Storia SCOPRIRE IL PASSATO, CAPIRE IL PRESENTE
n°107
MENSILE – Austria, Belgio, Francia, Lussemburgo, Portogallo, Spagna � 8 - Germania � 11,50 - Svizzera CHF 10,80 - Svizzera Canton Ticino CHF 11,40 - Canada CAD 11,50 - USA $ 11,50
Yamato
1945: la regina delle corazzate diventa kamikaze
LUOGHI PERSONAGGI CREATURE
I PIU GRANDI
TATUAGGI
L’arte di incidersi il corpo. Dalla mummia di Ötzi a Winston Churchill
MISTERI SVELATI
Roma crudele Le congiure di Lucilla, figlia, moglie e sorella di imperatori
SETTEMBRE 2015 � 4,90 in Italia
Sped. in A.P. - D.L. 353/03 art.1, comma 1, DCB Verona
ISOLA DI PASQUA LE AMAZZONI IL TESORO DEL DUCE LA MASCHERA DI FERRO LA SINDONE DI TORINO... FOTOROMANZI
ALTRO CHE SERIE TV! NEL DOPOGUERRA FECERO SOGNARE GLI ITALIANI
NORDISTI & SUDISTI LE VERE CAUSE DELLA GUERRA CIVILE CHE INSANGUINÒ L’AMERICA
MALEPAROLE
LE PAROLACCE ERANO GIÀ NEL VOCABOLARIO DI EGIZI, GRECI E ROMANI
È IN EDICOLA IL NUOVO FOCUS STORIA COLLECTION
LE INVASIONI BARBARICHE
Goti, Longobardi, obardi, Franchi, Vichinghi: le storie delle popolazioni venute dal nord, guerriere e primitive, che fecero dell’Italia una terra di razzìe e misero sotto assedio Roma, ma anche le gesta dei grandi generali che provarono a fermarli fino al fatidico 476, il capolinea per l’Impero romano. E infine il vero erede di Roma: il cristianesimo e la nascita dell’Europa moderna all’alba del Medioevo. Tutto in un nuovo imperdibile numero da collezione!
FOCUS STORIA COLLECTION. STORIA E STORIE DA COLLEZIONE. Disponibile anche in versione digitale su:
107 settembre 2015
focusstoria.it
Storia
“T
Jacopo Loredan direttore
IN PIÙ...
12 IlANTICHITÀ tradimento di Lucilla
Figlia e moglie di imperatori, tentò di fare uccidere il fratello Commodo. Per paura di perdere potere.
LEEMAGE/MONDADORI PORTFOLIO
utti i libri di Storia che non contengono menzogne sono mortalmente noiosi”, scriveva Anatole France, premio Nobel per la letteratura 1921. Una certa dose di invenzioni e di fantasia, sosteneva infatti lo scrittore francese, è necessaria per rendere digeribile l’aridità dei fatti. Ma, come vedrete in questo numero del giornale, è vero anche l’opposto: risultano altrettanto affascinanti le ricerche storiche che svelano la verità, quella nascosta dietro i miti (e, perché no, le menzogne) del passato. A che cosa servivano le pietre di Stonehenge? Dove vivevano le Amazzoni? Da dove arriva la Sindone di Torino? È esistito lo yeti? I Maya sapevano scrivere? Che fine ha fatto l’oro di Dongo? Seguiteci in questa cavalcata estiva attraverso i misteri più coinvolgenti di ogni epoca. E le loro sorprendenti spiegazioni.
18 LaNOVECENTO corazzata In un’opera del ’400, Artù e i suoi cavalieri: ma quel re è realmente esistito?
DIETRO LA STORIA 34 Le Amazzoni svelate
Dietro al mito c’erano le guerriere delle steppe asiatiche. Esistite davvero.
40
Misteri precolombiani Inca, Aztechi, Maya: gli enigmi risolti dagli archeologi (e quelli irrisolti).
46 Il sudario della discordia
La versione degli storici e degli scienziati sulla Sacra Sindone.
52
Archeoindagini I misteri svelati (o quasi) sui più discussi siti e reperti archeologici.
58 Smascherati
R UBRICHE 4 LA PAGINA DEI LETTORI
Dall’antichità in poi, i “gialli” e i personaggi avvolti nel mistero.
62
6 NOVITÀ & SCOPERTE
8 TRAPASSATI ALLA STORIA
Veri mostri Sono nel nostro immaginario, ma che cosa nascondono certe leggende?
9 AGENDA
64
10 MICROSTORIA 76 PITTORACCONTI 78 DOMANDE & RISPOSTE
Codice segreto Chi ha redatto (e perché) il Manoscritto Voynich? Risponde la matematica.
68
80 CURIOSARIO 81 SCIENZA & SCIENZIATI
CI TROVI ANCHE SU:
Il tesoro del duce Ecco che fine hanno fatto i beni sequestrati a Mussolini a Dongo nel 1945.
110 FLASHBACK In copertina: una regina amazzone e le colossali statue dell’Isola di Pasqua. BRITISHMUSEUM/SCALA, GETTY IMAGES
kamikaze
La giapponese Yamato e la sua missione suicida del 1945.
INQUINAMENTO 24 Impronta sapiens
sull’ambiente Come l’uomo con l’agricoltura ha plasmato la Terra.
QUOTIDIANA 26 VITA Maleparole
Il turpiloquio è vecchio quanto la Storia, ma nei secoli è cambiato.
GRANDI TEMI 84 Nordisti contro
sudisti
La guerra civile che nell’800 ha spaccato in due gli Stati Uniti.
COSTUME 92 Telenovelas
di carta
Nel Dopoguerra, i fotoromanzi fecero sognare milioni di italiani. Ecco perché.
D’ITALIA 98 IlSTORIE treno
della morte
3 marzo 1944: in Basilicata, la nostra più grande tragedia ferroviaria.
102 30MODEsecoli di tatuaggi
L’antichissima pratica, da simbolo di ribellione a body art. 3
LA PAGINA DEI LETTORI Inviateci opinioni, idee, proposte, critiche. Pubblicheremo le più interessanti oltre a una selezione dei commenti alla nostra pagina Facebook. (www.facebook.com/FocusStoria). Scrivete a Focus Storia, via Battistotti Sassi 11/a, 20133 Milano o all’e-mail
[email protected]
Ritengo che questo avvenimento, oltre che a me, sia sconosciuto a molti vostri lettori, e potrebbe essere oggetto di un prossimo numero della vostra rivista.
Dipinto ottocentesco che raffigura uno scontro navale del 1751. Lo specifica un lettore.
BRIDGEMANART/MONDADORI PORTFOLIO
Nando Cilimbini, San Benedetto Po (Mantova)
Pirati e veneziani Desidero fare una precisazione in merito all’articolo “Adriatico segreto” (Focus Storia n° 105). Alle pagine 86-87 è raffigurata una battaglia navale, che la didascalia illustra come “uno scontro fra navi ottomane e imbarcazioni saracene”. In realtà si tratta di un olio su tela del 1823, dipinto dal veneziano Vincenzo Chilone, che rappresenta lo scontro navale, avvenuto al largo di Patrasso nel 1751, fra una flotta di corsari barbareschi e i dalmato-veneziani, guidati dal
capitano montenegrino Marko Ivanovic. Il dipinto è conservato presso il Museo Marittimo di Kotor (Cattaro), in Montenegro. Giovanni Antonio Nigro
Gli italiani dell’Armata Bianca Di recente ho visto un documentario su Rai Storia che trattava della guerra civile russa, combattuta dall’Armata Rossa contro gli Eserciti Bianchi, con la partecipazione di contingenti stranieri, che accennava alla presenza di soldati italiani.
La sua lettera è arrivata mentre stava uscendo in edicola il numero 104, con uno speciale dedicato ai fatti del 1915. Tra gli articoli di quel numero, uno ricostruiva l’epopea della Legione Redenta, un contingente di italiani sudditi dell’Austria che durante il conflitto si trovarono poi a combattere a fianco dell’Armata Bianca nella guerra civile russa, inquadrati con altri italiani nel Corpo di Spedizione italiana in Estremo Oriente, di stanza a Tientsin (Cina). La loro vicenda, in effetti poco conosciuta, si concluse nel 1920 con il rientro in Italia.
Le imprese di Mastro Titta Vorrei sottoporvi un’idea (chiamiamola così) per un possibile articolo o una serie di articoli: personalmente, sono molto incuriosito
dalla figura di Giovanbattista Bugatti, il famoso Mastro Titta, “boia” dello Stato Pontificio dalla fine del diciottesimo secolo fino a poco prima della Breccia di Porta Pia. Le notizie circa questo personaggio dall’esistenza (evidentemente) particolare, scarseggiano. Mi spiego meglio: la ricostruzione della sua vita si basa per lo più sulle note nonché “false” sue memorie, che ho in buona parte letto. È possibile, mi chiedo e vi chiedo, riuscire a sapere qualcosa in più circa la sua vita privata o comunque qualcosa in più rispetto all’elenco delle condanne da lui eseguite? Valerio Trento
A Mastro Titta abbiamo dedicato un articolo in passato, nel 2011. Allora avevamo riportato il dato di oltre 500 esecuzioni capitali avvenute sotto la sua supervisione. In quell’articolo si spiegava che l’autobiografia postuma (Mastro Titta, il boia di Roma: memorie di un carnefice scritte da lui stesso, pubblicata nel 1891) fu in realtà scritta da un anonimo (probabilmente anti-
Dai lettori le soluzioni per una data misteriosa
1
Vi segnalo un’imprecisione nella didascalia “Caro vescovo, ti scrivo (e denuncio)” a pagina 60 sul n° 106 di Focus Storia. Se la lettera è quella mostrata in fotografia (a destra), entrambe le date presunte della missiva sono errate. Quella del 1792 è addirittura anacronistica, giacché il francobollo sarebbe stato inventato soltanto nel 1840 in Inghilterra (il famoso Penny Black). Tuttavia, anche la data del 1892 non è quella corretta e questo 4
si evince osservando la coppia di francobolli apposti sulla busta. Le effigie sono di Vittorio Emanuele II e il francobollo sembra essere il 10 centesimi giallo ocra della Tiratura di Torino in vendita dal
gennaio 1866 (T14 nel Catalogo Sassone). La validità di questo francobollo è durata fino al 31 agosto del 1877, quando fu sostituito da un esemplare azzurro. Il tipo di tariffa (20 cent.) e annullo restringe ulteriormente la data della denuncia al vescovo tra l’1 gennaio 1865
e l’aprile 1867, intervallo in cui presumibilmente la lettera è stata spedita. Giuseppe Donatiello, Oria (Brindisi)
2
Vi scrivo a proposito del riquadro di pagina 60 (Focus Storia 106). La lettera, indirizzata al vescovo di Patti (in provincia di Messina), di cui riportate uno stralcio fotografico, è verosimilmente del 1892: in essa un prete è definito “di principi atei, socialisti e comunisti” – il che consente di
Caro diario... del 1860 Sono il possessore unico di un diario scritto a mano da un mio avo nel 1860 che racconta, giorno per giorno, tutte le vicissitudini accadute in quell’anno specifico. Credo che il mio paese in quel periodo facesse parte
della Terra di lavoro e vicinissimo allo Stato pontificio. Credo che il documento sia interessante per capire come si viveva al confine tra Stato Pontificio e Regno di Napoli prima dell’Unità d’Italia. Fabio Pagliaro, San Giorgio a Liri (Fr)
Ringraziamo il lettore per aver voluto condividere con noi il prezioso diario del suo avo. Purtroppo però la decifrazione del testo appare lunga e difficile. Lo segnaliamo comunque, vista la qualità e la rarità del documento. Nella foto, il frontespizio del diario.
datarla con certezza alla seconda metà del ’800. Tra l’altro, uno dei frati accusati di concubinato, Luigi Vasi (18291901), fu anche storico e linguista: studiò il dialetto di San Fratello (Me), paese in cui nacque ed esercitò il sacerdozio proprio nella seconda metà dell’Ottocento, e le parlate galloitaliche della Sicilia Nord-orientale. Sarebbero auspicabili ulteriori indagini da parte di uno storico locale sulla figura di questo presbitero. Giovanni Antonio Nigro
Non siamo in grado di sapere a quale sito archeologico faccia riferimento il lettore. Tuttavia, dalla descrizione, sembra che si tratti in realtà di una latrina romana, realizzata probabilmente dopo la conquista romana dell’Egitto (I secolo).
Manlio Facchin, Tramonti di Sopra (Pn)
Le avventure dei traduttori
Lettore in erba
Cari amici di Focus Storia, mi chiamo Giuseppe, ho 12 anni e sono un vostro lettore. Ho cominciato a leggere la vostra rivista dal numero 88 e ne sono rimasto affascinato; da quel giorno sono un vostro abbonato e non vedo l’ora di sfogliare il mio giornale [...]. Il motivo per cui vi scrivo è questo: sono un appassionato della storia del Regno delle Due Sicilie e sono da poco venuto a conoscenza Elena Pasquali delle varie azioni criminali che i piemontesi e Garibaldi hanno commesso qui al Sud. Vi dico graL’antenato che difese la zie per aver incoraggiato la lettura Serenissima di Pontelandolfo e Casalduni: un Leggendo il riquadro “La fedemassacro dimenticato, libro che lissima di Venezia”, sull’articolo racconta l’ eccidio di quasi 400 “Adriatico segreto” in Focus Storia persone civili di questi due paesini n° 105, dove si parla della caduta del Beneventano. Quel P che vi chiedo è di scrivere ADrIAttoICo un articolo che racconti le segre verità nascoste del Risorgimento e le buoni azioni fatte dai Borbone. Sono una studentessa di Bologna che legge da sempre con interesse Focus Storia. Appassionata di lingue, mi piacerebbe veder pubblicato un approfondimento sul ruolo dei traduttori o interpreti nella Storia, dall’antichità ai giorni nostri, citando le personalità che si sono distinte in questa attività di mediazione culturale nei secoli nei vari campi, settori, eventi.
Il “piccolo mare” è un confine
invisibile fra Occidente e Oriente.
Ma anche un
rAgUsA
BUCCArI
ZArA
sPALAto
corridoio di scambi e conflitti.
Un lungo “golfo sdraiato”
PerAsto
DULCIgNo
sANsego
Lo dimostra la Storia
in partenza, in un dipinto Sopra, pescatori dell’Adriatico (1794-1835). A lato, portolano dello svizzero Louis Robert il mare rappresentato veneziano dell’Adriatico, con bandierine, alcune come facevano i Romani: nelle nell’articolo. delle località di cui si parla
LIssA
VeNeZIA
PeLAgosA
ADrIA
sPINA
BArI
LePANto
in Venerende il nome da Adria, Dalmato, ma anche da Zara in si chiazia. L’Adriatico in croato (da ma infatti Jadransko more Zara). Lo storico Jader, il nome latino di nella sua mofrancese Fernand Braudel al Mediterraneo numentale opera dedicata la regione mascrisse: “L’Adriatico è forse e per analogia rittima più coerente; da solo Mediterraneo. Più pone tutti i problemi del come una lunlungo che largo, si presenta ga strada nord-sud”. sud, sì, ma nela nord Da . adriaTici ipi T della geografia. la visione convenzionale si sviluppa praIn realtà il mare Adriatico da nord-ovest a ticamente in diagonale, lo rappresensud-est. E i Romani infatti l’Adriatico non tavano “disteso”. Per loro, bensì un golera nemmeno un vero mare, resto, per secoli fo (Sinus Atriaticus). Del una sorta di “naè stato un mare interno, popolazioni e stro trasportatore” di merci, in comunicazioculture, capace di mettere con quello medine il mondo germanico e gli Stati terraneo, il crogiuolo balcanico e il Viciregionali italiani, la Mitteleuropa musulmani. i e cristiani i no Oriente, le navi Ben prima che lo conquistassero era un luogo di di Roma, il mare Adriatico due sponde aveconvivenza nel quale le se non semvano contatti continui, anche e altri parapre pacifici. Valutando statura rinvenuti nei siti metri biometrici dei resti hanno infatti archeologici, gli antropologi origine illirica in individuato una comune il “tipo umano quello che hanno chiamato quando le popoadriatico”. È al Neolitico, dal Centrolazioni dell’Illiria provenienti a imsud della Dalmazia cominciarono fatto che va porsi nelle acque adriatiche, del “mare intirisalire l’inizio della storia scrittore bosniaco mo” (“copyright” dello con l’enPredrag Mavejevic). Il rapporto e su quello troterra, sul versante italiano componenti etbalcanico, ha poi aggiunto niche nuove. un confine iTalico. L’Adriatico divenne soltanto in epoca (conteso) fra Est e Ovest il cui Starelativamene tarda. I veneziani, Veneto, Friuli to territoriale comprendeva troppi indue Istria, lo chiamavano senza come una gi Golfo di Venezia, vedendolo Serenissima. propaggine marittima della uno Stato adriaPersino Napoleone creò si chiatico. Ebbe vita breve (1816-1849), per capitale mava Regno di Illiria e aveva • Lubiana (oggi in Slovenia). scala
Leggendo, anche se soltanto ora, il servizio pubblicato su Focus Storia n° 98 (Dicembre 2014) riguardante l’evoluzione dei servizi igienici nei secoli mi è sorto un dubbio. Durante un recente viaggio in Egitto la guida condusse il gruppo ad osservare un cubicolo chiuso su tre lati e con un foro nel pavimento asserendo che trattavasi del gabinetto del faraone. Infatti al di sotto del foro scorreva un rivolo d’acqua che trasportava gli escrementi nel Nilo. Poiché nell’articolo non se
Cristoforo Gostoli
dea/alinari
La toilette del faraone
di Venezia nel 1794, quando fu presa da Napoleone, mi è venuto in mente quanto raccontava mio padre. Diceva che un membro della nostra famiglia morì sulla Riva degli Schiavoni combattendo. Mio padre scoprì che si chiamava Giovanni Battista Facchin. [...]. Qualcuno sa dirmi qualcosa di più su questo fatto?
ne parla vi chiedo cortesemente delucidazioni.
✔
clericale) basandosi su appunti raccolti dal Bugatti stesso in un suo taccuino. Per il resto, della vita privata del boia dei papi non si conosce molto altro.
Piero Pasini 85
Giuseppe Bimonte, Avellino
Grazie, Giuseppe. Al tema abbiamo dedicato il n° 75 di Focus Storia, ma torneremo sicuramente sull’argomento.
Il tiramisù, quando c’era Permettetemi una testimonianza a proposito del tiramisù. Assaggiai il famoso dolce di Tolmezzo la prima volta nel 1958, preparato dalla signora che sarebbe diventata mia suocera. La ricetta gliel’aveva data la signora Del Fabbro, moglie del gestore del “Roma”, ai tempi uno dei più noti ristoranti della nostra regione. Da allora si sono susseguite al “Roma” quattro gestioni diverse ed è più che normale che nel menù, per altro pregevole come ammette Francesco Albrizio (Focus Storia n° 106), sia scomparso un dolce che ora si trova surgelato in ogni supermercato. Quando lo assaggiai, la prima volta e le successive, faceva resuscitare i morti. Gian Paolo Linda
Il mistero sul “tiramisù che non c’è più” sollevato dal nostro lettore nel n°106 di Focus Storia è così risolto. Grazie della sua testimonianza!
I NOSTRI ERRORI
Focus Storia n° 104, pag. 63: Tashunka Uitko è il nome in lingua lakota di Cavallo Pazzo; Focus Storia n° 106, pag. 100: la decisione di bombardare Belgrado fu presa nel 1999, non nel 1993; pag. 38: le monete della dea Pudicitia risalgono al 270 dopo Cristo e non avanti Cristo. 5
novità e scoperte
Da vicinissimo Alcuni scatti delle ricerche fatte nel mare di Panarea. Dalle fasi di allestimento del sommergibile all’immersione e all’avvistamento dei relitti romani.
Un crowdfunding per le lettere di Giuseppe Verdi
P
pina Strepponi, per 223 pagine datate tra il 1840 e il 1880: il più ampio carteggio verdiano mai posto in vendita. Raccolta via Web. L’epistolario – che è sottoposto a procedura di vincolo del ministero per i Beni Culturali con il divieto di smembramento e di espatrio – è stato riscattato da un collezionista privato grazie all’intermediazione della casa d’aste Bolaffi. Ma soprattutto grazie al crowdfunding, cioè a una raccolta di fondi da piccoli finanziatori volontari, realizzata su Internet con l’aiuto dell’istituto di pagamento Smartika. Alla fine sono stati messi insieme i 120mila euro necessari all’acquisto. Le lettere, come le altre scritte dal Maestro, sono particolarmente interessanti e preziose per ricostruire gli aspetti intimi e personali della sua vita (si va dagli interessi per la cucina fino all’economia domestica e alla politica) e acquistano un valore ulteriore perché molti altri scritti sono già stati dispersi all’estero, negli scorsi decenni. (a. b.) Giuseppe Verdi e, a lato, parte delle lettere recuperate grazie a una raccolta fondi on-line.
IN PILLOLE
1
Inquinati da 4mila anni
L’inquinamento non è solo un problema moderno. Nel tartaro di denti di 4.000 anni fa, ritrovati in Israele, ci sono tracce di inquinanti collegabili al fumo di carbone. 6
2
SOPRINTENDENZA DEL MARE/SALVO EMMA (4)
DE AGOSTINI/GETTY IMAGES
arole invece di note. Ma non per questo valgono meno gli scritti autografi di Giuseppe Verdi che sono finalmente tornati a disposizione degli studiosi e del pubblico. Il carteggio del musicista con l’amico conte mantovano Opprandino Arrivabene è stato acquisito da Casa Verdi, la casa di riposo per musicisti voluta dallo stesso maestro di Busseto. Si tratta di 77 lettere autografe, una busta, 1 biglietto autografo e una lettera della moglie Giusep-
I segreti di Vittoria
Un paio di mutandoni indossati dalla regina Vittoria a fine ’800, con una circonferenza della vita di 114 cm, sono stati venduti all’asta per la cifra di 12mila sterline.
3
Ladri di cimeli ad Auschwitz
Un rasoio, un cucchiaio, bottoni, pezzi di vetro e un fermaglio per capelli: due studenti diciassettenni inglesi sono stati arrestati per averli rubati durante una gita ad Auschwitz.
UNA BOLLA NEGLI ABISSI
Una ricostruzione dei due scheletri bloccati con grosse pietre rinvenuti nella necropoli siciliana di Passo Marinaro (V-III secolo a.C.).
Un sommergibile porta gli archeologi a 100 metri di profondità. Per analizzare da vicino relitti (e i loro preziosi carichi) inesplorati da 2mila anni.
U
n nuovo sommergibile a forma di bolla per la prima volta ha permesso di portare gli archeologi a esplorare con occhio umano relitti a grandi profondità. Grazie a queste nuove tecnologie sono stati raccolti dati dettagliatissimi sulle navi commerciali di epoca romana ancora conservate in fondo al Mar Tirreno. «A giugno la campagna della Soprintendenza del Mare in Sicilia in collaborazione con l’Aurora Foundation ha potuto esplorare tre dei quattro relitti al largo di Panarea, nelle isole Eolie, grazie alla nave-laboratorio Alk, al sommergibile Worx e al robot a pilotaggio remoto della AtlantEco», spiega Stefano Zangara, dirigente della Soprintendenza del Mare.
4
Reperti casalinghi
Durante i lavori per rimodernare il salotto, una famiglia di Ein Karem (Gerusalemme) ha rinvenuto un antico bagno di 2mila anni fa, con tanto di vasca rituale.
5
Visione speciale. «Si tratta di relitti ancora integri di epoca romana, a 90-140 metri di profondità, su una rotta commerciale molto importante e trafficata: tra la Sicilia e l’Italia, e forse anche dal Nord Africa», racconta ancora Zangara. «Il carico di tutti questi relitti era costituito da anfore per il trasporto di olio, grano e vino. Si tratta di navi simili tra loro, anche se di periodi diversi, tra II secolo a.C. e III secolo d.C.». Sono state scattate più di 500 immagini ad alta risoluzione per ogni nave, che hanno permesso la realizzazione di un fotomosaico e una fotogrammetria, una tecnica di rilievo che permette di trasformare le fotografie in un oggetto modellato in 3D. • Aldo Bacci
Milioni di mummie canine
In una catacomba egizia del IV secolo a.C. sono stati rinvenuti otto milioni di animali mummificati. Per oltre il 90% erano cani, poi sciacalli, volpi, falchi, gatti e manguste.
Altolà, zombie!
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ue scheletri bloccati nelle loro tombe per impedire che ritornassero tra i vivi: è questa la conclusione cui è giunto uno studio dell’Università di Pittsburgh (Usa) pubblicato su Popular Archaeology. Le sepolture si trovano nella vasta necropoli siciliana di Passo Marinaro, usata tra il V e il III secolo a.C. dalla colonia di Kamarina, fondata nella Sicilia Sud-orientale dai Greci di Siracusa nel VI secolo a.C. Brutta fine. Una tomba accoglie lo scheletro di un adulto di sesso indefinito i cui denti mostrano evidenti segni di malnutrizione o malattia: testa e piedi sono bloccati da due grossi frammenti di anfore, forse per impedire di vedere e camminare (nella ricostruzione in alto). Nell’altra c’è lo scheletro di un bambino di 8-13 anni, senza segni di malattie, coperto da 5 pietre. Come altri popoli, anche gli antichi Greci credevano che alcune persone potessero tornare dalla morte: nati deformi, suicidi, assassinati, morti per peste o in giorni infausti, individui seppelliti male. Per impedirlo occorreva smembrarli o cremarli, oppure seppellirli proni o, appunto, bloccati da pesi. (g. l.) 7
novità e scoperte
GETTY IMAGES
L’ora del bacio perfetto
Una delle foto più celebri della Storia fu scattata a New York alle 17:51 del 14 agosto 1945. Lo rivela un nuovo studio.
C
onoscete probabilmente la foto scattata da Alfred Eisenstaedt che immortala un marinaio che bacia
un’infermiera a Times Square, il giorno della vittoria Usa contro il Giappone: era il 14 agosto di 70 anni fa. L’identità dei due
Fort Knox alla greca n team di archeologi americani e canadesi sostiene che dal V secolo a.C. i cittadini di Atene conservarono milioni di monete d’argento in un’area sovrastante il Partenone (in alto), oggi andata distrutta. Secondo gli storici, che hanno ricostruito virtualmente la parte alta del famoso edificio, questo “attico” misurava più o meno quanto una piscina (circa 19 metri per 50), e fungeva da “banca centrale” cui attingere in caso di emergenze. Nominata. Antichi scrittori greci parlano di una riserva di denaro custodita sull’Acropoli, anche se non specificano all’interno di quale edificio. (a. p.)
ALFRED EISENSTAEDT/TIME & LIFE PICTURES/GETTY IMAGES
U
Solo un bacio La storica foto di Alfred Eisenstaedt dopo l’annuncio della vittoria Usa sul Giappone. Ora conosciamo l’ora dello scatto.
protagonisti è sconosciuta, ma ora, grazie a tre ricercatori che hanno analizzato le ombre dei grattacieli, sappiamo qualcosa di più, ovvero l’ora esatta dello scatto: le 17:51. Senza ombra di dubbio. Per anni si era creduto che la foto fosse stata realizzata dopo le 19:03, quando il presidente Harry S. Truman annunciò ufficialmente alla radio la vittoria sull’impero nipponico e, di fatto, la fine della Seconda guerra mondiale. Ma, partendo dall’analisi della lunghezza e della direzione delle ombre e grazie allo studio di foto aeree, gli scienziati Donald Olson (un professore di fisica) e i suoi colleghi dell’Università del Texas Steven Kawaler (un astrofisico) e Russell Doescher (un astronomo) hanno dimostrato con precisione che il Sole si trovava in una posizione raggiunta solo alle 17:51, ora di New York, nel 1945. •
TRAPASSATI ALLA STORIA Personaggi sconosciuti che sono stati, in vita, protagonisti.
GORDON HOBDAY
scienziato
L’ibuprofene, ben noto analgesico, lo dobbiamo alla sua tenacia. Morto a 99 anni, Gordon Hobday diresse il team di ricercatori che lo scoprì per conto dell’azienda farmaceutica Boots nel 1961, dopo 9 anni di lavori e l’esame di oltre 13mila composti. Brillante carriera. Laureato in biochimica a Londra, nel 1939 fu assunto dalla Boots come assistente di ricerca; quando si ritirò, nel 1981, era ai vertici della ditta. I primi tempi lavorò anche con Alexander Fleming, scopritore della penicillina. 8
BRUCE MARTIN
architetto
Scomparso a 97 anni, ideò l’ultima serie delle famose cabine telefoniche inglesi, la K8, lanciata nel 1968 e ritenuta un capolavoro del design industriale. L’intento era rimodernare le vecchie cabine progettate da Gilbert Scott tra il 1920 e il 1936. Rinnovamento. Bruce Martin appiattì il tetto, sostituì i piccoli pannelli di vetro con grandi lastre di vetro antiurto e ridusse i pezzi da 450 a 183, permettendo di assemblare la cabina sul posto e di variarne gli elementi, come l’apertura della porta.
F-Xavier Bernard
A cura di Giuliana Lomazzi
ANTONIO FABRIZI
ingegnere
Dal 2003 direttore dei lanciatori dell’Agenzia spaziale europea (Esa), con un ruolo di primo piano nello sviluppo del razzo Vega (Vettore europeo di generazione avanzata), progetto a leadership italiana, Fabrizi è morto a 67 anni. Piccolo ma innovativo. Vega, diversamente da altri vettori, è in fibra di carbonio e lancia piccoli satelliti, anche 2-3 insieme, da posizionare su orbite differenti. Fabrizi si è occupato anche dello sviluppo di altri razzi, come Ariane 5 e 6.
agenda A cura di Irene Merli
MOSTRA
POSSAGNO (TREVISO)
Canova alla Grande guerra Decollata Il gesso decapitato della celebre statua di Paolina Bonaparte. Sotto, il gesso danneggiato del busto di Napoleone.
FOTOGRAFIA
NUORO
Vivian Maier
In mostra 120 scatti e 10 filmati della bambinaia che fotografò le strade delle città degli Stati Uniti per cinque decadi.
Fino al 18/10, Info: 0784 252110, www.museoman.it
MOSTRA
MILANO
Giotto e l’Italia
U
n gruppo di soldati francesi giocano a calcio con la testa di Paolina Bonaparte, modellata dallo scultore Antonio Canova, nel giardino della Casa-gipsoteca dell’artista, a Possagno, ai piedi del Grappa, uno dei teatri della Grande guerra. Un testimone, Stefano Serafin, scatta una foto dello scempio e degli altri danni provocati da cannoni e granate, soprattutto nel 1917. Quelle immagini finiscono in un album di famiglia. E oggi, per la prima volta, gli originali di Serafin sono esposti nel luogo del misfatto (ora mu-
seo) nella mostra Antonio Canova, L’arte violata nella Grande guerra. Testimoni. In mostra ci sono, oltre alle foto, diver-
si gessi, usati come modelli per le statute di marmo: alcuni restaurati e finora conservati con le loro “ferite” nei depositi. Nel caso di una scultura di Ebe, per esempio, si può confrontare il modello in gesso danneggiato dalla guerra con una ricostruzione realizzata con tecnologie computerizzate. Completano il percorso fotografie di altre opere danneggiate dal conflitto, di Guido Guidi e Gian Luca Eulisse. Nel corso di alcune serate verranno infine letti brani del diario di Elisa Fagnolo Zanardo, quattordicenne ai tempi del conflitto. •
Fino al 28/2/2016. Museo gipsoteca Canova, Possagno (Tv). Info: 0423 544323, www.museocanova.it
L’occasione per ammirare capolavori come il Polittico Stefaneschi e il Polittico Baroncelli, con pezzi provenienti anche dagli Usa. Dal 2/9/2015 al 10/1/2016. Palazzo Reale. Info: 02 0202, www.comune.milano.it
EVENTO
SARZANA (SP)
Festival della mente
La XII edizione prevede 40 incontri con pensatori, tra cui 3 sulla responsabilità dello storico.
Dal 4 al 6/9. Info: 0187 620419, www.festivaldellamente.it
RIEVOCAZIONE SORDEVOLO (BI)
La Passione di Gesù
Da due secoli, ogni 5 anni, va in scena uno spettacolo a sfondo storico che coinvolge tutti gli abitanti.
Fino al 27/9. Info e programma: www.passionedicristo.org 9
microstoria A cura di Aldo Carioli, Marta Erba, Giuliana Rotondi e Daniele Venturoli
PAROLE DIMENTICATE
S P U L E Z Z O
DEA/GETTY IMAGES
Indicava scherzosamente una fuga precipitosa e disordinata, che ricorda il brulichio delle pulci (pulex in latino).
La figura di ICARO è una delle più note e tragiche della mitologia greca. Imprigionato da Minosse, re di Cnosso, con suo padre Dedalo (il progettista del labirinto in cui il sovrano fece rinchiudere il Minotauro), era riuscito a fuggire indossando le ali progettate dal padre, fissate alle spalle con la cera. Nonostante l’avvertimento del padre, Icaro si avvicinò troppo al sole, le ali si sciolsero e il giovane precipitò tragicamente in mare, dove annegò. Secondo varie versioni del racconto il corpo non fu più recuperato e la sua anima non poté accedere al regno di Ade. Monito. Il mito di Icaro ancora oggi ha un potente valore simbolico. Allude al naturale desiderio dell’uomo di superare i propri limiti, ma anche alle ambizioni smisurate e alle manie di grandezza. Nella cultura greca costituiva un ammonimento a non cedere alla superbia umana (la hỳbris), che spingeva a sfidare i limiti imposti dagli dèi.
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FOTOTECA STORICA GILARDI
IL MITO
LA VIGNETTA
EROE UMILIATO Il 4 maggio 1814 Napoleone Bonaparte sbarcò all’isola d’Elba. Sconfitto sul campo di battaglia di Lipsia dalla coalizione antinapoleonica, l’ex padrone d’Europa era diventato il signore di quella piccola isola, di fatto un prigioniero. Questa caricatura, opera dei suoi arcinemici inglesi, riassume la situazione di Bonaparte in quel momento. Cacciato. In sella a un asino, montato al contrario in segno di umiliazione, Napoleone è disegnato in viaggio verso l’Elba proveniente da Fontainebleau. Proprio il trattato siglato nella residenza reale presso Parigi, seguito alla sconfitta di Lipsia, decise la sua abdicazione e l’esilio elbano. Insieme alla spada rotta (sulla lama si legge, in inglese, “Un
trono è fatto solo di legno ricoperto di velluto”) l’ex imperatore regge la coda dell’asino. Sotto la coda, “I più grandi eventi della vita umana trasformati in un peto”. A completare il corteo, due tamburini irridenti (in realtà, all’Elba Bonaparte aveva con sé una guardia d’onore di 400 uomini). Tanta derisione era però prematura. All’Elba Napoleone rimase meno di un anno. Deciso a fuggire, il 1° marzo sbarcò in Costa Azzurra, raggiunse Parigi e riprese il potere per altri 100 giorni. Soltanto a Waterloo, il 18 giugno di duecento anni fa, fu definitivamente sconfitto. Anche questa volta si sprecarono le vignette. Ma dalla remota isola oceanica di Sant’Elena Napoleone non fece mai ritorno.
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MILA
“Chi beve solo acqua ha un segreto da nascondere” La frase è del poeta francese Charles Baudelaire (1821-1867) ed è contenuta nel saggio I paradisi artificiali, da lui dedicato agli effetti delle droghe. Vino contro hashish. Paragonando gli effetti del vino e quelli dell’hashish, Baudelaire
INVENZIONI OTTOCENTESCHE
privilegia il primo, in quanto lo ritiene uno strumento che esalta la volontà e la grandezza dell’uomo, al contrario dell’hashish, che invece per lui annulla la creatività. Mette quindi in guardia da chi non ha mai provato il piacere di bere vino.
L’OGGETTO MISTERIOSO È un cono cavo di zinco con un anello basale d’ottone e, in cima, la parte superiore è dentellata. È lungo 23 centimetri, largo 12, pesava 150 grammi e si usava in campagna. Per fare che cosa? Aspettiamo le vostre risposte, indicando anche la località, a: Focus Storia, via Battistotti Sassi, 11/a - 20133 Milano oppure a
[email protected]
Le navi che costituivano, con 48mila uomini, la flotta olandese a metà Seicento. L’Olanda era allora la prima potenza marittima d’Europa.
TOP TEN
D.VITTIMBERGA
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IL NUMERO
CHI L’HA DETTO?
È stato Arnaldo Righetti di Novara il lettore più veloce nell’indovinare l’oggetto misterioso del numero scorso: si trattava di un antico “correggiato”. Ossia di un attrezzo impiegato per la battitura del grano e di altri cereali, molto diffuso sulle aie di un tempo.
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Telegrafo elettrico Il 24 maggio 1844 fu trasmesso il primo messaggio telegrafico utilizzando il codice Morse, da Washington a Baltimora (Usa).
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Motore a scoppio Il 5 giugno 1853 Eugenio Barsanti e Felice Matteucci depositano il progetto del primo motore a scoppio.
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Antisettico Lord Joseph Lister utilizza per la prima volta nel 1865, su una frattura esposta, il fenolo. Nasce così il primo antisettico.
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Dinamite Alfred Nobel inventa la dinamite, riuscendo a stabilizzare la pericolosa nitroglicerina, brevettata nel 1867.
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Motocicletta Il 16 marzo 1869 Louis-Guillaume Perreaux brevetta il “velocipede a vapore”, un telaio di bicicletta motorizzato.
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Telefono Il 28 dicembre 1871 Antonio Meucci deposita la notizia di avere costruito un “telettrofono” all’Ufficio brevetti statunitense.
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Giradischi Nel 1887 viene brevettato il grammofono, evoluzione del fonografo, messo a punto dal tedesco Emile Berliner.
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Radio Il 2 giugno 1896 Guglielmo Marconi deposita all’Ufficio brevetti di Londra il progetto per il “telegrafo senza fili”.
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Automobile Karl Benz brevetta il 29 gennaio 1886 un triciclo dotato di un motore a scoppio, considerato la prima automobile.
VOCABOLARIO: SOLDATO Il termine deriva dal latino solidarius, che nella Roma imperiale indicava chi combatteva dietro compenso di solidi, monete d’oro introdotte da Costantino I nel 309-310 e usate in tutto l’Impero romano d’Oriente fino al X secolo. La moneta sostituì l’aureo, la moneta d’oro usata precedentemente. Nella foto, un’esercitazione militare odierna.
Cibo in scatola Nell’agosto 1810 Pierre Durand brevetta un sistema per conservare i cibi “in vetro, ceramica, alluminio e altri metalli”.
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ANTICHITÀ
Trame romane Busto di Lucilla conservato all’Ermitage di San Pietroburgo (Russia). A destra, l’imperatore Commodo, suo fratello, in veste di Ercole, con la pelle di leone sulle spalle.
ALAMY
IL TRADIMENTO DI LUCILLA
Era figlia e moglie di imperatori, ma quando suo fratello Commodo salì al trono tentò di farlo uccidere nell’arena. Per gelosia e per paura di perdere potere
SCALA
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oma, anno 182 d.C. In un giorno come tanti, l’imperatore Commodo, indossate le amate vesti di gladiatore, si prepara a scendere nell’arena dell’Anfiteatro Flavio. All’improvviso un uomo armato di pugnale emerge dall’ombra e tenta di colpirlo. Ma non ha il tempo di agire. Immediatamente bloccato dai pretoriani, l’attentatore viene trascinato davanti al sovrano, che con stupore riconosce in lui un compagno di bagordi, il senatore Quinziano. È subito chiaro: una congiura, la prima di una serie, è appena stata sventata. Quel che però Commodo ancora non sa è che in cima alla lista dei congiurati c’è anche il nome di Lucilla, sua sorella maggiore, una donna assetata di potere e vendetta. E spinta dalla gelosia. Principessa promessa. Annia Aurelia Galeria Lucilla era un pezzo da novanta dell’alta società romana. Era nata nel 150 dall’Augusta Faustina Minore, figlia dell’imperatore Antonino Pio, e da Marco Aurelio, a sua volta futuro sovrano con il fratello adottivo Lucio Vero. Era cresciuta in compagnia di una piccola folla di fratelli: la prolifica Faustina ebbe infatti ben 14 figli. Lucilla, insomma, era stata una bambina un po’ viziata, ma diventata adulta in un ambiente familiare sereno e affiatato. In quanto donna e figlia di un imperatore, era ovviamente destinata a un matrimonio di puro calcolo politico. Così, nel 161, dopo la morte di Antonino Pio, suo padre la “assegnò” al collega Vero, di vent’anni più vecchio di lei. A Lucilla, probabilmente, importava poco. Nella Roma del tempo le coppie si formavano così, e la ragazza era comunque destinata a divenire Augusta, ossia “first lady” dell’impero. «Il titolo di Augusta cominciò a essere riconosciuto alle donne della domus regnante a partire dall’epoca di Agrippina Minore, la madre di Nerone morta nel 59», spiega Francesca Cenerini, docente di Storia romana all’Università di 13
La gloria e la guerra
Marco Aurelio e Lucio Vero nella guerra con i Parti, in un bassorilievo.
DEA/GETTY IMAGES
Statua di Lucilla del II secolo d.C.: mogli e madri degli imperatori avevano diritto a busti e monete con la loro immagine.
ALINARI
Quando Commodo si sposò, Lucilla perse il posto d’onore ai giochi, accanto all’imperatore Bologna. «Le Augustae non avevano un vero potere politico, ma erano loro riservati onori e privilegi, come assistere agli spettacoli dalla tribuna imperiale e possedere ingenti patrimoni. All’epoca il loro ruolo era quello di consolidare le alleanze tra il sovrano e il suo successore attraverso legami matrimoniali: le nozze tra Marco Aurelio e Faustina avevano avuto proprio questo scopo». Nozze d’Oriente. Lucilla non ebbe il tempo di conoscere meglio il futuro marito. Nel 162, un anno dopo il fidanzamento, Lucio Vero era in Asia Minore (attuale Turchia) a combattere contro i Parti. Due anni dopo, Marco Aurelio inviò la figlia a Efeso, mentre ancora infuriavano gli scontri, per celebrare le nozze. «La decisione di far sposare Lucilla in Oriente fu una scaltra mossa politica, utile per consolidare la posizione di Vero come capo militare in un momento critico per
Roma», continua Cenerini. «Non possiamo dire se l’unione funzionò. Nel II secolo il concetto di felicità coniugale era diverso dal nostro. Era normale che l’uomo avesse una o più amanti: nel caso di Lucio Vero, Pantea di Smirne, conosciuta in Asia». Grazie alle nozze, l’immagine di Lucilla iniziò a circolare nell’impero, scolpita in busti e incisa sulle monete. Come ci si aspettava, la ragazza (aveva allora 14 anni) fece il suo dovere coniugale e diede a Lucio Vero diversi figli, dei quali solo una femmina, Aurelia, sopravvisse all’infanzia. Pochi anni dopo le nozze, tuttavia, l’Augusta rischiò di perdere tutto. Riciclata. Nel gennaio 169 la morte di Lucio Vero la mise in una posizione difficile. Alla vedova non fu neppure lasciato il tempo di portare il lutto, poiché Marco Aurelio aveva già pronto per lei un nuovo marito: il miglior generale sulla piazza, il maturo Pompeiano. «Pompeiano era un fedelissimo di Marco Aurelio, immortala-
I FATTI IN PILLOLE
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Il 7 marzo a Roma nasce Lucilla, da Faustina e dall’imperatore Marco Aurelio.
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Marco Aurelio e Lucio Vero co-imperatori. Lucilla e Vero si fidanzano. Nasce Commodo.
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Nozze di Lucilla e Lucio Vero, celebrate a Efeso, in Asia Minore (attuale Turchia).
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Decisiva vittoria militare di Roma sui Parti. Lucio Vero torna a Roma.
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Morte di Lucio Vero. Nello stesso anno Lucilla viene fatta sposare con Tiberio Claudio Pompeiano.
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Il primo marito Frammento di un busto marmoreo di Lucio Vero, primo sposo di Lucilla. Generale spesso al fronte, morì a 39 anni tornando dall’Illirico (Albania) in Italia.
Commodo è associato all’impero dal padre Marco Aurelio, del quale è successore designato.
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Nozze di Commodo e Crispina. Marco Aurelio, Pompeiano e Commodo scendono in guerra contro le tribù germaniche.
180
Morte di Marco Aurelio. Commodo, unico imperatore, conclude la pace con i Germani.
182
Congiura contro Commodo. Lucilla, condannata all’esilio a Capri, vi morirà l’anno stesso (o forse quello successivo). 15
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to accanto al sovrano sulla Colonna Antonina eretta per celebrare le conquiste imperiali. Ma restava pur sempre un privato cittadino, fuori dalla cerchia della famiglia imperiale», dice Cenerini. «Per questo sia la madre Faustina sia Lucilla si opposero all’unione. Invano». Perché la scelta era caduta proprio su Pompeiano? «Un’ipotesi è che l’imperatore avesse intenzione di legare a sé Pompeiano in modo da lasciare a lui la tutela di Commodo, unico suo figlio maschio ancora in vita». Costretta a far buon viso a cattivo gioco, la sprezzante Lucilla ottenne almeno un privilegio: mantenere il titolo di Augusta, che la poneva un gradino sopra alle sorelle. La situazione, per lei, precipitò davvero quando Commodo, che Marco Aurelio aveva designato co-imperatore nel 177, sposò Crispina, figlia di un senatore. Racconta lo storico greco Erodiano: “Commodo nulla aveva tolto al rango della sorella; ella infatti assisteva agli spettacoli dal trono dell’imperatore, e in pubblico era preceduta da fiaccole accese. Ma, quando Commodo sposò Crispina, era inevitabile che l’imperatrice avesse il posto d’onore; e Lucilla, mal sopportando ciò, considerava la preminenza di quella come un oltraggio per sé”. Anatomia di una congiura. Se Lucilla detestava la cognata Crispina, il Senato disprezzava Commodo. Dopo la morte di Marco Aurelio nel 180, durante la guerra contro i Germani, il nuovo imperatore concluse un accordo col nemico. Senatori e militari non gradirono. A Roma le fazioni del Senato, fino a quel momento divise, concordarono su un punto: bisognava togliere di mezzo Commodo. Ma serviva un appoggio a corte. Così, nella congiura entrarono anche Lucilla, spinta dalla gelosia e dal desiderio di rivalsa su Crispina, il suo giovane amante Quadrato e il genero Quinziano, intimo di Commodo ma disposto a tradirlo. «È complesso ricostruire le motivazioni del complotto, sul quale possiamo solo fare ipotesi», spiega Cenerini. «Anzi-
Crispina restò incinta e Lucilla vide minacciata la successione al trono. Così si alleò con i nemici del fratello tutto, la decisione di Commodo di cessare le ostilità sul fronte nordico delusero le aspettative di quanti erano favorevoli alla guerra. Inoltre, tra il 181 e il 182, Crispina era incinta: una minaccia per Lucilla, a sua volta finalmente madre di un figlio maschio avuto forse da Pompeiano. Probabilmente fu il Senato il mandante della cospirazione, nella quale furono coinvolti i membri della famiglia imperiale ostili al sovrano, in primis Lucilla. L’Augusta ben conosceva le dinamiche di corte e tentò di tutelare se stessa e il figlio, potenziale successore». Vendetta. Sventata la congiura, scattò la vendetta: Quinziano, Quadrato e i senatori coinvolti furono mandati a morte. Più difficile era liquidare la sorella dell’imperatore. Ma anche per questo problema la politica romana aveva una soluzione: Lucilla fu condannata alla damnatio memoriae, costretta cioè ad assistere impotente alla mutilazione delle sue immagini pubbliche e alla cancellazione del suo nome dalle iscrizioni. L’oblio era la pena accessoria dell’esilio: l’ex Augusta fu relegata a vita sull’isola di Capri. Non proprio una galera. Ma Commodo non poteva dimenticare il tradimento, né voleva correre rischi. Così, qualche tempo dopo essere approdata a Capri, la principessa fu assassinata per ordine del fratello. •
La seconda volta
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Bassorilievo con Tiberio Claudio Pompeiano, (indicato dalla freccia), secondo sposo di Lucilla, con Marco Aurelio (a cavallo). Sotto, due monete con l’effigie di Lucilla e la dicitura Lucilla Augusta.
Simone Zimbardi
Quando Commodo scendeva nell’arena
ALINARI
P
Commodo gladiatore in un’incisione del XVI secolo. 16
er gli storici del tardo impero, l’interesse di Commodo per i giochi gladiatori aveva origine nella sua stessa nascita. Un aneddoto riportato in una Vita di Marco Aurelio narra infatti che “una volta Faustina, figlia di Antonino Pio e moglie di Marco Aurelio, vedendo passare una sfilata di gladiatori, sarebbe stata presa da ardente passione per uno di essi”: da quell’adulterio sarebbe nato,
secondo questa fonte, Commodo. Passione. Il futuro imperatore iniziò a scendere nelle arene da adolescente, mentre suo padre era ancora vivo. Ma fu quando diventò unico sovrano che la sua passione perse ogni freno: incitato dal popolo, indossava le vesti del secutor (elmo, scudo e spada corta) e combatteva contro avversari che faceva equipaggiare
con armi in piombo. Identificandosi con l’eroe Ercole, amava mostrarsi e farsi ritrarre con clava e pelle di leone, attributi del personaggio mitologico. La fine. Commodo scampò alla congiura della sorella Lucilla, ma fu comunque assassinato, il 31 dicembre del 192. Il giorno successivo avrebbe dovuto farsi proclamare console, in abiti da gladiatore.
SECONDA GUERRA MONDIALE Minacciosa La Yamato in porto: le torri corazzate ospitavano 9 cannoni da 460 millimetri. Ognuno aveva una gittata di ben 42 chilometri.
LA CORAZZATA Era il fiore all’occhiello della marina nipponica. Settant’anni fa, nell’aprile del 1945, la Yamato fu sacrificata (inutilmente) in una missione suicida per tentare di salvare Okinawa, sotto attacco americano 18
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Missioni senza ritorno La corazzata Yamato nel 1941 l’anno in cui entrò in servizio. Sopra, alcuni piloti kamikaze della marina nipponica bevono il sake rituale prima della missione suicida.
KAMIKAZE
L
a più grande corazzata mai varata. Un impero disperato, quello giapponese, che tenta di resistere a un destino ormai segnato. La flotta statunitense schierata in tutta la sua potenza nel Pacifico. Sono
questi gli ingredienti del dramma bellico consumato nella primavera di settant’anni fa, nel 1945, al largo di Okinawa: la missione suicida della Yamato. Già alla fine del XIII secolo un “vento divino” (questo il significato della parola
giapponese kamikaze) per due volte aveva respinto e affondato la flotta mongola che tentava di invadere il Giappone. Quasi sette secoli più tardi, le forze armate dell’imperatore Hirohito tentarono di fare lo stesso. 19
IL GIOIELLO DELLA MARINA IMPERIALE La Yamato era la più grande corazzata mai costruita fino ad allora. E avrebbe dovuto mostrare al mondo la potenza militare raggiunta dall’impero giapponese.
DIFESA ANTIAEREA La difesa antiaerea era affidata a 162 mitragliatrici da 25 millimetri.
ARMATISSIMA Completavano l’armamento 12 cannoni da 155 mm e 12 da 127 mm.
TORRI CORAZZATE Nelle tre torri corazzate erano distribuiti 9 cannoni da 460 mm, i più grandi mai montati su una nave da guerra.
APPOGGIO DAL CIELO La Yamato trasportava fino a 7 idrovolanti da ricognizione.
A PIENO CARICO
72.000 TONNELLATE
EQUIPAGGIO
2.750 UOMINI
Fin dall’inizio era intesa come una missione suicida.
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L’imperatore longevo Hirohito, imperatore del Giappone durante la Seconda guerra mondiale: regnò fino al 1989.
Accerchiato dagli americani sui mari, l’impero del Sol Levante si affidò infatti a piloti kamikaze (v. riquadro nella pagina seguente) addestrati a gettarsi in missioni suicide contro le navi nemiche e contro i bombardieri che a ondate devastavano le città. Ma il “vento divino”, per gli americani, non arrivò soltanto dal cielo. Grandezza sfiorita. L’isola di Okinawa, al largo dell’arcipelago giapponese, fu attaccata dalla flotta anfibia americana il 1° aprile 1945. L’obbiettivo strategico era farne una base avanzata per le operazione contro il territorio del Giappone. Il comando giapponese provò con ogni mezzo a fermare la forza d’invasione. La marina imperiale decise addirittura di calare il suo asso e mettere in campo il gioiello dell’ingegneria bellica nazionale: la supercorazzata Yamato, che con la Musashi (al tempo già affondata) era
la più grande nave da battaglia del mondo. Una nave che, a dirla tutta, era il canto del cigno della marina giapponese, che nel 1945 era ormai l’ombra di se stessa. Ma l’imperatore Hirohito faceva pressione sugli ammiragli per sapere che cosa avrebbero fatto per salvare Okinawa. La loro risposta si chiamò così Operazione “Ten-Go”: la missione suicida di un gruppo navale guidato dalla Yamato. Questo il piano: far arenare la corazzata sulle coste di Okinawa, impiegandola poi come una super-batteria galleggiante, grazie ai suoi devastanti 9 cannoni da 460 millimetri. Una volta esaurite le munizioni, i marinai superstiti si sarebbero uniti alla guarnigione che difendeva Okinawa. A scortare la Yamato, un incrociatore e 8 cacciatorpediniere, oltre a un centinaio di aerei (kamikaze e non).
KYUSHU
Colpita e affondata
KAGOSHIMA
La rotta della corazzata Yamato, salpata il 1° aprile alla volta di Okinawa e affondata il 7 aprile dagli americani al largo dell’arcipelago giapponese.
A LUNGO RAGGIO Ogni cannone da 460 mm delle tre torri (qui in uno spaccato) aveva una gittata fino a 42 km.
E
CORAZZATURA La corazzattura raggiungeva i 65 cm di spessore.
SOTTO LA LINEA Il pescaggio a pieno carico era di 11 metri.
Le unità di attacco speciali: i kamikaze
OCEANO PA C I F I C O AMAMI
Filippine
OKINAWA
LUNGHEZZA
LARGHEZZA
VELOCITÀ
METRI
METRI
NODI
263 39
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Nella Yamato c’era carburante solo per l’andata Era chiaramente una missione suicida. La piccola squadra avrebbe infatti dovuto farsi strada fra 11 portaerei con 400 velivoli, affrontando una flotta di 50 tra corazzate, incrociatori e cacciatorpediniere. Che non fosse previsto un viaggio di ritorno è provato dagli ordini di servizio: le navi erano rifornite del combustibile strettamente necessario per arrivare all’isola, non un litro di più. L’ammiraglio Ito, il comandante della Yamato, aveva però escogitato un piano alternativo. Riuscì a imbarcare un quantitativo di combustibile superiore al previsto, per avere margini di manovra e combattere veramente, in mare. Come ha ricordato lo storico Simon Foster, «le possibilità di successo non erano considerate alte, ma lo spirito dell’operazione era conforme alla tradizione giapponese dell’ultima carica disperata».
Caccia al gigante. L’effetto sorpresa, su cui contavano i giapponesi, però non ci fu. I sommergibili Usa avvistarono la “forza speciale d’attacco” già la sera del 6 aprile. Tallonata dalla ricognizione aerea, la Yamato finì nel raggio d’azione dei nemici. A concederle un po’ di tempo fu soltanto il braccio di ferro fra gli ammiragli americani Spruance e Mitscher: il primo, comandante delle operazioni, non voleva spostare le portaerei da Okinawa, mentre Mitscher, capo di queste ultime, voleva a tutti i costi conquistare quel prestigioso trofeo di guerra. “Allora, vuoi essere tu a prenderla, o devo farlo io?”, comunicò a un certo punto Mitscher a Spruance. Così, alle 12:41, scoppiò l’inferno. Ben 380 aerei americani si lanciarono sulle navi nemiche. I primi attacchi si concentrarono sulla scorta, per limitare lo sbar-
ra già successo durante l’attacco nipponico alla base americana di Pearl Harbor, il 7 dicembre nel 1941: piloti giapponesi il cui velivolo era stato irrimediabilmente danneggiato si erano gettati contro navi o postazioni per immolarsi in un vortice di distruzione. Azioni simili si ebbero anche nelle forze aeree di altre nazioni. Del resto, la linea di confine tra missione speciale e atto suicida è sempre labile, in guerra. Precedenti. Gli stessi giapponesi, durante il conflitto contro la Russia del 1904-1905, organizzarono diverse azioni di questo tipo, ma impiegando reparti
ben addestrati. Nel 1944, invece, i comandi nipponici si affidarono a piloti inesperti (mancavano tempo e risorse per addestrarli), talvolta giovanissimi (un esempio per tutti: Yukio Araki, morto a Okinawa a soli 17 anni) per attaccare il nemico in missioni senza ritorno. Questi giovani piloti furono inquadrati nel reparto Tokubetsu Kōgekitai (Unità speciali di attacco) il cui simbolo divenne la figura del pilota suicida cinto in fronte con il tradizionale hachimaki, la fascia di tessuto decorata con il sole rosso simbolo della bandiera giapponese, e con ideogrammi che indicavano l’obbiettivo.
Venti divini (e mortali) Kamikaze contro la corazzata della marina americana Uss Missouri durante la battaglia di Okinawa, nel maggio del 1945.
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Cinque inutili super-corazzate
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el 1937 il Giappone decise di affiancare alle dieci vecchie navi da battaglia in servizio cinque gigantesche super-corazzate, lunghe 263 metri e con un dislocamento a pieno carico di quasi 73.000 tonnellate. Fino a quel momento non si era mai visto nulla del genere al mondo. Potentissime. Le navi sarebbero state armate con 9 cannoni da 460 millimetri. Erano capaci di sparare enormi proiettili da una tonnellata e mezza fino a 42 chilometri di distanza, mentre lo spessore della corazza raggiungeva un massimo
di 65 centimetri di solido acciaio. Delle cinque unità previste, la Yamato (che dava il nome alla classe di corazzate) e la gemella Musashi (affondata dagli americani nel 1944) furono completate nel 1941-1942. La terza unità, la Shinano, fu convertita in portaerei, e anch’essa venne affondata nel 1944. Una quarta unità, progettata nel 1940, rimase invece incompleta in cantiere, mentre la costruzione di una quinta supercorazzata venne cancellata, per fare poi spazio alla costruzione di nuove portaerei.
In competizione I due comandanti statunitensi a Okinawa: l’ammiraglio Raymond Spruance (a sinistra) e Marc Mitscher, allora vice ammiraglio. Durante le operazioni ebbero alcune divergenze.
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Gli ultimi istanti Gli ultimi attimi della Yamato: prima vira per sfuggire ai bombardieri (1) poi si inclina sotto i colpi di bombe e siluri (2) fino ad affondare (3). Esplose prima di scomparire nel fondo degli oceani con i suoi 3.000 uomini.
Quando la corazzata Yamato affondò nelle acque ramento antiaereo. Poi toccò al bersaglio grosso, la Yamato. L’ammiraglia giapponese imbarcava 170 pezzi contraerei e l’artiglieria pesante era equipaggiata con granate “san-shiki”, capaci di creare una cortina di ferro e fuoco davanti agli aerei che attaccavano a bassa quota. Ma resistere all’assalto di centinaia di aerei che erano il meglio della tecnologia dell’epoca, pilotati da veterani dal morale elevatissimo, era impossibile. Già alle 12:43 una nave scorta esplose, mentre poco dopo fu immobilizzato l’incrociatore Yahagi. Nel frattempo, anche la corazzata veniva martellata dagli aerei: la Yamato era come un orso finito in un gigantesco alveare. Rodeo nell’oceano. Il 36enne comandante veterano Harmon Utter, che coordinava i velivoli della portaerei Essex, ricorda: “I piloti dei bombardieri arrivavano
da tutte le direzioni, lanciati in picchiate pazzesche, e i piloti dei caccia si sbizzarrivano in tutte le manovre possibili. Gli aerosiluranti sfidavano i regolamenti sfiorando il pelo dell’acqua”. Quello però non era un rodeo: il nemico era un pericolo da distruggere rapidamente, anche perché gli aerei giapponesi avevano approfittato della situazione per attaccare a
Sbarramento Primavera 1945: un’unità anfibia impiega lanciarazzi per il supporto alle truppe da sbarco, durante la battaglia di Okinawa.
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dell’oceano Pacifico, si creò un gorgo di almeno 50 metri di diametro loro volta le navi americane, rimaste con scarsa copertura. Verso le 14 la Yamato, centrata da almeno 11 siluri e da un numero imprecisato di bombe, iniziò progressivamente ad affondare, per poi essere squassata da una gigantesca esplosione, lasciando un gorgo, secondo i testimoni, di almeno 50 metri di diametro. Una voragine liquida che trascinò con sé
3.000 uomini, compreso l’ammiraglio Ito. Sull’altro fronte, tra i piloti americani, le perdite furono, al confronto, ridicole: 10 aerei e 12 uomini. Il prezzo della vittoria. Messo a segno questo colpo, la battaglia per l’occupazione di Okinawa non era ancora conclusa. Agli Stati Uniti occorreranno quasi tre mesi, e mezzo milione di uomini,
per farla propria. E un prezzo enorme: 12.000 morti (compreso il generale in capo Simon Bolivar Buckner) e quasi 40mila feriti. Tra i giapponesi si contarono forse 300.000 vittime, civili compresi. I kamikaze volanti, anche in questo caso, si sacrificarono a centinaia: affondarono 27 delle 36 navi perdute dagli americani. • Giuliano Da Frè
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INQUINAMENTO
L’orma sapiens sull’AMBIENTE
Per milioni di anni la Terra è stata in balia dei capricci degli elementi naturali. Poi, un evento ha cambiato tutto. L’uomo con l’agricoltura ha iniziato a plasmare il pianeta. Non sempre in meglio. A cura di Anita Rubini
8000 a.C.
QUANDO L’UOMO INVENTO L’AGRICOLTURA
Per 500mila anni l’uomo aveva vissuto come cacciatore. Diecimila anni fa, con la rivoluzione agricola, in pochi millenni, si insedia in villaggi, costruisce città, crea imperi. POPOLAZIONE
10 MILIONI
Cifra stimata della popolazione prima dell’introduzione dell’agricoltura.
100 MILIONI
Il progresso demografico è accelerato dall’evoluzione delle coltivazioni: la popolazione diventa stanziale.
INQUINAMENTO Le uniche tracce di inquinamento provengono dall’accumulo di immondizia. Le conseguenze sull’ambiente sono tuttavia minime.
SFRUTTAMENTO RISORSE Motori del cambiamento sono piccole fattorie il cui impatto sull’ambiente è minimo. Le prime città sono agglomerati di edifici di fango, pietra, legno e paglia. 24
X-XIV secolo
CONTRADDIZIONI DELL’ETA DI MEZZO
Nel Medioevo gli uomini si stipano all’interno delle sicure mura delle città. Dove però possono scoppiare epidemie letali (come la Peste nera del ’300). POPOLAZIONE
300-400 MILIONI
Fino al 1347, anno della Peste nera (che riduce di almeno un terzo la popolazione in Europa), il saldo demografico è positivo.
INQUINAMENTO Spazzatura e metalli pesanti (come il piombo) inquinano aree vaste. E rendono disastrose le condizioni sanitarie.
SFRUTTAMENTO RISORSE Tra il X e il XII secolo si verifica un intenso diboscamento dell’Europa a nord delle Alpi e dei Pirenei: i campi coltivati invadono le foreste. L’impatto globale è relativo.
XVIII-XIX secolo
IL VAPORE FA LA RIVOLUZIONE
La società di oggi reca l’impronta di un cambiamento che si annuncia in Inghilterra alla fine del ’700: la rivoluzione industriale. Protagonista: la macchina a vapore. POPOLAZIONE
800 MILIONI
Il nuovo sistema di produzione (con l’uso di macchine) ha effetti di tipo demografico, indotti anche da migliori condizioni igienicosanitarie: dal 1750 la popolazione cresce a un ritmo senza precedenti.
INQUINAMENTO
SFRUTTAMENTO RISORSE
Diventa visibile anche a occhio nudo: le città industriali sono costantemente avvolte in una densa nube di fumo. Sostanze dannose inquinano anche l’acqua.
Con l’uso di carbone, che alimenta le macchine a vapore, compaiono emissioni di gas a effetto serra. D’altra parte la richiesta di legno fa scomparire intere foreste (che, quando sono intatte, assorbono l’anidride carbonica).
385
PARTI PER MILIONE (ppm)
Più della metà vive in città (entro il 2050 sarà il 70%). Sono in aumento le metropoli con più di 20 milioni di abitanti, ma senza uno sviluppo sostenibile rischiano il degrado.
INQUINAMENTO Interi ecosistemi sono andati perduti e le regioni più urbanizzate producono la maggior parte delle emissioni di CO2: la Cina, in questo, ha sorpassato gli Usa.
SFRUTTAMENTO RISORSE Le attività umane sono considerate la causa principale del cambiamento climatico globale. Basti pensare che l’uomo ha trasformato in terreno agricolo più superficie nei 30 anni dal 1950 al 1980 che dal 1700 al 1850.
ppm= parti per milione ppb= parti per miliardo
POPOLAZIONE
6 MILIARDI
385
240 2000 CH4 (ppb)
IL (NOSTRO) SECOLO DELLE CITTÀ
Il pianeta all’inizio del XXI secolo attraversa una crisi ambientale. L’uomo è stretto tra le pratiche distruttive del passato e la ricerca di metodi sostenibili.
DALL’INDUSTRIA ALL’ATMOSFERA I grafici mostrano come a partire dalla rivoluzione industriale (metà del ’700) siano aumentati i livelli di gas a effetto serra: anidride carbonica (CO2), metano (CH4) e protossido di azoto (N2O).
N2O (ppb)
XXI secolo
CO2 (ppm)
SOL 90 IMAGES
La concentrazione di CO2 (principale prodotto della combustione del carbone) nell’atmosfera all’inizio del XXI secolo. In epoca preindustriale, la concentrazione era sotto le 280 ppm. Il primo tentativo di limitarne le emissioni è stato il Protocollo di Kyoto (1997).
500 320
250 Anni 1000
1500
1750 2000 25
VITA QUOTIDIANA
Le parolacce erano nel vocabolario di Egizi, Greci e Romani e dei medioevali. Il turpiloquio è vecchio quanto l’uomo, anche se nei secoli è cambiato
MALEPAROLE SOZZO GUELFO TRADITORE!
FIORENTINO MARCIO!
Campanilismi In questa elaborazione di un dipinto ottocentesco di Giuseppe Sabbatelli si immaginano gli insulti che Piero Asino (fratello di Farinata degli Uberti, a cavallo) potrebbe aver scambiato nella battaglia del Serchio (1262) con il guelfo Cece de’ Buondelmonti, prima di uccidere quest’ultimo. A destra, un rebus “triviale” del 1902.
M
eretrix, cispa degli occhi, fritta- ni geroglifici e papiri, in cui Nefti, la dea dell’olta d’aglio, rubbatore di strade, tretomba, era definita una “femmina senza vulsozzo guelfo traditore, votacessi va”, il dio Thot un essere “privo di madre”, Ra e mangiamaccarruna. Tra paro- il dio Sole “con la cappella vuota”. I Greci, che preferivano non scherzare con i lacce, bestemmie e insulti, gli antichi ne avevano di modi per offendersi a vicenda. Que- fulmini di Zeus, imprecavano invece in nome stione di fantasia, di lingua lunga e sboccatag- del cavolo (“mé tén krambén”) ma anche “per gine, ma anche di tabù, pregiudizi e classi so- l’aglio”, “per il cane” e “per la capra”. Un vocabolario di latino aperto alle pagine ciali. E di una innegabile verità: il turpiloquio è vecchio quanto l’uomo. «Nonostante l’opinione giuste svelerebbe invece agli adolescenti che il di Dante Alighieri, secon- loro turpiloquio è roba da antichi: termini codo il quale la prima paro- me stercus (merda), mentula (membro maschiSTERCUS, MENTULA la pronunciata dall’uomo le), futuere (fottere), meretrix (prostituta) e scor“Merda” e “membro maschile”: due delle sarebbe stato il nome di tum (sgualdrina) li usavano già i Romani, come tante parolacce usate dagli antichi Romani Dio, è probabile che alcu- mostrano ad esempio i graffiti scurrili sui muri ni dei primi suoni emessi di Pompei. I medioevali, più pratici, attingevadai nostri antenati avessero la forma e la fun- no invece a piene mani dal mondo animale: bezione delle nostre attuali “parolacce” e siano stia, cagna, bacalare (baccalà), iumenta (vacnati come reazione istintiva e immediata a un ca), porco e scorfano. situazione di sorpresa, pericolo o dolore», afferEpoca che vai, insulto che trovi. Ma perma Romolo Giovanni Capuano, sociologo e au- ché consideriamo parolacce stercus e iumentore di vari saggi sull’argomento. ta e non, per esempio, “escremento” e “mucIrriverenti. Quando il linguaggio si fece più ca”? «Non esistono parole oscene in assoluto: articolato, si svilupparono anche insulti e osce- le parole sono di per sé neutre, siamo noi ad nità. «Si tratta in genere di parole associate a attribuire loro connotazioni emotive. Per quecomportamenti e sfere particolari, come il ses- sto il senso offensivo di alcune cambia a seconso e gli escrementi o una minaccia, ingiuria o da delle epoche e della società in cui si espriinsulto capaci di disgregare l’ordine sociale esi- mono», prosegue Capuano. Un esempio? “Marrano”, termine stente. La necessità di tenere a che indicava gli bada queste espressioni legittimaSCORTUM ebrei convertiti va l’istituzione di tabù ancora ogCome meretrix (“prostituta”) era riservato e che nella Spagi molto sentiti», spiega il socioloalle donne: in latino, “sgualdrina” gna medioevago. Ma i divieti, si sa, oltre all’oble era un insulto bedienza alla regola generano anche la reazione opposta: il fascino del proibito, gravissimo, punibile con la morte; oggi non lo che spinge l’uomo a infrangere i limiti imposti. usano nemmeno più i bambini, al massimo si Cosa che fecero gli Egizi nel III-II millennio trova in qualche vecchio film di cappa e spada. Lo stesso vale per “rubbatore di strade”, il noa.C., offendendo gli dèi senza particolare ritegno. Almeno stando all’interpretazione di alcu- stro “ladro”, a quei tempi una delle ingiurie più 27
Le parole sono neutre. Sono gli uomini a trasformarle in insulti, dando loro significati che riflettono costumi, leggi e pregiudizi delle varie epoche
Blasfemi Affresco sulla tomba della regina egizia Tausert, del XIII secolo a.C. Gli Egizi avevano un ampio campionario di offese riservate agli dèi.
frequenti e infamanti, dal momento che il furto era considerato un crimine condannato dai comandamenti di Dio e sanzionato quasi come l’omicidio. Ma avreste avuto il diritto di sentirvi molto offesi anche se qualcuno vi THOT, avesse detto “tu menti per la gola”, cioè PRIVO DI “bugiardo matricolato”: la fedeltà alla paMADRE! rola data, infatti, nel Medioevo era un pilastro della buona fama di una persona. I medioevali, razzisti e classisti, consideravano offensivo il termine “villano”, che indicava l’abitante della campagna, proprio com’era offensivo per i Romani dare del “sannita” a qualcuno. I fondatori dell’Urbe, infatti, consideravano questi italici, che si erano opposti strenuamente alle loro legioni, montani, agrestes e latrones, cioè “montanari”, “rozzi” e “briganti”. Non solo la provenienza, anche le professioni e il cibo più umile originavano termini sprezzanti per ogni occasione: i siciliani del Trecento erano mangiamaccarruna, i napoletani mangiafoglia (di cavolo). E nello stesso periodo si poteva squalificare un avversario dandogli del votacessi o dello “scardatore di castagne di villa”. Non toccare mia sorella. Quelli che invece non sono cambiati, dal Medioevo a oggi, sono i sentimenti scatenati dalle offese che tirano in ballo la famiglia: “figlio di uno traditoFIGLIO DI PREVETESSA re”, “figlio di prete” o, Ossia figlio dell’amante del prete. Versione ancora peggio, “figlio medioevale del “figlio di buona donna” di prevetessa”, cioè dell’amante del prete, erano tutti modi per dire, con i termini usati in un affresco della basilica di San Clemente in Laterano (Roma), “fili de pute”. Questa parolaccia fu la prima scritta in lingua volgare alla fine dell’XI secolo, in una delle scene che illustrano la vita di papa Clemente: è il pagano Sisinnio a presentare il laconico certificato di maternità ai propri servitori, incapaci di trascinar via il pontefice (“fili de pute, traìte”, cioè “tirate”, dice l’iscrizione), tramutatosi miracolosamente in pietra per sfuggire alla cattura. E non pensiate che gli insulti politici di parte siano una prerogativa moderna. Nei comuni medioevali divisi in fazioni e perennemente in lotta fra loro era facile offendere qualcuno in base al suo schieramento: a “mal ghibellino cacato” si poteva rispondere con “sozzo guelfo traditore”, ma anche con “fiorentino marcio” o, all’occorrenza geografica, con “sozzi marchisani” o “sozza romagnola”. Insomma, è evidente che gli uomini del passato
Offendere la roba altrui Il saccheggio di una casa a Parigi nel Medioevo: dare del “rubbatore” (ladro) a qualcuno era molto grave. In basso, l’espulsione degli ebrei dalla Spagna (1492). All’epoca “marrano” (ebreo convertito) era un epiteto pesante.
Persino Shakespeare fu un abilissimo artista offendevano e dicevano parolacce per sfogare rabbia, odio, indignazione o frustrazione, co- dell’offesa. Per sir John Falstaff, uno dei perme noi moderni, o, secondo alcuni antropologi, sonaggi dell’Enrico IV, coniò questa lunga seper provocare la reazione fisica dell’avversario. rie di insulti: “Gonfio fagotto di idropisia, imTurpiloquio d’autore. Ma c’era anche un al- menso barile di vin di Spagna, cassapanca stitro motivo, che già il poeta latino Marziale ave- pata di budella, manzo arrostito imbottito di va capito: “[...] queste mie rimette da sollazzo, porridge, reverendo vizio, canuta iniquità, pacosì come un marito a una moglie, non posso- dre ruffiano, decrepita vanità”. E quando, nel no piacere senza il cazzo. [...] Questa è la legge 1606, una legge di Sua Maestà stabilì che ogni del poeta smaliziato: non può piacere se non è espressione blasfema nelle opere d’arte saun po’ sboccato”. Non è un caso che in Grecia rebbe stata punita con una multa, cominciò a usare diviuno dei maestri del turpiloquio sia pagastato il commediografo Aristofane, MONTANI, AGRESTES, nnei t ànelle sue inventore di offese capaci di suscitaLATRONES imprecazioni. re grande ilarità tra il pubblico. Al“Montanari, rozzi, briganti”: così venivano trettanto abili furono i poeti comici Popolani. Il apostrofati dai Romani i Sanniti italiani: le ingiurie oscene di Rustiturpiloquio è co Filippi e il dispiego di escrementi dunque quenel poema La secchia rapita (1614) di Alessan- stione di classe, anche sociale. «Nelle classi indro Tassoni ne sono esempi. E che dire del Gra- feriori si è sempre visto lo strato sociale più incias y desgracias del ojo del culo, “Grazie e di- cline al turpiloquio. Ciò può essere vero, in consgrazie dell’occhio del culo” (1620-26), che lo siderazione del fatto che le parolacce spesso sospagnolo Francisco de Quevedo dedicò a “Jua- no il surrogato di parole che non si conoscono. na tantaròba, donna eccessivamente cicciona”? In questo senso, è stato detto, sono il vocabola-
VILI MARRANI !
I gestacci
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on solo a parole: gli uomini del passato, al pari nostro, erano bravi a insultare il prossimo anche a gesti. Il dito medio, evidente simbolo fallico, era conosciuto e usatissimo già dagli antichi Greci, che lo chiamavano katapȳgōn. Da loro lo ereditarono i Romani, che lo diffusero anche nel resto dell’impero con il nome di digitus impudicus, cioè “dito impudente”. Digitali. Molto usate nel Medioevo erano “le fiche”. Questo gesto osceno, ancora diffuso in Russia, consisteva nel chiudere la mano a pugno, infilando il pollice tra indice e medio, per mimare il rapporto sessuale (proprio il gesto con cui oggi “rubiamo il naso” ai bambini): un segno di sopraffazione (maschile) nei confronti di un avversario. Dante Alighieri lo attribuì nella Divina Commedia a Vanni Fucci, ladro pistoiese. E proprio ai pistoiesi apparteneva la torre della rocca di Carmignano (oggi in provincia di Prato) su cui erano state scolpite due braccia di marmo, rivolte verso la nemica Firenze, con le mani nel gesto delle fiche. Per questo motivo, pare, nel 1228 i fiorentini vittoriosi demolirono la struttura. Cornuti e mazziati. Altro gesto antichissimo erano le corna: nell’Europa mediterranea, chi le faceva con l’indice e il mignolo verso l’alto paragonava il destinatario dell’insulto al bue, il maschio castrato della mucca. Era insomma un modo per dare dell’impotente (o del tradito) a qualcuno. 29
Vietato dire parolacce
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ome succedeva quando eravamo bambini, chi diceva parolacce, soprattutto in certe epoche, non la passava liscia. Soprattutto se le rivolgeva a Dio. In Italia il reato di bestemmia è stato depenalizzato (e quello di turpiloquio abrogato) soltanto nel 1999. Ma già nel Levitico, il terzo libro della Bibbia, era scritto: “Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte; tutta la comunità lo dovrà lapidare”. Gli Egizi punivano i bestemmiatori con la decapitazione, i Greci con il taglio delle orecchie, i Turchi impedendo loro di accedere al governo. Nel Medioevo, in cui il “peccato di parola” era una specie di ottavo vizio capitale, chi fosse stato sorpreso a pronunciare parole indicibili subiva punizioni corporali: poteva essere messo alla berlina o alla gogna, fustigato o marchiato in fronte dopo la foratura della lingua con un ferro rovente. Puritanesimo. Nel XV secolo, nel Regno delle due Sicilie, gli Statuti del distretto di Piedimonte d’Alife consideravano gravi ingiurie “cornuto, traditore et puctana”. Ma l’Inghilterra ottocentesca fu senz’altro la più intransigente in materia di linguaggio da trivio: le parolacce e tutti i termini e le espressioni riconducibili al sesso vennero censurati. Così, per non infrangere i tabù, il poeta Robert Southey inventò una propria esclamazione priva di senso: Aballiboozobanganovribo. 30
Gli uomini da sempre offendono per sfogarsi e spesso per provocare la reazione (anche fisica) dell’avversario Offese da scrittore “Gonfio fagotto di idropisia”: in questi termini offensivi William Shakespeare descrive il suo John Falstaff (qui in un’incisione del XVII secolo), nell’Enrico IV. Sotto, il console romano Manio Curio Dentato rifiuta doni da un sannita.
rio del “deprivato” culturale», sostiene Capua- opere”. E persino un santo come Francesco d’Asno. Ovvero di chi ha avuto un’educazione ca- sisi usò qualche parolaccia. Proprio lui, si legge rente. Nel XVIII secolo l’idea che solo gli umi- ne I fioretti, consigliò a padre Ruffino di cacciali parlassero male era così radicata che il ve- re il diavolo rispondendo così alle sue tentazioscovo e futuro santo Alfonso Maria de’ Liguori ni: “Apri la bocca; mo’ vi ti caco”. In questo caso (1696-1787) specificava nel suo trattato di teo- il turpiloquio svolgeva una funzione apotropailogia morale che, benché parlare sboccato fos- ca: serviva cioè a tener lontano il male, un po’ se sempre peccato gravissimo, andava conside- come il nostro “in culo alla balena”, non insulrato una mancanza lieve nel caso to ma sboccato dei canti di mietitori, mulattieri e buon auspicio. JUANA TANTARÒBA vendemmiatori. Ma era anche la Donna “cicciona” a cui Francisco de maniera più effiParole sante. Chissà che cosa Quevedo dedicò il suo poema (XVII secolo) cace e diretta, riavrebbe detto de’ Liguori leggenspetto a tanti pado le missive del compositore austriaco Mozart, suo contemporaneo, famiglia roloni, di arrivare al popolo. Lo stesso uso che bene e gergo “escrementizio” di tutto rispetto: sempre più spesso ne fanno anche alcuni politi“[...] ho fatto rime: per la precisione tutte porche- ci dei nostri giorni, dai “Vaffaday” di Beppe Grilrie, cioè sulla merda, sul cacare e sul leccare il lo alle triviali esternazioni leghiste. • culo, il tutto con parole, pensieri [...] ma non con Maria Leonarda Leone
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Da Angkor Wat ai templi remoti che pochi hanno visto
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ENIGMI SVELATI I colossi di Pasqua
I moai, le gigantesche (e per molto tempo misteriose) statue di pietra dell’Isola di Pasqua.
CHI ERANO LE AMAZZONI?
I SEGRETI DEI PRECOLOMBIANI
LA SINDONE E GLI STORICI
DA STONEHENGE ALL’ISOLA DI PASQUA
GIALLI STORICI RISOLTI
I MOSTRI: VERITÀ O LEGGENDA?
LO SCRITTO DI VOYNICH
IL TESORO DI MUSSOLINI
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PRIMO PIANO
Le guerriere delle steppe asiatiche, i segreti di Maya, Aztechi e Inca, il sudario di Cristo, l’oro di Dongo, i luoghi e i personaggi più misteriosi della Storia
HIP/SCALA
PRIMO PIANO
LE AMAZZONI
SVELATE
Come gli uomini Amazzoni a cavallo in un dipinto del Novecento. Quella ferita è Camilla, di cui narra l’Eneide di Virgilio. A destra, un’Amazzone su un piatto greco del VI secolo a.C.
BRITISH MUSEUM/SCALA
Le ultime ricerche non lasciano dubbi: dietro al mito greco delle donne combattenti c’erano le guerriere delle steppe asiatiche
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na ferita mortale alla testa provocata da un’ascia. Una cintura bronzea da guerra e ai lati due lance, un arco e una faretra con 20 frecce; altre due lance all’ingresso della tomba. Ma se fosse un guerriero del IV secolo a.C. morto in battaglia, lo scheletro non avrebbe dovuto essere circondato anche da perline di vetro, braccialetti di bronzo e argento, uno specchio per truccarsi. Ritrovato in un tumulo (kurgan) a nord del Mar Nero, vicino all’antica città di Tyras, sul fiume Dniester, lo scheletro si è infatti rivelato essere quello di una femmina. L’ennesima prova dell’esistenza storica di donne guerriere vissute nel periodo in cui lo storico e viaggiatore greco Erodoto (484-425 a.C.) riferì delle Amazzoni. Mitiche? Oggi non ci sono praticamente più dubbi: le donne guerriere tanto temute dai Greci non sono da relegare nella sfera del mito. Con il progresso delle ricerche archeologiche e dei metodi per determinare il sesso di uno scheletro, anche a partire da pochi frammenti, si è stabilito che in molte necropoli delle steppe euroasiatiche, dalla Bulgaria fino alla Mongolia, le tombe degli antichi Sciti e Sarmati (popoli semi-nomadi di allevatori di cavalli) appartengono per il 37% a donne guerriere. Solamente per restare nella regione compresa tra i fiumi Danubio e Don, gli archeologi hanno scoperto 112 tombe di guerriere dal VI al IV secolo a.C., di età compresa fra i 16 e i 30 anni. Più a est, fra il Don e il Mar Caspio, dove Erodoto localizzava le Amazzoni, l’archeologa Renate Rollie ha scavato altre 40 donne combattenti. E le scoperte sono proseguite nella re35
Le “amazzoni” nereeta
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INTERFOTO/ALINARI
igure di donne guerriere si trovano anche in Africa Occidentale, nel regno del Dahomey (oggi Benin). Si tratta di un fenomeno parallelo, sorto in maniera autonoma. Il primo a utilizzare donne combattenti fu re Agadja (1708-1740), che ingaggiò un corpo di cacciatrici di elefanti fondato da un re precedente, facendone la guardia reale e poi una formazione d’assalto. Dal suo trono decorato con quattro teschi, re Guézo (1818-1858) utilizzò invece le “amazzoni” del Dahomey per spedizioni punitive, esecuzioni e sacrifici umani eseguiti tagliando la testa alle vittime o gettandole da una rupe chiuse in un cesto. In armi. Sotto il regno di Behanzin (1889-1894), le “amazzoni” del Dahomey (foto sotto) arrivarono a essere 5mila, più di un terzo dell’esercito locale. Perfettamente addestrate, venivano scelte fra prigioniere e donne sole, ma anche nella famiglia reale. Selezionate in base alla prestanza fisica, contavano fra di loro molte vergini e tutte dovevano rispettare l’astinenza sessuale durante il servizio militare. Erano armate con moschetto a pietra focaia di fabbricazione europea, un machete leggermente ricurvo e un grosso rasoio. Spesso avevano un chiodo legato al polso e denti fatti affilare apposta per poter mordere nel corpo a corpo. Le “amazzoni” nere non facevano parte di una società matriarcale, bensì di un dispotico regno maschilista, coinvolto nel commercio degli schiavi con i portoghesi.
CHE COSA SAPPIAMO
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LE ARMI Le descrizioni greche di armi e tecniche belliche delle Amazzoni coincidono in molti casi con i ritrovamenti degli archeologi.
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NEL MONDO Racconti di donne combattenti provengono anche da altre civiltà: ne parlano fonti dell’antico Egitto, della Persia, dell’India e della Cina.
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CULTO DEI MORTI Le donne guerriere venivano sepolte con le loro armi e i loro cavalli, come i combattenti maschi. Lo provano le tombe scavate finora.
Le Amazzoni sono molto rappresentate nell’arte antica. Colpivano l’immaginario dei Greci, le cui donne non avevano alcun diritto, tanto meno quello di combattere gione russa del Volga, nel Sud-ovest della Siberia e nel Sud-ovest dell’Ucraina. Accanto agli scheletri vengono talvolta ritrovati i resti di cavalli sacrificati che queste donne utilizzarono in pace e in guerra. Insomma, Erodoto aveva ragione: le Amazzoni sono esistite realmente e vivevano negli sconfinati territori che gli antichi chiamavano Scizia. Un recentissimo libro di Adrienne Mayor (The Amazons, Princeton University Press), ricercatrice ed esperta di tecniche militari dell’antichità all’Università di Stanford (Usa), si propone ora come lo studio più aggiornato sull’argomento. E, punto per punto, cerca di separare la realtà storica dal mito. Attrazione fatale. Nel mito, le Amazzoni sfidano i principali eroi greci, a cominciare da Bellerofonte, l’uccisore della mostruosa Chimera, che le sconfisse. Eracle, nella sua nona fatica, sottomette Ippolita, regina delle Amazzoni, per impossessarsi della cintura da guer-
ra d’oro donatale da Ares (il dio della guerra). Teseo, re di Atene, fa prigioniera l’amazzone Antiope e la sposa. Achille, infine, uccide Pentesilea, accorsa con altre compagne in aiuto di Priamo durante l’assedio di Troia: rimane talmente folgorato dalla sua bellezza, quando le toglie l’elmo dopo averla trafitta, da non potersi trattenere da un rapporto necrofilo, secondo una versione del racconto. Perché i Greci subirono fino a tal punto il fascino di quelle guerriere? «Le Amazzoni erano considerate fondatrici di importanti città dell’Asia Minore, tra cui Efeso e Smirne, e alcuni antichi cimiteri erano considerati luoghi di sepoltura delle loro eroine», spiega Mayor. Secondo le fonti greche, avrebbero persino invaso l’Attica (la regione di Atene) come risposta al rapimento di Antiope, assediando l’acropoli di Atene senza però espugnarla. «Tanto diverse dalle donne greche, che erano relegate in casa», evidenzia la
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SOCIETÀ Nelle steppe oltre il Mar Nero esistevano società matriarcali, in cui a prendere le decisioni erano anche donne, alla pari con gli uomini.
ricercatrice, «elegantemente equipaggiate per la guerra, libere e sessualmente attraenti, le Amazzoni catturarono l’immaginario dei Greci. Tanto che nelle rappresentazioni artistiche, dai vasi a figure nere e rosse fino ai fregi dei templi, risultano per frequenza di apparizione seconde soltanto al popolarissimo Ercole». Immagini fedeli. L’esistenza delle Amazzoni non è confermata soltanto dagli scheletri. «C’è anche una sorprendente corrispondenza tra le raffigurazioni delle Amazzoni nell’arte greca e i corredi funerari ritrovati nelle tombe delle donne guerriere degli Sciti-Sarmati», racconta Mayor. Le Amazzoni sono raffigurate spesso a cavallo, con archi corti, asce bipenni e scudi a mezzaluna. E indossano elaborate cinture da guerra, berretti o elmi a punta arricciata di tipo persiano (detti frigi). Tutti elementi in buona parte presenti anche nelle tombe. Mayor ha inoltre raccolto riferimenti alle Amazzoni da fonti “esterne”, cioè racconti e miti egizi, persiani, indiani e persino cinesi. «Anche in quelle culture si parla dell’esistenza, nelle steppe euroasiatiche, di gruppi di donne guerriere. E anche in quelle fonti si descrivono sfide fra campioni e campionesse. Le eroine però non finiscono uccise, come invece
BRITISH MUSEUM/SCALA
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PROVENIENZA Dalla Bulgaria alla Mongolia, su più di mille tombe degli antichi popoli seminomadi, il 37% sono di donne guerriere.
Scolpite In alto, Amazzoni su un sarcofago romano del III secolo a.C. A destra, elmo raffigurante una regina amazzone. 37
La Wonder Woman col lazo
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u un contenitore in terracotta ateniese di 2.500 anni fa, oggi appartenente alle collezioni dell’Università del Mississippi e anticamente destinato forse a gioielli e cosmetici, è stato recentemente individuato il disegno di un’amazzone a cavallo (foto). La cosa curiosa è che nell’immagine la guerriera è raffigurata con un “lazo”: fino a oggi è l’unica testimonianza di un’amazzone così equipaggiata, come una “cowgirl”.
ALINARI
Doppia lama Mosaico parietale, con amazzone armata di ascia bipenne, proveniente da Dafni (Grecia). Oggi è conservato al Louvre di Parigi.
Prima di ogni battaglia suonavano il sistro, strumento di origine egizia. Serviva Così le raccontano gli antichi
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otizie frammentarie sulle Amazzoni giunsero in Grecia dalle colonie che s’insediarono sul Mar Nero nel VII secolo a.C. Erodoto fu il primo, ma non l’unico, a parlare di loro. Basandosi su testimonianze raccolte nei suoi viaggi, sostenne come altri che erano originarie del Ponto (attuale Turchia, lungo la costa sud del Mar Nero). Poi si spostarono a nord, nell’estuario del fiume oggi chiamato Don, dove si unirono sessualmente a un gruppo di giovani Sciti locali, dando origine ai Sarmati come gruppo
etnolinguistico misto. Una ricostruzione leggendaria, ma che conferma il collegamento che fanno oggi gli archeologi fra le Amazzoni e gli Sciti-Sarmati. Parentele. Lo storico Diodoro Siculo scrisse sulle Amazzoni verso il 65-50 a.C., individuandole come le donne degli Sciti e anche dei Saka, aggressive e abili come gli uomini in battaglia. Nella sua ricostruzione, che sconfina nel mito, una capa guerriera con base nel Ponto si proclamò figlia di Ares e condusse importanti campagne militari. Diede vita
a nuove leggi secondo le quali le donne dovevano tutte essere impegnate nel servizio militare e gli uomini adibiti ai lavori domestici, a filare la lana e ad accudire i bambini. Fin da piccoli, secondo Diodoro, i maschi dovevano tenere le gambe legate in modo da limitarne i movimenti, mentre alle ragazze veniva bruciato un seno per meglio farle tirare con l’arco. Nelle arti. L’interesse per le Amazzoni coinvolse i più grandi artisti greci, come Fidia e Policleto. Per quella società, patriarcale e maschilista, rap-
presentavano un sorprendente ribaltamento di ruoli. E, come insegna la Poetica di Aristotele, per creare avventure epiche non c’è niente di meglio. Realismo. Ma ci fu anche chi, come il geografo e storico greco Strabone, nato nel Ponto circa nel 60 a.C., descrisse le Amazzoni in modo realistico già nell’antichità. Per lui erano un gruppo etnico composto sia da uomini sia da donne che vivevano con gli stessi diritti, originari del Ponto e poi spinti a migrare nel Caucaso dove ancora, nel I secolo a.C., vivevano.
In guerra a cavallo
BRITISH MUSEUM/SCALA
Statuette in bronzo del VI secolo a.C. di Amazzoni a cavallo, con l’elmo frigio.
Il look
delle Amazzoni
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ella foto un’anfora a figure rosse in ceramica risalente al VI secolo a.C. Ritrae alcune Amazzoni a cavallo con gli abiti e le divise tradizionali, riferiti anche dalle fonti scritte.
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to di un cavallo e con l’arco, uomini e donne erano cioè ugualmente efficaci in guerra e nella caccia. Insomma, se l’uso dell’aratro pesanErano qui te in agricoltura, i combattimenti a piedi con Il mondo secondo spade e lance, avevano reso in Occidente e alErodoto e l’area trove l’uomo più importante della donna, il cad’origine delle Amazzoni. vallo e l’uso dell’arco fra gli Sciti-Sarmati posero i due sessi sullo stesso piano. Con riOceano sultati evidentemente apprezzabili dal punto di vista bellico: le EUROPA tombe di donne guerSciti Amazzoni ) riere delle steppe troo i b u (D an vate dagli archeoloIstro Sarmati gi coprono infatti un Mar Nero Mar Caspio arco di tempo di milAras (Volga) Egeo PONTO le anni. E quando nel Persiani mondo greco e latino ASIA gli uomini indossavaLIBIA Indo no ancora tuniche e Indiani Nilo gonne corte, le donne delle steppe usavano Oceano già pantaloni e stivali. Lo dimostrano ancora una volta le raffigurazioni artistiche classiche, dove le Amazzoni, con i seni nascosti da leggere armature, si distinguono dai guerrieri greci perché hanavviene nei miti greci. Se sconfitte, diventano no i pantaloni, oltre che lo scudo a mezzaluna compagne del vincitore e in molti casi le sfide e l’elmo “frigio”. finiscono con un pareggio». Questi diversi fiPoteri magici. Un ultimo esempio di parità nali riflettevano la realtà delle cose: «Le Amaz- fra gli Sciti-Sarmati riguarda l’usanza di farsi zoni “greche” non formavano comunità con i tatuare il corpo con figure magiche e animamaschi». Ma come mai il fenomeno delle don- li totemici (sorta di numi tutelari): orsi, cervi, ne guerriere sorse fra questi popoli e non, po- alci, tigri, aquile e creature immaginarie dotate niamo, fra i Sumeri, i Greci o i Romani? La ri- di corna e becco. E il consumo di droghe imsposta è da cercare nell’economia di quei po- piegate nei riti sacri. I segreti magico-religiosi poli asiatici. erano dunque aperti anche alle donne (contraPari opportunità. Gli Sciti e i Sarmati aveva- riamente a quanto accadeva nelle società pano una società basata sull’allevamento dei ca- triarcali). Tatuaggi sono stati identificati sulla valli, che esponeva i diversi gruppi al pericolo pelle di diverse donne guerriere mummificadei furti, oppure li spingeva alle razzie. Inol- te e in alcune sepolture sono stati trovati antre, il controllo dei pascoli era un altro possibi- che gli strumenti per realizzare i tatuaggi, cole motivo di conflitto. Se molti maschi moriva- me aghi, carbone e “forme” in pelle. Abituate a bere latte di cavalla fermentato (a no in battaglia, era vitale che le femmine potessero prendere il loro posto, armi in pugno, causa dell’alto contenuto di lattosio), le Amazper la sopravvivenza della comunità. «Bande zoni non erano dunque sempre lucide. E non composte interamente da donne, l’idea che ha soltanto sul campo di battaglia. Come narra più alimentato il mito delle Amazzoni pres- Erodoto e come confermano vasi greci e reperso i Greci, potevano costituirsi in casi eccezio- ti funerari, portavano con sé una piccola tenda nali come conseguenza di queste necessità», smontabile in cui si introducevano per inalare precisa Mayor. «Ma il coinvolgimento milita- a pieni polmoni il fumo di semi di canapa (cioè re delle donne era la regola anche in presen- marijuana) posti in appositi bracieri. Si pensa za di sufficiente forza maschile, in particolare che lo scopo fosse quello di mettersi in contatprima che queste avessero figli. L’elemento di to con gli spiriti tutelari. Ma non si può escluparità fra uomini e donne fu l’uso del cavallo, dere che si tratti anche di uno dei primi esemal quale si aggiunsero archi corti per scoccare pi di uso voluttuario della cannabis. • frecce al galoppo, persino all’indietro». Dall’al Franco Capone Euf
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e
a propiziarsi le divinità
Con i pantaloni Le donne delle steppe usavano i pantaloni e portavano gli stivali, per cavalcare con il massimo comfort ed evitare abrasioni.
Arco e scudo Erano armate di arco corto, scudo a mezzaluna, leggera armatura ed elmo di tipo frigio, come quello dei Persiani. 39
PRIMO PIANO
MISTERI
PRECOLOMBIANI
Gli enigmi risolti dagli archeologi (e quelli rimasti senza soluzione) di Inca, Aztechi, Maya e degli altri popoli delle Americhe Testi di Antonio Aimi
A sinistra, nel cerchio rosso l’abaco “immateriale” con la sequenza di Fibonacci (1, 2, 3, 5...). Sopra, le rovine di Machu Picchu, cittadella incaica.
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Come funzionano le yupana inca?
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orse non tutti sanno che quello degli yupana è uno dei più grandi misteri degli Inca (i precolombiani dell’altipiano andino), sul quale per secoli gli studiosi si sono spaccati la testa. Mistero oggi svelato: gli yupana erano strumenti di calcolo, tipo l’abaco, e potevano essere materiali o immateriali. Quelli materiali sono in pietra o in legno (a destra, un esempio)
a forma di cubi sovrapposti o di scacchiera tridimensionale. Quelli astratti invece erano schemini a scacchiera, nei quali ogni casella rappresentava un numero. Utili alla memorizzazione, potevano essere riprodotti ovunque, disegnandoli. Matematici. Fino a un quindicennio fa, nei musei e nelle mostre sugli Inca, gli yupana venivano genericamente classi-
ficati come “modellini di fortezze”. Ma non tutti ci credevano. Decisiva è stata la scoperta di un yupana immateriale nella Nueva Crónica y Buen Gobierno di Guaman Poma de Ayala (cro-
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Terracotta in una tomba di El Brujo (Perù). A lato, una statuetta di uomo-gufo di cultura moche, sempre dal Perù.
Chi sono gli uomini-gufo dei Moche?
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ella cultura moche, civiltà pre-incaica sviluppatasi nel I-VII secolo d.C. lungo la costa del Perù, sono frequenti le immagini zoomorfe, statuette raffiguranti esseri metà uomini e metà animali. Tra questi, uomini-gufo che impugnano un tumi (coltello rituale), figure enigmatiche di volta in volta identificate come “esseri fantastici” o
“figure mitiche”. Il mistero è stato risolto a partire dalle scoperte, avvenute nel 1978, di un archeologo statunitense, Christopher Donnan. Lo studioso ha esaminato migliaia di figure di questo tipo, concludendo che il gufo dalle sembianze umane faceva parte di un racconto mitico che prevedeva una scena di un sacrificio umano.
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nista del vicereame del Perù, del XVII secolo), che riproduceva la sequenza matematica detta “di Fibonacci” in cui ogni numero è la somma dei due precedenti in un sistema di calcolo posizionale (cifre con valori diversi a seconda della posizione). Confrontando la yupana di Ayala con quelle materiali si scoprì che anche queste funzionavano con lo stesso sistema, oltre che con quello a base 10 di cui parlano le cronache.
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Il gufo antropomorfizzato aveva la funzione di offrire una coppa col sangue del sacrificato al personaggio più importante del mito. Sacerdote. Altre scoperte archeologiche successive a Sipán (nel 1987 e nel 2007), a El Brujo e a San José de Moro (dal 2005 in poi), hanno però mostrato che la scena ricostruita da Donnan non
descriveva un evento mitico, ma un rituale concreto: la “Cerimonia del sacrificio”, alla quale partecipavano donne e uomini dell’élite moche. Il gufo-uomo simboleggiava il sacerdote-guerriero, che officiava il rito, al quale venivano attribuite le caratteristiche del gufo, predatore notturno di animali considerati dannosi per i raccolti.
Come si leggono i quipus?
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li Inca erano ingegnosi: insieme agli yupana (abaco inca, v. riquadro a sinistra) anche i quipus (foto) sono oggetti della loro cultura che nascondono qualche mistero. Si sa che i quipus sono strumenti mnemotecnici (per memorizzare cifre o dati), costituiti da una corda principale alla quale sono appese altre corde sulle quali venivano fatti dei nodi. A queste corde, volendo, si possono aggiungere altre corde e nodi. Nei quipus “numerali” ai nodi corrispondono dei numeri. Rebus inca. La lettura della maggior parte dei quipus conosciuti (l’80% sono “numerali”), non è difficile poiché i nodi seguono il sistema decimale e i numeri sono indicati dalla forma del nodo e dal numero degli avvolgimenti. Tuttavia esistono quipus indecifrabili, con nodi non riconducibili a cifre ma più a nomi di località o di popolazioni. Un passo del
gesuita José de Acosta, uno dei cronisti più importanti della civiltà incaica afferma: “Gli indiani del Perù rimediavano alla mancanza di scrittura e di lettere, in parte con pitture e in parte coi quipus. I quipus sono dei memoriali o registri fatti con corde nelle quali diversi nodi e colori significavano diverse cose. Ed è incredibile quello che raggiunsero in questo modo, perché quanto i libri possono raccontare di storie, leggi e cerimonie e calcoli, tutto questo lo sostituiscono i quipus, altrettanto precisamente”. Osservando le variazioni di colore e di torsione delle corde, qualcuno ha ipotizzato che i quipus “non numerali” siano una scrittura basata su combinazioni binarie con 1.536 “unità informative” o sillabe. Ma forse sono troppe, c’è chi afferma che per rappresentare le sillabe in lingua quechua (lingua inca) bastano 90 nodi corrispondenti ad altrettante “unità informative”. 41
Come fu distrutta Teotihuacán?
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el 500 d.C. Teotihuacán, una città-Stato dell’attuale Messico fondata da un popolo non ben identificato ed estesa su 22,5 km2, era abitata da circa 100mila persone. Controllava un territorio non più grande della Sicilia, ma esercitava una indiscussa egemonia su tutta la Mesoamerica. Poi all’improvviso, verso il 550 d.C. fu attaccata e distrutta. I membri dell’élite furono massacrati, templi e complessi residenziali furono incendiati e distrutti con una ferocia che ha pochi paragoni nella Storia. Per secoli ci si è chiesti il perché. Invasori. Per spiegare questo fenomeno si è fatto ricorso a due modelli: quello
delle invasioni di altri popoli, (Toltechi, secondo alcuni), o quello di un’insurrezione contadina. Entrambe le spiegazioni, però, hanno un difetto: sono ispirate a fenomeni tipici delle civiltà europee, ma estranei a quelle precolombiane. Avvenne probabilmente un’altra cosa: lo Stato teotihuacano, fondato sulla conquista territoriale, era cresciuto troppo. Collasso. A Teotihuacán si verificò una situazione destinata a ripresentarsi altre volte tra i precolombiani: la città più forte conquista quelle deboli, ma lascia sovrani e leggi locali, limitandosi a riscuotere i tributi. In questo modo le po-
polazioni conquistate non si integrano nello Stato egemone, che continua a essere visto come un corpo estraneo e parassitario. Allargando il suo dominio, lo Stato teotihuacano aumentò il numero dei nemici senza far crescere in modo adeguato la coesione sul territorio acquisito. E così fatalmente si arrivò a un punto di rottura: le città conquistate riuscirono a coalizzarsi contro il potere centrale, si ribellarono allo
Stato egemone e distrussero i simboli di un “oppressore” che conoscevano bene e che odiavano con ferocia. Saranno gli Aztechi, ammirando quelle imponenti rovine, a chiamare la città Teotihuacán, “dimora degli dèi”.
Abbandonata La piramide del Sole a Teotihuacán (Messico). Teotihuacán cadde in rovina intorno al 600 d.C. e fu abbandonata molto prima della “riscoperta” da parte degli Aztechi. Sotto, ricostruzione dell’interno della Piramide del Serpente Piumato, nella stessa città.
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Ingresso Il pozzo di accesso al condotto sotterraneo è stato identificato nel 2003. Il tunnel è stato esplorato dagli archeologi a partire dal 2009.
Camere segrete
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Lungo il condotto si trovano due camere intermedie laterali, mentre altre tre si trovano al termine del condotto. Il tunnel si sviluppa a una profondità compresa fra 13 e 16 metri.
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Sigillato Il condotto segreto fu chiuso con 18 muri, spessi fino a 3 metri, ma poi aperti con varchi. Circa 1.800 anni fa fu murato definitivamente.
È vero che gli Aztechi sacrificarono 80mila persone in una volta sola?
Alla vigilia della conquista spagnola nella Valle del Messico, cuore della civiltà azteca, si raggiunse un livello di sviluppo e di popolazione insuperato fino a inizio Novecento
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Perché c’è del mercurio liquido sotto la Piramide del Serpente Piumato?
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roprio sotto la Piramide del Serpente Piumato a Teotihuacán (in Messico) si trova una camera sotterranea dove è stata trovata una pozza di mercurio liquido. Considerando che la galleria si sviluppa lungo il livello della falda freatica e che alcune delle sue camere erano rivestite da polvere minerale di pirite, ematite e magnetite, si potrebbe pensare che il tunnel riproducesse in piccolo la visione del cosmo dei Mesoamericani.
Aldilà. La pozza di mercurio rappresenterebbe l’”Inframondo”; il piano della galleria invece la superficie terrestre; e il soffitto e le pareti delle camere il “Mondo di Sopra” (i cieli). I minerali del rivestimento delle camere riflettevano la luce delle torce, creando un luccichio come quello del cielo stellato. Per capire, però, il significato dell’offerta di mercurio liquido e il senso dei simboli della galleria si può avanzare un’altra ipotesi.
i dice che durante la cerimonia di consacrazione per l’ampliamento del Templo Mayor di Tenochtitlán (dove oggi si trova Città del Messico) nel 1487 gli Aztechi abbiano sacrificato migliaia di vite umane. Precisamente 80mila, almeno secondo quanto riporta lo storico del XVI secolo Diego Durán, autore di uno dei primi libri sulla storia della civiltà azteca. Durán scrive: “Dice il documento (il codice indigeno che usava come fonte, ndr) che questo sacrificio durò quattro giorni senza interruzioni dalla mattina al tramonto e che vi morirono 80.400 prigionieri. Cosa che mi sembrerebbe incredibile, se non fossi obbligato a prenderla per buona avendola trovata scritta e dipinta in molte altre fonti”. Parallelamente, un altro testo, il Codex tellerianus-remensis, parla della stessa cerimonia (sotto, la relativa illustrazione) riportando, con glifi (i segni della scrittura precolombiana) aztechi, il numero di 20mila vittime. Nonostante le differenze, queste cifre conferme-
rebbero sacrifici umani di massa. Eppure prendere alla lettera le fonti non sempre funziona. Due conti. Nel 1487 Tenochtitlán aveva circa 100mila abitanti e uno sterminio del genere risulta inverosimile. Grazie alle fonti azteche possiamo ricostruire le fasi del sacrificio e fare qualche calcolo. I prigionieri dovevano salire alla sommità del tempio; la vittima di schiena sulla pietra era immobilizzata da quattro sacerdoti, mentre un quinto squarciava all’uomo il torace e gli strappava il cuore. Dopodiché il corpo veniva fatto rotolare giù per i gradoni fino alla Pietra di Coyolxauhqui. In fondo alla scalinata gli arti e la testa venivano separati dal tronco con coltelli di selce. Si calcola che la procedura richiedesse circa 10 minuti per ogni sacrificato: per ucciderne 80mila ci sarebbero voluti 3 anni. La bufala si originò forse da un’errata interpretazione dei numeri aztechi e dal travisamento delle fonti da parte dello storico Durán.
Offerta. Il mercurio liquido si ottiene riscaldando il cinabro, un minerale che in America Centrale era utilizzato per decorare i corpi dei defunti e le offerte funerarie. Si potrebbe dunque pensare che il mercurio liquido fosse un concentrato di cinabro (a uso funerario) oltre che il simbolo del fiume dell’Inframondo. Questa interpretazione potrà essere confermata solo se nei pressi della pozza di mercurio saranno trovate le tombe dei primi re. 43
I glifi maya sono una scrittura? I
Glifi maya (nella parte alta dell’immagine) su un’architrave del sito archeologico di Yaxchilan, che si trova nello Stato del Chiapas, in Messico.
segni (detti glifi) che i Maya – il cui impero si estendeva dallo Yucatan messicano, al Guatemala, al Belize, e parte di Honduras e di El Salvador – rappresentano una vera e propria scrittura oppure sono, come sosteneva Eric Thompson (esperto di Maya scomparso nel 1975), rappresentano solo nomi di divinità e date? ll russo Jurij Knorosov che, pur vivendo ai margini della comunità scientifica (lavorò nell’Urss di Stalin e Breznev), comprese che i glifi maya hanno un valore fonetico (rappre-
sentano cioè dei suoni) e che la scrittura maya è logo-sillabica, è fatta di segni che possono rappresentare sia parole con un senso compiuto, sia sillabe. Decifrato. Grazie alle intuizioni dello scienziato russo, la generazione successiva di studiosi ha decifrato la scrittura maya. Oggi sappiamo che i testi del Periodo classico (300-900 d.C.) sono scritti in Ch’olti classico, una lingua oggi estinta che probabilmente si era affermata come lingua franca ufficiale, come in Europa il latino in età medioevale. La prova più evi-
I Maya non stavano aspettando la fine del mondo, ma il termine del ciclo del Perché la profezia dei Maya non si è avverata?
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rmai lo sappiamo: il 21 dicembre 2012, il giorno in cui il Conto Lungo (uno dei calendari usati dai Maya) segnava la data del 13.0.0.0.0, ovvero la stessa del giorno della creazione secondo quel popolo, il mondo non è finito. Ma da dove veniva questa falsa profezia? Buono o cattivo? Tra centinaia di testi dei Maya del Periodo
Classico (300-900 d.C.) questa data viene menzionata in modo esplicito soltanto in due reperti archeologici: il Monumento 6 di Tortuguero, in Messico, che annuncia un evento a cui parteciperà il dio Bolon Yookte (il Dio dei Nove Pali), e il Blocco 5 della Scalinata Glifica 2 di La Corona, antica città maya oggi in Guatemala. A La Corona la fatidica data
Civiltà forestale Le piramidi di Tikal (Guatemala) emergono dalla foresta tropicale. A destra, ricostruzione dei glifi sul Monumento 6 di Tortuguero (Messico), che contengono la data della presunta fine del mondo. 44
non ha però valenze negative. Anzi, è citata in un contesto apertamente celebrativo. A Tortuguero, invece, potrebbe avere un valore escatologico e apocalittico, visto che Bolon Yookte è una divinità associata alla creazione del mondo. Ri-creazione. Ciò che confermano i due reperti è che per i Maya il 13.0.0.0.0 sarebbe stato
un giorno importante. Per la prima volta dopo 5.125,3661 anni (cioè dopo 1.872.000 giorni) il calendario sarebbe tornato a indicare la data del giorno della creazione. All’interno di una concezione ciclica del tempo come quella maya, significava una rinascita dell’umanità. Che del resto, secondo i Maya, era già avvenuta quattro volte.
Il campo dente che sono una scrittura, è data non tanto dalle decifrazioni di testi quanto dal fatto che con i glifi maya si può scrivere e leggere qualsiasi cosa. Poco loquaci. Questa scoperta ha sollevato però anche qualche nuovo interrogativo: perché, nonostante le culture precolombiane dell’America Centrale avessero un vasto repertorio di glifi, soltanto alcune, quella maya e quella degli Epi-Olmechi (abitanti dell’odierno Stato messicano di Veracruz), li utilizzarono per produrre testi articolati?
Il canestro
loro calendario
Come si giocava a
palla?
l gioco della palla o ulama era una delle manifestazioni religiose più importanti e significative della Mesoamerica. Poteva essere giocato in spazi aperti o in costruzioni apposite, i tlachtli, strutture strette e lunghe delimitate o da bassi muretti o da grandi costruzioni con pareti inclinate o verticali (sopra). Sulle pareti erano inseriti degli anelli (a destra). Il terreno dei tlachtli era diviso a metà dai marcadores che delimitavano il campo di ogni squadra. Nel corso di circa 3.000 anni, nel succedersi delle civiltà, l’ulama fu praticato in modi molto diversi. Ciò ha reso misteriose le regole di questo sport rituale.
Giochi pericolosi. Nella variante praticata dai Maya nel periodo Postclassico (dopo il 900 d.C.) la palla di caucciù doveva essere colpita solo con le anche o con le cosce (sotto), non doveva mai toccare il terreno né uscire dal campo da gioco. Se, evento eccezionale, una squadra riusciva a far passare la palla attraverso gli anelli sospesi sul campo, veniva immediatamente dichiarata vincitrice e il capitano dei perdenti veniva decapitato. A lungo si è discusso proprio su questo punto: chi veniva ucciso, il vincitore o lo sconfitto? Con il passare del tempo l’ulama acquisì sempre più una componente profana
KENNETH GARRETT/NATIONAL GEOGRAPHIC CREATIVE
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(senza sacrifici umani). Le partite cominciarono a essere accompagnate da un “tifo” appassionato e da scommettitori che si potevano rovinare puntando sulla vittoria di una squadra o dell’altra. Osservando come si calcolano i punti là dove l’ulama è ancor oggi praticato, si ipotizza che vincesse la squadra che totalizzava esattamente un dato punteggio, non di più e non di meno.
I giocatori
GETTYIMAGES
PRIMO PIANO
La versione degli storici e degli scienziati su quello che per la tradizione cristiana è il lenzuolo funerario di Gesù
IL SUDARIO DELLA
DISCORDIA
I
l 20 giugno 1353, Geoffroy I de Charny (1300-1356), signore di Pierre-Perthuis, Montfort, Savoisy e Lirey, devotissimo, colto e coraggioso cavaliere, fonda una chiesa. È dedicata a Santa Maria e sta nel piccolo villaggio di Lirey (Francia Nord-orientale). In quella chiesa fa la sua prima apparizione la reliquia forse più misteriosa e certamente più controversa di tutte, la Sacra Sindone. Ovvero un lenzuolo di lino lungo 441 cm e largo 111, con impressa l’immagine di un uomo: Gesù, per i credenti, che in quel lenzuolo (sindon in greco) sarebbe stato avvolto prima di essere deposto nel suo sepolcro. Ma è veramente così?
L’
impronta visibile sul telo è solo un dipinto; il tessuto non ha la trama tipica dell’epoca di Gesù; sono presenti tracce di sangue. Sulla Sindone di Torino sono circolate nei secoli tante presunte verità. Ecco a quali credere e a quali no, in base ai risultati dei più recenti studi scientifici.
“La datazione con il metodo del carbonio-14 FALSO non è affidabile” Anche se le misure effettuate sul telo della Sindone potrebbero essere state alterate da una contaminazione, il metodo del C-14 continua a dare in archeologia ottimi risultati. “L’immagine sindonica non è un dipinto” L’impronta non è dovuta a coloranti, ma a un ingiallimento delle fibre di cellulosa. Ciò non significa che sul tessuto non siano stati trovati pigmenti, né che il telo non possa essere un manufatto.
PICTURE DESK/MONDADORI PORTFOLIO
Atto di fede A sinistra, il volto della Sindone e, a destra, un dipinto che mostra come l’immagine si sarebbe impressa sul telo dopo la deposizione del corpo di Cristo dalla croce. Oggi la reliquia è conservata nel Duomo di Torino, dove quest’anno si è tenuta l’ostensione.
Vero o falso?
Caccia alle fonti. Nei tre documenti vescovili e nei quattro papali che nel 1354 citano la chiesa di Lirey, del Sacro Telo non si fa cenno. Come è arrivato fin lì? Nel 1389, Geoffroy II, figlio del fondatore di Lirey, dichiarò che la reliquia era stata regalata a suo padre, non disse né da chi né perché. La figlia di Geoffroy II, Margherita, dichiarò invece, cinquant’anni più tardi, che suo nonno l’aveva conquistata in una campagna militare. Certo è che l’ostensione del sudario richiamava a Lirey un gran numero di pellegrini e di elemosine. E forse anche per questo le autorità ecclesiastiche del tempo sollevarono i primi dubbi. Il vescovo di Troyes, Pierre d’Arcis, nel 1389,
VERO
“Sulla Sindone sono state trovate tracce di DUBBIO sangue” La questione è controversa: alcuni scienziati affermano di averne osservato le reazioni chimiche, per altri le stesse sono dovute a sostanze diverse dal sangue. “La tessitura del Sacro Telo è tipica dell’epoca di Gesù” Numerosi ritrovamenti confermano che i tessuti dei sudari in uso ai tempi di Gesù avevano una trama molto più semplice di quella riscontrata sulla Sindone. “Gli occhi dell’uomo della Sindone erano coperti da monete del tempo di Pilato” Non solo è inconsistente la leggibilità delle presunte tracce lasciate dalle monete sugli occhi, ma ciò era contrario agli usi ebraici. 47
FALSO
FALSO
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In Oriente si diffuse la tradizione del Mandylion, una pezza usata da Gesù su cui rimase impresso il volto. In questo caso, raffigurato a occhi aperti
Datazione “inquinata”
Santa Veronica e il velo con il volto di Gesù in un dipinto di El Greco, del 1580. Secondo una delle versioni della tradizione, fu la santa la prima a possedere la reliquia che alcuni fanno coincidere con il Mandylion di Edessa.
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Z T 4 cm
Tre laboratori (Oxford, Tucson e Zurigo) nel 1988 sottoposero 4 cm della Sindone all’analisi al radiocarbonio su diversi punti del frammento. Ecco i risultati. A causare le differenze di datazione forse fu una contaminazione del campione, che comunque non risalirebbe ai tempi di Gesù. OXFORD 1205
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ZURIGO 1311
125 0 1217
TUCSON 1315
130 0 1271
1344 1359 135 0 1249 1260
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Culto artistico
A sua somiglianza Il Volto di Manoppello, immagine dai credenti considerata “acheropita” (che non sarebbe stata realizzata da mano umana) e venerata in provincia di Pescara.
nel 1460, per essersi sempre rifiutata di restituire ai legittimi proprietari la Sindone), a donare la reliquia a Ludovico, duca di Savoia, e a sua moglie Anne de Lusignan. Con l’ingresso dei Savoia in questa vicenda, la storia della Sindone subì un’accelerazione. Da quel momento divenne, in tutti i documenti, il sudario che aveva avvolto il corpo di Cristo. Perché? Di certo i Savoia avevano tutto l’interesse a sostenere l’autenticità del Sacro Telo: fin dai tempi di Carlo Magno le reliquie legittimavano
monarchie e casate, essendo un segno di protezione divina. E proprio in quegli anni la casata savoiarda si stava accreditando presso le principali corti europee. Fasti savoiardi. L’11 giugno 1502, quando fu trasferita con una sontuosa cerimonia nella Sainte Chapelle di Chambéry (nel Ducato di Savoia), la Sindone ebbe la sua definitiva autenticazione: “Sacrosanto Sudario nel quale il corpo santissimo e preziosissimo del nostro redentore Gesù Cristo fu avvolto dopo che fu deposto dal salvifico patibolo come dimostrano non solo le ferite o piaghe, e anche i segni del preziosissimo sangue, ma tutta la forma del Santissimo Corpo”. La “forma”, ovvero la somiglianza con le raffigurazioni di Gesù fin dai tempi delle prime icone. Seguirono le bolle dei papi Sisto IV (1480), Giulio II (1506) e Leone X (1518), con relative indulgenze. In un intreccio di fede e politica si moltiplicarono le manifestazioni di devozione dei sovrani: Filippo I di Spagna, Francesco I di Francia, Carlo III di Savoia. La Sindone era diventata la reliquia dei vip. La parola alla scienza. Fin qui la storia dell’oggetto-Sindone nei documenti, che non permettono di spingersi più indietro del ’300. Ma che cosa dice la scienza, di quel lenzuolo? Nel 1988, un lembo della Sindone, di circa 4 centimetri, fu sottoposto alla tecnica di datazione del carbonio-14 (v. riquadro nella pagina accanto).
Non solo a Torino: le altre “sindoni”
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a Sindone di Torino non è sola. A farle compagnia ci sono le icone “acheropite”, cioè “non fatte da mano umana”, immagini di Cristo che la tradizione attribuisce a prodigi. Una di queste era la Camuliana, da Camulia, cittadina della Cappadocia (Turchia). Qui, nel 289, secondo il racconto di Gregorio di Nissa, Cristo apparve a una donna pagana che pregava per avere un’immagine da venerare. Cristo così impresse la sua immagine su un telo che la donna si affrettò a nascondere. “Fotografato”. Ma la vicenda più affascinante è quella del Mandylion (letteralmente: “panno”). Secondo la tradizione comincia a Edessa ai tempi in cui Gesù era ancora a Gerusalemme. Verso il 30 d.C. il re di Edessa (attuale Urfa, in Turchia), Abgar V, soffriva di lebbra.
Aveva provato ogni medicina e, venuto a sapere dei miracoli che Gesù stava compiendo in Palestina cominciò a sperare. Alla vigilia della Passione chiamò a sé un certo Anania e gli affidò un doppio incarico: consegnare una lettera a Gesù e fargli un ritratto. Al cospetto di Cristo però Anania non trovava l’ispirazione sicché Gesù, cogliendo il suo imbarazzo, chiese dell’acqua per lavarsi e impresse la sua immagine su di un asciugamento usato per tergersi il viso. Rispose poi ad Abgar (a destra, rappresentato con il Mandylion nel X secolo) che quella era la ricompensa per aver creduto in lui senza averlo visto. Il Mandylion e la lettera furono nascosti a Edessa e se ne persero le tracce, fino a che il telo non riapparve a Costantinopoli, dove fu saccheggiato dai cavalieri
della quarta crociata (1204). Compagnia numerosa. Ma c’è un altro Sacro Volto, anzi vari: a Roma, ad Alicante in Spagna, a Vienna e altrove numerose reliquie sono identificate come il Velo della Veronica. Si tratterebbe del brandello di stoffa che Veronica avrebbe porto a Gesù durante la Via Crucis e sul quale sarebbe rimasta impressa l’immagine sofferente di Gesù. In Italia i Volti Santi sono, oltre alla Sindone di Torino, il Mandylion di Roma, presunta riproduzione su tavola dell’originale, il Sacro Volto di San Silvestro, a Genova, e il Volto di Manoppello, venerato in provincia di Pescara. Per alcuni storici dell’arte, però, quest’ultimo sarebbe un ritratto perduto dell’incisore tedesco Albrecht Dürer (1471-1528). Alcuni so-
DEAGOSTINI PICTURE LIBRARY
proibì persino di parlarne. Riunì una commissione di teologi e accusò Geoffroy de Charny di aver spacciato per autentico un falso, per nobilitare la sua chiesa e per ricavare denaro dai fedeli. D’Arcis inviò al papa e al sovrano francese le testimonianze contro l’autenticità del telo; addirittura dichiarò che il vescovo suo predecessore aveva scoperto l’autore dell’immagine, reo confesso: “Svelò il trucco e in che modo quel panno era stato artificialmente dipinto, e ciò venne accertato anche dall’artista che lo aveva realizzato con mezzi umani, non prodotto o ottenuto miracolosamente”. Clemente VII (antipapa avignonese) confermò il permesso di ostentare la reliquia, ma ribadendo “a voce alta e intelleggibile” che non era “il vero sudario di Nostro Signore Gesù Cristo, ma una pittura o quadro, fatta come figura o rappresentazione del sudario”. Venerabile. Da quel 1390, la Sindone sparì dalla vista del pubblico una seconda volta. Ben pochi erano disposti a sobbarcarsi costi e pericoli di un lungo viaggio per quella “pittura”. Riapparve nel 1418, quando fu trasferita a Villersexel dal successore di Geoffroy II de Charny, Humbert conte de la Roche. Ecco la sua descrizione di allora: “Un drappo ove si trova la figura o rappresentazione del sudario di Nostro Signore Gesù Cristo”. Fu la vedova di Humbert, Margherita (morta scomunicata,
stenitori dell’autenticità della Sindone ritengono che queste icone siano testimonianze di altrettante occasioni in cui la Sindone fu mostrata ai fedeli, probabilmente piegata. (p. p.) 49
Lirey (1353 ca.-1453) Chambéry (1453-1578) Torino (1578-2015) Mas Déu (1287?)
Costantinopoli (944-1204)
Edessa (150?-944)
Atene (1205?)
Gerusalemme (I secolo) Gli spostamenti della Sindone-Mandylion secondo la studiosa Barbara Frale. Il tratto continuo si riferisce al percorso, documentato, della Sindone di Torino.
E se c’entrassero i
B
arbara Frale, storica in servizio all’Archivio Segreto Vaticano, è tra i sostenitori dell’autenticità della Sindone di Torino. Che non sarebbe altro che il Mandylion di cui parlano le fonti precedenti al Trecento. Dando per buona questa premessa, le tracce della Sindone-Mandylion risalirebbero fino al 150-200 d.C., quando il telo si sarebbe trovato a Edessa (Turchia). «Nel Vangelo apocrifo di Nicodemo è scritto che la moglie di Ponzio Pilato, Claudia Procula, simpatizzante dei cristiani, affidò il lenzuolo a San Pietro», ha affermato Barbara Frale. «E un altro apocrifo, il Vangelo degli Ebrei, parla di una lite che si sarebbe scatenata per colpa di
Templari? quel telo. Entrambi i testi risalgono al II secolo. In quel momento la Sindone-Mandylion esisteva ed è plausibile che fosse a Edessa». Trasferita a Costantinopoli, vi sarebbe rimasta fino al 1204, quando fu “rapita” dai crociati (nella pagina accanto, le peregrinazioini della Sindone secondo questa ricostruzione). Pista templare. «Nel 1205 il Sacro Telo era ad Atene, sotto la protezione dei duchi di La Roche che lo ebbero dai crociati», sostiene Barbara Frale. Trascorsi altri ottant’anni il lenzuolo ricomparve pare dall’altra parte del Mediterraneo, nel paesino di Mas Déu, ai piedi dei Pirenei,
Si può rifare in laboratorio?
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GETTY IMAGES
Uno dei tentativi di riprodurre la Sindone utilizzando un corpo umano.
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e la Sindone è un artefatto umano, deve essere possibile, in qualche modo, riprodurne un’altra. E nel corso dell’ultimo secolo, infatti, sono stati diversi i tentativi (a sinistra). Calchi e vapori. Iniziò nel 1898 Paul Vignon, biologo all’Institut Catholique di Parigi. Imbrattò volti umani e calchi in gesso per poi metterli a contatto di tele, ma ottenne solo figure deformate. Elaborò allora la teoria “vaporografica”, secondo la quale i vapori di ammoniaca originata dall’urea emessa da un cadavere avrebbero reagito con l’aloe e la mirra pre-
senti sul lenzuolo, creando l’impronta. Anche questi esperimenti fallirono: attraverso la diffusione dei vapori si ottenevano solo immagini grossolane. Più promettenti risultarono le riproduzioni realizzate con un bassorilievo (il che tra l’altro spiegherebbe la somiglianza con l’iconografia di Gesù) anziché di un calco o di un volto umano. Il primo a sviluppare questo metodo fu, nel 1982, Vittorio Pesce Delfino, che usò un bassorilievo riscaldato. Ma bruciò il telo. Risolse il problema il metodo proposto nel 1983 da Joe Nickell. Si parte ancora da
Inizialmente gli scienziati si avvicinarono alla Sindone solo armati di lente di ingrandimento. Le analisi più sofisticate sono state fatte su frammenti
in mano ai Templari. La Frale ha rintracciato il verbale dell’interrogatorio sostenuto nel 1287 dal cavaliere Arnaut Sabbatier di fronte all’Inquisizione. Vi si dice che i Templari possedevano un lungo telo di lino con l’immagine di un uomo, che adoravano. Aramaico? La studiosa avrebbe infine interpretato, a partire da rilevamenti fotografici degli Anni ’30, alcune scritte stampigliate sul sudario. Sarebbero rimaste lì dopo che qualcuno aveva applicato cartigli di papiro sul lenzuolo per rendere identificabile la salma. Secondo Barbara Frale la frase completa direbbe: “Gesù Nazareno deposto sul far della sera, a morte, perché trovato [colpevole]”. Sarebbe parte in greco, parte in latino e parte in aramaico. I caratteri però risultano pressoché indecifrabili agli specialisti. Soprattutto, come ha fatto notare Luciano Canfora, storico e filologo esperto di manoscritti e papiri antichi, dovrebbero apparire rovesciati, essendo stati fissati per contatto. Ma pare non (a. c.) sia così.
In un dipinto ottocentesco, Hugues de Payens, primo maestro dell’ordine dei Templari. La Sindone, secondo una ricostruzione controversa, sarebbe passata anche nelle loro mani.
un bassorilievo su cui si adagia, a freddo, il telo. Quest’ultimo viene poi strofinato con un tampone sporco di ocra in polvere. Nel corso dei secoli l’ocra si sarebbe persa sulla Sindone, ma le tracce acide contenute nel pigmento iniziale avrebbero prodotto la debole immagine residua che ammiriamo oggi. A sostegno della tesi vi sarebbero microparticelle di ocra ritrovate nel 1980 sul Sacro Telo. Per intero. Nel 2009 Luigi Garlaschelli, chimico dell’Università di Pavia, con il metodo Nickell ha ottenuto una copia della Sindone in grandezza naturale e com-
HERITAGE IMAGES/GETTY IMAGES
Adoratori
Tre laboratori, scelti tra i più autorevoli, ricevettero campioni del telo sindonico (e anche campioni di controllo) e procedettero all’analisi, ciascuno senza avere rapporti con gli altri due; tutti seguivano il medesimo protocollo. I laboratori prescelti erano quelli dell’Università di Tucson, dell’Università di Oxford e dell’Istituto federale di tecnologia di Zurigo. Le misurazioni indicavano tutte che la Sindone di Torino è un manufatto del basso Medioevo; gli anni a cui risale sono compresi in un arco di tempo che va dal 1155 al 1390. La datazione al carbonio-14, dunque, confermerebbe la vicenda documentaria della Sindone, che inizia proprio in quel periodo, con la sua apparizione nella chiesa di Lirey. Le ragioni del cuore. Il cardinale Ballestrero, in una conferenza stampa, così commentò le analisi del 1988: «Penso non sia il caso di mettere in dubbio i risultati. E nemmeno è il caso di rivedere le bucce agli scienziati se il loro responso non quadra con le ragioni del cuore». Ci pensarono però altri studiosi, a “rivedere le bucce”. Il metodo del carbonio-14, per il resto molto affidabile, non è attendibile al 100% su un lasso di tempo così piccolo (si usa in genere per oggetti più antichi). E il campione esaminato, sostennero in molti, era troppo piccolo (del resto, altre indagini non sono state permesse). Infine, il frammento sarebbe stato contaminato. Secondo il russo Dmitrij Kuznetsov l’incendio che nel 1532 lambì la Sindone a Chambéry ne stravolse i livelli di carbonio. Il che spiegherebbe la datazione di-
prendente sia il fronte che il retro e non solo il volto. Partito da un telo di lino, intessuto a “spina di pesce” come quello della Sindone e dello stesso peso, lo ha disteso su un volontario e con un tampone sporcato con un pigmento leggermente acido ha sfregato le parti in rilievo del corpo, rifinendo a mano libera i dettagli. Per il volto, invece, è stato utilizzato un bassorilievo in gesso. Infine, con della tempera liquida sono stati aggiunti i segni dei colpi di flagello e le macchie di sangue. Il risultato è un’immagine tenue, sfumata, con un negativo simile
versa dei tre laboratori. Si scoprì, poi, che Kuznetsov aveva citato studi e istituzioni scientifiche inesistenti, uscendo totalmente screditato dalla vicenda. Ipotesi a catena. Recentemente un’équipe di ricercatori del Politecnico di Torino ha ipotizzato che l’immagine possa essere stata “incisa” da un flusso di neutroni generato dall’energia di un violento terremoto avvenuto in Palestina intorno all’anno 33. Energia che avrebbe alterato la datazione al radiocarbonio. La teoria alla base di questa interpretazione (reazioni nucleari causate dalla compressione delle rocce) è giudicata però infondata da molti fisici. Infine c’è la questione delle presunte impronte di monete romane del tempo di Cristo sugli occhi del volto sindonico, portate a prova che il reperto risale al I secolo. A questa osservazione ha risposto Luigi Gonella, consulente scientifico del cardinale Ballestrero: «Quella della Sindone è un’immagine il cui dettaglio più piccolo, macchie di sangue escluse, è di mezzo centimetro. Come le labbra. Appare quindi molto incongruente che esistano dei dettagli dell’ordine di decimi di millimetro come le lettere sulle monete. Ma si sa: a forza di ingrandire, si finisce per vedere anche quello che non c’è. Sono soltanto loro, i sindonologi, a scagliarsi contro il carbonio-14. Nel campo scientifico, fisico, chimico, non c’è nessuno che abbia il minimo dubbio. Nemmeno io. Il sudario risale al Medioevo». Credere nell’autenticità della Sindone, insomma, resta soprattutto un atto di fede. •
a quello del corpo sindonico e il cui volto, elaborato al computer, mostra analoghe proprietà. Nelle foto a destra, le due Sindoni a confronto: quella di Torino (A) e quella “di Pavia” (B). Sotto, i volti in 3D. «La mia ricerca», ha concluso Garlaschelli, «indica che un artista del ’300 poteva raggiungere l’obiettivo con una procedura semplice». Di opinione opposta i sindonologi, che ritengono maldestro e malriuscito il tentativo. Il che, secondo loro, confermerebbe che la Sindone non si può riprodurre, e che quindi non è un manufatto medioevale. (m. p.)
Paolo Cortesi
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PRIMO PIANO
Luoghi Gli enigmi risolti (o quasi) dietro ai più discussi siti archeologici
ARCHEOINDAGINI A cura di M. Polidoro e G. Landini
SLITTE IN LEGNO La statua arrivava sulla pedana grazie a slitte ottenute con rulli ricavate dai tronchi delle palme un tempo presenti sull’isola.
LE LEVE Per sollevare e posizionare la statua sul basamento in pietra si usavano grandi tronchi usati come leve.
LA CARICA DEI 180 Per trasportare una statua da 12 tonnellate si è calcolato che servisse il lavoro di 180 uomini.
Isola di Pasqua: come furono innalzati i moai? C ome furono realizzati i pesantissimi moai, le colossali teste di pietra dell’isola di Pasqua, è un mistero risolto grazie a un esploratore e grazie allo studio dei pollini. Le statue sono oltre mille, alte anche 10 metri e pesanti fino a 80 tonnellate. Ma nei secoli in cui furono costruite (a partire dall’anno Mille) sembra non ci fossero sull’isola abbastanza persone per spostare pesi simili. 52
Inoltre, gli esploratori videro un’isola priva di alberi (come è ancora oggi): come potevano le antiche popolazioni trasportare le statue senza usare leve e rulli di legno? Foreste perdute. Analizzando i pollini depositati nei tre laghi dell’isola, gli archeologi hanno ricostruito i mutamenti ambientali di quel luogo, confermando che un tempo l’isola era coperta di
foreste. I pollini rivelarono che le piante scomparse erano palme del Cile, che crescono fino a 20 metri d’altezza e hanno un fusto di 90 centimetri di diametro. La scoperta confermò l’ipotesi fatta dall’esploratore Thor Heyerdahl nel 1955. Localizzate le cave dove giacevano diverse statue, in parte scolpite, furono ricostruiti i percorsi usati per trasportarle fino alle piattaforme dove sor-
gevano i moai (disegno). Fu stimato inoltre che un’intera statua richiedeva almeno un anno per essere scolpita. Cosa significano? Resta invece ancora misterioso il significato delle statue. Forse rappresentano antichi sovrani o, come pensano oggi i ricercatori, simulacri di divinità, monoliti augurali portatori di benessere e prosperità dove essi volgono
Perché il “pilastro non è arrugginito?
e ai reperti più controversi
N
el cortile di un tempio nel complesso di Qutb, a Delhi, in India, si trova una colonna in ferro rimasta esposta alle intemperie per 1.600 anni (foto). Il pilastro, alto sette metri e 21 centimetri, fu eretto intorno al 423 d.C. in onore di Chandragupta II Vikramaditya, come si legge in un’iscrizione incisa sul pilastro. Sulla colonna non ci sarebbero tracce di corrosione o di ossidazione. Forse una lega dell’antichità a noi sconosciuta? Non proprio. Parola alla scienza. Le analisi di esperti dell’Istituto Indiano di Tecnologia hanno dimostrato che la resistenza all’erosione si deve a
SOL 90 (3)
DREAMSTIME
CONTROLLORI Il lavoro si svolgeva sotto lo sguardo di uomini, forse capiclan, che monitoravano l’andamento regolare dei lavori.
di Delhi”
una proprietà del metallo di cui è fatta la colonna, un ferro molto puro, con una percentuale elevata di fosforo, dovuta a una particolare tecnica di fusione realizzata dagli artigiani dell’epoca. Il fosforo avrebbe favorito la formazione di uno strato protettivo sulla superficie della colonna: un composto di ferro, ossigeno e idrogeno spesso 5 centesimi di millimetro e in grado di proteggere il ferro dagli agenti atmosferici. Più che un mistero, quindi, una testimonianza dell’abilità raggiunta dagli antichi artigiani indiani nella lavorazione del ferro. (m. p.)
A Dendera c’era una lampadina?
uella egizia fu una civiltà avanzata. Al punto che qualcuno è convinto che fossero in grado di illuminare i bui cunicoli delle piramidi con la luce elettrica. Un bassorilievo nel tempio della dea Hathor a Dendera mostra infatti incisioni che alcuni hanno identificato come lampadine a bulbo, con tanto di filamento interno (foto). La “lampada” di Dendera, in base ai bassorilievi, avrebbe una lunghezza di circa 2,5 metri e un diametro variabile tra 50 cm e un metro. Impossibile. Se si trattasse di una lampada a incandescenza dovrebbe resistere a una fortis-
lo sguardo. Per questo nell’isola di Pasqua molti di essi sono rivolti verso il mare, da sempre fonte di vita per quel popolo di pescatori. Per altri studiosi, invece, sarebbero offerte agli dèi, capaci di favorire eventi propizi, come la caduta della pioggia
e la crescita di abbondanti coltivazioni. Per altri ancora erano rappresentazioni dei capoclan o idoli per terrorizzare le masse durante le rivolte che si scatenarono quando le foreste, disboscate, provocarono conflitti interni tra i diversi clan presenti sul territorio. (m. p.)
sima pressione esterna e quindi avere un involucro spesso dai 2 ai 3 cm. Di conseguenza peserebbe qualcosa come 7 o 8 quintali. E una minima crepa nel vetro la farebbe esplodere come una bomba. Se si trattasse di una lampada simile alle odierne alogene, le sue dimensioni fanno dedurre che avrebbe una potenza di oltre 10 milioni di watt. Davvero troppo. La soluzione è più semplice. È la rappresentazione della nascita del Sole (sotto forma di serpente, perché incarnazione del dio Harsomtu) da un fiore di loto: il filamento della “lampada” è il serpente solare. (m. p.)
© GIL GIUGLIO/HEMIS/CORBIS
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FENICOTTERO
SPIRALE RAGNO
COLIBRÌ
PELLICANO
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CONDOR
LUCERTOLA
PAPPAGALLO
FIORE ALBERO
MANI
SCIMMIA
CANE
LINEE PERFETTE Nonostante siano lunghe molti chilometri e percorrano colline e avvallamenti, le linee sono perfettamente dritte.
UOMO-GUFO
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FIGURE TRAPEZOIDALI
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I geoglifi di Nazca sarebbero stati tracciati tra il 200 a.C. e il 600 d.C. dalle genti che abitavano la zona. Il clima secco e non ventoso li ha conservati C’erano davvero i fantasmi nella canonica
L
a canonica di Borley, nell’Essex, è spesso indicata come la casa più infestata d’Inghilterra. Fu indagata dal celebre “cacciatore di fantasmi” Harry Price e si diceva succedessero fenomeni di ogni tipo. La canonica fu per 64 anni (dal 1863, anno della sua costruzione) l’abitazione del reverendo Bull e della sua famiglia. E nel corso di quei 64 anni nessuno mai parlò di fantasmi. Ciò accadde solo dopo il 1929, quando lo studioso di fenomeni paranormali Harry Price, su invito del nuovo inquilino, il reverendo Smith, fece visita alla casa. 54
Fantasmi? Nel corso della visita si verificarono fenomeni mai visti, come rumori isolati e lanci di pietre. In seguito, giunsero nuovi inquilini, i coniugi Foyster. Con loro i fenomeni si fecero più frequenti. Per due anni, dopo i Foyster, lo stesso Price affittò la canonica e vi fece trasferire, a turno, alcuni suoi collaboratori che riportarono altri fenomeni. Nel febbraio del 1939, l’ultimo inquilino, il capitano W. E. Gregson fece cadere accidentalmente una lampada a olio e l’incendio che si sviluppò distrusse l’edificio. Tra le macerie fumanti un
BALENA
di Borley?
fotografo riuscì a immortalare una dimostrazione della presenza di misteriose entità: un mattone balzò in aria tra le rovine e la sua immagine rimase nettissima nella foto che, ancora oggi, viene riprodotta in tutti i libri dedicati al paranormale. Ma era così? L’inchiesta. Nel 1955, la Society for Psychical Research condusse un’inchiesta che confermò che i fenomeni più clamorosi erano stati creati ad arte dallo stesso Price che, sulla storia di Borley, aveva anche scritto tre libri. Venne fuori, per esempio, la storia di un giornalista che
aveva accompagnato Price in una perlustrazione: «Accaddero molte cose, compreso un momento spiacevole in cui un grosso ciottolo mi colpì in testa. Dopo alcuni “fenomeni” rumorosi, afferrai Harry e scoprii che aveva le tasche piene di pezzi di mattone e ciottoli. Quello fu un “fenomeno” che non riuscì a spiegarmi». Indagine. Fu rintracciata la giornalista che, insieme a Price e al fotografo, era presente quando la foto del “mattone volante” fu scattata. La donna si disse scioccata da come Price aveva distorto i fatti: «Price fe-
BALENA ASSASSINA
Chi è “l’astronauta” di Palenque?
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UCCELLO
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ZOO PER GIGANTI I disegni, visibili solo dall’alto, comprendono oltre 13.000 linee, più di 100 spirali, trapezi, triangoli e altre figure geometriche. Oltre a circa 70 figure di animali (alcune riprodotte nel disegno).
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l bassorilievo presente sul sarcofago di una tomba maya a Palenque (foto), nella giungla dello Stato messicano del Chiapas, raffigurerebbe, un antico astronauta seduto all’interno di una navicella spaziale. Le cose però non stanno così: l’uomo raffigurato sul coperchio è infatti un personaggio storico, non un extraterrestre. Si tratta del re maya K’inich Janaab’ Pakal (603-683 d.C.). Sovrano. I suoi resti sono contenuti nel sarcofago e
il suo nome ricorre ovunque nella tomba. La figura va guardata in verticale e non in orizzontale: si scopre così che il re vi è rappresentato nel momento della morte, sospeso tra l’aldilà (rappresentato dal mostro a guardia dell’oltretomba, al di sotto di Pakal) e il mondo dei vivi, simboleggiato dalla pianta del mais e dall’uccello che vi è posato sopra, il quetzal, non visibile in questa parte del bassorilievo. (m. p.)
Che cosa significano le
Riti. Secondo la maggior parte degli studiosi questi straordinari disegni sono stati realizzati dagli antichi abitanti della regione per scopi rituali e forse astronomici. Le eccezionali dimensioni e le relative difficoltà tecniche di realizzazione si spiegano così: gli antichi peruviani realizzarono prima disegni in scala, poi ingranditi sul terreno con l’aiuto di un reticolato di corde. Varie prove di archeologia sperimentale hanno dimostrato che il sistema funziona. (m. p.)
ce notare che non c’erano fili che sostenessero il mattone, ma tralasciò di dire che c’era un robusto operaio al lavoro dietro il muro. Tutti e tre lo vedemmo passando di fianco alla casa per raggiungere il posto in cui fu scattata la foto. Non c’è dubbio che il mattone fu lanciato dall’operaio». Infine, nel 1958, la moglie del reverendo Foyster disse che molti dei fenomeni descritti erano stati inventati dal marito. (m. p.)
CORBIS
La casa dove, secondo lo studioso Harry Price (nel tondo), accadevano fenomeni paranormali.
TOPFOTO/ALINARI
azca, in Perù, è un’arida pianura che si estende a circa 250 miglia a sud-est di Lima, divenuta famosa per i giganteschi disegni che la ricoprono. La tecnica usata per tracciare i disegni consiste nella rimozione dal terreno delle pietre scure superficiali in modo da lasciare apparire lo strato di terra sottostante, di colore più chiaro. Tali disegni furono tracciati tra il 200 a.C. e il 600 d.C. Perché? Non per comunicare con civiltà extraterrestri, come qualcuno crede ancora.
AA/MONDADORI PORTFOLIO
linee di Nazca? N
Chi ha realizzato le Pietre
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© CHARLES & JOSETTE LENARS/CORBIS
uomo comparve sulla terra 60 milioni dopo l’estinzione dell’ultimo dinosauro. Eppure, secondo alcuni, le due specie potrebbero avere convissuto. A testimoniarlo, una serie di graffiti su pietre di varie dimensioni che, si dice, sarebbero state realizzate tra 65 e 230 milioni di anni fa (foto a sinistra). Vi compaiono uomini che cavalcano o che danno la caccia a dinosauri, altri che eseguono trapianti di cuore o di cervello, che scrutano pianeti con lunghi cannocchiali e che sono impegnati in altre attività anacronistiche. La prova dell’esistenza
di Ica?
di una misteriosa civiltà evoluta e poi scomparsa? I fatti raccontano una storia diversa. Piano B. A raccogliere queste pietre, dal 1966, è il medico Javier Cabrera Darquea, che a Ica, nel Perù, ha aperto un museo. Le pietre sono di origine vulcanica (si tratta di andesite), grandi da pochi centimetri a quasi un metro e pesanti fino a 500 kg, con la superficie levigata. L’unico modo per datare i sassi consiste nell’esaminare lo strato geologico di terreno in cui sono stati rinvenuti, ma siccome l’origine delle pietre è ignota,
questa via di indagine non è percorribile. Le pietre, infatti, non sono state rinvenute nel corso di scavi archeologici ma sono i contadini del luogo che le “trovano” e poi le vendono a Cabrera. Nel corso degli anni ne hanno scovate oltre 15.000. Almeno finché Basilio Uchuya, un contadino di Callango, qualche anno fa ammise di essere uno degli autori delle pietre, realizzate copiando fumetti e libri scolastici e poi spacciate a Cabrera come autentiche. Perché? Il campesino rispose serafico che era meno faticoso che coltivare i campi. (m. p.)
Vicino a Stonehenge nel 2002 si trovò una tomba dell’Età del bronzo con i resti di un arciere della regione delle Alpi. Ma come giunse lì è un mistero Che cos’è il meccanismo di
D
a quando, intorno al 1900, fu recuperato da alcuni pescatori di spugne dalle acque dell’isoletta di Antikythera, a sud del Peloponneso, ha sfidato generazioni di scienziati. Il “meccanismo di Antikythera”, sotto le incrostazioni che avvolgevano quella che sembrava una semplice pietra, nascondeva un complesso ingranaggio che catalizzò l’attenzione dei ricercatori. Rebus risolto. Il grande rebus era rappresentato dalle decine di ingranaggi nascosti sotto le incrostazioni e rivelati dai raggi X.
Antikythera?
Dobbiamo allo studioso inglese Derek de Solla Price, che ha analizzato ogni singola ruota dentata, l’intuizione che permise di spiegarne la funzione. Si trattava di un sofisticato planetario, cioè uno strumento impiegato per calcolare il sorgere del Sole, le fasi lunari, gli equinozi, i movimenti dei pianeti,
oltre a mesi e giorni della settimana. A conferma della correttezza delle intuizioni di Price, nel 2008 un articolo uscito sulla rivista scientifica Nature ha permesso d’ipotizzare che il “calcolatore” fosse stato fabbricato nella città di Siracusa, in Sicilia, a partire da studi portati avanti dal grande Archimede. (g. l.)
MIRCO TANGHERLINI
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A lato dall’alto, il reperto, la sua immagine ai raggi X e il suo schema interno. A destra, una ricostruzione 3D e il dettaglio dell’ingranaggio. 56
SPL/CONTRASTO
Ecco come era fatto
AD ANELLO Ricostruzione del sito di Stonehenge, con le fasi di costruzione. La struttura è costituita da monoliti disposti a cerchi concentrici.
1
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PIETRA DELL’ALTARE Era la zona più sacra: la prima a essere colpita dai raggi solari in certi periodi dell’anno.
PIETRE BLU Le piccole pietre del cerchio intermedio sono dette blu per il colore che assumono se bagnate dalla pioggia.
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BUCHI VUOTI Due cerchi di buchi, mai riempiti.
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PIETRE DEL SACRIFICIO Le due “pietre del sacrificio” erano poste all’ingresso del centro cerimoniale.
BENVENUTI Era segnato da una pietra singola posta all’ingresso, vicino alla strada principale.
Londra Stonehenge
2 2900 A.C. Nei “buchi di Aubrey” furono poi infissi pali di legno. E successivamente alcuni resti umani cremati.
1 2950-2900 A.C. Al Neolitico risale il “vallo” esterno. All’interno si trovano i cosiddetti “buchi di Aubrey” (dal nome dello scopritore John Aubrey, 1626-1697).
3 2550-1600 A.C. Nella terza fase furono posizionate circolarmente gigantesche pietre in arenaria (triliti) disposte attorno alla cosiddetta “pietra dell’altare”.
Che cos’era e come fu costruito Stonehenge?
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uesta suggestiva composizione di giganteschi massi di origine preistorica, disposti a cerchio nella piana di Salisbury (Inghilterra Meridionale), ha suscitato ogni tipo di ipotesi fantascientifica. Per secoli nessuno ha saputo chi avesse costruito un simile monumento, composto da un cerchio esterno di pietre di arenaria alte quattro metri, sormontate da lastre orizzontali, da un secondo anello interno di pietre più piccole, le bluestones e da un terzio cerchio attorno a una sorta di altare. Goffredo di
Monmouth, storico medioevale, credeva che Stonehenge fosse stata eretta da Merlino, il mago di Re Artù. In seguito, fu attribuita ai Romani e dopo ancora al culto pagano dei Druidi. Pietre “straniere”. Le pietre di arenaria provenivano dalle alture a 30 chilometri da Salisbury, mentre le bluestones erano originarie del Galles Sudoccidentale. Un lungo viaggio condotto sfruttando le vie d’acqua che giungono a circa 3 km da Stonehenge. Il trasporto delle pietre via terra, pesanti anche
40 tonnellate l’una, fu probabilmente compiuto utilizzando slitte di legno trainate da decine di persone. Quanto ai possibili autori, strutture a ferro di cavallo erano rare in Gran Bretagna, ma non in Bretagna. I costruttori. I progettisti di Stonehenge provenivano dunque da oltremare? Appare molto improbabile, visto che i cerchi di pietra bretoni sono più vecchi di oltre mille anni. L’ipotesi più accreditata resta quella secondo cui i costruttori furono gli abitanti preistorici delle isole britanni-
che. Resta una domanda: perché Stonehenge fu eretta? Tra le ipotesi – un memoriale per commemorare un eccidio di Britanni, un tempio druidico, un osservatorio astronomico – la più plausibile è quella che la ritiene un centro cerimoniale, forse un tempio dedicato al culto del Sole impiegato anche come calendario. I 30 triliti rappresenterebbero i giorni del mese; nel solstizio d’estate, un raggio di sole attraversava un trilite e cadeva sull’altare centrale, permettendo di individuare il passaggio delle stagioni. (m. p.) 57
nomi che sono stati (e a volte sono ancora) sinonimo di mistero
SMASCHERATI A cura di M. Polidoro e G. Landini
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intracciare documenti sull’esistenza del leggendario sovrano è una sfida che appassiona gli studiosi da secoli e che ha permesso di fare qualche passo avanti. Ma non sono mai stati trovati scritti o iscrizioni su Artù a lui contemporanee. I testi che parlano di re Artù dicono che visse tra il V e il VI secolo d.C., dopo la fine della dominazione romana in Britannia (410 d.C.). Ma la più antica citazione del suo nome si trova nella Historia Brittonum, redatta nel IX secolo. Che non cita un “re”, ma narra le gesta di un soldato con quel nome, ricordandolo come un comandante che difese i domini del sovrano dei Britanni dagli invasori Sassoni, sconfitti da Artù in ben 12 battaglie. Globale. Racconti e leggende su un personaggio simile circolavano anche altrove. Di Artù si narrava in Irlanda, in Normandia (dove il suo nome appare nei testi nel 1050) e addirittura in Italia. Esiste infatti un bassorilievo del Duomo di Modena, datato 1100, raffigurante il re
Artù?
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e i suoi cavalieri che salvano la regina Ginevra da alcuni briganti. Sarebbe la prima rappresentazione artistica di Artù. Fu però nel 1136, con l’Historia Regum Britanniae del gallese Goffredo di Monmouth, che la figura di Artù e quella di mago Merlino iniziarono a essere delineate come le conosciamo. E soltanto nel 1485 la storia di Artù prese una forma definitiva, quando sir Thomas Malory pubblicò La morte d’Arthur, in cui apparivano per la prima volta Lancillotto, la Tavola Rotonda, Camelot e il Graal. A caccia. La ricerca di prove archeologiche è ancora più difficile. Nel 1998 è emerso un nuovo indizio: una lastra di ardesia, di 25x20 cm e databile al VI secolo, trovata presso Tintagel, in Cornovaglia. Vi è inciso, in latino volgare, “Pater Coliavificit Artognov” che, secondo il linguista Charles Thomas, significa “Artognov [che si legge Artnù], padre di un discendente di Coll, ha fatto costruire questo [luogo]”. Ovvero Tintagel che, nella leggenda, è il luogo di nascita di re Artù. (m. p.)
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I cavalieri della Tavola Rotonda in una miniatura medioevale.
Che fine ha fatto
Amelia Earhart? P er decenni è stato (e in parte resta) uno dei gialli dell’aria più famosi: la scomparsa di Amelia Earhart (nella foto), l’aviatrice che nel 1937 sparì nel nulla mentre tentava di circumnavigare il globo con il suo aereo. Un mistero risolto qualche anno fa, quando è stata rilevata una traccia sonar di quella che potrebbe essere la fusoliera di un Lockheed Electra (stesso modello della Earhart) sommerso al largo di un’isola del Pacifico, dai ricercatori del gruppo Tighar. Emancipata. Earhart, un simbolo di emancipazione femminile, era svanita con il suo navigatore, Fred Noonan, dopo aver lasciato Papua Nuova Guinea, per raggiungere l’isola di Howland, piccolo atollo nel Pacifico. Negli ultimi 78 anni si sono fatte diverse ipotesi: era in realtà una spia catturata e uccisa dai giapponesi, oppure ha simulato l’incidente per cambiare identità. I ricercatori del gruppo Tighar, invece, da 27 anni concentrano le ricerche intorno all’atollo di Nikumaroro, isola che l’aereo avrebbe dovuto raggiungere mantenendo la stessa rotta a partire dall’ultima posizione comunicata via radio. L’aereo, a corto
di carburante, forse fu costretto a un ammaraggio di fortuna e i due aviatori sopravvissuti potrebbero aver raggiunto la terraferma. Cast away. Sull’isola disabitata sono stati ritrovati alcuni reperti, come supporti in bronzo (compatibili con l’aereo), una cerniera lampo e bottoni che potrebbero confermare questa ipotesi. La fotografia del sonar che, a 180 metri di profondità nelle acque vicino a Nikumaroro, indica la presenza di un oggetto allungato di una decina di metri (l’aereo ne misurava 12), sembrerebbe confermare che Amelia arrivò su quell’atollo. (m. p.)
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Chi era davvero Re
NON R LT ISO O
A
ENIGM
PRIMO PIANO
Personaggi Dall’antichità in poi, i “gialli” dietro a
e origini della leggenda sono oscure. Il primo riferimento scritto è nel poema Piers Plowman (1377), del chierico londinese William Langland, dove un personaggio dice: “Non conosco bene le preghiere del Signore, ma conosco le ballate di Robin Hood”. Almeno si sa che nel XIV secolo la figura di Robin era già argomento di ballate. In un manoscritto del 1410, conservato nella cattedrale di Lincoln, compare la frase: “Robin Hood in Sherwood stood” (Robin Hood si trovava
a Sherwood). Non molto, ma localizza le sue avventure nella foresta di Sherwood. Il primo racconto completo giunto fino a noi, Le gesta di Robin Hood, fu stampato invece nel 1510, ma non è chiaro se lo spunto per il racconto sia una persona reale o meno. A processo. Alcuni storici hanno indicato, come fonte della figura del fuorilegge che rubava ai ricchi per dare ai poveri, un certo “Robert Hod, fuggitivo”, citato in alcuni documenti della Corte d’Assise dello Yorkshire
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Robin Hood è esistito veramente? L
del 1225. Oppure il Conte Robin di Huntingdon, morto nel 1247. Quanto ai luoghi a lui legati, la foresta di Sherwood vanta un’enorme quercia secolare, nota come Major Oak, indicata come quella sotto cui Robin si ritrovava con la sua banda. Oggi, però, è quasi certo che non era Sherwood la foresta del fuorilegge. E quella quercia non ebbe nulla a che fare con lui: l’albero si stima abbia 800 anni, e nel 1200, quando si dice visse Robin Hood, doveva essere solo (m. p.) un alberello.
Robin Hood e compagni sotto la quercia, in un dipinto del 1917.
Chi ha affondato la flotta di Serse?
È
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uno di quei racconti che ha sempre fatto storcere il naso agli studiosi. Nel libro VIII delle Storie di Erodoto lo scrittore greco, narrando le drammatiche vicende legate all’assedio persiano di Potidea (città greca della Penisola Calcidica) del 479 a.C., ricorda come la città si fosse salvata dalla conquista persiana per intervento di Poseidone. Trabocchetto. Il dio del mare, secondo Erodoto, decise di punire gli invasori che avevano profanato il suo tempio. Dopo tre mesi d’assedio, infatti, le acque del mare si ritirarono all’improvviso e si formò una grande secca su cui gli ignari Persiani si avventurarono, certi che la città sarebbe caduta nelle loro mani. Ma fu proprio in quel momento che accadde l’impensabile: una possente ondata li sorprese a metà strada, uccidendone la maggior parte. Al loro generale Artabazo, a cui il re di Persia, Serse, aveva affidato il comando delle operazioni, non restò che
raccogliere i pochi sopravvissuti e allontanarsi. Questo stupefacente racconto, che s’innesta nelle complesse vicende della Seconda guerra greco-persiana (480-479 a.C.), ha sempre reso la vita difficile a chi cercava un riscontro storico preciso, facendo pensare che si trattasse di un episodio inventato di sana pianta. Verosimile. Oggi, 2.500 anni dopo i fatti, uno studio condotto da alcuni ricercatori dell’Università tedesca di Aachen, guidati da Klaus Reicherter, ha dimostrato, dati alla mano, come la vicenda possa essere spiegata dalla scienza, tirando in ballo uno “tsunami”. Dopo una lunga serie di analisi sono stati individuati
segni inequivocabili di questo catastrofico evento, sepolti negli strati di sabbia più profondi in prossimità dell’odierna Nea Potidea, a poca distanza dalle rovine del centro abitato antico. Lo studio geologico dell’area, inoltre, avrebbe confermato la possibilità che si siano formate, a seguito di
potenti fenomeni sismici, onde anomale alte fino a cinque metri. A ulteriore conferma, analizzando le conchiglie prelevate dai depositi marini si è ottenuta una datazione intorno al 500 a.C. con un possibile margine di errore di circa 20 anni. Il che collimerebbe perfettamente con la cronologia delle Guerre persiane. (g. l.)
Scomparsi Il re persiano Serse presso l’Ellesponto (i Dardanelli): l’affondamento della sua flotta a Potidea fu probabilmente conseguenza di uno tsunami.
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Qual era l’identità di
il primo e più famoso serial killer di tutti i tempi, assassino di almeno cinque prostitute nel malfamato quartiere di Whitechapel a Londra, tra il 31 agosto e l’8 novembre 1888. La sua identità è sempre stata un mistero che un giorno potrebbe trovare una soluzione. Oltre 100 i “sospettati”, molti dei quali abbastanza inverosimili: da Oscar Wilde a Lewis Carroll, dal pittore Walter Sickert al duca di Clarence, erede al trono d’Inghilterra. Ma la polizia all’epoca si concentrò su altri nomi. Da manicomio. Il primo era tale Aaron Kosminski, parrucchiere, scapolo e malato di mente rinchiuso in manicomio nel 1891. Fu l’ex capo di Scotland Yard, sir Robert Anderson, a prendersi il merito di averlo smascherato, ma Kosminski non corrispondeva per aspetto ed età agli uomini visti con le vittime prima della morte. Un altro, John Druitt, descritto come medico, morì suicida nel Tamigi nel dicembre 1888. In realtà, non era medico e non frequentava Whitechapel, lo si sospettò solo perché il suicidio ebbe luogo poco tempo dopo l’ultimo delitto. Caro diario. Nel 1992 spuntò un diario che sembrava appartenuto a James Maybrick, commerciante di cotone, che in quelle pagine confessava i
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Jack lo Squartatore? È
ISOLTO
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Indagini su un uomo sospettato di essere il serial killer, in una stampa da un quotidiano inglese del 1888.
delitti dello Squartatore. Ma il diario si rivelò un falso, una truffa realizzata per tentare di vendere le “memorie” di Jack. Più interessante una lettera, emersa pochi anni fa, del 1888. In essa John Littlechild, capo del Dipartimento segreto di Scotland Yard, indica un indiziato: l’americano Francis J. Tumblety, che i giornali dell’epoca descrivono come ricerca-
to per i delitti di Whitechapel. L’uomo detestava le prostitute (ne aveva sposata una che poi lo aveva lasciato) e in casa conservava in formalina una collezione di reperti anatomici femminili che mostrava ai suoi ospiti. Nonostante gli indizi, Tumblety non fu mai arrestato: il suo aspetto (capelli rossi e grandi baffi) non corrispondeva infatti agli identikit.
Arriva l’Fbi. Se mai si giungerà a identificare il terrore della Londra vittoriana, forse si scoprirà che ha lo stesso profilo criminale che di lui ha realizzato John Douglas, esperto dell’Fbi. Douglas ha descritto l’anonimo Squartatore come un solitario, con problemi di linguaggio, probabilmente con una madre dominatrice e un padre sottomesso. (m. p.)
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Spesso all’origine di personaggi letterari ci sono vicende reali, di cui però si sono perse le tracce nei documenti storici
Anastasia Romanov sopravvisse alla fucilazione? U no dei più grandi misteri del Ventesimo secolo riguarda la sorte della diciassettenne Anastasia Romanov (a sinistra), la figlia più giovane, nata nel 1901, dello zar Nicola II. Viva o morta? Anastasia fu uccisa con il resto della famiglia dai bolscevichi, che avevano preso il potere con la Rivoluzione d’ottobre del 1917, o scampò alla strage? La scienza è finalmente riuscita a dare una risposta. Il dubbio nasceva
dal fatto che nessuno conosceva il luogo in cui si trovavano i resti della famiglia imperiale, e alla comparsa nei decenni successivi di donne che sostenevano di essere Anastasia scampata. La storia di una di queste, che si faceva chiamare Anna Anderson, conquistò a lungo l’attenzione. Almeno finché non si scoprì che era una polacca fuggita da un ospedale psichiatrico tedesco. La risposta. Solo nel 1991, dopo la caduta dell’Urss, fu rivelato
il luogo in cui erano i resti, che successive analisi confermarono essere di Nicola e dei famigliari. Mancavano solo un figlio, Aleksej e una figlia Marija (non Anastasia). A mettere definitivamente la parola fine alla vicenda fu un ritrovamento del 2008. Un team di ricercatori trovò vicino a Ekaterinburg (dove la famiglia imperiale fu uccisa) i resti di due persone. Le analisi del Dna hanno poi rivelato senza alcun dubbio che sono delle vittime mancanti. (m. p.)
L
’enigma della Maschera di ferro, il misterioso prigioniero della Bastiglia (a destra, in una stampa ottocentesca), si può dire risolto. Detenuto durante il regno del re Sole, Luigi XIV, dal 18 settembre 1698, era un prigioniero senza nome che portava sul volto una maschera. Non di ferro, ma di velluto e fissata con metallo. L’uomo senza nome (e senza volto) era sotto la sorveglianza di Benigno Dauvergne (detto Saint-Mars). Falso nome. Nel 1703 il detenuto misterioso morì e fu seppellito con un nome di comodo (Marchiergues o Marchioly) e ogni traccia della sua esistenza fu
di ferro?
fatta sparire. Ma chi era davvero questo Marchioly? Da principio, le indagini per capire chi fosse si sono svolte nella cerchia dei contemporanei famosi scomparsi in modo poco chiaro. Il filosofo Voltaire nel 1771 avanzò l’ipotesi che fosse il fratello gemello di Luigi XIV, tolto di mezzo per ragioni dinastiche e costretto a indossare una maschera per celare la sua somiglianza con il sovrano. La supposizione è però priva di fondamento e gli storici, spulciando i documenti dell’epoca, hanno trovato altri candidati più credibili. Ma oggi sappiamo che l’uomo sotto la maschera non era nessuno di importante.
Sconosciuto. «La mia ipotesi», dice lo storico John Noone, che ha seguito le tracce di Saint-Mars per ricostruire la vicenda, «è che quell’improbabile maschera non servisse a nascondere chi era il prigioniero, ma chi non era». Saint-Mars avrebbe costretto un prigioniero a mascherarsi per far credere di essere un personaggio illustre, affidato a lui in virtù della sua importanza.
Shakespeare è un nome di fantasia? I l più celebrato drammaturgo di tutti i tempi, autore di capolavori come Otello, Romeo e Giulietta e Amleto, William Shakespeare, secondo qualcuno in realtà non è mai esistito. Di lui, in effetti, si conosce ben poco. Ma ciò non significa che non sia stato un personaggio reale. I fatti. Si sa che William nacque a Stratford-upon-Avon il 23 aprile 1564 da padre conciatore. Si sa anche che si sposò ed ebbe dei figli. I più dubbiosi si chiedono come potesse avere sviluppato una così grande abilità letteraria, data la sua estrazione sociale, e come avesse
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Chi c’era dietro la Maschera
potuto acquisire conoscenze tanto precise di politica, legge, scienza e geografia, presenti nelle sue opere, non avendo viaggiato più in là di Londra. Forse, è la conclusione, non si trattava di una persona, ma soltanto di uno pseudonimo. Candidati. Fu alla fine del Settecento che il reverendo James Wilmot iniziò a sospettare che il vero autore delle tragedie fosse sir Francis Bacon, filosofo e uomo di Stato che si sarebbe servito di uno pseudonimo per non compromettere il proprio status sociale (il teatro era riservato ai poco di buono). Altre
identità ipotizzate sono state quelle di drammaturghi dell’età elisabettiana, come Christopher Marlowe e Ben Jonson, oltre a Mary Sidney, contessa di Pembroke, e addirittura la regina Elisabetta I. Per chi ritiene Shakespeare solo uno pseudonimo, però, il candidato numero uno è Edward de Vere, conte di Oxford e poeta di scarso successo. De Vere, che studiò legge e viaggiò in Italia, conosceva bene la vita di corte. Autore di commedie e sonetti, smise di pubblicare nel 1593, lo stesso anno in cui il nome di Shake-
Saint-Mars, infatti, aveva iniziato come umile moschettiere e aveva fatto carriera diventando governatore della Bastiglia. Anche grazie a quel misterioso prigioniero. (m. p.)
speare appare per la prima volta su un manoscritto. Era forse de Vere a pubblicare sotto mentite spoglie? Peccato che oltre un terzo dei drammi shakespeariani sia stato pubblicato dopo la morte di de Vere, nel 1604. Impresario. Negli anni sono stati scoperti documenti ufficiali (incluso un testamento) che provano che Shakespeare lavorò come attore, impresario e drammaturgo. Solo degli anni precedenti il 1592, di lui si sa poco. Ma comunque più di tanti suoi illustri colleghi dell’epoca. (m. p.)
Il drammaturgo William Shakespeare (seduto al centro) con gli amici in una taverna a Londra, in un dipinto ottocentesco. 61
PRIMO PIANO
Creature Ormai sono nel nostro immaginario:
ma quale realtà si nasconde dietro queste leggende?
I VERI MOSTRI A cura di Massimo Polidoro
A caccia dello Yeti
E
Primate? Una ricostruzione dello Yeti, il cosiddetto “uomo delle nevi” himalayano che si immagina abbia popolato le montagne dell’India. A destra, la presunta impronta del suo piede.
ra il 1889 quando un colonnello inglese in missione nella regione del Sikkim, all’estremo Nord dell’India, vide impresse sulla neve alcune “orme di piedi nudi giganteschi”, a un’altitudine di cinquemila metri circa. Sembrava la prova dell’esistenza dello yeti, una creatura della tradizione locale. Abominevole. Lo yeti, un umanoide noto anche come “abominevole uomo delle nevi”, con il corpo ricoperto da un folto pelame rossiccio, di un’altezza compresa tra il metro e 40 e i due metri, vivrebbe nella zona himalayana. Presunte impronte nel terreno e alcune testimonianze oculari sono state, a lungo, le uniche evidenze a favore dell’esistenza di una simile creatura. Di recente, però, una spedizione sull’Himalaya ha portato al ritrovamento di un ciuffo di peli che, esaminato dall’Istituto di medicina molecolare di Oxford (Inghilterra), è stato descritto come «non riferibile a un essere umano, né a un orso o a una qualsiasi altra specie che siamo in grado d’identificare». Sospetti. Ammesso che i peli appartengano veramente a un primate, due elementi farebbero escludere agli esperti che possa trattarsi di un umanoide. Il primo deriva da un’osservazione di tipo culturale: tutte le specie di ominidi apparse sul nostro pianeta hanno sempre cercato di allargare le proprie conoscenze e il proprio territorio, attraverso le migrazioni. Ciò contrasta con l’isolamento geografico in cui vivrebbe il presunto umanoide. In secondo luogo, sempre che le testimonianze siano attendibili, l’aspetto dell’animale osservato si avvicina molto più a quello di un orango che non a quello di un ominide. E che si tratti di un orango, magari di una specie sconosciuta, è per ora la verità più plausibile dietro alla leggenda dello Yeti.
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Sirene in vista L
Sotto, sirena-uccello in terracotta del VI secolo a.C. A sinistra, un lamantino: furono animali simili ad alimentare il mito delle donne-pesce.
a leggenda delle sirene che la tradizione vuole metà donne e metà pesce risalirebbe agli Assiri e alla loro dea-luna Atagartis, che all’alba si tuffava in mare per riemergere la notte: è questa la prima creatura metà umana e metà pesce di cui si abbia notizia. Ma sono le sirene di Ulisse quelle più famose. Che però erano mostri pericolosi e non erano metà donne e metà pesce, ma metà donne e metà uccelli (probabilmente rapaci). Medioevali. La versione delle “sirenette”, che sognano di avere un’anima e che, per conquistarsela, sono pronte a rinunciare al mare per vivere sulla terra, sono un’invenzione molto più tarda, del VI secolo. Ad alimentare la leggenda (arrivata fino alla fiaba di Andersen) e a trasformare le sirene volanti dei Greci in creature acquatiche furono gli avvistamenti di foche, lamantini e dugonghi. Si tratta di mammiferi marini, dotati di mammelle, che spesso emergono a pelo d’acqua. Osservati dai marinai medioevali, soprattutto a partire dal ’400, l’età delle grandi esplorazioni, questi animali furono presi per sirene. Ad alimentare il mito furono poi alcuni pezzi da collezione settecenteschi come la “sirena delle Fiji”, un falso creato ad arte cucendo insieme un busto di scimmia e una coda di pesce.
L’inaffondabile Nessie
L’
idea che un dinosauro acquatico sopravvissuto all’estinzione di massa di 65 milioni di anni fa possa nascondersi nelle acque del Loch Ness (Scozia) è di quelle che attirano i turisti. Ma quello di “Nessie”, come è stato ribattezzato, è anche uno dei misteri risolti più conosciuti. Furbizie. Le prime voci sulla presenza del “mostro” risalgono al 1933, quando una coppia disse di avere osservato “un enorme animale procedere con moto ondulatorio e poi immergersi nel lago”. Da allora si sono accumulate altre testimonianze sempre vaghe, fotografie confuse e filmati manipolati.
La fotografia più famosa, realizzata nell’aprile del 1934, si è rivelata nel 1994 un falso per ammissione del suo stesso autore: si trattava di un modellino immerso nell’acqua e ripreso dalla riva. Quindi, niente prova. Altri documenti hanno trovato una spiegazione razionale ma, soprattutto, nessuna indagine e perlustrazione subacquea, nemmeno quelle con l’aiuto di sonar, ha dato risultati. Anche ammettendo che la creatura sia nel frattempo morta, sul fondo del lago dovrebbero trovarsi le sue ossa ed eventualmente anche quelle dei suoi antenati (se no, come si sarebbe riprodotta?).
La celebre foto del mostro realizzata nel 1934: 60 anni dopo l’autore ammise che si trattava di un falso.
Sopravvissuti. Tutto ciò non toglie che reali creature marine che si credevano estinte da decine di milioni di anni, possano ancora oggi essere ritrovate. Come è accaduto, per esempio, alcune
decine di anni fa, con il ritrovamento del celacanto, un rarissimo pesce che si pensava estinto 80 milioni di anni fa, e che invece ancora sguazza nell’Oceano Indiano. 63
PRIMO PIANO
U
n testo scritto con un alfabeto mai visto prima e, a illustrarlo, dettagliati disegni di piante mai osservate in natura. Resiste da 600 anni a ogni tentativo di interpretazione, ma oggi il Manoscritto Voynich, il codice in pergamena di 240 pagine ritrovato dall’antiquario polacco Wilfrid Voynich nel 1912, comincia a svelare i suoi segreti. Conosciuto anche come “Il Manoscritto di Dio”, il codice è stato oggetto di studio fin dal 1666, quando ne entrò in possesso il medico reale Johannes Marci. Sua era la lettera trovata all’interno del librone dove lo stesso ne attribuiva la paternità a
Roger Bacon, il “Doctor Mirabilis”, filosofo e scienziato inglese del XIII secolo, da noi più noto come Ruggero Bacone. L’ha scritto davvero lui? E a che scopo? Ecco che cosa dicono gli studiosi. Autentico. Per anni si è pensato che il manoscritto fosse un falso, realizzato ad arte da qualche erudito per essere venduto all’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, cultore di scienze mediche e alchimista. Alla morte di Rodolfo, nel 1612, il libro passò di mano in mano fino ad arrivare in quelle dell’erudito Athanasius Kircher, gesuita, che pur essendo un esperto crittologo (sapeva cioè trovare le chiavi dei
codici segreti) rinunciò a interpretarlo e lo regalò al Collegio Romano dei gesuiti. E qui le tracce si persero fino a quando, nel 1912, Voynich lo acquistò proprio dai gesuiti. Nel 1969 un antiquario newyorkese lo donò all’Università di Yale, dove è tuttora conservato nella sezione dei libri rari. Dalla sua apparizione nel XX secolo, le ipotesi sul manoscritto sono state svariate, fra cui alcune molto bizzarre: testo azteco, opera cabalistica, messaggio segreto di Gesù destinato a Giuda e, ancora, opera di un giovanissimo Leonardo da Vinci. Forse la più credibile, alla luce del-
Chi ha redatto (e perché) il Manoscritto Voynich? Grazie alla matematica arriva qualche risposta a un enigma di sei secoli fa
CODICE
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SEGRETO
sibile al 90%. Sembrano dati in contraddizione, ma è necessario tenere in considerazione che il campione sottoposto al radiocarbonio è costituito da quattro lembi di appena 6 mm per 6 mm, ritagliati dai bordi del testo e quindi molto manipolati e “inquinati”. Dell’inchiostro si sa che è di tipo ferrogallico, ampiamente usato fin dall’età romana e molto diffuso nel Medioevo. Tra gli sgargianti pigmenti delle illustrazioni, invece, il colore blu è certamente azzurrite, con cuprite e ossido di rame; il bianco è carbonato di calcio; il verde deriva da residuo di rame; il rosso è un pigmento di
Rompicapo Il mercante di libri di origini polacche Wilfred Voynich con il manoscritto che acquistò nel 1912 e che poi prese il suo nome. Nessuno studioso è ancora riuscito a capire se il testo (a sinistra, uno stralcio) abbia un senso.
Sembra un erbario medioevale. Ma piante e radici così non esistono.
Verde, marrone, giallo, rosso e blu: sono i colori usati per le piante del libro.
SCALA
le ultime ricerche, è che si tratti di un testo di scienze naturali scritto davvero da Roger Bacon, ma in un linguaggio segreto per difendersi da possibili ritorsioni della Chiesa. Ma andiamo con ordine. Le risposte. Le certezze che la scienza è ora in grado di offrirci escludono che il testo sia stato scritto nel Seicento per truffare l’imperatore: la datazione al carbonio-14 proverebbe senza ombra di dubbio che la pergamena risale a un periodo fra il 1404 e il 1438. La curva di datazione attribuisce al 95% il manoscritto al XV secolo, ma la “coda” della curva rivela un’ulteriore datazione della pergamena al XIII, pos-
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Non è un falso come si è pensato per secoli, ma ancora non svela il suo significato. Se c’è un messaggio nascosto, nessuno lo ha trovato
SCALA
L’Imperatore Rodolfo II d’Asburgo, appassionato esoterista.
Un “aiutino” dalla matematica ro convinto, fino a poco tempo fa, che fosse una truffa, un testo vuoto. Poi, analizzandolo, mi sono ricreduto». Mirko Degli Esposti, fisico matematico dell’Università di Bologna, sta lavorando al Manoscritto Voynich con Marcelo Montemurro, fisico all’Università inglese di Manchester, usando metodi matematici già sperimentati nell’analisi di testi e linguaggi. Trascrizioni. Per prima cosa i due studiosi hanno convertito l’intero testo in Eva (European Voynich alphabet), un alfabeto che fa corrispondere a ogni segno grafico del manoscritto un carattere del nostro alfabeto. Poi hanno adottato metodi matematici e statistici per verificare se il testo fosse “naturale” (cioè redatto da una persona) o “artificiale” (un testo fittizio, senza significato). Ecco le loro conclusioni. Computer e statistica I ricercatori hanno utilizzato un metodo statistico basato
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sull’analisi della frequenza delle parole nel testo. Questa analisi ha evidenziato come le ripetizioni presentano caratteristiche qualitative e quantitative vicine a un linguaggio naturale e non costruito ad hoc. Si è anche esaminata la distribuzione spaziale delle parole lungo il testo e degli hapax (si chiamano così le parole che nel testo appaiono una sola volta). Si è capito che si tratta di distribuzioni dette “anomale”, presenti anche nei testi naturali: un particolare
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ferro ed ematite. Tutti i pigmenti sono legati fra loro con gomma arabica. Questa ulteriore analisi non aiuta un granché, visto che porta a concludere che il librone sia stato prodotto in un’epoca non precisata tra il Trecento e il Settecento, quando questi pigmenti erano diffusi. Le rappresentazioni delle piante, nessuna riconducibile alla flora conosciuta, è invece di impronta tipicamente medioevale. In quel periodo infatti non si rappresentavano piante e animali in modo realistico, bensì in funzione della parte del corpo umano che dovevano curare. Perciò molte raffigurazioni botaniche presentano piante vagamente antropomorfe. A scombinare le carte c’è poi il fatto che il manoscritto non riporta nessun segno di cancellatura o abrasione: l’amanuense non ha avuto nessun ripensamento mentre lo redigeva. Da qui, l’ipotesi che potrebbe trattarsi di una copia di un testo già esistente, forse proprio di Roger Bacon. Elisir. L’ipotesi Bacon ha preso ulteriore consistenza grazie a una recente analisi effettuata da Giuseppe Fallacara e Ubaldo Occhinegro, ricercatori della facoltà di Architettura del Politecnico di Bari. Secondo
che gioca a favore della tesi che non si tratti di un testo fittizio, generato a caso, e che quindi nasconda dei contenuti informativi. La ricerca di un ordine Degli Esposti e Montemurro hanno effettuato un’ulteriore indagine utilizzando un indicatore entropico. La misurazione dell’entropia permette di stabilire quanto un sistema fisico è ordinato o disordinato: più il sistema è disordinato più il grado di entropia è alto.
Lo scopo era rilevare il contenuto semantico del codice, ovvero se il testo avesse un reale significato e fosse quindi portatore di informazioni. Gli studiosi hanno individuato quali sono le parole più importanti nel testo e intuito che il linguaggio è molto articolato. Il manoscritto possiede dunque una struttura semantica (di significato) molto vicina a quella di altri testi naturali. Un tentativo di linguaggio universale? Un’altra scoperta molto interessante è che le parole legate da ipotetiche relazioni di significato sembrano anche morfologicamente simili. Questa connessione, sebbene non sia tipica dei linguaggi
Altro che naturale A sinistra, stampa ottocentesca di Roger Bacon nel suo studio di alchimista. A destra, le “piante inesistenti” del manoscritto.
naturali, è una caratteristica dei testi di tipo filosofico o “universale”, dove lo scibile viene suddiviso in una gerarchia ad albero in cui entità simili sono classificate vicine una all’altra. Spieghiamo meglio con un esempio: il concetto di leone e quello di gatto si troveranno vicini in un’analisi di questo tipo, in quanto entrambi derivanti dal concetto di “felino”. Una volta completata la classificazione, a ogni
me) potrebbero far compiere altri passi avanti nella comprensione di quei contenuti proibiti. E anche se non si riuscissero a decifrare le parole del manoscritto, di certo quelle pagine hanno altri segreti da svelare. • Anna Magli
Scritture segrete:
le lineari di Creta T
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loro il documento sarebbe stato scritto da Bacon o da altri alchimisti alla corte di Federico II per offrire all’imperatore un elisir di vita eterna tramite percorsi termali, bagni, piante curative e riti esoterici. Alcune illustrazioni del testo, in effetti, richiamano la pianta ottagonale della fortezza di Castel Del Monte, in Puglia, e simboli legati a Federico II di Svevia (che governò sul Sud Italia nel XIII secolo) sulla cui origine e significato non è mai stata fatta chiarezza. Si sa però che Federico era anche lui un cultore della medicina e della scienza alchemica. Fu infatti sostenitore e mecenate della scuola salernitana di medicina, e Bacon fu uno degli scienziati che frequentarono la sua corte. Ma c’è di più. Il manoscritto è stato recentemente studiato dall’Università di Bologna (v. pagina a destra). E questa ulteriore ricerca conferma che non fu realizzato per frodare Rodolfo, ma probabilmente per occultare un sapere scomodo. Le teorie alchemiche, infatti, erano in odore di eresia e perseguite dalla Chiesa. Indagini ancora più approfondite sugli inchiostri e la ricostruzione della sequenza originaria dei fogli (scompaginati nel volu-
Carta da re Un’altra pagina del manoscritto. Alcuni disegni ricordano la pianta ottagonale di Castel del Monte, in Puglia.
categoria o concetto viene assegnata una parola con una base comune e le relative varianti (per esempio prefissi o suffissi). Questo tipo di legame è presente nel manoscritto: molte parole infatti condividono lo stesso suffisso o prefisso. La chiave di un’epoca Il mistero che ancora circonda i contenuti del Manoscritto Voynich va comunque ben oltre la sfida crittografi-
ca che ha impegnato da secoli studiosi di varie discipline. Se si riuscisse a mostrare con una certa evidenza che il testo contiene qualche messaggio nascosto, le implicazioni sarebbero in primo luogo una maggiore comprensione del periodo storico in cui fu scritto. Marcelo Montemurro ne è convinto: «Deve esserci una storia, dietro questo libro. Una storia che forse non conosceremo mai».
ra i testi indecifrabili ce n’è uno che resiste da migliaia di anni: la lineare A della civiltà minoica. Difficile immaginare l’euforia dell’archeologo inglese Arthur Evans quando ai primi del ’900 ebbe modo di dissotterrare, a Creta, i resti del celebre palazzo di Cnosso. Ancora più clamorosa fu la scoperta di centinaia di tavolette con due diversi sistemi di scrittura sconosciuti fino ad allora, che lo studioso chiamò lineare A e B, tra le quali sembrava esistere un rapporto di continuità. La prima scrittura, più antica e semplice, sembrava essere stata sostituita dalla seconda. Ma la decifrazione di entrambe era impossibile. Evoluzioni. A complicare il quadro fu il ritrovamento di tavolette in lineare B in siti della Grecia continentale risalenti alla civiltà micenea (Pilo, Micene, Tebe). Si ipotizzò che la lineare A fosse in qualche modo espressione della civiltà minoica di Creta e fosse stata usata tra il XVII e il XV secolo a.C. per poi lasciare spazio a una forma più evoluta, la B, dopo che l’isola cadde sotto il controllo miceneo. Ci sarebbe voluto mezzo secolo prima di arrivare a decifrare la lineare B da parte del “neofita” Michael Ventris. Il suo punto di partenza furono le intuizioni di Evans sulle somiglianze con i segni dell’antico sillabario di Cipro e il successivo alfabeto greco arcaico, oltre alla presenza sulle tavolette di gruppi di segni (corrispondenti a prodotti commerciali) seguiti da numerali. Quando, nel 1952, Ventris annunciò la soluzione sconvolse il mondo accademico affermando che la lingua scritta con quei segni era una forma di greco antico. E la lineare A? Quella resta ancora indecifrabile. (g. l.)
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PRIMO PIANO
Che fine hanno fatto il denaro, gli assegni, l’oro e i gioielli sequestrati a Mussolini e ai gerarchi a Dongo nel 1945? Oggi lo sappiamo
IL TESORO DEL
L’
DUCE
enigma dell’oro di Dongo, il tesoro arrivato con Mussolini nella località dell’alto lago di Como dove avvenne l’arresto del duce, il 27 aprile 1945, è stato in gran parte risolto. Sebbene l’inventario completo dei valori sia stato fatto sparire, e di conseguenza oggi nessuno è in grado di indicare l’entità del “malloppo”, della parte nota del tesoro si possono seguire le tracce. Che cos’era. La prima “verità” riguarda il carattere disomogeneo di questa massa di denaro e preziosi. In parte era riconducibile alle dotazioni finanziarie della Repubblica sociale italiana: è questo il caso del “fondo riservato” del ministero dell’Interno. Oltre a ciò, con il con-
voglio viaggiavano i patrimoni personali (sotto forma di contante) di ministri e alti gerarchi che a Dongo furono uccisi. Infine c’era il denaro dei militari tedeschi che accompagnavano il duce nella lunga colonna di automezzi fermata dai partigiani. Non solo. Il tesoro di Dongo comprendeva valuta italiana e straniera (sterline, pesetas, franchi francesi e svizzeri, dollari), banconote, moneta aurea e assegni. E poi gioielli, preziosi vari e oro. Spoliazione. L’altra verità è che una parte non trascurabile di quel forziere semovente “evaporò” a contatto con la popolazione locale, che dopo l’arresto si diede a una sorta di “assalto alla diligenza”.
Oro in viaggio Palmiro Togliatti, segretario del Pci nel 1945 e, a destra, Pietro Secchia, il dirigente del partito che incaricò il tesoriere Alfredo Bonelli di occuparsi dei sacchi giunti da Dongo, sul Lago di Como. 68
Crepuscolare
ARCHIVI FARABOLA
Benito Mussolini con Alessandro Pavolini nel dicembre 1944 a Milano, in una delle sue ultime apparizioni pubbliche. Il duce e l’allora segretario del Partito nazionale fascista erano in visita alla Legione Muti, in via Rovello, dove si torturavano gli oppositori del regime.
Partigiani a Dongo nel 1945: al centro, Pier Luigi Bellini delle Stelle, che arrestò il duce. A destra, Urbano Lazzaro, detto “Bill”, al processo per l’oro di Dongo del 1957.
Finanza in camicia nera
O
gni tanto la caccia alle carte riserva delle sorprese. Negli archivi del tribunale di Padova, città dove nel 1957 si celebrò il processo sull’oro di Dongo, si conserva traccia di una gigantesca operazione finanziaria condotta, in extremis, il 25 aprile 1945, a Milano. A ordinarla, il Partito fascista repubblicano guidato da Alessandro Pavolini. Maxiprelievo. Si tratta della ricevuta del prelievo di un miliardo di lire (circa 31 milioni di euro odierni) effettuato nella sede milanese della Banca Nazionale del Lavoro. Il maxifondo, messo a disposizione dal ministro delle Finanze della Rsi, Domenico Pellegrini Giampietro, per le milizie di Pavolini, andò all’incasso lo stesso giorno. È ragionevole immaginare che quel tesoro viaggiasse in pare nella colonna di Mussolini, anche se c’è chi ha negato il prelevamento, in quella data, della somma.
Una parte del “tesoro” fu offerto dai gerarchi in fuga alla popolazione locale, in cambio di aiuto. Il resto finì nelle casse del Partito comunista italiano, a Roma La spoliazione ebbe inizio quando i gerarchi, per ingraziarsi gli abitanti dei paesi della zona teatro del blocco della colonna, offrirono ingenti somme in cambio di protezione e aiuto per sé e per i propri famigliari. Una montagna d’oro prese il volo così, costituendo la base di considerevoli ricchezze personali che non passarono inosservate. Ci fu persino chi, per investire il maltolto sottraendolo alla svalutazione galoppante, acquistò alberghi sulla riviera romagnola o chi si costruì poi una villa. Uno dei partigiani fu addirittura soprannominato “Sterlina”, forse perché aveva investito parte del bottino in traffici con questa valuta. Al partito. La restante parte dei valori passò nelle mani del Partito comunista, che controllava le formazioni partigiane garibaldine, compresa la 52ª brigata che aveva catturato il duce. Si disse, nel Dopoguerra, che quei soldi finanziarono la smobilitazione dei combattenti per la libertà. In realtà, l’allora tesoriere del partito, Alfredo Bonelli, svelò nel 1993 di aver rice-
vuto un lotto di quel tesoro. I primi di maggio del 1945, ricevette da Pietro Secchia, dirigente comunista, nella sede della direzione del Pci per l’Alta Italia, a Milano, l’ordine di occuparsi di alcuni sacchi di iuta che provenivano da Dongo. Contenevano 30 milioni di lire (quasi un milione di euro di oggi) e circa 36 chili d’oro. Un secondo carico stipato in valigie, per un valore complessivo di almeno 400 milioni di lire dell’epoca (circa 12 milioni e mezzo di euro di oggi) partì da Dongo il 29 aprile, in automobile. Venne portato alla sede del Pci comasco e da lì probabilmente proseguì il viaggio verso Milano, anche se di questo trasferimento mancano le prove. I 30 milioni e i circa 36 chili d’oro di cui ha parlato Bonelli, giunti a Como, restarono nascosti per una notte in un’abitazione privata. Ne era responsabile Remo Mentasti, fidato valigiaio comunista, e furono aperti alla presenza del capo della Federazione comunista di Como, Dante Gorreri.
MONDADORI PORTFOLIO
I conti con il passato
36 kg
in ORO
400 milioni
30
milioni di lire
di lire
COMO
MILANO
FARABOLAFOTO
VALENZA Il percorso Finanziamento. I sacchi di iuta, alla fine, arrivarono in via Filodrammatici, a Milano, dove c’era la direzione del partito. Bonelli fece fondere l’oro da un compagno di Valenza (Alessandria) e investì il ricavato della vendita, insieme ai 30 milioni e ad altre somme, in operazioni immobiliari compiute sulla piazza milanese e su quella romana. Nella capitale, dove alla fine del 1945 venne unificata la direzione del partito, il cosiddetto “bottino del Nord” fu impiegato per l’acquisto della tipografia del quotidiano comunista l’Unità, di un edificio di via Pavia adibito a foresteria e del palazzo di via delle Botteghe Oscure, destinato a ospitare gli organi centrali del Partito comunista italiano fino agli Anni ’90. •
ROMA
Un partigiano con il cappotto indossato da Mussolini al momento della cattura.
MONDADORI PORTFOLIO
Roberto Festorazzi
Le valigie contenenti almeno 400 milioni di lire (circa 12,5 milioni di euro), i sacchi di iuta con 30 milioni (quasi 1 milione di euro) e circa 36 chili d’oro, vennero portati, tra la fine di aprile e i primi di maggio del 1945, da Dongo a Como, a disposizione dei dirigenti della federazione locale del Partito comunista. I 400 milioni, con ogni probabilità, furono poi incamerati dal Pci nazionale. Finirono certamente nelle casse di quel partito l’oro (fatto fondere a Valenza) e i 30 milioni, investiti nell’acquisto di immobili.
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Dipinto ottocentesco con il passaggio dalla seconda alla terza galleria nella piramide di Giza.
MISTERI SVELATI Molti enigmi, che hanno alimentato leggende, sono stati risolti dagli studiosi. Ecco come li hanno spiegati nei loro libri. I nodi segreti degli Incas Davide Domenici e Viviano Domenici (Sperling & Kupfer) Un saggio che, alla luce dei manoscritti rinvenuti nel 1989 nella collezione di Clara Miccinelli, analizza la civiltà incaica proponendo una nuova interpretazione. Il testo è corredato da un ricco apparato iconografico. Il tesoro dei vinti Gianni Oliva (Mondadori) Un libro che fa luce sul discusso mistero dell’oro di Dongo provando a rispondere a queste domande: chi lo ha trasferito alla federazione comunista di Como? Chi se ne è impadronito in seguito e grazie a quali connivenze? Misteri e segreti del mondo Sylvia Browne (Mondadori) Un viaggio nei luoghi più misteriosi (da Stonehenge all’Isola di Pasqua, da Atlantide
al Triangolo delle Bermuda), per conoscere le creature più strane (il mostro di Loch Ness, lo Yeti, i lupi mannari...), i fenomeni e gli oggetti più sconcertanti (dalla sfinge alle piramidi, dalle piste di Nazca ai cerchi nel grano). Alla scoperta dei segreti che vivono intorno a noi. Templari Barbara Frale (Il Mulino) Uno studio che ricostruisce la storia dei Templari avvalendosi di ricerche originali che hanno condotto a discusse scoperte: nel libro, la studiosa ufficiale dell’Archivio segreto vaticano, infatti, riconosce l’autenticità della Sindone ed espone la sua teoria che assolverebbe i Templari dall’accusa di eresia. La nuova indagine sulla Sindone Pierluigi Baima Bolone (Priuli&Verlucca) Gli ultimi studi scientifici alla luce
DEA/G. DAGLI ORTI
PRIMO PIANO
saperne di più
di duemila anni di Storia. Un volume aggiornato sulla Sindone che espone tutte le acquisizioni della scienza più avanzate e attuali. Lineare B. L’enigma della scrittura micenea John Chadwick (Einaudi) L’opera del linguista britannico esperto di lingue antiche divenuto celebre per il ruolo svolto nella decifrazione della scrittura Lineare B, in collaborazione con Michael Ventris.
Antikythera e i regoli calcolatori Giovanni Pastore (SE) Un saggio divulgativo del celebre studioso di storia della scienza. Un testo che spiega agli appassionati il funzionamento del famoso calcolatore astronomico dei Greci che a lungo ha incuriosito storici e scienziati. Nel libro si trovano anche istruzioni per l’uso di questo e di altri regoli calcolatori logaritmici matematici. Con numerosi esempi pratici.
La Storia raccontata in queste pagine rivive anche in tv
A
nche questo mese History, il canale di Sky dedicato alla Storia, affronta il tema in primo piano su questo numero di Focus Storia. Lo fa con tre episodi dedicati ai misteri svelati della Storia. IL PREDATORE DELLA STORIA PERDUTA Alcuni dei più importanti tesori storici e culturali degli Stati Uniti sono stati smarriti, rubati o venduti sul mercato nero: dai denti di George Washington all’album fotografico personale di Hitler, dall’origi-
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nale Aston Martin di James Bond al violino del Titanic. In collaborazione con gli archivi di Stato americani, lo scrittore e autore televisivo Brad Meltzer ci porta sulle tracce delle sparizioni più misteriose della storia a stelle e strisce. Il suo obiettivo è riportare indietro questi tesori e restituirli al popolo americano. Dal 14 al 26 agosto dal lunedì al venerdì, ore 18:00 ENIGMI ALIENI Lo scrittore e ufologo Giorgio Tsoukalos, volto di Enigmi
alieni, viaggia alla ricerca di indizi che provino l’esistenza di una vita extraterrestre, di creature mitologiche e altri fenomeni paranormali. Dalla città perduta di Atlantide al mostro di Loch Ness, dai templi megalitici di Malta ai presunti ritrovamenti alieni a Roswell, Giorgio indaga i più affascinanti misteri della Terra. Mercoledì 19 agosto, ore 23:00; dal 26 agosto doppio episodio ogni mercoledì alle ore 22:00
L’ULTIMO SEGRETO DI MARCO POLO Marco Polo (foto), il viaggiatore più illustre della Storia, è stato davvero in Cina? Ancora oggi l’affascinante scrittore e mercante, al soldo dei veneziani, fa discutere di sé e affascina, tenendo attivo il dibattito tra scienziati, storici e studiosi che da anni si interrogano sulla veridicità del suo mitico viaggio in Oriente. Lunedì 24 agosto, ore 23:00
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pittoracconti 1 Il ponte di Segovia, sul fiume Manzanarre, qui poco visibile, è il più antico tra quelli ancora esistenti a Madrid. Fu costruito con blocchi di granito tra il 1582 e il 1584 per volere del re Filippo II.
2 Quando Goya dipinse la tela, il Palazzo reale era stato terminato da circa 20 anni. L’edificio sorse nell’area dell’Alcázar, distrutto da un incendio nel 1734. Ancora oggi ospita le cerimonie della Corona, ma i reali risiedono nel Palazzo della Zarzuela.
3 Al centro del fiume si distingue lo scomparso ponte di San Isidro, o de Pontones, che dava diretto accesso alla Pradera. Si trattava di una struttura in legno tanto stretta da non permettere il passaggio a più di due persone affiancate.
4 La Basilica Reale di San Francesco il Grande era stata ultimata da pochi anni. La sua grandiosa cupola è una delle più vaste mai costruite e segnava lo “skyline” di Madrid.
5 La Pradera era una vasta area allora appena fuori città, oggi inglobata nella metropoli: al suo posto resta il grande Parco San Isidro.
7 Gli uomini e le donne in primo piano vestono attillati abiti di foggia francese, di moda nella società spagnola fin dai regni di Carlo II (1665-1700) e soprattutto di Filippo V (1700-1746), primo re di Spagna dei Borbone, dinastia di origine francese.
6 La festa è animata dagli eleganti esponenti dell’aristocrazia e di una classe mercantile in rapidissima ascesa, detti petimetres dal francese petit-maître
(“damerino”). Nella scala sociale, il petimetre e la petimetra si opponevano al majo e alla maja, i più pittoreschi membri dei ceti popolari.
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Scampagnata nel È “pratone” di Madrid Ogni 15 maggio, per la festa di san Isidro, i madrileni si ritrovavano nella Pradera: chi in carrozza, chi a piedi. 76
il 15 maggio, festa del patrono San Isidro. I cittadini della Madrid di fine Settecento si recano in pellegrinaggio all’eremo del santo, sulla sponda destra del fiume Manzanarre. Per bere l’acqua della sorgente che un povero agricoltore nel XII secolo fece sgorgare miracolosamente, secondo la leggenda. E per festeggiare con un “picnic” nella Pradera (“prateria”) sul corso d’acqua: c’è chi si rifocilla e chi danza la seguidilla, un ritmo spagnolo allegro e pieno di grazia tipico del XVIII e XIX secolo. La festa di San Isidro è una tradizione ancora oggi viva a Madrid,
8 A parte quelli che trainano
le carrozze, non si vedono cavalli. All’epoca la gente comune andava a piedi. Nella lingua spagnola è ancora in uso la locuzione gente de a pie per designarla.
9 Le carrozze sono delle famiglie nobili o alto-borghesi. Per le gite si usavano berline da campagna, chiuse ma meno sontuose di quelle da cerimonia usate in città. Ma anche phaeton (carrozze scoperte) a 4 ruote e calessi a 2 ruote.
10 Nel Seicento il tricorno era un copricapo riservato agli ecclesiastici. All’inizio del Settecento divenne comune in tutta Europa, anche nell’uso laico. All’epoca del dipinto ne esistevano ormai di diverse fogge e dimensioni.
11 Alla “scampagnata” della Pradera partecipava in massa anche il popolino. Ma siccome il dipinto era destinato alla famiglia reale i ceti più umili non vi sono raffigurati: in primo piano ci sono gli eleganti rappresentanti delle classi agiate. Unica eccezione è la maja (donna del popolo) con i vestiti sgargianti, impegnata a vendere vino.
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MUSEO NACIONAL DEL PRADO/SCALA
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che coinvolge l’intera città, tra bancarelle gastronomiche e balli popolari. Nel corso dei secoli l’evento è stato più volte oggetto di rappresentazioni artistiche: La prateria di San Isidro, di Francisco Goya, dipinta nel 1788 e oggi al Museo nazionale del Prado di Madrid, resta però la più famosa. Arazzo mancato. La tela fu commissionata dal re di Spagna dell’epoca, Carlo III, come modello per un arazzo che non si realizzò mai. Avrebbe dovuto decorare una parete delle camere delle infante (le figlie del futuro Carlo IV e di Maria Luisa di Parma)
nel Palazzo El Pardo di Madrid, da poco finito di costruire. Ma i tessitori della Real fabbrica degli arazzi di Santa Barbara, incaricati di “tradurre” su tessuto l’opera di Goya, ritratta dal vero e così ricca di dettagli, si dissero preoccupati per la difficoltà di dare forma a tutti i particolari previsti dall’artista e non se ne fece niente. Forse anche per questo il quadro divenne una delle opere più note dell’artista, autore di capolavori come il dipinto La maja desnuda e le incisioni I disastri della guerra. • Edoardo Monti 77
domande & risposte Queste pagine sono aperte a soddisfare le curiosità dei lettori, purché i quesiti siano di interesse generale. Non si forniscono risposte private. Scrivete a Focus Storia, via Battistotti Sassi 11/a, 20133 Milano o all’e-mail
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Quali erano le “Due Sicilie”? Domanda posta da Romeo Bischi.
l primo ad attribuirsi il titolo di Rex utriusque Siciliae (re delle Due Sicilie”) fu Alfonso V d’Aragona nel 1442, dopo essere divenuto sovrano unico del Mezzogiorno d’Italia e della Sicilia. Dal 1139 il termine “Sicilia” era infatti sinonimo di quella che noi oggi chiamiamo Italia Meridionale, poiché quell’anno nacque il Regno di Sicilia, guidato dal normanno Ruggero II d’Altavilla, che comprendeva l’isola e anche tutti i territori del Sud, fino allo Stato della Chiesa. Terre contese. Con i Vespri siciliani (1282) e la Pace di Caltabellotta (1302), quell’unico territorio fu diviso in due. Gli angioini presero il controllo della parte peninsulare, con capitale Napoli, denominata Regno di Sicilia, mentre l’isola (con capitale Palermo) divenne Regno di Trinacria, in mano agli aragonesi. Ma questi ultimi rivendicarono il titolo di sovrani di Sicilia. Si ricorse
SCALA
I
Ferdinando I di Borbone entra a Napoli, nel 1815.
allora a un confine naturale, lo stretto di Messina (e il relativo faro), per stabilire il confine dei due regni: il “Regno di Sicilia al di là del faro, o ulteriore” e “Regno di Sicilia al di qua del faro, o citeriore” (il futuro Regno di Napoli). Nel XV secolo le “Due Sicilie” furono riunite da Alfonso V d’Aragona, detto il
Magnanimo, che ebbe la meglio sui rivali, gli angioini. Ma dopo di lui il territorio fu ancora conteso a lungo e ridiviso. Soltanto a seguito del Congresso di Vienna, nel dicembre del 1816, il regno fu definitivamente riunificato e Ferdinando I di Borbone divenne sovrano delle Due Sicilie. (f. c.)
Domanda posta da Luigi Sardi.
antenato del libro tascabile è il cosiddetto “libro da bisaccia”, piccolo e spartano testo a contenuto prevalentemente devozionale, imitazione da poco dei ben più nobili e ingombranti codici antichi. Era comunque poco diffuso poiché era scritto a mano e quindi costoso. FOTOTECA STORICA GILARDI
Una maggiore fruizione del libro si ebbe infatti solo dopo l’invenzione della stampa a caratteri mobili (1455), quando produrre libri in serie divenne più economico. Italiano. Il primo libro in versione economica, di buona fattura e a un prezzo abbordabile, uscì dalla tipografia del veneziano Aldo Manuzio che, nel 1501,
Il fondatore della Penguin Books, sir Allen Lane, e uno dei primi titoli Bur (1950). GETTY IMAGES
Domanda posta da Federico Hrtanek.
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Chi ha inventato il libro tascabile?
L’
Perché il fascismo italianizzò le parole straniere?
pubblicò le Bucoliche di Virgilio in formato 32° (cioè alte 10 cm) e nel quale fu usato, per la prima volta, il carattere corsivo. Sempre nel XVI secolo si diffusero libri a basso costo in Germania (il Volksbuch), in Francia (la collana Bibliothèque Bleu) e in Inghilterra (i chapbooks venduti dagli ambulanti). I veri tascabili debuttarono proprio in Inghilterra nel 1935, quando la casa editrice Penguin lanciò i paperbacks (libri piccoli e con la copertina flessibile). In Italia dal 1949 la Rizzoli lanciò la collana Bur (Biblioteca Universale Rizzoli), che pubblicava i classici. (g. l.)
er “estirpare la malapianta dell’errore e dell’esotismo”, secondo Benito Mussolini. Che allo scopo di realizzare questo progetto mobilitò intellettuali, linguisti e la Reale accademia d’Italia impegnandoli a forgiare un italiano rinnovato e puro, non contaminato da termini appartenenti ad altre culture. Gli italiani dovevano liberarsi dalle “parole ostrogote” che popolavano il loro linguaggio quotidiano, oltre che da usi e costumi stranieri come “i pantaloni cascanti” e “i colletti duri”. E se il dizionario che il duce commissionò all’accademia non si realizzò mai, le campagne per la traduzione ebbero successo. Premiati. Per invogliare i lettori a ripulire la lingua dalla “gramigna delle parole straniere”, come le definiva la Gazzetta del popolo, il quotidiano romano La Tribuna bandì un concorso con un premio di mille lire per chi avesse trovato la traduzione migliore per queste parole: dancing (vinse “sala da ballo”), taxi (“tassì”), bar, bazar, cocktail. Non mancò la battaglia contro le insegne che usavano termini stranieri, ma non furono vietate. Se qualche esercizio voleva tenere la scritta coiffeur, hotel o garage poteva farlo, ma pagando imposte 20 volte maggiorate rispetto a chi passava a insegne in italiano. (f. c.)
Parole sgradite Mussolini legge un discorso negli Anni ’30. Il duce bandì personalmente la parola menù dai ristoranti, che doveva essere sostituita da “lista”.
MONDADORI PORTFOLIO
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Petizione per l’abolizione della schiavitù (XVIII secolo).
Quale Paese ha proibito per primo la schiavitù? Domanda posta da Eliana Corti.
DIZIONARIO “FASCISTESE” buenos aires
buonaria
churchill
ciorcil
washington
vosintone
garage
rimessa
papillon
cravattino
champagne
sciampagna
sandwich
tramezzino
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pallacorda
playboy e viveur
vitaiolo
croissant
bombolone
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a prima nazione ad abolire la tratta negriera fu una di quelle che raramente vengono associate a piantagioni e schiavi: la Danimarca, che si ritirò dal traffico nel 1803. Tuttavia quelli che più lottarono contro il commercio di esseri umani dall’Africa furono i britannici (per il resto duri colonialisti). Dal 1808 la Gran Bretagna proibì la tratta nei propri porti e successivamente lanciò una crociata contro la schiavitù negli altri Paesi. La lotta era condotta con pressioni diplomatiche e con azioni navali e anfibie nelle quali i trafficanti venivano arrestati e gli schiavi liberati (andando a popolare la colonia della Sierra Leone, fondata a tale scopo). Liberi tutti. Nel 1833 la schiavitù fu abolita anche nelle colonie britanniche, poi in quelle francesi e danesi (1848), in quelle olandesi (1860), spagnole (1886) e portoghesi (1888). Negli Stati Uniti la schiavitù fu bandita su tutto il territorio nel 1866. L’Impero ottomano, i regni africani e il Maghreb invece non la abolirono, e si stima che a fine Ottocento ci fossero più schiavi in Africa che nelle Americhe. (g. z.) 79
curiosario A cura di Giuliana Rotondi
Leonardo animalista
I V. SIRIANNI
n anni, come sono i nostri, di veganismo e vegetarianismo l’amore di Leonardo da Vinci (1452-1519) nei confronti degli animali è tornato di attualità anche fuori dalla cerchia degli studiosi. Questo particolare della personalità del genio di Vinci è testimoniata, oltre che dai suoi taccuini, dai racconti di alcuni suoi contemporanei. Il biografo e pittore Giorgio Vasari (15111574) raccontò ad esempio, a conferma dell’amore di Leonardo per gli animali, che quando a Firenze passò davanti alle gabbie degli uccelli in vendita si commosse fino alle lacrime. Li comprò tutti e li lasciò volare via, donando loro la libertà. Vegetariano? Questo rifiuto di far soffrire gli animali avrebbe anche indotto Leonardo a diventare vegetariano. A sostegno di questa tesi c’è un manuale di ricette attribuito al genio di VInci in cui sono descritti unicamente piatti a base di frutta e verdura: una dieta insomma che escludeva la carne. Anche una lettera inviata da Andrea Corsali a Giuliano de’ Medici sembrerebbe confermarlo. Dice infatti che il mittente, dopo avergli raccontato di una popolazione indiana che non mangiava nulla che contenesse sangue e non permetteva alcuna offesa a qualsiasi creatura vivente, aggiungeva: “come il nostro Leonardo da Vinci”. Infine fu lo stesso Leonardo a criticare apertamente coloro che, per gratificare il palato, uccidevano altri animali. Non è un caso se è rimasta celebre la sua frase: “Verrà il tempo in cui l’uomo non dovrà più uccidere per mangiare, e anche l’uccisione di un solo animale sarà considerato un grave delitto”.
Banchetti medioevali
Tsunami di melassa
A
E
lla corte di Ludovico Sforza, duca di Milano (14521508), le regole del galateo c’erano. Ed erano curiose. Per pulirsi le mani si usavano pelli di coniglio (o, secondo alcune fonti, si legavano conigli vivi alle sedie degli ospiti) affinché questi potessero pulirsi le mani nella loro pelliccia. Altre regole, come quella che proibiva di portare armi o armature a tavola, a noi paiono ovvie, ma allora non lo erano. 80
Elementare. Tra le altre curiosità, il divieto di pizzicare il vicino durante il pasto e di mettere la testa nel piatto. Non c’è da stupirsi troppo. Mangiare nel Medioevo non era semplicissimo: le posate si limitavano a cucchiaio di legno e coltello, la forchetta si diffuse solo a partire dal Rinascimento. Se si esclude la minestra, infatti, ai banchetti era consuetudine cibarsi soltanto con le mani.
ra il 15 gennaio del 1919 quando gli abitanti della zona a nord di Boston (Massachusetts, Usa) sentirono un reboante rumore di lamiere: un serbatoio alto oltre 10 metri con quasi 9.000 metri cubi di melassa improvvisamente si ruppe, invadendo col suo liquido dolciastro la città. Con orrore strati di magma zuccheroso galopparono alla velocità di 60 km/ora lasciando sul campo morti e feriti: 21 persone rima-
sero uccise, più di 150 furono i feriti e si stimarono danni per più di 100 milioni di dollari. Negligenza. A causare il disastro pare fossero stati alcuni problemi ingegneristici: il serbatoio non era stato adeguatamente verificato durante la sua costruzione. E, molto probabilmente, nemmeno collaudato. Le saldature dunque non erano ben realizzate e c’erano perdite di liquido. Ma nessuno le notò.
scienza & scienziati
L’estinzione del dodo
L’
espressione inglese “dead as a dodo”, tra ducibile in italiano con “morto e sepolto”, non lascia spazio a fraintendimenti: in dica qualcosa di irrimediabil mente scomparso. Il dodo era infatti un paffuto e goffo uccel lo con piccole ali da piccione e con uno strano becco ricurvo, diffuso sulla paradisiaca iso la di Mauritius, nell’oceano In diano, a est del Madagascar. Sebbene navigatori portoghesi avessero raggiunto le isole Ma scarene (l’arcipelago che com prende Mauritius) all’inizio del ’500, il primo contatto attesta to tra uomini e dodo avvenne nel 1598, durante la seconda spedizione nelle Indie Orienta li dell’ammiraglio olandese Ja cob Cornelisz van Neck. Tragico appuntamento. Il destino di questo uccello fu fatalmente segnato da questo Cacciato per la carne e per primo incontro: in poco meno di un secolo il dodo si estin gli esemplari da mandare nel se, diventando l’icona più rap le principali corti d’Europa, la presentativa della perdita irre sua scomparsa fu forse cau versibile di un equilibrio natu sata dalla distruzione per ma rale intaccato dalla presenza no dell’uomo del suo habitat e dall’introduzio umana. L’ulti mo esemplare vi Per la goffaggine ne di animali co me gatti, maiali e vente fu avvista fu chiamato cani che si nutri to a Mauritius nel 1662. Alcuni dodo (“stupido” vano con facili tà delle sue uova studi pubblicati in portoghese) deposte a terra. qualche anno fa Da collezione. La prima de sull’importante rivista Nature, sulla base di analisi statisti scrizione scientifica di questo che e di diari di coloni olandesi pennuto risale al 1605, quan che ne registravano le catture, do uno dei padri fondatori del hanno stimato che alcuni dodo la moderna botanica, Carolus potessero essere in vita ancora Clusius, attivo nell’Universi intorno al 1690. Tre anni do tà di Leida, in Olanda, lo in po, il francese François Leguat serì nella sua monumentale trascorse vari mesi sulle isole opera dedicata alle “cose esosenza avvistarne neanche uno. tiche”. Secondo alcuni il ter
Avvistato Il dodo “visto” dal pittore fiammingo Roelandt Savery (1626) e, nel tondo, il primo occidentale che lo scoprì: l’esploratore Jacob Cornelisz van Neck (1564-1638).
mine “dodo” verrebbe dal por toghese dóudo, poi doido, che sta per “sempliciotto”, “stupi do”, alludendo forse alla gof fa andatura dell’animale. Gli olandesi lo chiamavano anche Walgvogel, “uccello insipido” o “disgustoso”. All’inizio del ’600 arrivarono in Europa i primi dodo vivi. I collezionisti se li contendeva no, primo fra tutti l’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, che nel la sua residenza di Praga ave va allestito una delle più gran di collezioni esotiche e di rari tà del tempo. Dove il dodo non poteva mancare. Non è un ca so che alla sua corte abbia la vorato il più prolifico illustra tore di questo volatile, il pit tore fiammingo Roelandt Sa very. Intorno al 1626 realizzò
l’immagine più nota del dodo (sopra), oggi al Museo di storia naturale di Londra. Da favola. Scomparso in na tura, il dodo iniziò a popola re l’immaginario come esem pio di animale inadatto alla vi ta, l’estinto per eccellenza: è perfino tra i protagonisti di Alice nel paese delle meraviglie, il romanzo pubblicato nel 1865 dal matematico inglese Char les Dodgson, meglio noto con lo pseudonimo di Lewis Car roll. Carroll fu probabilmente affascinato da una testa e una zampa conservate all’Ashmo lean Museum di Oxford. Nono stante nessuno di noi lo abbia mai visto in carne e ossa, il do do alimenta ancora oggi la fan tasia di chi ne sente parlare. • Elena Canadelli 81
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GUERRA CIVILE AMERICANA
NORDISTI CONTRO SUDISTI Nell’800, dopo neanche un secolo di indipendenza, gli Stati Uniti si trovarono a combattere una guerra civile. Provocata non solo dal problema della schiavitù.
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ul Forte Sumter di proprietà del governo degli Stati Uniti, posto al centro del porto di Charleston, iniziarono a piovere le cannonate dei sudisti il 12 aprile 1861. I cittadini della capitale dello Stato della Carolina del Sud subito si affrettarono per andare a vedere i lampi dei cannoni che illuminavano il cielo come fossero fuochi d’artificio. Era l’inizio della Guerra civile americana, la più sanguinosa di tutte le guerre che 84
la giovane nazione avrebbe affrontato. Nel giro di due giorni, ci fu la celebre resa del forte con i federali che uscirono consegnando la bandiera nazionale a stelle e strisce. Ma che cosa aveva scatenato il conflitto? Guerra di interessi. L’esistenza della schiavitù aveva portato alla guerra, ma non era certo una guerra “sulla” schiavitù, se non per qualche minoranza estremista. Allora come si era arri-
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I GRANDI TEMI
INTANTO NEL MONDO
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vati al sanguinoso scontro fratricida? Non a causa dell’intenzione di porre fine alla schiavitù nel meridione da parte del Nord, come spesso si crede. Semmai era in primo luogo una conseguenza della volontà di estendere la schiavitù da parte del Sud nei nuovi territori dell’Ovest che man mano entravano a far parte degli Stati Uniti. Un controverso problema che andava avanti da decenni e che si era tentato di risolvere con una serie di com-
1856 La città di Lawrence (Kansas) è messa a ferro e fuoco da truppe favorevoli alla schiavitù. Nello stesso anno il democratico James Buchanan diventa il XV presidente degli Stati Uniti.
1856 Il Trattato di Parigi pone fine alla Guerra di Crimea.
1861 Undici Stati del Sud dichiarano la propria secessione e formano la Confederazione degli Stati d’America: ha inizio la Guerra civile.
1861 Si completa il processo di unificazione nazionale italiano: il 17 marzo nasce il Regno d’Italia.
1862 Proclama di Emancipazione di Lincoln che decreta la liberazione di tutti gli schiavi dai territori degli Stati secessionisti a partire dal 1° gennaio 1863.
1862 Viene nominato cancelliere del Regno di Prussia Otto von Bismarck (foto).
1863 Il generale Lee sconfigge le forze dell’Unione a Chancellorsville; inizia l’Assedio di Vicksburg che finirà con la vittoria dei nordisti, vincitori nello stesso anno anche delle battaglie di Gettysburg e poi di Chattanooga.
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La guerra fratricida Una scena della Battaglia del cratere (1864) combattuta all’interno della Guerra civile. Sopra, la stampa umoristica con il Piano dell’Anaconda, il soprannome con cui era nota la strategia militare per circondare gli Stati del Sud presieduti da Jefferson Davis (foto a sinistra del titolo). Il progetto, messo a punto dal generale Winfield Scott, venne poi scartato dal presidente Lincoln (foto a destra del titolo).
1854 A Londra un’epidemia di colera causa più di 10mila morti.
CULTURA
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1850 Con il “Compromesso del 1850” la California entra nell’Unione come Stato libero insieme al Nuovo Messico. Quest’ultimo rimette alla volontà popolare la decisione sulla schiavitù.
ALTRI PAESI
1855 Si apre a Parigi l’Esposizione Universale dei prodotti dell’agricoltura, dell’industria e delle belle arti.
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USA
1862 Victor Hugo (foto) scrive uno dei suoi romanzi più noti: I miserabili.
1863 A Ginevra i rappresentanti di sedici nazioni danno vita alla Croce Rossa Internazionale.
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I GRANDI TEMI CORBIS (2)
Il generale nordista Ulysses Simpson Grant.
I due comandanti
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e grandi vittorie militari di Ulysses Simpson Grant lo resero in tutto il Nord così popolare che le iniziali del suo nome U. S. diventarono sinonimo di unconditional surrender, la resa senza condizioni che era solito imporre al nemico. Di notevole coraggio e doti strategiche sul piano operativo e tattico, Grant era un apostolo della mobilità e della rapidità, così come dell’attacco simultaneo su più fronti. Lincoln lo chiamò a Washington per conferirgli l’altissimo grado di generale in capo degli Eserciti dell’Unione. La sua popolarità fu ancora maggiore negli anni che seguirono la guerra, quando divenne per ben due volte
presidente della Repubblica. Il grande rivale. Sul fronte opposto, la più importante guida militare del Sud era il generale Robert Edward Lee. Intenzionato a servire il suo Paese (con il quale intendeva la Virginia, non gli Stati Uniti) si schierò con i secessionisti quando anche la Virginia entrò a far parte della nuova Confederazione. Lee era un difensore della società aristocratica del Sud e militarmente rimaneva legato a un tipo di guerra caratterizzato dalla ricerca della battaglia decisiva. “L’ultimo eminente generale di un tempo passato, l’ultimo epigono della condotta napoleonica della guerra”, secondo lo storico militare Raimondo Luraghi.
Corazzata, ma non abbastanza L’affondamento del piroscafo Merrimack della marina confederata (1862). La corazzatura veniva fatta con balle di cotone e ferro di rotaie per assorbire l’urto delle granate.
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Il generale sudista Robert Edward Lee.
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Il movimento razzista del Ku Klux Klan promessi divenuti sempre più precari. Il radicalizzarsi del conflitto tra le opposte fazioni era evidente negli Stati di recente formazione, come il Kansas insanguinato dal conflitto interno tra schiavisti e antischiavisti. Lincoln e il Sud. Con le elezioni presidenziali del 1860, il candidato del Partito repubblicano era Abraham Lincoln, per il quale le terre dell’Ovest erano destinate al lavoro degli agricoltori liberi bianchi, non ai ricchi schiavisti del Sud che avrebbero potuto accaparrarsi le terre migliori. Non solo, ma secondo il noto pensiero di Lincoln, la schiavitù una volta contenuta all’interno del Sud con il tempo si sarebbe progressivamente estinta da sola eliminando il vecchio problema. La visione del candidato alla presidenza minacciava direttamente la base su cui l’aristocrazia schiavista del Sud aveva costruito il suo potere economico e politico. In poche parole, la vittoria di Lincoln avrebbe semplicemente significato l’inizio della fine. Una volta eletto, ancor prima che prestasse giuramento il 4 marzo 1861, la Carolina del Sud aveva già dichiarato la sua secessione dagli Stati Uniti. Entro il febbraio dello stesso anno si erano aggiunti Georgia, Alabama, Mississippi, Louisiana, Texas e Florida. Avevano fondato gli Stati Confederati d’America, nominando presidente il senatore Jefferson Davis. Il giorno seguente la caduta del Forte Sumter, il 15 aprile 1861, Lincoln proclamò l’esistenza di un’insurrezione e chiese agli Stati rimasti nell’Unione 75mila volontari per reprimerla. Poco dopo anche la Virginia entrò
INTANTO NEL MONDO 1864 Le forze dell’Unione penetrano in Atlanta e, a dicembre, ottengono una vittoria decisiva a Nashville. Nello stesso anno Lincoln viene rieletto presidente degli Usa.
fu fondato da alcuni veterani confederati nella confederazione sudista, nonostante la parte occidentale non fosse d’accordo e restasse fedele agli Stati Uniti come il West Virginia. A breve, nello schieramento sudista confluirono l’Arkansas, il Tennessee e la Carolina del Nord. Al contrario oltre al West Virginia, anche altri Stati schiavisti sul confine tra Nord e Sud, come il Maryland o il Delaware, finirono per rimanere con il Nord. I leader politici e i governi degli Stati secessionisti si giustificarono negando la natura rivoluzionaria della loro decisione, ribadendo di essere del tutto in linea con la costituzione federale nata nel 1789. Secondo loro, i singoli Stati avevano preservato i propri diritti legali, tra i quali la facoltà di separarsi dalla struttura che avevano contribuito a creare quasi un secolo prima. Al contrario, ricorda lo storico Raimondo Luraghi nel suo La Guerra civile americana, il pensiero di Lincoln al riguardo era più che chiaro: “L’Unione preesisteva alla stessa formulazione della Costituzione; essa aveva creato gli Stati e non viceversa”. Schiavi e industria. Anche le forti differenze dal punto di vista economico erano andate fomentando antagonismo e attriti tra le due parti, sempre più diverse, della nazione. Per esempio, mentre l’agricoltura meridionale era a favore di tariffe doganali basse per meglio vendere i suoi tipici prodotti, come il cotone, il riso o il tabacco, diversamente il capitalismo settentrionale in crescita chiedeva una politica protezionistica, che mettesse al riparo la giovane industria nazionale dalla concorrenza europea. Nell’ambito della stessa economia agricola, la scarsa produt-
1866 Con il trattato di Vienna tra Italia e Austria si conclude la Terza guerra di indipendenza (nel quadro, l’ingresso di Vittorio Emanuele II a Venezia, 1866).
1866 Dostoevskij pubblica Delitto e castigo.
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Riproduzione della Battaglia di Gettysburg (1863) che si concluse con la vittoria delle forze dell’Unione comandate da George Meade.
1865 Gregor Mendel espone per la prima volta in uno studio scientifico le sue leggi sull’ereditarietà.
1870 Il Congresso degli Stati Uniti ratifica il XV emendamento alla Costituzione, concedendo il diritto di voto a tutti i cittadini, indipendentemente dalla razza.
1870 Definitiva sconfitta francese nella Battaglia di Sedan: Napoleone III (nel ritratto) si arrende a Guglielmo I di Germania. Nello stesso anno, l’esercito italiano entra a Roma attraverso la Breccia di Porta Pia.
1867 Alfred Nobel inventa la dinamite (foto).
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La grande battaglia
1866 Il 13 giugno il Congresso propone il XIV emendamento che riconosce il diritto di cittadinanza alle persone di colore. Entra in vigore dopo le necessarie 28 ratifiche degli Stati il 9 luglio 1868.
1864 Karl Marx istituisce la 1a Internazionale dei Lavoratori a Londra assieme a Friedrich Engels. Vi aderisce anche Giuseppe Mazzini.
ALINARI
1865 Dopo la sconfitta di Appomattox, il generale Lee firma la resa. Quello stesso anno il Congresso abolisce la schiavitù: il 15 aprile muore Lincoln a seguito di un colpo di pistola sparato da John Wilkes Booth.
1864 Le forze imperiali Qing attaccano Nanchino tenuta dai Taiping nell’ultima grande battaglia della guerra civile cinese dell’Ottocento.
1872 Il barone Justus Von Liebig, per pubblicizzare il suo estratto di carne, promuove la prima serie di figurine Liebig. 87
I GRANDI TEMI
GUERRA CIVILE AMERICANA
Dopo le sconfitte del Nord all’inizio della
Partiti a confronto
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lle elezioni presidenziali (1860), il Partito repubblicano di Lincoln, che si era presentato definendo la schiavitù “un torto morale, sociale e politico”, vinse le elezioni senza prendere voti in tutto il Sud. Non riuscendo a raggiungere una posizione unitaria, diversamente il Partito democratico si spaccò, tra sudisti, difensori del diritto a espandere la schiavitù, e nordisti non antischiavisti, ma disposti al compromesso, soprattutto per quello che riguardava la schiavitù nei nuovi Stati dell’Ovest. Iniziata la guerra, al Nord il Partito democratico si divise di nuovo.
Pacifisti e non. Da una parte c’era la fazione dei Peace Democrats, a favore di un rapido accordo che mettesse fine alla guerra. Dall’altra i cosiddetti War Democrats che appoggiavano la guerra contro il Sud e il governo di Lincoln, come il noto meridionale unionista Andrew Johnson, l’unico rappresentante degli Stati del Sud a continuare a partecipare ai lavori del Congresso dopo lo scoppio della guerra e che divenne il vicepresidente di Lincoln al suo secondo mandato nel 1864. Gli sarebbe succeduto l’anno successivo a seguito dell’assassinio del presidente.
500MILA
Il numero dei neri liberi alla vigilia dello scoppio della Guerra civile americana.
La guerra all’Ovest Il dipinto riproduce una scena della Battaglia di Kennesaw Mountain combattuta durante la campagna di Atlanta, nell’estate del 1864.
tività dell’agricoltura servile del Sud richiedeva molta più terra rispetto al Nord, dove si andavano introducendo su vasta scala macchine e fertilizzanti. Negli Stati confederati, la fame di nuove terre era inoltre dettata dall’esaurimento della fertilità del suolo, provocato dalla monocultura, e dal surplus di schiavi venduti al “profondo Sud” dai coltivatori delle aree di confine, che modernizzavano i propri metodi di coltivazione. Tuttavia, la spinta più forte all’espansionismo schiavista era dovuta al tentativo di arginare la grande immigrazione europea, che oltre a rendere molto più numerosa la popolazione del Nord, portava nei nuovi territori dell’Ovest i tanti lavoratori bianchi che non potevano trovare lavoro al Sud a causa della presenza della manodopera schiava. Per i meridionali quell’aumento demografico implicava la perdita del controllo sulla Camera, dove i deputati erano eletti in proporzione alla popolazione, ma anche sul Senato (composto da due senatori per ogni Stato) nel momento in cui nell’Ovest si aggiungevano nuovi Stati contrari alla schiavitù.
4MILIONI
Il numero di neri schiavi, distribuiti nel Sud e in parte dell’Ovest, prima della guerra.
25%
La percentuale della popolazione bianca proprietaria di schiavi negli Stati del Sud.
guerra, Lincoln al servizio dell’Unione voleva Garibaldi, che però rifiutò La questione morale. Accanto a fattori economici e politici, ad aumentare il senso di frustrazione di un Sud che si sentiva da più parti sotto attacco, c’era la questione morale, la ferrea condanna come disumana della schiavitù, la “peculiare istituzione” come la chiamavano i sudisti. Non soltanto il piccolo, per quanto rumoroso, gruppo degli abolizionisti del Nord, ma la gran parte del mondo occidentale di allora ormai considerava la schiavitù un’istituzione ripugnante da eliminare il prima possibile. A incendiare gli animi arrivarono la pubblicazione del romanzo La capanna dello Zio Tom, di Harriet Beecher Stowe, e il tentativo di scatenare un’insurrezione di schiavi da parte dell’abolizionista John Brown (v. riquadro sotto). Nel Sud in preda al panico, anche la grande massa di non proprietari di schiavi finì per schierarsi a favore della secessione. In breve le battaglie si spostarono in luoghi sconosciuti e lontani dalle città, con i cittadini che ora venivano a sapere del loro andamento grazie alle lettere dei soldati e ai resoconti dei giornali. Anche visivamente, attraverso le grandi illustra-
zioni dei disegnatori della carta stampata e le fotografie, come quelle divenute celebri di Matthew Brady. La forte diversità delle due società non poteva che riflettersi sulla potenza militare delle cosiddette “giacche grigie” dei secessionisti e delle “giacche blu” dell’Unione. Non solo il Nord aveva una popolazione di 18 milioni contro i circa 6 del Sud, ma a favore del settentrione c’era anche tutta la sua potenza industriale. Militarmente, inoltre, il Sud non ebbe mai una grande strategia, a differenza del Nord guidato dal generale Grant che divenne popolarissimo per le sue vittorie. I più moderni armamenti rispetto al passato erano tuttavia impiegati in una guerra in cui ancora si ricercava la battaglia decisiva, la giornata campale di tradizione napoleonica con audaci assalti frontali, con il risultato di un numero di vittime impressionante. Fu una carneficina con oltre 600mila morti. Una guerra combattuta negli Stati di confine, nell’Ovest e nel territorio del Sud, che alla fine sarebbe diventata totale, coinvolgendo la popolazione civile, con città date alle fiamme e la distru-
John Brown e lo Zio Tom
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l 16 ottobre 1859, l’antischiavista bianco John Brown con un gruppo di 18 compagni bianchi e neri prese d’assalto l’arsenale federale di Harper’s Ferry, nella Virginia Occidentale: la speranza era scatenare un’insurrezione di schiavi e creare un territorio indipendente tra i Monti Appalachi. Anche se fu un fallimento, finito con l’impiccagione, il tentativo armato fece comunque rabbrividire l’intero Sud, terrorizzato dalla minaccia di cospirazioni nordiste e rivolte di schiavi. Un terrorista per il Sud, al Nord fu invece subito un martire della libertà e la canzone John Brown’s body divenne un inno informale cantato dalle truppe dell’Unione. Best seller. Con il romanzo La capanna dello Zio Tom, pubblicato nel 1852, Harriet Beecher Stowe ridicolizzava coloro che si dicevano contrari all’emancipazione degli schiavi perché li ritenevano privi di sentimenti e spiritualità. La Stowe invece, in quello che fu un successo internazionale, aveva ritratto un mondo di
persone piene di coraggio, onore e volontà, oltre che di straordinaria umanità cristiana. Quando Lincoln incontrò la scrittrice, all’inizio della Guerra civile, esclamò: “Allora è questa la piccola signora che ha scatenato questa grande guerra”.
Poster del libro La capanna dello Zio Tom pubblicato prima della guerra nel 1852. 89
I GRANDI TEMI
GUERRA CIVILE AMERICANA
La firma della resa
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Il generale Lee firma la resa dopo la Battaglia di Appomattox (9 aprile 1865). Alla notizia, anche gli altri comandanti confederati deposero le armi.
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Il film Via col vento di Victor Fleming del 1939 è un affresco della società americana negli anni della guerra e della successiva ricostruzione
Due famiglie americane negli anni della Guerra civile (1863) immortalate dallo stesso fotografo: in alto, quella di un soldato di colore in uniforme e, sopra, quella di un militare confederato. 90
zione di risorse e attività economiche. Nelle previsioni iniziali doveva essere di breve durata, tanto che Lincoln aveva richiamato i volontari per soli tre mesi: sarebbe invece durata cinque lunghi anni. Emancipazione. La principale preoccupazione di Lincoln rimase quella di preservare l’Unione, non di porre fine alla schiavitù, e nel 1862 solo nella speranza di accorciare i tempi della guerra emanò un Proclama di emancipazione che dal 1° gennaio dell’anno successivo rendeva liberi gli schiavi che si trovavano nelle aree sotto il dominio dei ribelli, ma non quelli negli Stati schiavisti di confine rimasti fedeli al Nord. Nel 1864, i partiti tornarono a fronteggiarsi alle urne nonostante la guerra. L’anno prima, per far fronte al bisogno di uomini, il presidente aveva imposto la coscrizione militare obbligatoria e aveva dato l’approvazione anche per la formazione dei primi reggimenti di soldati di colore. Nella campagna elettorale, Lincoln si spese inoltre a favore dell’iniziativa del Congresso, dominato da repubblicani più radicali di lui, che voleva mettere una volta per tutte la schiavitù fuorilegge con l’adozione del XIII emendamento della costituzione, in base al quale era proibita in tutto il territorio degli Stati Uniti. Stretto in una devastante manovra a tenaglia, il Sud era prossimo alla capitolazione e quindi alla resa finale di Appomattox del 9 aprile 1865. La guerra era finita. Pochi giorni più tardi, mentre a Washington assisteva a uno spettacolo teatrale, Lincoln veniva ucciso con un colpo di pistola dal sudista John Wilkes Booth. Il XIII emendamento entrava in vigore il 18 dicembre 1865. Nel giro di pochi anni seguirono il XIV, che proteggeva i diritti civili degli ex schiavi, e il XV, che garantiva loro il diritto di voto. • Gian Domenico Iachini
COSTUME
S A L E V O TELEN Il più famoso
Copertina di Grand Hotel del 1967. La rivista uscì per la prima volta nel 1946 e fu subito un grandissimo successo editoriale.
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A T R A C I D o Nel Dopoguerra hanno fatt sognare milioni di italiani a e hanno lanciato più di un zi star. Ma perché i fotoroman ebbero tanto successo?
Divismo
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Il concorrente di Grand Hotel, Bolero film, con in copertina l’attrice americana Rhonda Fleming (1949).
Revival
Pagina del racconto Jane Eyre, dal romanzo di Charlotte Bronte, con Giorgio Albertazzi e Ilaria Occhini (1961).
Amori proibiti
Fotoromanzo a colori di Grand Hotel del 1978. Racconta l’amicizia epistolare di un carcerato con una ragazza innamorata di lui.
i fotoromanzi Negli Anni ’70, nei testi de sessuale, si faceva anche educazione ento tabù sugli altri giornali un argom
Carramba!
Una giovanissima Raffaella Carrà: anche lei iniziò la sua carriera con i fotoromanzi.
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i piange, ci si appassiona, ma soprattutto si sogna. Come un rituale catartico, il fotoromanzo è stato per decenni l’appuntamento settimanale irrinunciabile di stuoli di mamme, nonne e fanciulle. Immortalato anche dai maestri del cinema: in una scena di Riso amaro, la sensuale Silvana Mangano, dopo aver ballato un boogie-woogie con Vittorio Gassman che mastica chewing gum, mostra una copia di Grand Hotel. È il 1949. E ormai da tre anni la rivista si è imposta in tutte le edicole del Paese. Speranze rosa. Nato sull’onda del successo dell’Intrepido (fumetto per adolescenti), il fotoromanzo non fu pensato subito come un racconto per fotografie. Era piuttosto un fumettone “rosa” che metteva in scena il mondo della piccola borghesia. Uscita distrutta dalla guerra, ma con un ardente desiderio: tornare a sognare. Se necessario trasgredendo alla restrittiva morale cattolica e concedendosi qualche piccolo peccato. Almeno sulla carta. I padri ispiratori non mancavano: i romanzi rosa e quelli popolari dell’Ottocen94
Come un film La rivale di Cleopatra (da Grand Hotel, 1960): la protagonista somiglia a Elizabeth Taylor.
to. Ma anche i film detti “dei telefoni bianchi” degli Anni ’30 e i melodrammi strappalacrime che spopolavano nei cinema. Di tutto questo brulicare di sentimenti, sentimentalismi ed emozioni, il fotoromanzo era la sintesi. Espressa con titoli roventi: Come fuscelli nella tempesta, Una donna per l’uomo che amo o Quella rabbia che si chiama vita, per citarne alcuni. L’apripista, il 29 giugno 1946, fu Grand Hotel: sedici pagine a un prezzo di 12 lire, quasi la metà di un quotidiano. Il successo fu immediato: le 100 mila copie del primo numero andarono a ruba e leggenda vuole che il giornale sia stato ristampato ben quattro volte. L’idea di produrlo venne all’editore Domenico del Duca che aveva già all’atti-
vo l’Intrepido ed era proprietario della casa editrice Universo. «Visto il successo, in meno di un anno entreranno nel mercato con risultati brillantissimi Bolero film della Mondadori e Sogno di Rizzoli», spiega la storica Anna Bravo nel suo libro Il fotoromanzo (Il Mulino). Speranze rosa. Il passaggio dai disegni ai set fotografici fu rapido. E fu allora che fecero capolino future stelle del cinema. Una tra tutte: Sofia Villani Scicolone, in arte Sophia Loren. Allora aveva 16 anni, parlava con un forte accento napoletano e non aveva ancora girato L’oro di Napoli (1954). In compenso aveva il physique du rôle necessario per farsi strada. Sul set fotografico di Non posso amarti (1950) interpretò il ruolo di una fanciulla innamo-
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La versione (verbosa) per i
“compagni”
na) in pugno (a destra, la coperti romanzo del 1959 Il destino foto dal ta un trat e è ebb ina Pci pag il Questa doppia unista italiano. All’inizio ale siciliano del Partito com e. Visto a cura del comitato region siderato troppo superficial con , fronti di questo genere con nei liaia di ile mig ost o da i ent lett am no ggi era atte he, dove i avevano anche nelle fabbric iali. I testi soc i tem su e tter rifle a il successo che i fotoromanz o rcio storie che invitasser me com in e tter i. me nal di izio ise operaie, si dec anti) di quelli trad egnativi (e meno appassion imp e ghi lun più lto mo ò erano per
rata di un cadetto dell’Accademia nava le di Livorno. La paga era buona: guada gnava 10mila lire a giornata (un centinaio di euro di oggi). Meno di quanto avrebbe preso come comparsa, ma molto di più se si considera che poteva lavorare anche 10 o 15 giorni. Altre future dive fecero come lei. I nomi più famosi sono quelli di Gi na Lollobrigida e di uomini come Vitto rio Gassman e Walter Chiari. Ma anche di personaggi dello spettacolo, come Raffa ella Carrà e Mike Bongiorno, o del teatro, come Giorgio Albertazzi. Made in Italy. Il successo dei fotoro manzi fu un caso unico in Europa; c’era chi rideva di questa Italietta sentimenta le sempre pronta a commuoversi come in una melodia da menestrelli, stando dietro a femmine e “malefemmine”. E non man cava chi, addirittura, la deprecava. Al le ironie dei laici si univano infatti le per plessità dei cattolici e dei comunisti. Per
gli uni, l’enorme successo di pubblico del fotoromanzo rischiava di tradursi in corru zione dei costumi. Per gli altri, di distrarre il proletariato dal suo vero obiettivo, la lot ta di classe. Certo è che per 30 anni i foto romanzi mantennero tirature spettacolari. La diffusione, contrariamente agli stereo tipi che lo volevano più diffuso nel Meri dione contadino, era maggiore al Nord e nelle zone industrializzate. Operai e ope raie rappresentavano quasi il 60% dei let tori di Grand Hotel o di Bolero: «Nel 1953 alla Mazzonis di Torino, fabbrica combat tiva, 500 operaie di cui 300 sindacalizza te, l’Unità diffonde 30 copie, Noi donne 40, Grand Hotel 300, Bolero 200», racconta sempre Anna Bravo nel suo libro. Un problema, per i “padri spirituali” del l’Italia in ricostruzione. Anche per questo gli oppositori scesero a più miti consigli: il Partito comunista organizzò per la cam pagna elettorale del 1953 un fotoromanzo
che intrecciava gli amori alla lotta di clas se. Mentre il settimanale cattolico Famiglia cristiana preferì mettere in scena sto rie edificanti di coppie devote. Non c’è più religione. A parte queste ec cezioni, la morale del fotoromanzo era svincolata da zavorre ideologiche. Legge ra e superficiale, contribuì a formare quel la del Paese. O, secondo i punti di vista, a interpretarla. Che si chiamassero Flora o Elena, Stella o Dianora, le eroine dei foto romanzi finirono infatti per rappresentare un nuovo prototipo femminile. Erano don ne diverse da quelle nate nel secolo prece dente. Queste flirtavano con sconosciuti, giravano il mondo da sole per cercare l’a nima gemella, sfasciavano famiglie pur di coronare il loro sogno incantato. Erano lo
romanzi Nel 1975 debuttarono i foto a a colori. Il primo si intitolav more Bambina che scherzi con l’a
Sul set a Cinecittà
romanzo ène Remy posano per un foto Sopra, Maurizio Arena e Hél mento mo al ri a (1960). Sotto, gli atto negli studi di Cinecittà a Rom di una lla que di no me lavoro era pagata del trucco. Una giornata di are un lizz rea per go: lun più gaggio era comparsa del cinema, ma l’in settimane. fotoromanzo si lavorava due
Lacrimosi specchio di una società in trasformazione, che come colonna sonora aveva scelto Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno e Cuore matto di Little Tony. Che tra gli italiani fosse in corso un “mutamento antropologico”, come sosteneva in quegli anni Pasolini, agli sceneggiatori di fotoromanzi interessava poco. Quello che volevano era tenere in piedi lo star system italiano che fruttava loro milioni di lire. I successi infatti erano stellari. Lo confermano i dati: nel 1976 le varie case editrici di fotoromanzi vendevano oltre otto milioni copie al mese. Solo cinque milioni erano della Lancio. E ogni anno nascevano nuovi idoli: sempre la casa editrice Lancio ne “fabbricò” a decine tramite le sue testate Letizia, Charme o Marina. Nei teatri di posa romani, come quelli di Cinecittà, giovani dal bell’aspetto e dal96
Copertina del settimanale Sogno (1962) con Gabriella Farinon e Giacomo Rossi Stuart, padre di Kim Rossi Stuart.
lo sguardo seducente guadagnavano qualche soldo e soprattutto una fama imperitura. Le ragazze appendevano alle pareti le loro immagini, cercando al paese ragazzi simili a loro. Franco Gasparri o Claudio De Renzi alcuni dei più famosi. E tra le donne, Claudia Rivelli, Caterina Piretti e Nuccia Cardinali. Sul viale del tramonto. Gli Anni ’80 saranno quelli del declino. Complice la televisione, le telenovelas e un mondo nuovamente cambiato, che impose altri modelli di racconti rosa popolari. Cosa è stato quel brivido rosa e cosa è rimasto lo ha raccontato in un’intervista una diva della Lancio e di Grand Hotel, Caterina Piretti, quando
promosse la sua autobiografia Katiuscia la diva ribelle (Giulio Perrone Editore): «C’era un’Italia quasi in guerra, con rivendicazioni, attentati e scioperi. E noi vivevamo in una specie di limbo, lontani da tutto questo. Con le nostre storie romantiche da illustrare, da recitare. Muti e solo fotografati, ma pur sempre attori. Inseguiti dai fan, attesi dalla gente anche per ore solo per un autografo… Sì, va bene. A sentire la gente nessuno comprava i fotoromanzi, li trovavano tutti dal parrucchiere o dalla donna di servizio. Ma ne abbiamo venduti almeno 25 milioni. Qualcuno che li comprava ci sarà stato, no?». • Giuliana Rotondi
STORIE D’ITALIA BALVANO (POTENZA)
REALYEASYSTAR (2)
Sorpresi dal gas Ricostruzione dei tragici momenti dell’incidente, quando il treno merci a vapore rimase bloccato nella galleria (a lato). A destra, i corpi dopo la tragedia, sulla banchina della stazione, a Balvano.
3 marzo 1944: un convoglio in viaggio da Napoli a Potenza si blocca in una galleria. Muoiono in più di 500, asfissiati: è la nostra più grande tragedia ferroviaria
il treno
A. MOLINO
della morte A lle tre del mattino del 3 marzo 1944 Luigi Quaratino, telegrafista di turno a Potenza, trascrive un dispaccio: “Treno 8017 fermo in linea tra Balvano e Bella-Muro per insufficienza forza trazione, attende soccorso”. Sono le prime vaghe notizie su quello che diventerà il più grave disastro ferroviario nella storia d’Italia. Un disastro oggi pressoché dimenticato, una vicenda che riemerge dai confusi mesi dell’ultimo anno della Seconda guerra mondiale. Teatro del dramma è la linea ferroviaria lungo la quale i campani si spostano in Basilicata, in fuga dalla fame. Erano mesi di guerra, con il fronte di Cassino insanguinato e gli Alleati padroni di fatto di tutte le decisioni nel Regno del Sud (la parte di Italia liberata dal nazifascismo). Mesi di borsa nera, paura e miseria. Per merci e viaggiatori tra Napoli e Potenza c’era quell’unica linea ferroviaria. Un treno a vapore partiva due volte alla settimana, senza orari fissi. Il percorso era coperto anche dal treno 8017, destinato ad armi, munizioni e rifornimenti angloamericani diretti al fronte. Un treno a “orario libero”, da usare ogni volta ve ne fosse bisogno.
Vietato salire. Il convoglio del treno 8017, 47 vagoni trainati da due locomotive a carbone, partì vuoto da Napoli il 2 marzo per andare a caricare legname necessario per ricostruire i ponti distrutti dai bombardamenti. Durante il viaggio di andata, nessuno sarebbe dovuto salire su quel treno. Ma non andò così. Nelle stazioni intermedie (Nocera, Salerno e soprattutto Battipaglia), il treno fu preso d’assalto da gente carica di merce da barattare alla borsa nera. Non ci fu modo, per il personale di bordo, di tenere sotto controllo quella folla impazzita. Il treno si riempì di merci, raggiungendo un peso stimato di 520 tonnellate. Soltanto a Eboli salirono 100 persone. Tra loro c’era anche un professore dell’Università di Bari, Vincenzo Iuta, che cercava di tornare verso la Puglia con una decina di studenti. Alla stazione di Romagnano i passeggeri diventarono più di 600, tra cui alcuni contrabbandieri: uomini e donne, ma anche ragazzi delle province di Napoli e Salerno. I più numerosi erano di Cava dei Tirreni, Castellammare, Torre del Greco, Torre Annunziata, Nocera Inferiore. Tanti avevano, nascosti sotto strati di maglie e cappotti, caffè, sigari, medicine da 99
GETTY IMAGES (2)
Una famiglia italiana incontra un soldato americano nella zona della battaglia di Cassino (17 gennaio-18 maggio 1944).
Negli stessi drammatici giorni si stava combattendo la decisiva battaglia di Montecassino
scambiare a Potenza con prosciutti, zucchero, farina, pane, carne. Bloccati. La linea non era elettrificata e non lo sarebbe stata fino al 1994. Le due locomotive arrancavano, anche per la pessima qualità del carbone di produzione iugoslava, molto economico e impiegato dagli Alleati per risparmiare. Quel carbone, purtroppo, aveva un altro, più grave, difetto: sprigionava gas mortali. A mezzanotte e 12 minuti, secondo quanto si ricostruirà poi, l’arresto nella galleria “delle Armi”, tra Balvano e Bella-Muro Lucano. La pendenza massima era del 13 per cento e il convoglio era entrato in galleria rallentando, dopo un altro treno. Il pe-
REALYEASYSTAR
I “monatti” di Balvano
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Le vittime dell’incidente caricate sul camion di fronte alla stazione di Balvano-Ricigliano (Potenza). Il misero risarcimento ai familiari delle vittime arrivò oltre 15 anni dopo il tragico incidente.
so eccessivo e la salita provocarono l’arresto nel tunnel. Dalle locomotive si sprigionò subito una densa cortina di fumo. Il tentativo di retromarcia del macchinista fu inutile: i gas che uscivano dai fumaioli agirono in pochi istanti. Qualcuno morì senza quasi accorgersene. Altri cercando di scaraventarsi fuori dalle carrozze, altri ancora schiacciati dalla gente che correva in cerca d’aria. Luigi Cozzolino, uno dei sopravvissuti, dormiva accanto al figlio dodicenne. Si svegliò per le urla e si accorse che il ragazzo era morto. Il diciannovenne Ciro Pernace viaggiava in cerca di cibo per la sua numerosa famiglia, si addormentò sotto una mantellina militare, che lo salvò, e si ritrovò all’ospedale di Potenza. Non furono così fortunate decine e decine di suoi compagni di viaggio, i cui cadaveri avevano spesso il volto tranquillo di chi muore nel sonno. Di chi la colpa? Fu l’agenzia Reuter a diffondere per prima la notizia. I corpi vennero allineati dai soccorritori sulla banchina della stazione di Balvano-Ricigliano. Il Corriere della Sera parlò di “500 italiani periti per asfissia e 49 superstiti in ospedale”. I giornali dedicarono alla strage una colonna datata, per un errore, Lisbona. Nel verbale del consiglio dei Ministri riunito a Salerno, allora capitale del Regno del Sud nato dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, si parlò di 517 morti. E si leggeva: “Tutto il personale addetto al treno è deceduto, all’infuori di un fuochista. Tutti gli altri erano viaggiatori di frodo”.
Risarcimento? Oltre al danno, la beffa
S
Carri armati americani intorno a Cassino: treni come l’8017 servivano per rifornire la linea del fronte.
509
Il numero dei morti secondo le stime più attendibili. Di questi, 408 uomini e 101 donne. Ma c’erano anche bambini.
zo del 1944, La Stampa di Torino, che si pubblicava in quella che era ancora la Repubblica di Salò, soffiò sul fuoco: “Le notizie, finora trasmesse con il contagocce dagli inglesi, bastano ad inquadrare il tragico episodio nei sistemi usati dai liberatori nei riguardi dei nostri disgraziati connazionali caduti sotto il loro dominio”. Insomma, in quel contesto storico-politico precario, la notizia fu strumentalizzata da più parti. Di certo, il traffico ferroviario al Sud era totalmente controllato dal Military Railways Service alleato. E i risultati dell’inchiesta angloamericana non furono resi noti. Il governo Badoglio, da parte sua, individuò tre facili capri espiatori: i capistazione di Battipaglia, Balvano e Bella-Muro. Furono sospesi, per non aver impedito che i clandestini salissero sul treno merci. Persino il numero dei morti rimase incerto, con documenti contrastanti. Alla fine, sembrò mettere d’accordo tutti la lapide scolpita nel cimitero di Balvano: 509 morti, 408 uomini e 101 donne. Sette anni dopo, ai familiari delle vittime fu riconosciuto un misero risarcimento. •
300MILA
Il risarcimento, in lire, dato ai familiari delle vittime, pari a nemmeno 5mila euro di oggi. Il disastro fu classificato tra gli eventi bellici.
Gigi Di Fiore
REALYEASYSTAR
Si azzardava anche una spiegazione dell’incidente: “Da attribuirsi alla pessima qualità di carbone fornito dagli Alleati”. Senza colpevoli. Anche gli angloamericani disposero un’inchiesta, che il Military Railway Service affidò a 5 ufficiali. Due giorni di lavoro, dopo rapidi interrogatori di superstiti e personale ferroviario resi difficili dall’incomprensione fra le lingue diverse. Si fecero ispezioni e una perizia, condotta da ufficiali angloamericani e francesi. “Avvelenamento da combustione di carbone di pessima qualità”, furono le conclusioni. Il 23 marzo del 1944, il Corriere-Salerno parlò di morti per asfissia da acido carbonico “straordinariamente velenoso”. E definì la tragedia “caso di forza maggiore”. Del resto gran parte di quei viaggiatori non avrebbero dovuto essere lì. Partì infine una terza inchiesta, autonoma, del sindaco di Balvano. Ma fu bloccata dagli Alleati. Scriverà la rivista americana Time nel 1951: “Il governo alleato si sforzò di occultare l’incidente per evitare l’effetto deprimente sul morale degli italiani”. Insomma, un insabbiamento giustificato da un fine nobile. Ma l’8 mar-
olamente nel 1946 a Potenza si aprì un’inchiesta penale per accertare le responsabilità della sciagura nella galleria “delle Armi”. Fu archiviata per “assenza di colpa o dolo attribuibile a soggetti determinati”. Quello stesso anno la signora Luisa Palumbo, rimasta vedova dopo il disastro, portò in tribunale le Ferrovie dello Stato chiedendo un risarcimento. Si unirono a lei altri 300 familiari, in 41 cause civili al tribunale di Napoli. Fregatura. Dopo una lunga trafila burocratica, il ministero del Tesoro riconobbe ai parenti delle vittime un risarcimento di 300mila lire (pari oggi a nemmeno 5mila euro). La cifra così bassa fu il risultato di un cavillo: il disastro fu infatti classificato tra gli “eventi bellici”, previsti dalla legge 10 del 9 gennaio 1951, che fissava le indennità “per danni immediati e diretti causati da atti non di combattimento, dolosi o colposi, delle Forze armate alleate”. Molti anni dopo, Salvatore Avventurato di Torre del Greco, in provincia di Napoli, gestore di una pompa di benzina e che nel disastro aveva perso il padre, il fratello e uno zio, fece costruire nel cimitero di Balvano una cappella di marmo in ricordo di tutti quei morti, sepolti dopo il disastro in fosse comuni (foto sotto).
MODE Fascino esotico
BRIDGEMANN/MONDADORI PORTFOLIO (6)
Il volto tatuato di Tomika Te Mutu, capo della tribù Ngai Te Rangi della Nuova Zelanda. Qui in un dipinto di Gottfried Lindauer di fine ’800.
30 SECOLI DI
TATUAGGI Gli uomini marchiavano i loro corpi fin dalla Preistoria. E questa pratica è giunta fino a noi, influenzata dalle culture orientali. Tra i personaggi insospettabili tatuati Churchill e lo zar Nicola II
C
hi si tatuò per primo? E quan- nemico in battaglia. Eppure, alla fine, an- verso l’impressione della formula SPQR o do? Probabilmente qualche no- che a Roma qualcuno adottò quella “mo- il nome della propria legione. Questo tatuaggio andò progressivamenstro antenato del Neolitico, ol- da”, diffondendola tra le file dei legionatre 10mila anni fa. Come spie- ri. I tatuaggi dei soldati romani si chiama- te sostituendo il signaculum, l’equivalengano gli antropologi, infatti, segnare con vano stigmae (“segni”) e simboleggiavano te delle moderne piastrine fornite a ogni figure e altri “marchi” il proprio cor- l’orgoglio di appartenenza allo Stato attra- soldato, divenendo nel tardo impero una norma attraverso cui scongiupo serve ad affermare la prorare possibili diserzioni. Sempria identità. E questo probabra che anche i gladiatori sfogbilmente si è cominciato a fare giassero tatuaggi molto apprezfin dai primi passi delle sociezati da pubblico e matrone, un tà umane. Quel che sappiamo po’ come avviene oggi per i di certo, però, è che nei secocalciatori. li il fenomeno è sopravvissuto arrivando fino a noi. Moralismi. Con l’avvento del Buon auspicio. In Egitto le cristianesimo il tatuaggio visse i suoi tempi più cupi. Già l’impedonne tatuavano l’addome, i ratore Costantino, nel IV secolo, seni e le cosce, con figure di rifacendosi all’insegnamento bianimali e simboli o con una seblico, che nel Levitico proibisce rie di punti, forse con lo scopo l’utilizzo di marchi che defordi proteggere le gravidanze. In mino la somiglianza degli uoGrecia il tatuaggio fu importato mini con Dio, ne limitò l’uso a dalla Persia, dove aveva un cabraccia e gambe. E nel 787 papa rattere prevalentemente religioAdriano I mise nero su bianco, so. Ma non solo: lì come a Ronel Secondo concilio di Nicea, ma veniva utilizzato per marla loro condanna: erano da conchiare schiavi e criminali. L’usiderarsi eredità pagana e quinsanza di dipingersi il corpo, in di opera del demonio. effetti, fu a lungo considerata Il che non impediva ai pelle“barbarica”. C’è chi ritiene che grini in visita al Santo Sepolcro i Romani arrivarono a chiamare di Gerusalemme di continuare Pitti (Picti, che significava proa tatuarsi simboli cristiani. Nel prio “dipinti”) i popoli scozzesi timore di morire durante quel che fecero incursioni in Britanviaggio, volevano essere sicuri nia, tra i più indomabili nemici di avere una sepoltura in terra delle legioni. Come altri barbari, Venghino, signori, venghino! consacrata e non essere scami Pitti usavano i tatuaggi non soStampa che riproduce Frank Howard, l’uomo tatuato esibito biati per musulmani o ebrei. lo per distinguere alleati e neminei circhi di inizio ’900 come un fenomeno da baraccone. Un’accortezza alla quale, pare, ci, ma anche per terrorizzare il 103
Body art all’egiziana Figura femminile in ceramica dell’antico Egitto: sul corpo erano tatuati disegni e linee di punti come auspicio alla fertilità.
Il tatuaggio moderno compare nel Settecento nei diari di James Cook. Che introdusse in Occidente il termine tattoo (dal polinesiano tattaw) ricorse anche il re d’Inghilterra e crociato Riccardo Cuor di Leone. Del resto, fino agli Anni ’50 del secolo scorso chi si recava in pellegrinaggio al santuario di Loreto, dedicato alla Sacra famiglia, aveva l’abitudine di farsi un tatuaggio-testimonianza. Corporativi. Se nei Comuni medioevali i membri delle corporazioni professionali si imprimevano sulle mani il simbolo relativo della propria arte o mestiere, fu il Settecento a segnare il primo boom moderno del tatuaggio. Non per caso: era l’epoca nella quale gli europei esploravano le terre del Pacifico. Ovvero la patria del tatuaggio, dove Maori e Tahitiani avevano portato l’arte di dipingersi e segnarsi il corpo a livelli mai visti in Occidente. Nel giro di pochi anni, i grandi porti europei e americani furono invasi da marinai sempre più tatuati. Mentre nei circhi e nelle fiere itineranti venivano esibiti uomini e donne interamente istoriati, tra lo stupore del pubblico pagante. Forse anche per questo il tatuaggio rimase relegato a sim-
bolo borderline: roba da freaks (i “fenomeni da baraccone”), marinai, criminali. Pregiudizio confermato dalla pseudoscienza di Cesare Lombroso, l’antropologo criminale torinese che, nel 1876, nel suo libro L’uomo delinquente scrisse che il tatuaggio era un indicatore di predisposizione al crimine. Riscoperta. Tutto cambiò nel ’900. Negli Stati Uniti si impose la cosiddetta Old School lanciata, secondo il mito, da Sailor Jerry, un marinaio che imparò l’arte sulle navi ed esportò il suo stile sulla terraferma. È a lui che si sono ispirate, tra gli Anni ’60 e ’70, le culture underground, prima tra gli hippie e i motociclisti, poi nella scena punk dell’esplosiva Londra dove ci fu un proliferare di corpi disegnati. Oggi solo in Italia, un giovane su quattro è tatuato: un modo, a volte inconsapevole, di riscoprire un’identità attraverso un simbolo. Che nel corso della Storia ha avuto protagonisti insospettabili ed episodi curiosi. Eccone alcuni.
Lo spartito tatuato Particolare del trittico Il giardino delle delizie, di Hieronymus Bosch. Nel tondo, l’ingrandimento di un dettaglio che ritrae le righe di uno spartito tatuato sul fondoschiena.
Ragazza nomade
SCALA (2)
Mummia dell’Altai (Siberia Meridionale) trovata in un tumulo funerario del V secolo a.C. Sulla sua spalla sinistra, sul braccio e sul ventre sono stati rinvenuti dei tatuaggi.
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Ötzi, il primo uomo tatuato
Il 19 settembre 1991 una coppia tedesca si imbatté in un corpo congelato ai piedi del ghiacciaio del Similaun. Le analisi appurarono che il corpo, un maschio fra i 40 e i 50 anni di età, era vissuto intorno al 3300-3100 a.C. Non fu l’unica sorpresa: Ötzi, come fu ribattezzata la “mummia”, dal nome della valle di Ötztal, nel Nord Tirolo, aveva ben 61 tatuaggi. Erano semplici punti, linee parallele di circa 15 centimetri e crocette. La loro concentrazione all’altezza del ginocchio sinistro, della caviglia destra e della regione lombare, dove le analisi radiografiche hanno riscontrato segni di artrite, lasciano supporre l’utilizzo a scopo terapeutico. Il primo uomo tatuato della Storia si era dunque “marchiato” per curarsi con la magia.
2
Non solo Yakuza
Secondo alcuni, i famosi tatuaggi giapponesi arrivarono nell’arcipelago nipponico dalla Polinesia. Sicuramente c’erano già nel VI secolo d.C. Lo dimostrano le statuine haniwa, i cui volti recano inequivocabili tatuaggi. E in un manoscritto imperiale terminato nel 720 d.C. si racconta che l’imperatore Richu ordinò di tatuare di nero la zona vicina all’occhio destro della salma di un capo clan traditore della corte. I giapponesi lo chiamano irezumi (da ireru, “inserire”, e sumi, “inchiostro”) e in origine era una forma di punizione: serviva a marchiare indelebilmente la pelle dei criminali, con strisce nere sulle braccia o addirittura con l’ideogramma di un “cane” sulla fronte. In seguito divenne una decorazione tipica della classe borghese (il “mondo fluttuante”) che faceva concorrenza all’aristocrazia ormai decadente. Siccome ai rappresentanti di questo ceto emergente era vietato indossare i raffinati kimono della nobiltà, loro pensarono bene di tatuarsi in gran segreto draghi, fiori, animali e figure umane sotto i vestiti, fino a ricoprire tutto il corpo. Nell’Ottocento i tatuaggi conobbero un boom in Giappone, anche grazie a un libro: l’edizione illustrata del racconto I 108 eroi del Suikoden, storia di un gruppo di briganti cinesi che si ribellano alla burocrazia corrotta. Quando poi l’eroico corpo dei pompieri di Edo (la capitale del tempo) adottò, per rifarsi ai Suikoden, grandi e raffinati tatuaggi, il successo divenne enorme. Ma poi salì al potere la dinastia
Meiji (1865), che voleva modernizzare il Giappone e che mise in cattiva luce l’irezumi. Da allora i tatuaggi rimasero appannaggio della Yakuza, la mafia giapponese, che continuava a tramandarne le figure, ma con significati opposti.
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Tatuaggio all’inglese
Varie fonti, tra cui l’Arazzo di Bayeux che raffigura la Battaglia di Hastings combattuta nel 1066 tra Normanni e Anglo-Sassoni, testimoniano che l’ultimo sovrano anglosassone Aroldo II cadde colpito da un freccia in un occhio. Il suo cadavere fu poi brutalizzato al punto da diventare irriconoscibile. Pare che a rendere possibile l’identificazione del sovrano morto sia stato un tatuaggio con la scritta “Edith e l’Inghilterra” posto all’altezza del cuore. La vedova Edith, così omaggiata (ma per alcune fonti si trattava della madre), poté così piangere le regali spoglie.
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I casi di Bosch e Breu
I pittori tra la fine del Medioevo e il Rinascimento testimoniarono come il tatuaggio non fosse del tutto dimenticato, benché godesse di una fama “maledetta”. Il tedesco Jörg Breu, in
La donna picta Donna del popolo Pitti. Il nome deriverebbe da pictus, dipinto, appellativo con cui li soprannominavano gli antichi Romani. 105
DALLA PREISTORIA AI MOVIMENTI UNDERGROUND La pratica del tatuaggio ha attraversato i secoli e mutato il suo significato. Se in certe età era associata alla schiavitù, in altre era simbolo di ribellismo. O una forma di body art. 2000 2600 AC A.C.
1200 A.C.
BRIDGEMANN/MONDADORI PORTFOLIO
3300 A.C.
Trovata la più antica testimonianza di un tatuaggio, sulla mummia del Similaun (Ötzi).
Nell’Egitto dei faraoni le donne si disegnano linee di punti e disegni sull’addome o sulla coscia (foto), simbolo di fertilità.
IV SECOLO
I SECOLO
LA SVOLTA ROMANA Costantino vieta la pratica barbara di tatuare gli schiavi.
1300
DIPINTI COME I BARBARI I Romani incontrano i Pitti, popolazione scozzese con i corpi dipinti. 1771
SIAMO DELLA STESSA CORPORAZIONE Nel Medioevo c’è chi si tatua sulla pelle il simbolo della propria corporazione.
FASCINO ESOTICO James Cook usa la parola tattoo, riprendendo il termine dai popoli dell’Oceania.
1939
Le SS naziste si tatuano sul braccio sinistro gruppo sanguigno e numero di matricola.
L’arte dell’henné e del tatuaggio si diffonde in Asia e Oceania.
V SECOLO A.C. IL TATTOO DELLA VERGOGNA I Greci tatuano gli schiavi sulla fronte. Altri popoli si disegnano il polso per fini religiosi. 1891 NUOVE TECNICHE PER TATUARSI L’americano Samuel O’Reilly brevetta la sua macchina elettrica ad aghi per tatuare. 1910
Si diffonde negli Usa lo stile Old School: rose, pugnali e motivi religiosi. 1960 LA NUOVA SCUOLA A partire dagli Anni ’60 movimenti hippie e underground rilanciano la moda dei tatuaggi.
La controcultura degli Anni ’70 ha rilanciato la moda dei tatuaggi. Oggi sono diffusissimi una delle tavole dedicate alla passione di Cristo nel monastero di Aggsbach, nel 1501 dipinse un uomo con un grosso tatuaggio sul braccio: un fiore di loto affiancato da una testa di uccello, in una cornice di rami e foglie. Il richiamo esotico serviva ad associare uno dei persecutori di Gesù (rappresentato nell’atto di defecare, deridendo la sofferenza del Cristo), con l’ambito orientale, più precisamente turco. Era infatti usanza dei giannizzeri tatuarsi il simbolo della compagnia alla quale appartenevano. Nel Giardino delle delizie del 1503, Hieronymus Bosch raffigurò invece nell’inferno una donna adultera con una rana tatuata sul petto, simbolo di lussuria e del demonio. E un uomo schiacciato da un liuto appariva con una partitura musicale tatuata sul deretano.
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Cook, l’inventore del tattoo
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Gli insospettabili americani
James Cook non solo contribuì alla rinascita del tatuaggio in ambito occidentale, ma fu anche colui che “inventò” il termine con il quale oggi è conosciuto. Nel 1771, di ritorno da uno dei viaggi nei Mari del Sud, l’esploratore, oltre a riportare un uomo completamente ricoperto di quegli strani segni, introduceva nei dizionari dell’epoca anche la parola tattoo, mutuandola dal polinesiano tattaw a sua volta germinato per associazione onomatopeica con il ticchettio “ta ta ta” delle bacchette adoperate dagli indigeni per tatuare. I simboli utilizzati dai polinesiani erano di due tipi: il wakahiro, esteso dalla vita alle ginocchia e che comprendeva anche le natiche e i genitali, e il moko, limitato alla faccia e realizzato per incisione. I disegni così solcati rappresentavano le gesta dei guerrieri, il luogo di nascita e la derivazione clanica.
Tra gli insospettabili tatuati c’è il settimo presidente degli Stati Uniti, Andrew Jackson (1767-1845). Aveva un gigantesco tomahawk (ascia di guerra india-
mità, che lo costringeva su una sedia a rotelle. Ancora più stupefacente il caso dell’inventore Thomas Edison (1847-1931), sul cui avambraccio spiccava un misterioso disegno geometrico a cinque punte. Sarà un caso, ma quando Samuel O’Reilly inventò la macchina per tatuare nel 1891 utilizzò la tecnologia sviluppata proprio da Edison per una sua “penna elettrica”.
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I tatuaggi di Churchill
Stile nipponico Giapponese del 1890 tatuato secondo la tecnica irezumi: le prime testimonianze risalgono al VI secolo.
SCALA (2)
na) tatuato sul suo interno-coscia: anche se nessuno ne conosceva l’origine, è difficile non cogliere il legame con il suo mandato di governo. Fu lui infatti a espropriare le terre dei Cherokee e a firmare l’Indian Removal Act, che gli storici definiscono “uno dei peggiori crimini della storia degli Stati Uniti” e che legittimò la deportazione dei nativi americani.
Jackson non fu l’unico presidente tatuato: Teddy Roosevelt sfoggiava sul petto l’emblema araldico della sua famiglia, tra le più antiche dello Stato di New York, rispettando così la sua immagine valorosa di uomo forte e talentuoso cacciatore. Fu imitato dal suo discendente Franklin Delano per il quale il tatuaggio risultò piuttosto una beffa considerata la sua infer-
Il primo ministro britannico Winston Churchill (1874-1965) vantava tra le sue molte eccentricità anche un tatuaggio: un’ancora sull’avambraccio, del tutto simile a quella di Braccio di Ferro. Secondo alcuni si trattava di una “eredità” lasciata dagli anni passati come corrispondente tra Cuba, India e Sudafrica. Ma non è da escludere che si trattasse di un “vizio” di famiglia: sua madre, Jennie Jerome, possedeva un superbo serpente tatuato attorno al polso, sapientemente nascosto nelle occasioni ufficiali grazie a un grosso braccialetto.
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Il drago dello zar
Il 29 aprile 1891 il futuro zar Nicola II in visita ufficiale a Kyoto, fu aggredito da uno dei poliziotti preposti alla sua scorta il quale, prima di essere neutralizzato, riuscì a ferire il sovrano, che ne rimase sfigurato. L’imperatore Meiji espresse il proprio rammarico e un’ondata di dispiacere attraversò il Giappone. Toccò il culmine quando la giovanissima sarta Yuko Hatakeyama si tagliò la gola come atto di contrizione. Sembra che fu proprio il gesto della ragazza, definita dalla stampa dell’epoca retsujo ovvero “valorosa”, a convincere Nicola a sottoporsi a una lunga e dolorosa tatuatura, dalla quale dopo sette ore di “agonia”, uscì con un maestoso drago sul braccio destro. • Giuseppe Staffa
Parlare con il corpo A lato, Jennie Jerome, la mamma di Churchill. Aveva un serpente tatuato sul polso, il figlio aveva un’ancora sul braccio. Più a sinistra, un soldato della legione straniera (1908). 107
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[email protected] Hanno collaborato a questo numero: A. Aimi, A. Bacci, F.-Xavier Bernard, E. Canadelli, F. Capone, E. Cattaneo, P. Cortesi, G. Da Frè, G. Di Fiore, M. Erba, R. Festorazzi, G. D. Iachini, G. Landini, M. L. Leone, G. Lomazzi, M. Lombardi, A. Magli, E. Monti, P. Pasini, A. Pescini, M. Polidoro, G. Staffa, D. Venturoli, G. Zerbinati, S. Zimbardi.
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Periodico associato alla FIEG (Federaz. Ital. Editori Giornali)
Accertamento Diffusione Stampa Codice ISSN: Certificato n. 7151 del 14/12/2011 1824-906x
neI prossimI numerI
IN EDICOLA dal 16 settembre con tante altre storie e personaggi
COSTUME
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DOCUMENTI
Quello è un falso!
Scacchi: non solo un gioco
Dalla Donazione di Costantino ai diari di Hitler e Mussolini: i più clamorosi falsi storici smascherati dalla scienza e dalla filologia.
L’origine, i giocatori più famosi dell’antichità, e gli imprevedibili intrecci fra questo antichissimo gioco e la Guerra fredda.
ANTICA GRECIA
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THE ART ARCHIVE/MONDADORI PORTFOLIO
SETTECENTO
Le avventure di un illuminista
Il federalismo voluto da Atene
Rivoluzione americana, francese e polacca. Filippo Mazzei fu sempre in prima fila in difesa degli ideali illuministi.
La Lega delio-attica avrebbe dovuto trasformare nel V secolo a.C. la Grecia in una confederazione. Che cosa c’era dietro quell’alleanza marittima e perché fallì.
GETTY IMAGES
flashback
Questo gruppo di giovani aspiranti stenografe in vacanza non corre il rischio di dimenticare la tecnica. Quello che seguono è infatti un corso pratico per tenersi in allenamento al Camp Kittredge (un campo estivo per ragazze) di New York, nel luglio del 1926. La stenografia è un metodo di scrittura abbreviata con segni particolari, già nota nell’antica Grecia. Quella moderna si sviluppò in Inghilterra nel XVII secolo, ma attualmente non è più materia di insegnamento. Soprattutto in America è stata soppiantata dalla stenotipia, una tecnica che impiega un’apposita tastiera per sintetizzare rapidamente i testi. 110
foto Vittoria Lucchini
OGNI MESE UNA NUOVA IMMAGINE DEL MONDO
Dalla rossa Marrakech alle case blu di Chefchaouen, passando per i verdi monti del Rif: viaggio attraverso il Marocco, paese capace di risvegliare tutti i sensi. In più: i funghi che ripuliscono la foresta australiana, la prima donna direttore di quotidiano in Arabia Saudita, i migranti che attraversano l’Europa per andare al lavoro e molto altro.....
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Dall’ultimo lupo mannaro agli Ufo nostrani: i fatti più incredibili e curiosi della storia. Da Cesare a Beethoven: le maldicenze, spesso vere, sui grandi del passato. Focus Storia presenta una selezione imperdibile di piccole e grandi storie curiose, illustrate con tavole storiche originali.
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