. In prima fila c’era Ciceruacchio. I delicati equilibri dei “papisti repubblicani” furono infranti dall’assassinio dello statista pesarese Pellegrino Rossi. Corse voce che a usare il pugnale fosse stato il figlio maggiore di Ciceruacchio, un giovane di idee politiche confuse. Pio IX si accorse che la situazione stava sfuggendogli dalle mani e riparò a Gaeta, ospite del re di Napoli. L’ex fedelissimo commentò: “Er papa vada dove je pare. Volemo l’Italia; l’Italia volemo”. La fede repubblicana di Ciceruacchio si dimostrò più forte di quella papalina. E quando fu proclamata la Repubblica romana, lui aderì. Non solo. L’oste-capopopolo tentò di formare un movimento estremista, ma non fu seguito. Dopo la sconfitta dei difensori della Repubblica (v. riquadro a destra), Ciceruacchio si unì a Garibaldi in fuga verso Venezia. A Cesenatico 172 repubblicani furono bloccati dagli austriaci. Tra loro c’era anche Angelo, che sfuggì alla cattura e riparò a Comacchio con Garibaldi. L’Eroe dei due Mondi raggiunse Genova e poi l’America. Ciceruacchio invece proseguì per Venezia, ma fu intercettato da una guarnigione austriaca comandata da uno spietato tenente croato. Assieme ai suoi 8 ultimi seguaci fu fucilato a Ca’ Tiepolo (presso Goro). Rifiutò di farsi bendare. • Pier Mario Fasanotti
GALLERIA APOLLONI/REALYEASYSTAR (2)
ria a Pio IX cui bastò un giorno per consolare i sudditi e meravigliare il mondo”. E in effetti ben presto la fama “liberale” del papa oltrepassò il Tevere e raggiunse chi lo identificava come l’uomo che davvero avrebbe “cambiato verso” a un’Italia che da anni meditava su varie formule costituzionali. Formule che non erano ancora riuscite a far tornare i conti dell’unità nazionale. Al teatro Alibert seicento romani offrirono un banchetto a trecento forestieri, invitati per l’occasione. Lì Ciceruacchio prese la parola e, con il calice in mano, improvvisò un inno che si concludeva così: “Evviva la provincia e Roma madre/evviva l’Italia con il santo Padre!”. Un’altra testimonianza della fede politica di Padron Angelo si trova al Museo della Patria: la sua giacca rossa, sulla quale è ricamata la scritta “viva Pio IX”. L’esuberante oste-tribuno fu invitato al Quirinale, allora residenza papale. Nel 1847, Ciceruacchio difese anche gli ebrei, quando Pio IX consentì loro di poter esercitare fuori dal ghetto le attività commerciali. Partecipò in prima persona all’abbattimento del muro che di fatto “imprigionava” gli israeliti. E nel 1847, quando il papa si recò in carrozza a Subiaco, Ciceruacchio l’accompagnò, alla testa di oltre cento popolani a cavallo. Ciceruacchio diventò così famoso che, nel gennaio del 1848, anche la marchesa Trivulzio di Belgioioso, partita da Milano alla volta di Roma per una missione politica per conto di Mazzini, volle incontrarlo, insieme ad alcuni rappresentanti della nobiltà e della cultura “rivoluzionaria”, ovviamente. Arriva il Quarantotto. Intanto l’Italia era approdata alle rivolte del Quarantotto. Ferdinando re di Napoli si vide costretto a concedere una Costituzione, imitato dal sabaudo Carlo Alberto e dallo stesso Pio IX. Milano insorse e con le sue Cinque giornate cacciò temporaneamente gli austriaci: le campane romane annunciarono l’evento e il governo pontificio arruolò volon-
Un sogno infranto: la Repubblica romana
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iceruacchio non fu l’unico a credere nella svolta liberale che nel 1846 sembrò accompagnare l’elezione del nuovo papa, Pio IX. Garibaldi, dal Sud America, scrisse una lettera al nuovo pontefice, in cui gli offriva la propria spada e i propri volontari. Il papa declinò l’offerta. Ma i garibaldini arrivarono lo stesso, a difendere
la Repubblica romana di Mazzini. All’armi! Il breve esperimento repubblicano era iniziato appunto con la fuga di Pio IX a Gaeta, il 15 novembre 1848. Ufficialmente cominciò il 9 febbraio 1849 e a guidarlo fu un triumvirato ispirato all’antichità romana, di cui fece parte lo stesso Mazzini. Ma il sogno durò poco.
A difendere Roma erano circa 1.200 legionari di Garibaldi, 600 bersaglieri comandati da Luciano Manara, reduce dalle Cinque giornate di Milano, e una schiera di ragazzi disposti al sacrificio, ma poco preparati. Presto si trovarono di fronte le truppe d’Oltralpe. Con i borbonici, i francesi erano accorsi a difendere il papa
che aveva nutrito le speranze di Ciceruacchio e di tanti altri romani. Sconfitti. Il generale francese Charles Victor Oudinot sbarcò a Civitavecchia il 24 aprile. Il primo attacco alle mura fu respinto e Garibaldi fermò i borbonici a Velletri. Contro i 30mila uomini e i 75 cannoni francesi, però, a giugno,
ci fu poco da fare. La presa del Gianicolo (3-4 giugno) diede un vantaggio fondamentale agli attaccanti francesi, che in una trentina di giorni assunsero il controllo di Roma. Mettendo fine a 5 mesi che, se si fossero trasformati in qualcosa di più, avrebbero potuto cambiare per sempre la storia del nostro Paese.
CURIOSITÀ
10TESORI
Acquistati nei mercatini per pochi soldi, si sono poi rivelati rarità e un affare d’oro per chi li ha rivenduti
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SPECCHIO LIBERTY, DI TIFFANY COMPR ATO PE R
$2
VALORE EFFETTIVO
VIDEOGAME D’ANNATA COMPR ATO PE R
$40
VALORE EFFETTIVO
$25.000
$50.000
Uno specchio in stile liberty “modello pavone” di Tiffany, dei primi del ’900, costato appena 2 dollari, ha fruttato al suo fortunato proprietario ben 25mila dollari, solo un paio di settimane dopo l’acquisto.
Spulciando in una garage sale (i mercatini organizzati per svuotare cantine e solai), un americano ha scovato alcuni videogiochi Nintendo del 1990 ancora imballati e ha deciso di comprare l’intera serie. Sul mercato dei collezionisti si sono rivelati un affarone.
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ANDY WARHOL PRIMA MANIERA COMPR ATO PE R
$5
VALORE EFFETTIVO
$2
MILIONI Un collezionista d’arte inglese li aveva comprati per 5 dollari in un mercatino di Las Vegas. Studiandoli, scoprì che uno di quei disegni era uno schizzo firmato da un giovanissimo Andy Warhol: si trattava del ritratto dell’attore Rudy Valee.
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I NEGATIVI DI ANSEL ADAMS COMPR ATO PE R
$45
VALORE EFFETTIVO
$200 MILIONI
Cercava una sedia da barbiere e invece al mercatino delle pulci di San Francisco trovò “solo” 2 scatole di negativi di foto dello Yosemite Park. Lui li acquistò perché erano belli. E fu la sua fortuna: sono del grande fotografo Ansel Adams (1902-1984). 88
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MASTER IN VINILE COMPR ATO PE R
$75
VALORE EFFETTIVO
$25.000 Paghereste un disco 25mila dollari? È quello che un collezionista ha sborsato per avere un raro vinile, una copia master del gruppo rock Velvet Underground. Chi lo ha acquistato per primo a New York non sapeva che in tutto il mondo ce ne sono solo 100 copie.
INASPETTATI 3
DICHIARAZIONE DI INDIPENDENZA COMPR ATA PE R
$3
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A cura di Federica Ceccherini
AZIONI DELLA COCA-COLA COMPR ATE PER
$5
VALORE EFFETTIVO
VALORE EFFETTIVO
$130 MILIONI
$477.000 L’aveva acquistata per soli 3 dollari e poi lasciata in garage per 10 anni. Fino a quando non ha scoperto che si trattava di un documento rarissimo: una delle 200 copie originali della Dichiarazione di Indipendenza degli Usa.
Il californiano Tony Marohn comprò una scatola con alcuni documenti per 5 dollari. Scoprì solo in seguito che, tra le altre cose, la scatola conteneva azioni della Palmer Oil Company, fusasi poi con la Coca-Cola, del valore oggi di 130 milioni di dollari.
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GAUGUIN E BONNARD IN CUCINA COMPR ATI PER
45.000
VALORE EFFETTIVO
,6 €35 MILIONI
Nel 1974 un operaio torinese comprò, per quelli che oggi sarebbero 200 euro, a un’asta delle Ferrovie, due tele rubate e poi abbandonate. Erano Donna con due poltrone di Pierre Bonnard e una natura morta di Gauguin (foto). Valgono oggi 600mila e 35 milioni di euro.
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VASO CINESE DEL 1000 D.C. COMPR ATO PE R
$3
VALORE EFFETTIVO
,2 $2 MILIONI
“Che affare!” avrà pensato l’uomo che per 3 dollari si era portato a casa una ciotola di porcellana finissima. Non era però solo un bel pezzo di antiquariato, si trattava di una rarità: una porcellana cinese di mille anni fa che gli ha fruttato oltre 2 milioni di dollari.
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CARTOLINA STORICA COMPR ATO PE R
$100
VALORE EFFETTIVO
$92.000 Nove giocatori e il loro manager: è la squadra di baseball dei Brooklyn Atlantics ritratta nel 1865. La cartolina era stata acquistata, in un mercatino del Maine (Usa), da un collezionista che nel 2013 l’ha rivenduta all’asta a quasi mille volte tanto. 89
GETTY IMAGES (2)
MEDICINA
Non chiamateli
SCEMI DI GUERRA 90
Pausa sigaretta Soldati francesi in uno dei rari momenti “sociali” all’interno di una trincea, nell’ottobre del 1915.
P
rima guerra mondiale, fronte francese. Nel mezzo di un combattimento un soldato balza sul bordo della trincea e comincia a muovere le mani in gesti ampi, come a dirigere la traiettoria dei proiettili che tempestano la sua postazione. “Tranquilli”, dice ai commilitoni che lo guardano sconvolti, “non vedete che qui è tutto finto? Il sangue è solo un trucco di scena. I morti li mettono di notte per spaventarci. Non capite che non c’è nessuna guerra?”. Scampato per miracolo ai tiratori nemici, l’uomo viene ricoverato in un ospedale da campo. Ad assisterlo c’è il giovane e sensibile infermiere militare André Breton, poeta. Sarà proprio il ricordo di questo soldato, che per reagire all’esperienza estrema della guerra aveva trasformato la realtà in un sogno, a ispirarlo quando nel 1924 fonderà uno dei più importanti movimenti culturali del Novecento: il Surrealismo. La guerra più folle. Oggi gli storici concordano: la Prima guerra mondiale fu veramente la più “surreale” di tutte. Spietata, disumana e traumatica come non ce ne sono mai state, né prima né dopo. «Fu la prima guerra industriale», spiega Andrea Scartabellati, storico triestino autore di Dalle trincee al manicomio (Marco Valerio editore). «Tecnologie belliche inedite lasciarono disorientati non solo i soldati, per lo più contadini costretti al fronte dalla coscrizione obbligatoria, ma anche gli alti ufficiali, le cui tattiche si rivelavano puntualmente fallimentari, traducendosi in massacri di massa».
Trauma da trincea
Ce n’era uno in quasi ogni famiglia. Erano l’eredità (a lungo rimossa) della Prima guerra mondiale: uomini tornati dal fronte sotto shock, con gravi disturbi mentali
Un soldato inglese trasporta un camerata ferito fuori dalla trincea durante la Battaglia della Somme (luglio 1916).
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Per questa ragione quella che non a caso sarà poi chiamata la “Grande guerra” fu combattuta per la maggior parte del tempo in trincee, cioè in fossati umidi, sporchi e stretti, dove i soldati restavano per settimane, continuamente sottoposti al rumore sordo dei bombardamenti e al sibilo dei proiettili. Anche quando non facevano nulla, vivevano in preda alla paura di quello che sarebbe potuto succedere da un momento all’altro. E non c’era via di fuga: uscire dalle trincee significava morte certa nel giro di pochi secondi. Valori ribaltati. «È dimostrato che il momento più drammatico della guerra non è quello dell’assalto, che pure è il più pericoloso, ma il logorio dell’immobilità, la tensione insopportabile dell’attesa», chiarisce Bruna Bianchi, studiosa della Grande guerra presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e autrice di La follia e la fuga (Bulzoni editore). Inoltre si verificarono almeno due situazioni che rappresentavano un rovesciamento dei valori bellici tradizionali e che contribuirono ad accentuare la mancanza di senso del conflitto. «La prima fu l’impossibilità di onorare i defunti: i soldati erano costantemente a contatto con cadaveri che si decomponevano e che non potevano seppellire», spiega la storica. «La seconda fu la sostituzione del mito del “buon soldato”, cioè dell’eroe pronto a combattere e a dare la vita per la patria, con un diverso modello di virilità: quello dell’uomo indifferente, insensibile, che non si fa impietosire dalla sofferenza e dalla morte». Un modello innaturale, come testimonia ciò che avveniva durante le tregue. Nei diari lasciati dai soldati di tutti i fronti ricorrono molti episodi di fraternizzazione con il nemico. La più nota è la tregua di Natale del 1914, quando sul fronte occidentale, da Ypres a Neuve Chapelle, truppe inglesi e tedesche si incontrarono nella “terra di nessuno” per scambiarsi auguri, regali, sigarette e indirizzi, con la promessa di reincontrarsi dopo il conflitto.
Sintomi mai visti. Il fatto che durante e dopo la Prima guerra mondiale migliaia di persone furono ricoverate per disturbi mentali oggi non stupisce affatto (v. riquadro sotto). Invece allora i medici non si raccapezzavano. Lo dimostrano i rari filmati di ospedali militari (che mostrano reduci estraniati e muti, che camminano come automi, con i muscoli irrigiditi) e le numerose cartelle cliniche, dalle cui fredde espressioni tecniche trapela il dramma di quei giovani. Si legge di “tremori irrefrenabili”, di “ipersensibilità al rumore”, di “stati permanenti di terrore, con estreme reazioni di difesa a stimoli di nessuna entità”, di “uomini inespressivi, che volgono intorno a sé lo sguardo come uccelli chiusi in gabbia”, che “camminano con le mani penzoloni e piangono in silenzio” o che “mangiano quello che capita, cenere, immondizia, terra”. In un manicomio delle retrovie fu accolto “un bersagliere che fu incaricato di seppellire i resti di alcuni soldati austriaci, fatti saltare da una nostra mina sul Carso. Di un tratto, terrorizzato dal macabro spettacolo, rimase come in catalessi con un arto nemico in mano. Da quel momento non parla più. Ha continue scosse e sussulti. Si fissa nel vuoto come se vedesse qualcosa di pauroso, e facendo poi un salto si nasconde sotto le coperte del letto”. “Shell shock”. Questi quadri clinici pressoché inediti suscitarono subito l’interesse degli psichiatri, specialisti allora emergenti (in Italia erano stati riconosciuti ufficialmente nel 1872 ed erano diventati molto influenti a partire dal 1904, grazie alla legge che istituiva i manicomi). Su Lancet, tra le riviste mediche più autorevoli, nel 1915 Charles Myers usò per la prima volta l’espressione “shell shock”, “shock da bombardamento”. Myers ipotizzava che le lesioni cerebrali fossero provocate dal frastuono dei bombardamenti oppure dall’avvalenamento da monossido di carbonio. Ma presto apparve chiaro che alla base di questi strani disturbi c’era qual-
GETTY IMAGES (2)
I soldati passavano settimane in trincee strette e umide, accanto a cadaveri che non potevano essere seppelliti
Metodi radicali Soldati Usa sbarbati prima di andare al fronte. Più a destra, una macchina che usava l’elettricità per curare le nevrosi di guerra, in un ospedale inglese (1917).
Dissociazione e alienazione: quando il trauma è permanente
O
gni specie animale, uomo compreso, possiede un sistema di difesa che si attiva per gradi di fronte a una minaccia: è quanto emerge dalla ricerca scientifica sui traumi. «In Homo sapiens, come in molti mammiferi, questo sistema si esprime con quattro tipi di risposte che gli inglesi iden92
tificano con le cosiddette “4 F”: fight (lotta), flight (fuga), freezing (“congelamento”, cioè immobilità rigida) e faint (perdita del tono muscolare)», spiega lo psichiatra Giovanni Liotti, autore di Sviluppi traumatici (Raffaello Cortina editore). Cumulativi. Le risposte patologiche sono più probabili
quando la minaccia viene perpetrata da esseri della stessa specie e soprattutto quando i traumi sono “cumulativi”, cioè continui, ripetuti, senza possibilità di sottrarsi. In questo caso non solo si attivano le misure più estreme (le ultime due “F”) ma l’attivazione può diventare permanente.
Una conseguenza frequente è il fenomeno della “dissociazione”, cioè il distacco dalla realtà, con la sospensione delle normali capacità di riflessione e ragionamento allo scopo di limitare la sofferenza. L’alienazione tipica di molti reduci della Grande guerra fa pensare a questo tipo di processo.
Merry Christmas Soldati tedeschi e inglesi si ritrovano nella “terra di nessuno” per festeggiare insieme durante la tregua di Natale del 1914.
MONDADORI PORTFOLIO
Il tempo non passa
PAUL THOMPSON/NATIONAL GEOGRAPHIC CREATIVE
Soldati francesi in una trincea del fronte franco-tedesco durante l’inverno del 1915.
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MONDADORI PORTFOLIO
Ritorno alla norma
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Sopra, la spilla di un centro di riabilitazione inglese per la cura di soldati affetti da “shell shock”. A destra, reduci in un analogo centro in Georgia (Usa) si dedicano al giardinaggio.
I medici, ritenendo che le nevrosi fossero simulate, usavano metodi crudeli come la “terapia elettrica”
Cara mamma...
AP/ANSAFOTO
Soldati italiani in prima linea a Doberdò (Gorizia). Tenere un diario o scrivere lettere ai familiari fu per molti un’importante strategia di sopravvivenza.
cos’altro, dal momento che i sintomi si manifestavano anche in persone che non si trovavano in prossimità di bombardamenti. Tra i primi a esprimersi in merito ci fu il neurologo francese Joseph Babinski. Nel 1917 attribuì i sintomi a fenomeni di isteria, disturbo che si riteneva diffuso solo tra le donne (isteros significa utero in greco). Suggerì quindi di curarlo come allora si trattava l’isteria femminile: con l’ipnosi. E in effetti i trattamenti talvolta funzionavano, nel senso che i sintomi scomparivano o si riducevano. Si diffuse perciò l’idea che questi quadri clinici fossero frutto di simulazioni, messe in atto per non combattere ed essere congedati. Il che diede il via libera all’accusa di “femminilizzazione” o di “omosessualità latente”, e a una serie di trattamenti di tipo decisamente punitivo, come le aggressioni verbali e le “faradizzazioni”, forti scosse di corrente elettrica alla laringe (in caso di mutismo) o alle gambe (in caso di immobilità). Degeneri. «Questa disciplina feroce fu messa in atto soprattutto in Italia, dove persistevano atteggiamenti ispirati alle idee di Cesare Lombroso, che classificavano il malato come un essere inferiore, un soggetto debole e primitivo», sottolinea Bruna Bianchi. «Inoltre, in un Paese in cui la leva era obbligatoria, non si voleva attribuire alla guerra la causa del disagio psichico: meglio sostenere che il conflitto contribuiva a rivelare devianze o degenerazioni in individui già predisposti. Un atteggiamento che non c’è stato, per esempio, in Gran Bretagna, dove c’era un maggior rispetto per i soldati, sia da parte delle istituzioni sia da parte dell’opinione pubblica». Nel nostro Paese invece, soprattutto dopo la disfatta di Caporetto del 1917, passò la tesi che le nevrosi fossero il frutto di iste-
ria e di cattiva volontà, e si cominciò a trattare i malati alla stregua di codardi che sfuggivano ai loro doveri di soldati. Dagli archivi spuntano descrizioni trionfali dell’efficacia dei trattamenti più drastici: in una cartella clinica si legge di un soldato in stato catalettico che, sottoposto alla terapia elettrica, cominciò a piangere copiosamente gridando “mamma mia! mamma mia!” e fu in grado di rispondere alle domande dei medici dimostrandosi orientato. Ritenuto guarito, fu prontamente rispedito al fronte. Dubbi. «Va detto», precisa la storica, «che nei documenti del primo dopoguerra trapela come gli psichiatri cominciassero a sospettare che la guerra fosse la vera causa di quei disturbi. Così come appare chiaro che la sospensione finale del loro giudizio fu la conseguenza di pressioni del governo, preoccupato che i bilanci statali non fossero in grado di farsi carico di eventuali indennizzi economici. Al contrario, in Gran Bretagna il 75 per cento degli 80.000 soldati accolti nei reparti psichiatrici ottenne una pensione di invalidità, così come molti dei 114mila uomini che crollarono dopo il conflitto». In Italia, invece, quella dei traumi psichici conseguenti alla Grande guerra fu una pagina presto chiusa e rimossa. E se circa 40.000 uomini con disturbi mentali finirono rinchiusi nei manicomi statali, una quantità ben più numerosa fece ritorno a casa e in quelle condizioni fu accolta dalle loro famiglie. Fu anche per prendere le distanze dal carico emotivo di quegli sguardi assenti e per poter ricominciare a vivere dopo il trauma collettivo dell’esperienza bellica che la gente prese a chiamare quei giovani uomini, chiusi per sempre in un silenzio inaccessibile, “scemi di guerra”. •
Marta Erba
Lo stress dell’american sniper
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o chiamavano “Leggenda”. Dopo avere ucciso almeno 160 nemici, il cecchino Chris Kyle (a sinistra) rientra dall’Iraq, ma non è più lui: si isola, si sente in colpa, non dorme più. I suoi sintomi, ben descritti nel film
American Sniper di Clint Eastwood, sono quelli del “disturbo post-traumatico da stress”, riscontrato in almeno il 17 per cento dei soldati impegnati in Afghanistan e in Iraq. I sintomi. Il disturbo è sempre esistito. Il primo caso lo riporta Erodoto: descrivendo l’ateniese Epizelo, reduce della Battaglia di Maratona. Ma è stato riconosciuto solo a partire dalla guerra
in Vietnam. Tre i sintomi principali: i flashback (continui ricordi intrusivi degli episodi traumatici), l’evitamento (la tendenza a evitare tutto ciò che ricordi il trauma) e l’hyperarousal (“iperattivazione permanente”): il reduce è in uno stato di ansia perenne, che gli impedisce di dormire, lo rende aggressivo e paranoico e più vulnerabile all’abuso di alcol, droghe e farmaci. 95
I GRANDI TEMI
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LA MAGNA GRECIA
I
l primo passo era una visita all’oracolo di Delfi, dove i sacerdoti di Apollo offrivano preziose indicazioni per scegliere la destinazione. Dopodiché, sotto la guida di un capo-spedizione, l’ecista (“fondatore”), gli uomini si imbarcavano speranzosi alla volta di quel “nuovo mondo” al di là del mare. Seguendo questo programma-base, a partire dall’VIII secolo a.C., molte poleis greche fondarono le loro colonie nelle regioni dell’Italia Meridionale (la “Grande Grecia” propriamente detta) e della Sicilia: insediamenti che conquisteranno la piena indipendenza dalla madrepatria e arriveranno a contare più abitanti della stessa Grecia. Dando vita a una civiltà che ha lasciato, a noi italiani, un’eredità unica al mondo. Pressione demografica. Ma perché quei Greci partirono? «All’inizio dell’VIII secolo a.C. la Grecia conobbe un rapido sviluppo economico che generò un’esponenziale crescita della popolazione: il territorio non bastava più a sfamare tutti, e così molti scelsero di emigrare verso la vicina penisola italiana», spiega lo storico dell’antichità Antonio Montesanti, autore di vari saggi sulla Magna Grecia, tra cui Terina: vittoria e leggenda (GB EditoriA).
BELLO MIGRANTI
IL DEI
A partire dall’VIII secolo a.C. genti elleniche attraversarono il mare e si stabilirono nell’Italia del Sud e in Sicilia. Dove seminarono la civiltà greca (facendosi spesso la guerra).
INTANTO NEL MONDO Lo conferma tra l’altro il fatto che protagonisti della colonizzazione erano di solito le fasce più disagiate della popolazione, quelle che non potevano permettersi terre o bestiame e che in quei viaggi verso l’ignoto vedevano la chance di un futuro migliore. Le spedizioni erano composte da soli uomini, che spesso prendevano in moglie un’indigena. Erano agricoltori, allevatori e artigiani, più raramente mercanti o intellettuali. Ogni flotta contava di solito due o tre navi con a bordo poche centinaia di persone. Presenze obbligatorie erano un maestro d’ascia e un velaio, figure indispensabili per garantire una navigazione sicura. Una volta raggiunta l’area prescelta (il santuario di Delfi era una sorta di “ufficio viaggi” in cui confluivano informazioni da tutto il Mediterraneo), essa veniva trasformata in un distaccamento della metropoli (che, letteralmente, vuol dire “città madre”) di origine, della quale venivano ereditati tutti i riti e le festività. Non solo: in molti casi i coloni si fermavano in zone con paesaggi simili a quelli di casa. Quel che cambiava erano gli equilibri sociali: nelle colonie si ripartiva tutti da zero, i terreni erano divisi in modo equo e le doti personali decidevano le sorti di ognuno.
MAGNA GRECIA E SICILIA 757 a.C. I Greci dell’Eubea fondano la polis di Kyme, odierna Cuma (Campania). 735 a.C. Con la fondazione di Naxos inizia la colonizzazione greca della Sicilia, o Trinacria. 734 a.C. Coloni da Corinto fondano Syrakousai, odierna Siracusa.
ALTRI PAESI
753 a.C. È l’anno della fondazione di Roma. 745 a.C. Il sovrano assiro Tiglatpileser III sottomette Babilonia. Procederà poi alla conquista di Damasco e di buona parte del Regno di Israele.
706 a.C. Coloni spartani fondano in Puglia la città di Taras, attuale Taranto.
Greci d’Italia
704 a.C. Aminocle di Corinto costruisce il primo modello di trireme. 660 a.C. In Giappone il leggendario condottiero Jimmu Tenno fonda l’impero.
Il tempio di Era a Selinunte (Trapani) risalente al VI secolo a.C. A sinistra, un efebo in bronzo ritrovato nella stessa zona.
NATIONAL GEOGRAPHIC
612 a.C. La città di Ninive, centro dell’Impero assiro, viene distrutta da Medi e Caldei. 580 a.C. Fondazione di Akragas (Agrigento) da parte di sicelioti di Gela.
510 a.C. L’esercito di Crotone conquista Sibari, sommergendola dopo aver deviato il corso di un fiume.
CULTURA
700 a.C. Esiodo scrive la Teogonia, opera base per la mitografia greca. 630 a.C. Nasce la poetessa greca Saffo di Lesbo, celebre per i suoi versi incentrati sulla passione amorosa.
590 a.C. Nasce Ciro il Grande, imperatore persiano della dinastia achemenide ricordato sia per i successi militari, sia per il rispetto mostrato verso le popolazioni sottomesse.
590 a.C. Il sovrano babilonese Nabucodonosor II fa costruire i giardini pensili di Babilonia.
535 a.C. A Roma sale al trono Tarquinio il Superbo. Dopo la sua morte si afferma la repubblica.
540 a.C. Milone, atleta nato a Crotone, vince la sua prima Olimpiade.
556 a.C. Nasce Gautama Buddha, filosofo e mistico indiano. 551 a.C. In Cina nasce il filosofo Confucio.
495 a.C. Ad Atene nasce Pericle.
530 a.C. Pitagora di Samo fonda a Crotone la sua scuola matematico-filosofica.
492-490 a.C. Si combatte la Prima guerra persiana. Vittoria greca a Maratona.
490 a.C. Ad Atene nasce Fidia, progettista del Partenone. 97
I GRANDI TEMI
LA MAGNA GRECIA
In Sicilia e sul continente fiorirono le arti: e il “made in Italy” veniva esportato
BRITISH MUSEUM/SCALA
Fra Tirreno e Ionio. I pionieri della colonizzazione greca in Italia salparono dall’isola di Eubea, nel Mar Egeo, e si fermarono attorno al 770 a.C. a Ischia. Qui è stata trovata una delle più antiche tracce della scrittura greca, incisa sulla cosiddetta Coppa di Nestore. Da lì sbarcarono poi sulla costa attorno a Napoli, a partire da Cuma. «Molto battute furono poi le coste ioniche, dove Greci del Peloponneso fondarono Crotone, Locri, Metaponto, Sibari e Taranto, l’unica colonia fondata ufficialmente da Spartani», prosegue l’esperto. «Le poleis ma-
Fieri guerrieri Cavaliere in bronzo del VI secolo a.C. trovato in Italia, oggi al British Museum di Londra. Le poleis della Magna Grecia e di Trinacria erano difese da eserciti di tutto rispetto.
gnogreche generarono in molti casi delle sub-colonie, creando un cosmo politico-culturale in cui sorse il concetto di Megàle Ellàs, espressione che apparve tra IV e II secolo a.C. con il significato di “Grande Grecia”; Magna per i Latini. La terminologia si estese poi a tutto il Sud dello Stivale, mentre la Sicilia era chiamata Trinacria (“tre punte”, data la forma triangolare)». Qui, a partire da Naxos, sorsero importanti città-Stato come Agrigento, Messina, Selinunte e Siracusa, le cui vicende storiche furono sempre connesse a quelle del resto del Meridione. Scienziati, artisti e campioni. Nelle città magnogreche, oltre a svilupparsi velocemente l’agricoltura, l’artigianato e i commerci (il loro grano si esportava verso i maggiori porti greci), si registrò da subito un notevole fervore culturale. I coloni edificarono biblioteche e scuole in cui si formarono i più grandi filosofi, letterati e scienziati del tempo. Il matematico Pitagora di Samo, per esempio, fondò a Crotone, attorno al 530 a.C., una scuola che divenne punto di riferimento anche per la Grecia. Decisivo fu il clima intellettuale che da Taranto, sotto il governo del filosofo e matematico Archita (428-360 a.C.), seguace di Pitagora, “contagiò” il resto del Sud Italia. Che attrasse come una calamita pensatori del calibro di Eschilo, Erodoto e Platone e che diede i natali a personaggi come Empedocle e Gorgia (nati in Sicilia), Parmenide e Zenone (nati in Campania). Per non parlare del siracusano Archimede (III secolo a.C.). Accanto alla scienza, fiorì l’arte, naturalmente di stampo ellenico: architettura (ovunque), pittura (insuperabile quella di Paestum), scultura in bronzo (soprattutto nella zona di Reggio Calabria) e ceramiche (a Taranto e altrove). Un “made in Italy” che veniva esportato in tutto il Mediterraneo. «Le colonie della Magna Grecia furono attive persino sul piano sportivo», dice Montesanti. «Inviavano atleti ai giochi olimpici che si tenevano in Grecia, cogliendo spesso quell’occasione per mostrare la loro superiorità sulle metropoli d’origine». Italioti e sicelioti – rispettivamente i Greci stanziati nel Sud Italia e in Sicilia – collezionarono successi in tutte le competizioni. Milone di Crotone (VI secolo a.C.) è considerato il più grande lottatore di sempre. E da primato furono anche gli eserciti di queste città, che si sfidarono tra loro per l’egemonia sui mari, ma affrontarono anche flotte straniere e se la videro persino con i Greci della madrepatria. Potenti tiranni. In effetti, la Magna Grecia fu una terra piuttosto inquieta e litigiosa. Come in Grecia, governi democratici e tirannici si alternavano con una netta preferenza per i secondi, come dimostra la potente Siracusa. «Fondata attorno al 734 a.C. da coloni giunti da Corinto, Syrakousai divenne presto una megalopoli da oltre 300.000 abitanti, più del doppio di quelli attuali, e legò la propria ascesa al succedersi di una serie di tiranni tra cui spiccò Dionisio I (430–367 a.C.)», spiega lo storico. «Il tiranno fece circondare la città di imponenti fortificazioni ed estese i propri territori oltre la Sicilia, assicurandosi il controllo delle rotte tirreniche e adriatiche. Nel far ciò risolse tra l’altro le tensioni sociali presenti in città, inviando nelle nuove colonie coloro che non digerivano il suo regime e “importando” forze fresche dalle poleis conquistate».
INTANTO NEL MONDO
in tutti i Paesi del Mediterraneo
480 a.C. Le forze militari di Siracusa e quelle di Agrigento sconfiggono i Cartaginesi nella battaglia di Himera.
Siracusa sfidò più volte le città della cosiddetta Lega Italiota (guidata da Crotone) e durante il V secolo a.C. si batté a lungo contro i Cartaginesi, a volte alleandosi con Agrigento (Akragas). Non solo. Tra il 415 e il 413 a.C. i Siracusani umiliarono le forze di Atene, che avevano tentato un attacco alla città. A Taranto, invece, governava un’aristocrazia oligarchica di stampo spartano, specializzata nell’attività bellica. In Puglia, però, più che conquistare terre i Greci dovettero contenere gli indigeni: dagli Apuli ai Lucani, dai Campani ai Sanniti. Il segno tangibile della potenza della Magna Grecia furono le monete, battute in proprio dalle poleis, come Sibari, in Calabria, dove sorse la prima zecca, e Terina, l’odierna Lamezia Terme. Ma quella grandezza era destinata a cedere il passo al nuovo astro nascente della Storia: Roma.
480 a.C. Battaglia delle Termopili tra Greci (sconfitti) e Persiani.
483 a.C. Nella colonia greca di Lentini nasce Gorgia, il più importante filosofo siceliota del V secolo assieme a Empedocle di Agrigento.
475 a.C. I Greci provenienti da Cuma fondano Neapolis, l’antico nucleo della città di Napoli. 474 a.C. Nella battaglia navale di Cuma, la flotta siracusana guidata da Gerone I sconfigge quella etrusca.
469 a.C. Ad Atene nasce Socrate. 431-404 a.C. Atene e Sparta si sfidano nella Guerra del Peloponneso, che vedrà trionfare gli Spartani. 390 a.C. I Galli Senoni, guidati da Brenno, mettono a sacco Roma.
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367 a.C. Muore il tiranno Dionisio I di Siracusa.
CORBIS
391 a.C. Dalla città campana di Atella viene importato a Roma un nuovo genere di commedia: l’Atellana. 377 a.C. Muore Ippocrate di Coo, considerato il fondatore della medicina.
336 a.C. Sale al trono Alessandro Magno, che conquisterà l’Impero persiano.
Quel che resta delle poleis L’acropoli di Selinunte (sopra) e il teatro greco di Siracusa (sotto) visti dall’alto. Entrambe sono oggi tra le mete turistiche più suggestive e visitate dell’antica Trinacria.
359 a.C. Filippo II diventa re in Macedonia, facendone una potenza di primo piano.
450 a.C. Muore il filosofo Parmenide, fondatore nella polis di Elea della scuola eleatica.
272 a.C. L’esercito romano conquista la potente polis di Taranto, evento che sancisce la sottomissione della Magna Grecia al potere di Roma.
214-212 a.C. Le forze militari romane assediano e alla fine prendono Siracusa. Una dopo l’altra, cadono tutte le città della Trinacria.
323 a.C. Morto Alessandro Magno, il suo impero viene smembrato e l’Egitto passa sotto il controllo di Tolomeo I. 225 a.C. Nella Battaglia di Talamone i Romani ottengono una decisiva vittoria contro un’alleanza di popolazioni celtiche.
287 a.C. Nasce Archimede di Siracusa. 247-221 a.C. Durante il regno del primo imperatore cinese Qin Shi Huang viene edificata la Grande Muraglia.
216 a.C. A Canne, in Puglia, i Cartaginesi di Annibale accerchiano e piegano l’esercito romano.
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I GRANDI TEMI
Tramonto al rallentatore. «A fermare lo sviluppo della Magna Grecia, già messa sotto pressione dai Cartaginesi, fu nel III secolo a.C. l’arrivo delle legioni romane, che sconfissero e soggiogarono una dopo l’altra le grandi poleis del Meridione così come i popoli italici presenti nell’area», avverte Montesanti. «Nel 272 a.C. fu piegata Taranto, mentre attorno al 212 a.C. cadde l’indomabile Siracusa, sottoposta a un lungo assedio durante il quale la difesa era coordinata dallo stesso Archimede». Secondo la leggenda, lo scienziato avrebbe utilizzato i suoi celebri “specchi ustori”, in grado di convogliare i raggi solari contro le navi nemiche fino a infuocarle. I Romani ebbero comunque la meglio e anche per Syrakousai iniziò il declino. Quello della civiltà magnogreca fu in ogni caso un tramonto parziale. La sua profonda eredità culturale – e in parte genetica – passò sia alle popolazioni italiche, sia al mondo romano. Un esempio per tutti: dopo la caduta di Taranto giunse a Roma il letterato tarantino Livio Andronico, che tradurrà nella lingua dell’Urbe i versi dell’Odissea di Omero, gettando le basi della letteratura latina. Impatto ambientale. Persino il paesaggio, dopo l’arrivo dei Greci, non fu più lo stesso. Anzi, furono loro a modellarlo trasfor-
Da Odessa a Cirene, le altre colonie
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ella loro ricerca di nuovi mondi da colonizzare i Greci non si limitarono alle coste italiane, ma spaziarono dal Mar Nero al Nord Africa, dalle coste francesi a quelle iberiche. Navigando qua e là. Tra le colonie del Mar Nero (tra VII e VI secolo a.C.), le maggiori furono Trapezunte (oggi Trebisonda, Turchia) e Odessos (odierna Odessa, Ucraina). Sulle rive del Bosforo sorse invece nel 659 a.C. Bisanzio. Navigatori instancabili, i Greci fondarono inoltre importanti centri lungo le coste orientali dell’Adriatico (come Epidamnos, attuale Durazzo, Albania) e nel Mediterraneo occidentale. Qui spiccò Massalia, odierna Marsiglia. Lungo le coste libiche, si distinse invece Cirene, fondata intorno al 630 a.C.
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mandolo in “paesaggio mediterraneo”, diffondendo gli ulivi (e l’olio). Ma non sempre l’impatto fu positivo. L’insediamento ionico di Metaponto, i cui resti archeologici si trovano oggi a centinaia di metri dalla costa, 2.500 anni fa era in riva del mare. Per soddisfare i crescenti bisogni alimentari della popolazione, i coloni disboscarono i terreni delle alture adiacenti trasformandoli in campi coltivati. Ma senza più alberi l’azione erosiva delle piogge innescò uno dei più antichi casi italiani di dissesto idrogeologico: i terreni franarono producendo l’avanzata della costa e l’impaludamento dell’area. «Al di là dell’impatto ambientale, italioti e sicelioti trasmisero importanti innovazioni nella costruzione degli edifici, nell’organizzazione delle città, nella lavorazione dei metalli e, soprattutto, nell’uso della scrittura alfabetica», precisa l’esperto. E il patrimonio che abbiamo ereditato dalla Magna Grecia, che a livello archeologico non ha nulla da invidiare al territorio greco, ha contribuito a fare dell’Italia uno dei luoghi più ricchi al mondo sotto il profilo artistico e architettonico. Benefici dell’immigrazione, che si sentono ancora, più di 2mila anni dopo. • Matteo Liberti
Facce da magnogreci Statuette votive in terracotta e (sopra) una moneta d’argento con l’effigie di Poseidone rinvenute a Paestum.
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LA MAGNA GRECIA
Nel 212 a.C. Siracusa cadde nelle mani dei Romani dopo un lungo assedio. Per difendere la città Archimede ideò (inutilmente) gli “specchi ustori”
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UN MUSEO A CIELO APERTO NELL’ITALIA DEL SUD Da Siracusa ad Agrigento, da Paestum a Cuma, i capolavori ancora visibili delle antiche città-Stato. ran parte dei lasciti artistici delle poleis greche nel Sud Italia è oggi conservata nel Museo nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria (dove si trovano anche i celebri Bronzi di Riace). Ma molto altro – soprattutto a livello architettonico – si trova invece en plein air, in importanti siti archeologici dichiarati in molti casi patrimonio dell’umanità Unesco. Il tempio di Atena (o Cerere) a Paestum.
❂ Agrigento La Valle dei Templi di Agrigento è uno dei parchi archeologici più celebri e vasti al mondo, grazie ai resti dell’antica Akragas, tra cui i templi della Concordia e di Giunone del V secolo a.C. ❂ Selinunte (Tp) Era la colonia più occidentale della Trinacria, tra Agrigento e Trapani. Ne restano suggestive vestigia in gran parte sull’acropoli a strapiombo sul mare (cinta ancora da possenti mura) e sulla collina orientale, con il tempio dedicato a Hera (VI secolo a.C.). ❂ Segesta (Tp) Città rivale di Selinunte fondata dagli Elimi (per gli antichi discendenti dei Troiani), conserva un tempio dorico e un grande teatro. ❂ Siracusa Tra i più vasti del Mediterraneo, il parco archeologico di Siracusa è celebre per il suo grande teatro, eretto nel V secolo a.C., rinnovato due secoli dopo e tuttora in uso. Nel cuore di Siracusa, sull’isola di Ortigia, spiccano invece i resti del più antico tempio dorico della Sicilia (VI secolo a.C.), dedicato ad Apollo, e quelli del mastodontico Tempio di Atena (V secolo a.C.), oggi inglobato nel duomo cittadino.
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❂ Cuma (Na) Fondata nell’VIII secolo a.C., è famosa per la Sibilla, sacerdotessa di Apollo la cui attività si svolgeva nel cosiddetto Antro della Sibilla, oggi meta prediletta dei turisti. A poca distanza da questo sorge l’acropoli, con le vestigia dei templi di Apollo e Giove. ❂ Paestum (Sa) Circondato in parte dalle originali mura greche (IV secolo a.C.), il sito è celebre per la sua area sacra in cui, tra VI e V secolo a.C., furono innalzati i maestosi templi di Atena, di Hera I e di Hera II o Poseidone. ❂ Elea-Velia (Sa) Nel cuore del Cilento, l’area archeologica di Elea-Velia (unione del nome greco e di quello romano) conserva le tracce della polis che diede i natali a Parmenide, filosofo maestro di Zenone e fondatore della scuola eleatica. Tra le vestigia spicca la Porta Rosa (IV secolo a.C.), un’arcata che collega due alture su cui si trovano gli edifici dell’acropoli. ❂ Capo Colonna (Kr) L’estrema punta orientale della Calabria deve il suo fascino a un’imponente colonna che fronteggia le acque dello Ionio e che è l’unica superstite tra quelle che sostenevano il mastodontico tempio di Hera Lacinia (VI secolo a.C.), circondato da strutture secondarie di cui sono visibili i resti.
Antefissa con testa di divinità, da Agrigento.
❂ Metaponto (Mt) Il sito si sviluppa attorno a un’area sacra che presenta le vestigia di molteplici templi e che è separata da un antico muro dalla zona dell’agorà, dove vi sono i resti del teatro della polis (IV secolo a.C.). Fuori dallo spazio sorge invece un enorme tempio dedicato a Hera (VI secolo a.C.), gran parte delle cui colonne è tuttora in piedi. ❂ Taranto Nel cuore di Taranto, nata come colonia spartana di Taras, sorge il più antico luogo di culto della Magna Grecia, o meglio quel che ne resta: un grande basamento sovrastato da due enormi colonne doriche dal diametro di oltre due metri, un tempo a sostegno del cosiddetto Tempio di Poseidone (VI secolo a.C.).
❂ Locri Epizefiri (Rc) Seppur scavato solo in parte, il sito di Locri Epizefiri presenta numerosi resti di templi, tra i quali spiccano quelli del santuario di Marasà (VII-V secolo a.C.). Di notevole fascino sono inoltre le vestigia di un grande teatro risalente al IV secolo a.C. e modificato successivamente, in epoca romana.
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Il teatro di Segesta (Trapani).
Splendida mostruosità Gorgone alata, oggi al museo archeologico di Siracusa.
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NAZIONI
CONFINI PAZZI “Scrivere la Storia vuol dire incasinare la geografia”: parola dello scrittore francese Daniel Pennac. Che sia così, lo dimostra una serie di bizzarrie: dall’isola in comproprietà alla camera d’hotel extraterritoriale, ecco le più curiose.
A cura di Achille Prudenzi
Una capitale a termine Sainte-Adresse
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Un giardino di Sainte-Adresse dipinto nel 1867 da Claude Monet.
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ainte-Adresse, vicino a Le Havre, è un paesino francese di circa 8mila abitanti. Un secolo fa era una meta della mondanità internazionale: per quattro anni, infatti, fu la capitale del Belgio. Al sicuro. Nell’agosto del 1914, quando i tedeschi invasero il piccolo Paese cuscinetto, il re belga Alberto I e il suo governo furono costretti ad abbandonare Bruxelles. Ma dove riparare? La Francia propose ai vicini di scegliere una città del proprio territorio in cui stabilirsi. E i belgi chiesero SainteAdresse, a patto che i francesi accordassero l’extraterritorialità, ovvero cedessero la sovranità su quella che diventava a tutti gli effetti una città belga. L’accordo si fece e nell’ottobre 1914 a Le Havre sbarcarono i notabili belgi, accolti come eroi dalla popolazione locale. Il re Alberto tuttavia rimase sempre nella città di La Panne, sulla costa
belga, per difendere di persona i pochi chilometri quadrati del suo Paese non invasi. Il primo consiglio dei ministri belga a Sainte-Adresse si svolse il 3 novembre 1914. Poste e telegrafi. Per permettere ai belgi di affermare che la loro nazione esisteva ancora, nonostante l’occupazione tedesca, ogni mattina nella corte del ministero della Guerra veniva issata la bandiera belga. In città apparvero anche un ufficio postale belga e varie cassette delle lettere rosse, come si usavano in patria. A fine conflitto, il Belgio riprese possesso del suo territorio e Sainte-Adresse tornò francese. A ricordare quel periodo sono oggi una statua di Alberto I, targhe commemorative e una cassetta delle lettere: rossa, ma ormai acquisita dalle poste francesi.
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Kobane
Sotto, soldati turchi alzano la bandiera nell’area della tomba di Suleyman Shah dopo il blitz in Siria, a febbraio.
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o scorso febbraio un blitz militare turco è penetrato per alcuni chilometri nel territorio siriano controllato dall’Isis. La missione della colonna di circa 100 blindati e carri armati era mettere in salvo la tomba di Suleyman Shah (1178-1236), nonno del fondatore della dinastia ottomana Osman I. L’operazione, conclusa in poche ore e costata la vita a un militare turco, mirava all’exclave turca (cioè un’area turca totalmente isolata all’interno di un’altra nazione, in questo caso la Siria). Lì era infatti conservata la “reliquia” ottomana. Dove c’è la tomba. A essere extraterritoriale, in questo caso, è la tomba stessa, più che il territorio. Il tutto in virtù del Trattato di Ankara, firmato nel 1921, dopo la nascita della nuova Turchia di Atatürk, all’indomani del dissolvimento dell’Impero ottomano a causa del conflitto mondiale. L’articolo 9 di quel trattato recita: “La tomba rimarrà, con le sue spettanze, proprietà della Turchia, che potrà nominarne guardiani e potrà impiegare lì la sua bandiera”. Di fatto, dove si sposta la tomba (rimasta in Siria, ma nei pressi della città di confine Kobane), lì è Turchia. Ma solo per i turchi, visto che gli altri Stati non riconoscono questo principio.
Un’isola in multiproprietà
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Isola della Conferenza (in origine dei Fagiani) si trova nei Paesi Baschi ed è un caso unico al mondo. Dal 1° febbraio al 31 luglio è amministrata dagli spagnoli, dal 1° agosto al 31 gennaio dai francesi. Situata in mezzo al Bidassoa, un fiume che segna la frontiera tra la Francia e la Spagna, è più piccola di un campo da calcio, non ha abitanti ed è contraddistinta da Isola della un’abbondante vegetazione. Allora come mai Conferenza questa spartizione? Per la sua posizione, che la rende ideale per ogni tipo di transazione. Scambi. Sull’isola avvenne, nel 1615, lo scambio di due “infante”: quella francese, promessa sposa del futuro Filippo IV di Spagna, e quella spagnola, promessa a Luigi XIII di Francia (allora fanciullo e sottoposto alla reggenza di Maria de’ Medici). In alto, incisione Nel 1659 sull’isola si tenne poi la conferenza per negoseicentesca con ziare il Trattato dei Pirenei. Che prevedeva l’ennesimo l’isola basca, patto matrimoniale: le nozze tra Luigi XIV e Maria Teresa. luogo di incontro Dopo quella firma, l’isola ormai detta “della Conferenza” e di pace tra rimase in comproprietà. E dal 2012 è stata istituita una Francia e Spagna. cerimonia militare che celebra l’alternanza di sovranità.
Il Regno in una stanza
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La tomba della discordia
l 17 luglio 1945, mentre si apriva la Conferenza di Potsdam per definire confini e spartire in zone di influenza la Germania, il primo ministro inglese Winston Churchill creò la più piccola ed effimera Hotel exclave della Storia: la suite 212 dell’Hotel ClaClaridge’s ridge’s a Londra, dichiarata territorio iugoslavo per un giorno. Per il nascituro. La stanza ospitò il re Pietro II di Serbia, costretto all’esilio dopo che i tedeschi avevano invaso il suo Paese, e la moglie del sovrano, in stato di avanzata gravidanza. Proprio quello era il motivo dell’improvvisa extraterritorialità della suite 212: il principe Alessandro, erede al trono, Sotto, re Pietro nato quel 17 luglio, doveva venire alla luce in territorio II di Serbia a iugoslavo per poter aspirare alla successione. Londra dopo Ma il gesto rappresentava soprattutto un riconoscimenl’invasione to simbolico, da parte del Regno Unito, verso un sovrano tedesca del suo calpestato dalla Storia, che si era rifugiato lì perché i reali regno (1943). inglesi erano imparentati con la sua famiglia. Non che Churchill simpatizzasse per l’esiliato. Al contrario, per garantirsi la sua lealtà verso il Regno Unito, sin dal 1941 aveva fatto sorvegliare il sovrano balcanico. In ogni caso, Pietro non tornò mai nel suo Paese. Alla fine del 1943 gli Alleati decisero di non rimetterlo sul trono, lasciando la Serbia alla Iugoslavia del comunista Tito. Nel 1947 i beni del re furono confiscati e Pietro morì poi negli Stati Uniti. 103
Un villaggio per due
Paesi Bassi Belgio
Nel villaggio di Baarle, conteso tra Paesi Bassi e Belgio, c’è una casa con porta di ingresso a cavallo della frontiera: ha un indirizzo belga e uno olandese
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iù che un mosaico, è un rompicapo: il villaggio di Baarle è composto da una parte belga e da una olandese. La prima, Baarle-Hertog, consiste di quattro aree dentro i confini del Belgio e di 22 “exclave” a Baarle-Nassau, la zona olandese di Baarle. La quale, a sua volta, include una parte principale e otto “sotto enclave” nelle 22 parti belghe di Baarle-Hertog. Matassa. Il groviglio nacque nel 1843, quando un trattato stabilì la linea di confine tra Olanda Baarle e Belgio, da poco un regno indipendente. A quell’epoca, Baarle era divisa a nord in una regione olandese e a sud in una belga. Invece che tenere conto di quella situazione, ognuna delle 5.372 porzioni territoriali del catasto fu singolarmente attribuita all’uno o all’altro Paese, sulla base di antichi documenti del 1198 relativi a quelle proprietà, senza chiedere il parere degli abitanti. I quali, a loro volta, ne approfittarono. Nel 1953 un contadino, giocando con le legislazioni dei due Stati, aprì un casinò, cosa vietata in Olanda ma non in Belgio. Solo nel 1995 i confini furono tracciati in maniera definitiva. Baarle oggi ha due consigli municipali, due poste, due polizie, due reti elettriche, due sistemi di numerazione delle case. I confini attraversano però strade, negozi e case.
Nella cartina, le aree belga e olandese a Baarle-Hertog. Nella foto, un caffè a BaarleNassau: le croci rappresentano il confine tra le due nazioni.
Il richiamo della foresta
territori dell’Alsazia e della Lorena sono stati a lungo contesi tra Francia e Germania. Per questo, dopo due guerre mondiali, si è dovuto attendere fino al 1984 per risolvere il contenzioso sui 679 ettari della foresta dell’Obermundat. Il dissidio risale al Medioevo, quando i re dei Franchi donarono all’Abbazia di Wissemburg quella foresta, preziosa per il suo legname e la cacciagione. In seguito, l’abbazia rimase francese. Finché, dopo la rivoluzione scoppiata nel 1789, le sue terre passarono al comune tedesco di Wissemburg. Da allora in poi, per 150 anni, quei territori passarono a una o all’altra nazione a seconda delle vicende belliche. Tira e molla. Sul finire degli anni Trenta, la Francia decise di sbarazzarsi di quel terreno e di venderlo ai vicini, per oltre un milione di marchi. Finita la Seconda guerra mondiale, però, la Germania era stremata e in miseria, e non saldò il conto. A quel punto la Francia, che aveva già ottenuto l’Alsazia e la Lorena, chiese anche le terre di Wissemburg. Ma ne ottenne soltanto una parte. Compromesso. Quando, nel 1962, si decise di mettere fine alla vicenda, il parlamento tedesco rifiutò di ratificare l’accordo. La Germania aveva già perso molti territori e non voleva cederne altri. Nel 1984, in cambio della promessa di un indennizzo per gli alsaziani arruolati a forza dai tedeschi, la Francia riconobbe alla Germania la sovranità sulla foresta dell’Obermundat, dove però Parigi mantiene (dal 1990) una proprietà fondiaria.
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Wissemburg
Banchetto con il principe arabo Faysal e l’ambasciatore inglese a Gedda, in Arabia Saudita, nel 1930.
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Sopra, l’Abbazia di Wissemburg, a cui in origine i Franchi donarono la foresta dell’Obermundat.
Madha
La guerra degli stop
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A sinistra, Llivia, in Catalogna. Sotto, guardie francesi e soldati spagnoli nel 1939, sul confine.
Llivia
te) Llivia alla Spagna. Da allora i suoi abitanti (attualmente circa 1.500) possono recarsi in patria usando una strada francese riservata. Declassata. Nel 1973 la Francia decise di declassare quella strada da “nazionale” a “dipartimentale”, mettendo lungo il suo percorso alcuni segnali di stop, per agevolarne l’attraversamento. Gli spagnoli iniziarono a boicottare l’intrusione facendo sparire i cartelli: un numero indefinito di stop fu vittima di quella strana ripicca. La soluzione? Un nuovo svincolo realizzato nel 1983, che tiene separate le due viabilità, quella di pertinenza spagnola e quella francese. GETTY IMAGES (3)
ra il 1973 e il 1983 a Llivia, enclave spagnola sui Pirenei francesi che i Romani chiamarono così in onore della terza moglie di Augusto (Livia), si è combattuto uno strano conflitto: la “guerra degli stop”. Contesa antica. L’ostilità ha radici lontane. Nel 1528, al termine di una lunga contesa tra francesi e spagnoli per il controllo della cittadina, in posizione strategica, Llivia diventò iberica e l’imperatore Carlo V, ripercorrendo le tracce dei Romani, le attribuì lo status di “città”. Sul momento, la cosa non ebbe conseguenze. Finché, 131 anni dopo, il re francese Luigi XIV e il suo collega spagnolo Filippo IV siglarono la Pace dei Pirenei. All’articolo 42, il trattato prevedeva la condivisione tra i due Paesi di alcuni “villaggi” posti nella regione di confine della Cerdagne. I villaggi, appunto. E le città? Il trattato non ne faceva menzione. Così, i commissari incaricati di applicare gli accordi lasciarono (arbitrariamen-
Vittime (si fa per dire) del petrolio
O
sservando una carta geografica degli Emirati Arabi, si può notare, a est, un microscopico possedimento straniero. È la città di Madha, enclave del vicino Sultanato dell’Oman nella Penisola del Musandam. Ma non basta. L’enclave ospita al suo interno una exclave degli Emirati: il villaggio di Nahwa. La spiegazione di questa “scatola cinese”? Il petrolio. Spartizioni. Tutto iniziò nei primi decenni del Novecento, quando il ritrovamento dell’oro nero nella regione risvegliò l’interesse delle potenze internazionli per la Penisola Arabica. La Gran Bretagna aveva
già un protettorato, quello degli “Stati della Tregua”, una serie di emirati sorti nell’Ottocento. Ampie zone desertiche erano rimaste però senza padroni: la sabbia non faceva gola a nessuno, allora. Dopo la Prima guerra mondiale, però, quando ormai si sapeva che sotto il deserto c’era l’oro nero, la famiglia al-Saud estese le sue conquiste. Il Regno Unito, per non perdere l’opportunità di sfruttare quei giacimenti, offrì alla famiglia il riconoscimento formale in cambio del rispetto dei confini del proprio protettorato. I sauditi accettarono e nel 1932 nacque l’Arabia Saudita.
Di qua o di là. Restavano però alcune aree non assegnate. Quando si chiese agli abitanti di Madha (dei quali non importava a nessuno) da chi volessero essere protetti, loro scelsero il sultano dell’Oman, che garantiva il prezioso accesso all’acqua potabile. Il piccolo villaggio di Nahwa si legò invece agli Stati della Tregua, che nel 1971 presero il nome di Emirati Arabi Uniti. Oggi i palazzi moderni del villaggio di Nahwa contrastano con la città di Madha: la situazione riflette le disparità economiche tra i ricchi Emirati e il più povero Oman, dove il petrolio scorre meno copioso.
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Altona
Le peregrinazioni di Altona
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ulla sponda destra del fiume Elba, una parte della città tedesca di Amburgo corrisponde a un’antica cittadina danese: Altona. Secondo la leggenda, alcuni amburghesi decisero nel Medioevo di dare vita a un nuovo insediamento nel luogo in cui fosse caduto un loro compagno, appositamente bendato. Ma l’uomo percorse una distanza così ridotta da fare esclamare loro: “das is all-tonah”, “è troppo vicino”. Frase che diede il nome alla città. Fuor di leggenda. Tradizioni a parte, pare che Altona sia nata
come villaggio di pescatori nel 1535, diventando in poco più di un secolo la seconda città portuale in Danimarca. Nel 1664 il re danese Federico III le concesse lo status di città e molti ebrei di Amburgo, lì discriminati, vi si trasferirono. Da allora fino all’Ottocento la danese Altona rimase uno dei principali centri ebraici d’Europa (a sinistra, un decreto antisommossa del 1687). Nel 1864 la città venne però ceduta agli austriaci, che tre anni dopo la passarono a loro volta al Regno di Prussia. Nel 1937 Altona divenne infine uno dei distretti della vicina città tedesca.
Altona, quando era danese, accolse molti ebrei in fuga da Amburgo. Oggi è un distretto tedesco, e vanta uno dei cimiteri ebraici più vasti in Europa Sant’Elena: il prezzo della memoria
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Eccezione. Per preservare la memoria del “gran còrso”, pochi anni più tardi Luigi Napoleone Bonaparte, ovvero Napoleone III, chiese di acquistare dal governo britannico la dimora di Longwood e la Valle della Tomba. Non fu semplice. La vendita di terre britanniche a una potenza straniera era teoricamente vietata. Ma la regina Vittoria e Napoleone III andavano d’accordo al punto di diventare alleati nella Guerra di Crimea. E il 7 maggio 1858, in deroga alle leggi del regno, il
governatore di Sant’Elena autorizzò la vendita delle due proprietà al prezzo di 7.100 sterline. Donazione. Ai possedimenti francesi di Sant’Elena si aggiunse nel 1959 il Pavillon de Briars, il luogo dove inizialmente aveva soggiornato Napoleone I. In questo caso si trattò di una donazione di Mabel Brooks, discendente della famiglia Balcombe, i padroni di casa di Napoleone oltre un secolo prima.
Sant’Elena
Turisti a Longwood House, dimora di Napoleone a Sant’Elena, dal 1858 territorio francese. CORBIS/CONTRASTO
isola atlantica di Sant’Elena è nota per aver fatto da sfondo al secondo esilio di Napoleone, che vi morì il 5 maggio 1821. Pochi sanno che sull’isola (territorio d’Oltremare del Regno Unito), la Francia possiede circa 15 ettari di terreno, che includono la residenza dell’imperatore deposto (Casa Longwood), il Pavillon de Briars e la cosiddetta Valle della Tomba, che ospitò le spoglie di Napoleone fino al 1840, quando il re Luigi Filippo ne ottenne la traslazione a Parigi.
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