Storia SCOPRIRE IL PASSATO, CAPIRE IL PRESENTE
MENSILE – Austria, Belgio, Francia, Lussemburgo, Portogallo, Spagna � 8 - Germania � 11,50 - Svizzera CHF 10,80 - Svizzera Canton Ticino CHF 10,40 - Canada CAD 11,50 - USA $ 11,50
n°108
CALCIO
Quando la Juve giocava in cravatta: le divise di una volta
NORD VS CENTRO VS SUD
LE TRE ITALIE CAMPANILISMI LUOGHI COMUNI BUROCRAZIA... LE MILLENARIE RADICI DEI NOSTRI VIZI E VIRTU
Scacchi
Dall’India alla Guerra fredda, le sfide più epiche tra alfieri e pedoni
OTTOBRE 2015 � 4,90 in Italia
Sped. in A.P. - D.L. 353/03 art.1, comma 1, DCB Verona
L’IMPERO DI ATENE
COSÌ, 2.500 ANNI FA, PERICLE RUBÒ IL TESORO DI DELO PER FAR BELLA LA CITTÀ
TANTI AUGURI!
I REGALI ANTICHI E LE ORIGINI DELLE TRADIZIONI DEL COMPLEANNO
LA NOSTRA AFRICA CHE COSA È RIMASTO DELLA COLONIA ITALIANA IN ERITREA
I N O I Z O M E E L I V I WARS. RIV DELLE GRANDI . A I R O T S A L L E D BATTAGLIE
In questo numero, dai greci ai marines americani, tutte le guerre combattute per millenni contro i predoni del “mare nostrum”. In più: la guerra di Crimea, l’inizio del declino della fanteria svizzera con la battaglia di Marignano e l’esercito “ottocentesco” di Mussolini.
WARS. LA STORIA IN PRIMA LINEA Disponibile anche in versione digitale su:
Abbonati su: www.abbonamenti.it/wars
108
focusstoria.it
ottobre 2015
Storia Vittorio Emanuele II, primo re di un’Italia dalle molte radici.
L
“
Jacopo Loredan direttore
IN PIÙ... COLONIALISMO 14 L’Eritrea italiana
Ad Asmara, capitale della prima colonia del Regno d’Italia, resistono insegne e architetture.
GRANDI TEMI 20 L’alleanza di Delo
La lega greca, nata per fare fronte comune contro i Persiani, servì in realtà a fondare l’impero di Atene.
BPK / SCALA
a parola Italia è una espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle”. Klemens von Metternich, cancelliere di un impero multinazionale, dal suo punto di vista aveva buone ragioni per esprimersi in modo così tagliente sulle pericolose aspirazioni unitarie della Penisola, nel 1847. Di fatto, però, davanti a quel vestito di Arlecchino di Stati e Staterelli, Metternich non aveva tutti i torti. Una ventina di anni dopo il patriota piemontese Massimo D’Azeglio diceva la stessa cosa col suo celebre “pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gli italiani”. E anche oggi siamo eredi di quella millenaria frammentazione, come scoprirete in questo numero risalendo alle radici, medioevali e oltre, dei nostri particolarismi. Gli stessi che fecero confessare perfino a un autocrate centralista come Mussolini che governare gli italiani, più che difficile, gli risultava inutile.
TRE (E PIÙ) ITALIE 34
Milano-Torino, rivali di stile Lombardi e piemontesi padroni a casa propria. Poi Torino divenne capitale.
40
Tracce di Catalogna In Sardegna, l’eredità catalano-aragonese del Trecento.
44
I raccomandati del papa-re Come l’elefantiaca amministrazione papalina si radicò a Roma.
50
Italiani per caso Le radici storiche degli stereotipi regionali, alla base dei nostri pregiudizi.
R UBRICHE 4 LA PAGINA DEI LETTORI
6 NOVITÀ & SCOPERTE
9 AGENDA
10 MICROSTORIA
54 Due capitali per un regno
Napoli e Palermo, per secoli poli del potere in Meridione.
60
In laguna con gli Asburgo Gli austriaci lasciarono “spritz” e “schei”, ma privarono Venezia della libertà.
66
78 UNA FOTO UN FATTO 80 DOMANDE & RISPOSTE 82 IN ALTRE PAROLE
La porta dell’Oriente Puglia, il “terzo polo” del Sud, proiettato verso est.
72
83 TECNOVINTAGE 110 FLASHBACK
CI TROVI ANCHE SU:
Le radici della burocrazia L’amministrazione dello Stato italiano, pesante lascito preunitario. In copertina: Cavour, papa Bonifacio VIII e Ferdinando I delle Due Sicilie. GETTY IMAGES (2), SCALA, MONDADORI PORTFOLIO
SPORT 28 Con le divise
di una volta
Come (e perché) sono cambiate le maglie delle squadre di calcio.
MISTERI 84 Carte false
Scoprire un documento inedito è il sogno degli studiosi. Ma l’inganno è dietro l’angolo.
88 LaANNIVERSARI fortezza del Mediterraneo
450 anni fa nacque La Valletta, dalle macerie di un assedio.
90 LaGIOCHIguerra
degli scacchi
Dalla nascita nel VI secolo alla Guerra fredda, alfieri e pedoni si affrontano da secoli.
PERSONAGGI 98 Filippo Mazzei
il libertario
Medico, diplomatico e commerciante, fu sempre in prima linea in difesa delle libertà.
102 TRADIZIONI Buon compleanno! Come si è evoluta la festa, nata nell’800 ma con usi anche più antichi.
3
LA PAGINA DEI LETTORI Inviateci opinioni, idee, proposte, critiche. Pubblicheremo le più interessanti oltre a una selezione dei commenti alla nostra pagina Facebook. (www.facebook.com/FocusStoria). Scrivete a Focus Storia, via Battistotti Sassi 11/a, 20133 Milano o all’e-mail
[email protected]
Sono stata di recente in Bosnia ed Erzegovina e, benché mi abbia fatto piacere leggere sul numero 106 l’articolo “Balcani in fiamme”, non trovo giusto – né storicamente né moralmente – che riguardo a Srebrenica della presenza Onu si dica solamente “non valse però a impedire scontri tra le due parti”. Oramai si sa che fu vera e propria connivenza, e non entro nei dettagli, per cui credo che sia ora che l’Europa e non solo quella dei Tribunali Internazionali, ma anche quella dei Cittadini si prenda le sue responsabilità... Anche per rispetto delle 8.372 vittime e dei sopravvissuti. Carlotta Favaro, Piscina (To)
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il meglio di
Albertini. Poiché a pensar male si fa peccato ma... verrebbe da chiedersi cosa ci sia nell’ acqua (o altro) che bevono da quelle parti. Enzo Terzuoli, Monteriggioni (Siena)
Il “dodo” portoghese... A proposito del vostro articolo sul dodo, nella rubrica Scienza e scienziati del numero 107 di Focus Storia, volevo far presente che la parola doido in portoghese è sinonimo della parola maluco, che vuole dire “pazzo” e può anche avere la connotazione di “stravagante”. Forse il termine era riferito allo strano comportamento dell’animale estinto.
Il dodo dipinto da Roelandt Savery nel 1626.
Shirley D’Onofrio
... e quello di Alice
FOCUS STORIA IN EDICOLA
Una richiesta da un giovane lettore
* PREZZO RIVISTA ESCLUSA
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i e curiosi. I fatti più incredibil aro agli Ufo nostrani Dall’ultimo lupo mann , nessun grande Da Cesare a Beethoven e. Spesso vere icenz è scampato alle mald
Una strana storia davvero strana Nello speciale “Strane Storie” si cita il caso del misterioso “ladro di capelli” che avrebbe imperversato nel 1942 a Pascagoula (Mississippi); per una strana coincidenza (forse) nella stessa località una trentina di anni dopo si sarebbe verificato il rapimento da parte di alieni di due operai che confermarono la loro storia anche sotto ipnosi. La storia venne anche raccontata nello sceneggiato Rai Extra, con il compianto Giampiero 4
Ho 14 anni e leggo Focus Storia dal n° 11. Chiedo il vostro aiuto per risolvere un piccolo mistero. Tempo fa ho acquistato, a un mercatino delle pulci, una ristampa del 1920 di uno spartito Banfi del Rigoletto di Giuseppe Verdi. Al suo interno ho trovato tre lettere (credo che il venditore non ne fosse a conoscenza). Sono state scritte tutte in occasione del Santo Natale, tra gli anni 1896 e 1901. In particolare mi hanno incuriosito perché scritte da due bambini, forse fratelli, di nome Antonio e Pietro Menna, come augurio ai genitori. In quelle del 1896 Pietro frequentava la prima elementare e Antonio la seconda; la sua lettera risulta scritta a La Spezia. La lettera del 1901 è scritta ancora da Antonio e, anche se non è presente il cognome, per la grafia e per le decorazioni che abbelliscono il foglio, sembrerebbe la stessa persona. Ho provato a consultare l’Albo d’oro dei caduti nella Prima guerra mondiale del ministero della Difesa, ma non vi è alcun cenno di entrambi. Inoltre facendo altre ricerche ho trovato tracce del cognome Menna per lo più in Campania e non in Liguria. Mi piacerebbe mettermi in contatto con eventuali discendenti dei due bambini, e magari restituire loro questi ricordi d’altri tempi, se fossero interessati. Confido nel vostro aiuto e in quello dei lettori, grazie infinite. Mario Emanuel Cannas
Vi scrivo per aggiungere una piccola informazione all’interessante articolo sull’estinzione del dodo pubblicato sul numero 107. Nelle ultime battute citate, giustamente, l’utilizzo del dodo da parte di Lewis Carroll come personaggio di Alice nel Paese delle Meraviglie; certamente come dite voi il grande scrittore fu affascinato dall’esemplare impagliato esposto all’Ashmolean, ma la scelta del dodo ha un significato ben più preciso all’interno dell’universo narrativo di Alice. Il dodo appare infatti nel terzo capitolo del romanzo assieme ad altri animali antropomorfi tra i quali un’anatra, un pappagallo e un aquilotto. Dietro questi personaggi si nascondono tre personaggi reali, riconoscibili dai loro nomi: l’anatra (duck in inglese) è il reverendo Duckworth, amico e collega di Carroll; il pappagallo (lory) e l’aquilotto (eaglet) sono rispettivamente Lorina ed
ARCHIVIO
Caschi blu conniventi in Bosnia
Un altro mistero dalla soffitta Liberando una vecchia soffitta ho trovato questo strumento. Qualcuno sa dirmi cosa è e soprattutto a che cosa serve? Mario Volpi, Padova
Edith, sorelle di Alice Liddell, la bambina realmente esistita che ha ispirato l’omonima del romanzo. Queste persone erano presenti alla celebre gita in barca durante la quale Carroll concepì la storia del Paese delle Meraviglie. E il dodo? È lo stesso Lewis Carroll, il cui vero nome era, come da voi detto, Charles Dodgson. L’uomo soffriva di una grave forma di balbuzie, e pronunciava il suo cognome “Do-Do-Dodgson”. Probabilmente l’autore, patologicamente timido, vide nell’aria sempliciotta del volatile un’immagine di se stesso. Mariano Rizzo
La data della Pudicitia Nell’errata corrige del numero 107 scrivete che le monete raffiguranti la dea Pudicitia risalgono al 270 dopo Cristo. È un errore: infatti si conoscono monete raffiguranti tale divinità a nome di Sabina (moglie di Adriano), ben 150 anni circa prima della data da voi indicata (troppo generica) e anche a nome di Giulia Domna (moglie di Settimio Severo), 50 anni circa prima della data da voi indicata. Essendo il vostro (e nostro) un mensile di storia, le date hanno una certa importanza.
I moai: sguardo al mare o alla terraferma? Nell’articolo sull’Isola di Pasqua, del numero 107, viene riportato che la maggior parte dei moai è rivolta verso il mare. In realtà solo un gruppo di moai è stato posizionato volutamente verso il mare. È l’Ahu Akivi, gruppo di sette statue che rappresenterebbero secondo alcuni studiosi, i primi colonizzatori dell’isola. Il loro sguardo punta direttamente alla Polinesia, da dove si ritiene siano partiti. Tutti gli altri Ahu sono rivolti verso l’interno, ovvero verso i villaggi che dovevano proteggere, come i più famosi Ahu Tahai, Ahu Tongariki e Ahu Nau Nau. Possono essere rivolti verso il mare i moai presenti nella cava
del Rano Raraku, ma non sono da prendere in considerazione in quanto abbandonati prima del loro posizionamento finale. Massimo Cabella
A caccia del serial killer italico Nel numero 107 si legge l’attribuzione a Jack lo Squartatore del titolo di “primo e più famoso serial killer di tutti i tempi”. Ma se la fama di questo assassino è innegabile, non lo è altrettanto l’attribuzione del poco invidiabile primato. Questo titolo appartiene infatti all’Italia: il primo serial killer documentato della Storia è tal Giorgio Orsolano, meglio noto come “la Jena di San Giorgio”, autore di tre efferati omicidi a scopo di stupro tra il 1832 e il 1835 (mentre i delitti ricondotti allo Squartatore risalgono al 1888). La sua storia rimane purtroppo molto lacunosa, soprattutto per quanto riguarda la sorte subita dal suo corpo. Vorrei quindi chiedere agli altri lettori della rivista (che leggo dal “lontano” 2007 e che spero di continuare a leggere ancora a lungo) se fossero a conoscenza di qualche notizia al riguardo. Andrea Verlucca Frisaglia, Castellamonte (Torino)
I moai dell’Isola di Pasqua: in prevalenza sono rivolti verso la terraferma.
Vi scrivo in merito all’articolo su Jack lo Squartatore (“Enigma non risolto”, n° 107, a pagina 60) per precisare che Francis Tumblety fu in realtà arrestato a Londra nel 1888, per pratiche omosessuali. In seguito ottenne la libertà su cauzione e il 24 novembre fuggì in America, passando per la Francia. A New York riuscì ancora una volta a evitare la cattura finché, grazie a una soffiata, la polizia poté rintracciarlo. Siccome non c’erano prove di un suo coinvolgimento nei delitti di Whitechapel e il reato di mancata comparizione non era tale da attribuire alla polizia britannica la facoltà di chiedere l’estradizione, probabilmente ci si limitò a sorvegliarlo. Ma Tumblety scomparve di nuovo, e successivamente si ebbe notizia della sua morte nel 1903. L’interruzione degli omicidi di Jack lo Squartatore coincide con la partenza di Tumblety, e questo è stato un possibile indizio della sua colpevolezza. Sara Palladino
I NOSTRI ERRORI
GETTY IMAGES
Enrico Gambetta
Concordiamo: le date sono importanti. La nostra datazione era in effetti troppo recente. Ringraziamo il lettore della precisazione numismatica.
A proposito di Jack lo Squartatore
Focus Storia n° 106, pag. 25: la loggia della foto in alto è quella del Bigallo, non dei Lanzi. Focus Storia n° 107, pag. 59: nel titolo del riquadro su Serse, abbiamo scritto “flotta” invece di “esercito”, come correttamente spiegato nel testo; pag. 85: la fotina nella cronologia è riferita all’Esposizione di Parigi del 1889, non del 1855. 5
novità e scoperte In Africa 49mila anni fa per il “body painting”
PITTURA AL U
Con una freccia nella vertebra
P
rendersi nella schiena una freccia con la punta di bronzo lunga 5,6 cm e sopravvivere: è accaduto a un guerriero dell’Età del ferro vissuto nel Kazakistan Centrale nell’VIII-VI secolo a.C. I pochi resti ossei erano sepolti in un imponente tumulo (kurgan) alto in origine 2 metri e dal diametro di 22,5: segno che l’uomo apparteneva agli Sciti (o Saka), feroci nomadi delle steppe euroasiatiche, e che era di casta nobile, l’unica ad avere diritto a una di queste tombe monumentali.
Sopravvissuto. Un recente studio condotto dall’Università dell’Irlanda del Nord aggiunge qualche notizia su di lui. Sopravvissuto alla brutta ferita, potenzialmente letale, l’uomo campò abbastanza perché l’osso si riformasse intorno al metallo. Anche le costole mostrano segni di fratture risanate, si ignora se contemporanee alla ferita della freccia. Dalle analisi risulta poi che l’uomo era alto 174 cm (all’epoca la media era di 165) e aveva tra i 25 e i 45 anni. Mangiava molto miglio, che era forse un cereale riservato ai vip. (g. l.)
na ricerca condotta dalle Università del Colorado e da quella sudafricana di Johannesburg ha dimostrato che gli antichi abitanti del Sudafrica, 49mila anni fa, crearono una mistura di ocra rossa e latte per dipingere (e dipingersi). Ma la
vera notizia è che inventarono questa formula prima della comparsa dell’allevamento: il che significa che queste popolazioni catturavano bufali, impala e altri animali locali procurandosi il loro latte proprio perché apprezzavano il prodotto come ingrediente
GETTY IMAGES
Dipinti d’ocra Body painting su bambini etiopi. L’usanza di dipingersi il corpo con l’ocra è antichissima. Per la prima volta in reperti risalenti a 49mila anni fa è stata rinvenuta mista a latte.
Trapassato La vertebra dell’VIII-VI secolo a.C. con il frammento di freccia incastrato (nel tondo). A sinistra, una lancia dell’Età del ferro.
IN PILLOLE
1
Carico intatto
Una nave romana che trasportava materiali da costruzione è stata ritrovata nelle acque della Sardegna. Il carico era intatto: la nave si posò integra sul fondale. 6
2
Autoattacco batteriologico
Negli Anni ’50 fu sperimentata in modo controllato un’arma batteriologica a San Francisco (Usa). Lo scopo era valutare gli effetti di un attacco su aree sensibili.
3
Il Corano più antico
In Inghilterra è stata datata al radiocarbonio una copia del Corano: è del 560-645 d.C. e risulta essere la più antica al mondo. Fu redatta pochi anni dopo la nascita dell’islam.
si usava una mistura con un ingrediente finora mai trovato
LATTE E OCRA seina (la proteina principale del latte). Mai vista. Nella storia dell’uomo primitivo abbiamo testimonianze di pitture realizzate con ocra, terra, persino resina e gomma di
albero, ma è la prima volta che viene scoperto l’uso della proprietà legante del latte per realizzare una tinta. Allo studio hanno partecipato anche l’Istituto di Paleontologia di Roma e le Università di Pisa e Napoli. •
RUE DES ARCHIVES/MONDADORI PORTFOLIO
per decorare il corpo, pietre o lastre di legno. Le tracce di questa particolare tintura sono state rinvenute nella grotta di Sibudu, nel Nord del Paese, dove gli studiosi hanno riscontrato, sui frammenti di pietra analizzati, un alto livello di ca-
Arianna Pescini
Evita Perón ancora in splendida forma, nel gennaio del 1951.
L’ultima speranza per Evita
ISTOCKPHOTO
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4
Lince da compagnia
In Illinois (Usa), in una tomba della cultura Hopewell di 2mila anni fa, è stato trovato uno scheletro di lince con un collare di conchiglie e zanne d’orso, forse un animale domestico.
5
Davvero invincibile
Ritrovati al largo dell’Irlanda i resti della Juliana, un vascello dell’Invincibile Armata spagnola affondato nel 1588. Sono stati recuperati cannoni ancora ben conservati.
ndrew Lloyd Webber dovrebbe forse riscrivere la fine del suo famoso musical Evita. In effetti, come si sa, Evita, la carismatica moglie del politico argentino Juan Perón, morì il 26 luglio 1952 a Buenos Aires a causa di un tumore all’utero diagnosticato nel 1950: molto provata, pesava solo 37 kg alla sua ultima apparizione in pubblico, il 4 giugno 1952. Oggi, grazie alle ricerche eseguite da un neurochirurgo della Yale University Medical School, Daniel Nijensohn basate sull’analisi di lastre eseguite dopo la morte di Evita e interviste a testimoni -, si è scoperto che Evita fu lobotomizzata in gran segreto poche settimane prima di morire, su espressa richiesta del marito. Intervento inutile. Lo scopo dell’operazione era attenuare i dolori di Evita, ma anche impedire comportamenti pericolosi: durante l’ultima fase della malattia, infatti, la donna si era mostrata aggressiva, e i suoi discorsi sempre più radicali avrebbero potuto destabilizzare il Paese. Secondo la ricostruzione, la lobotomia non ebbe gli effetti sperati ed Evita smise di nutrirsi dopo l’operazione, accelerando l’esito fatale. (f.-x. b.) 7
novità e scoperte
Arles come Pompei
Sotto, le pagine del codice realizzato con pelle di razza (a destra), che si utilizza anche oggi, per oggetti di lusso.
GETTY
n monumentale affresco di età romana è stato riportato alla luce nella sala dei banchetti di una villa ad Arles (Francia). Autori della scoperta sono gli esperti del Musée départemental Arles Antique, impegnati dal 2014 nello scavo di un quartiere residenziale romano nella zona di Trinquetaille, una sorta di Beverly Hills dell’epoca, come ha sottolineato l’archeologo Alain Genot. Abitata da personaggi in vista e abbandonata dopo un incendio alla metà del III secolo, per il suo ciclo decorativo dai colori accesi la dimora è stata paragonata alle celebrate ville campane, come quella dei Misteri e quella di Boscoreale. Puzzle. Le pitture di Arles, datate tra il 70 e il 20 a.C., sono riconducibili al cosiddetto “secondo stile decorativo pompeiano”, raro in Francia. A catturare l’attenzione, in particolare, è stata la figura di una giovane musicista dallo sguardo intenso. Ancora ignoto, tuttavia, è il soggetto del ciclo, frammentato in oltre 12mila pezzi: un immenso puzzle che gli archeologi tenteranno di assemblare nel corso dei prossimi anni. (s. z.)
FRANCO BALISTRERI/SOPRINTENDENZA DEL MARE
U
Un codice davvero... di razza
Restaurato un manoscritto del Settecento ripescato in Sicilia: è scritto su pelle di razza proveniente dal Sud America.
U
n manoscritto realizzato in pelle di razza di una specie originaria del Sud America è l’insolito reperto portato alla luce da alcuni pescatori siciliani. Lo hanno trovato a una profondità di circa 450 metri, assieme a un altro codice fatto di pergamene non utilizzate ma rilegate. I due codici sono del XVIII secolo. Il ritrovamento, unico nel suo genere, risale al 2008, ma solo nelle scorse
colare natura della pelle: si tratta, infatti, di pelle di una razza che vive esclusivamente nei mari del Sud America. Abbiamo scoperto che era un materiale utilizzato soprattutto in Francia nel Settecento, per realizzare oggetti di lusso, d’arredo e per uso personale. È quello che i francesi chiamano galuchat. E che ancora oggi viene utilizzato dalle case di alta moda». • Aldo Bacci
Riccioli d’oro dalla Danimarca
U La musicista ritratta su una pittura di epoca romana rinvenuta ad Arles (Francia). È in stile pompeiano.
settimane si sono concluse le difficili operazioni di restauro e sono stati pubblicati gli studi sui “codici venuti dal mare”, pronti per essere esposti al pubblico. Esclusivo. «È soprattutto il codice fatto di pelle di razza che costituisce una grande novità», spiega Sebastiano Tusa, soprintendente del Mare della Regione Sicilia. «Sia per il diverso assemblaggio dei fogli, sia, soprattutto, per la parti-
n cumulo di oltre 2mila minuscoli ricci d’oro è stato trovato dagli archeologi Flemming Kaul e Kirsten Christensen nel sito dell’antica città danese di Boeslunde. Realizzate tra il 900 e il 700 a.C., le raffinate spirali erano forse parte della decorazione dell’abito o del copricapo cerimoniale di un sovrano. I riccioli furono offerti in dono al Sole, simbolo sacro per eccellenza nell’Età del bronzo. Il motivo?
La risposta, per Kaul, è evidente: «L’oro ha il colore del Sole, brilla come il Sole ed è indistruttibile, immortale ed eterno». Caccia al tesoro. Non è la prima volta che il sito di Boeslunde restiUno dei riccioli dell’Età del bronzo trovati in Danimarca: sono d’oro.
tuisce preziosi manufatti: a partire dall’Ottocento, infatti, lì sono state portate alla luce notevoli quantità di gioielli e vasellame d’oro. Gli archeologi si sono così convinti che in età preistorica Boeslunde fosse una delle maggiori aree sacre del Nord Europa e che il suo sottosuolo nasconda molti altri oggetti di valore. Per questo si continua a scavare. (s. z.)
agenda A cura di Irene Merli
MOSTRA
FIRENZE
Il mondo prima di Colombo
MOSTRA
MILANO
Etruscans@EXPO Installazioni multimediali e Google Glass ci portano in 3 tombe di Tarquinia e in un banchetto riprodotto a grandezza naturale. fino al 31/10. Università Statale. Info: www.etruscansatexpo.it.
FOTOGRAFIA Maschera funebre ChimúLambayeque (1300 d.C.). Sotto, piatto maya tripode, in ceramica policroma, 600 d.C.
I
l Nuovo Mondo, fino al 1492, per l’Europa non esisteva. L’impresa di Colombo e quelle successive rivoluzionarono una visione culturale millenaria, che aveva come asse GreciaRoma e l’Oriente. Portando alla ribalta della Storia le civiltà che da migliaia di anni fiorivano dall’altra parte dell’Oceano Mare, nelle “Indie”. La mostra fiorentina Il mondo che non c’era rende conto dei tesori lasciati dalle popolazioni precolombiane. Inediti. Il percorso della mostra propone oltre 120 opere, quasi tutte mai viste in Italia, che illustrano società, miti, divinità, giochi, scrit-
ture, abilità tecniche e artistiche di popoli che vissero in Messico, Guatemala, Belize, Honduras, Salvador, Panama, Colombia, Ecuador, Perù. Dagli Olmechi ai Maya, dagli Aztechi agli In-
cas, dalla cultura Chavín a quelle Tiahuanaco e Moche. Le opere provengono dalle collezioni medicee (i signori di Firenze furono tra i primi a raccogliere manufatti delle “Indie”), dal Musée du Quai Branly di Parigi e da importanti raccolte internazionali. Risultato? Sfilano davanti ai nostri occhi maschere laminate di metalli preziosi, statuette policrome, figurine antropomorfiche, vasi funebri a forma di granchio, armadillo, rospo o cane: non c’è certo da annoiarsi, visitando questa esposizione. •
Fino al 6/3/2016. Museo archeologico nazionale. Info e prenotazioni: 055 23575, www.firenzemusei.it
TORINO
Boris MikhailovUkraine 300 scatti di un grande fotografo dell’ex Urss raccontano gli ultimi 50 anni di difficile storia ucraina. 1/10-8/12. Camera-Centro per la fotografia. Info: camera@ camera.to, www.camera.to
RIEVOCAZIONE
SERMONETA
Battaglia di Lepanto Nel centro in provincia di Latina si celebra il ritorno di Onorato Caetani dalla battaglia del 1571. 11-12/10. Info: 0773 30312, www.prolocosermoneta.it/ rievocazione-storica-battagliadi-lepanto.html
RIEVOCAZIONE S. AGATA DE’ GOTI
L’assedio di Re Ruggero Si “rifa” l’assedio del 1135 con potenti macchine da guerra e la richiesta di perdono da parte dei signori del paese in provincia di Benevento. 2-3/10 Info: 800 508990, www.frammentidepoca.it 9
microstoria
DE AGOSTINI/GETTY IMAGES
A cura di Aldo Carioli, Marta Erba, Giuliana Rotondi e Daniele Venturoli
PAROLE DIMENTICATE
R E C O L E N D O
IL MITO DIDONE, personaggio chiave dell’Eneide di Virgilio, è la regina fenicia che aveva fondato Cartagine (sopra, in un dipinto settecentesco di Antoine Coypel). Per volere degli dèi, si innamora di Enea, l’eroe troiano giunto naufrago nella sua terra dopo una tempesta. Disperata per la partenza dell’eroe (spinto in Italia con la missione di fondare Roma), Didone si trafigge con la spada che Enea le aveva donato, gettandosi poi nel fuoco di una pira sacrificale. Odio antico. Il mito serve a Virgilio per giustificare l’origine delle Guerre puniche tra Roma e Cartagine e il presunto odio atavico tra i due popoli. Ma la triste vicenda di Didone ha anche aperto la strada alla figura letteraria della donna sedotta e abbandonata. 10
LEEMAGE/MONDADORI PORTFOLIO
È un aggettivo e deriva dal latino recolendus (“onorato”): indica una persona o una cosa degna della massima deferenza e di grande rispettabilità.
LA VIGNETTA
TERRE PERDUTE I difficili rapporti fra Germania e Francia sono una vera miniera per gli appassionati di caricature. Tra i temi più rappresentati merita il posto d’onore la Guerra franco-prussiana. Alla fine del conflitto, combattuto fra il luglio 1870 e il maggio dell’anno successivo, la Prussia risultò non solo vittoriosa, ma anche rafforzata nella sua veste di “grande Reich” tedesco, sotto la ferma guida del cancelliere Otto von Bismarck. Sull’altro fronte, il Secondo impero di Napoleone III (del quale dal settembre 1870 prese il posto la Terza repubblica nata dopo la fine della Comune parigina) subì una clamorosa batosta. Il risultato fu, oltre a un ridimensionamento politico, una riduzione del territorio nazionale.
A caro prezzo. La vignetta qui sopra, uscita l’11 marzo 1871 sulla rivista francese La caricature, mostra l’allegoria della Francia che perde il “braccio” dell’Alsazia-Lorena, firmata dal disegnatore Pilotell. Titolo della vignetta è L’esecutivo. A compiere l’amputazione è il governo della Repubblica (il sole nascente): l’uomo con la sega è Adolphe Thiers, presidente della Repubblica che negoziò il Trattato di Francoforte, che sancì la cessione alla Germania di quei territori. Il sangue della Francia mutilata finisce nell’elmetto prussiano, come i soldi dei danni di guerra. Le due regioni torneranno francesi dopo la Prima guerra mondiale, ma furono di nuovo occupate dai tedeschi nella Seconda (1940-45).
ULLSTEIN/ALINARI
IL NUMERO
CHI L’HA DETTO?
50
MILA
Gli abitanti di Roma all’inizio del VI secolo, dopo la caduta dell’Impero d’Occidente. Nel II secolo erano un milione e mezzo circa.
TOP TEN
“Nudi alla meta” L’espressione è attribuita a Mussolini (foto): l’avrebbe usata nel 1923, in occasione dell’annessione del Dodecaneso all’Italia, rifiutando il titolo di duca di Rodi, cioè un’onorificenza ai suoi occhi vuota e vanitosa.
Privazioni. Oggi si usa per sottolineare che il raggiungimento di un obiettivo impone rinunce, ma anche per prendere in giro chi, per eccesso di idealismo, affronta grandi sacrifici per ritrovarsi con un pugno di mosche.
L’OGGETTO MISTERIOSO È uno stelo in ferro a uncino, con una torsione nella zona centrale. È lungo 24 centimetri, largo 3 e pesa circa 80 grammi. Di cosa si tratta e per cosa poteva essere utilizzato?
Aspettiamo le vostre risposte, indicando anche la l ocalità, a questi indirizzi: Focus Storia, via Battistotti Sassi, 11/a - 20133 Milano oppure a
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SHUTTERSTOCK
È stato Serafino Confalonieri di Ranica (Bergamo) il lettore più veloce nell’indovinare l’oggetto misterioso del numero scorso: era un raccoglitore di frutta metallico. Veniva inserito in cima a un bastone e permetteva di raccogliere i frutti che si trovavano sui rami più alti.
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I PIONIERI DELLA MEDICINA
1
Ambroise Paré (c.1510-90) Considerato il padre della chirurgia moderna. Ha introdotto l’operazione di correzione del labbro leporino.
2
Stephen Hales (1677-1761) Botanico, chimico, fisiologo e teologo. Misurò per la prima volta la pressione del sangue in diversi animali.
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James Young Simpson (1811-70) Ostetrico, scoprì le proprietà anestetiche del cloroformio e lo introdusse all’inizio nella pratica ostetrica.
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Ignác Semmelweis (1818-65) Capì che la febbre che uccideva le puerpere era dovuta alla scarsa igiene dei medici: bastava lavarsi le mani.
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Rudolph Matas (1860-1957) Primo a usare l’anestesia spinale negli Stati Uniti e, soprattutto, il primo a curare chirurgicamente un aneurisma.
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Karl Landsteiner (1868-1943) Biologo e fisiologo, ha scoperto i gruppi sanguigni. Nel 1940, con Alexander Wiener, ha scoperto anche il fattore Rh.
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Alexis Carrel (1873-1944) Chirurgo e biologo, mise a punto le tecniche di sutura dei vasi sanguigni che rendono possibili i trapianti di organi.
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Louis S. Goodman (1906-2000) Fu uno dei primi a sviluppare un chemioterapico per la cura del cancro ricavato modificando l’iprite (un gas letale).
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Willem Johan Kolff (1911-2009) Pioniere dell’emodialisi, a lui si deve lo sviluppo di uno dei primissimi esempi di rene artificiale.
VOCABOLARIO: PAGINA I Romani scrivevano su piastre di piombo oppure su tavolette dette pugillares. Queste ultime erano fatte di legno di cedro o di avorio e venivano poi ricoperte di cera colorata o bianca. Ogni tavola era guarnita tutta intorno da una stretta cornice. Su queste i Romani, con un punzone di ferro (stilo), “imprimevano le parole” (pangebant versus): dal verbo pangere sarebbe derivata la parola “pagina”.
Per-Ingvar Brånemark (1929-2014) È il padre della moderna implantologia: ha studiato l’osteointegrazione, la “fusione” tra un osso e un impianto artificiale.
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INIZIATIVE
NASA (2)
ASTROSAMANTHA INCONTRA
MERCOLEDÌ 7 OTTOBRE, ORE 18:00 Dallo spazio a Milano Al Planetario “Ulrico Hoepli”
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a portato in orbita l’Italia, prima donna astronauta del nostro Paese a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. Il prossimo 7 ottobre, insieme ai suoi compagni Terry Virts e Anton Shkaplerov, Samantha Cristoforetti racconterà i dettagli della missione, conclusa lo scorso 11 giugno dopo 199 giorni di permanenza nello spazio. I lettori e gli appassionati potranno incontrarli in un evento organizzato da Focus in collaborazione con l’Agenzia spaziale europea, l’Agenzia spaziale italiana e l’Aeronautica militare italiana. L’evento speciale si terrà presso il Planetario “Ulrico Hoepli” di Milano. Attenzione! I posti sono limitati: sul sito Focus.it trovate le istruzioni per prenotare. Chi non riuscisse a farlo in tempo potrà comunque seguire l’evento sui maxischermi installati al di fuori del Planetario. • 13
COLONIALISMO
Ad Asmara, capitale della prima colonia del Regno d’Italia, insegne, nomi e architetture ricordano ancora oggi quel periodo
L’Eritrea italiana A cura di Anita Rubini
Palazzo Falletta (1937-38), edificio residenziale e commerciale di Asmara in stile razionalista, simile a tanti di Milano e Roma. Sotto, il Cinema Impero, in stile Art Déco: costruito nel 1937, è il più grande della città.
ERIC LAFFORGUE/RAPHO
Asmara come Roma
2009 MCT (2)
Pronti a spiccare il volo A sinistra, la stazione di servizio Fiat Tagliero: fu costruita in stile futurista ad Asmara nel 1938. Dopo oltre 70 anni l’edificio, che ricorda la forma di un aereo, è intatto e tutelato: non può subire modifiche strutturali. 15
ERIC LAFFORGUE/RAPHO
Quartieri italici Qui sopra, un edificio del quartiere Alfa Romeo, dal nome della fabbrica che sorgeva poco distante dal centro di Asmara. In alto a destra, il palazzo della vecchia Banca commerciale di Eritrea: originariamente ospitava l’Ufficio dei lavoratori del sale eritrei. Durante l’occupazione italiana diventò prima la sede dei Balilla e poi della Banca d’Italia. A destra, la ferrovia che collega Asmara e Massaua, principale porto dell’Eritrea: fu costruita dagli italiani tra il 1887 e il 1932.
Costruita quasi dal nulla per essere capitale nel 1897, Asmara diventò una “piccola Roma”, una città africana dall’aspetto occidentale 16
C RONOLOGIA
STORIA DI UN’OCCUPAZIONE: IL CORNO D’AFRICA ITALIANO La presenza italiana in Africa Orientale cominciò nell’800. Ma con il fascismo si concretizzò il sogno velleitario di un grande impero coloniale. Ecco le tappe dell’occupazione e come finì. 1885
Un corpo di spedizione italiano occupa la fascia costiera eritrea tra Massaua e Assab. Tensioni con l’Etiopia.
VERONIQUE DURRUTY/RAPHO
1889
Francesco Crispi rilancia la politica coloniale italiana in Africa. La Somalia diventa protettorato italiano.
GENNAIO 1890
Viene costituita la Colonia di Eritrea. Si tratta della prima colonia del Regno d’Italia in Africa.
1895
Riprende l’offensiva espansionistica italiana contro l’impero etiope.
1° MARZO 1896
Scontri fra reparti coloniali ed etiopi durante la Battaglia di Adua (1896).
Ad Adua 16mila italiani si scontrano con 70mila etiopi. Per l’Italia è un disastro: 7mila rimangono sul campo.
5 APRILE 1908
Nasce la colonia della Somalia italiana.
2 OTTOBRE 1935
Mussolini annuncia l’inizio delle ostilità on l’Etiopia.
3 OTTOBRE 1935
L’esercito italiano, forte di 450mila uomini, invade l’Etiopia.
2 NOVEMBRE 1935
Per l’aggressione all’Etiopia l’Italia è condannata dalla Società delle Nazioni con pesanti sanzioni economiche.
5 MAGGIO 1936
Truppe italiane durante l’invasione dell’Etiopia (1935-36).
Il generale Badoglio alla testa dell’esercito occupa Addis Abeba. La guerra del 1935-36 fu vinta utilizzando ampiamente anche armi vietate, come i gas.
9 MAGGIO 1936
Etiopia, Somalia ed Eritrea sono unite nell’Africa orientale italiana. Il re assume il titolo di imperatore d’Etiopia e Mussolini proclama la nascita dell’impero italiano.
PRIMAVERA 1941
L’Africa orientale italiana è occupata dalle truppe britanniche e a novembre cessa di esistere.
LUCA ZANETTI/LAIF
10 FEBBRAIO 1947
Con la sottoscrizione del Trattato di Parigi l’Italia rinuncia alle colonie africane.
Il generale Pietro Badoglio in Etiopia dopo l’occupazione italiana.
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Asmara negli Anni ’30 divenne un laboratorio di urbanistica in cui si sperimentavano le idee di giovani architetti italiani Una Fiat 1100 del 1940. In Eritrea le vecchie auto degli italiani sono diventate da collezione. Sotto, una piscina degli anni Trenta. Mussolini ricorse spesso allo sport come strumento di propaganda.
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In forma per il duce
Italiani brava gente?
VERONIQUE DURRUTY/RAPHO
Un balcone in stile italiano e l’interno di una delle farmacie più antiche di Asmara. Nel periodo fascista nelle colonie furono emanate leggi razziali che compromisero i rapporti con la popolazione locale.
Passaggio di consegne Una sala bowling di Asmara: fu costruita negli Anni ’50 e serviva a intrattenere le truppe americane di stanza in Eritrea. Dopo l’espulsione degli italiani (1941), gli Alleati presero il controllo del Corno d’Africa.
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I GRANDI TEMI
La lega greca nacque nel 478 a.C. per creare un fronte comune contro i Persiani. I suoi fondi servirono però a Pericle per fondare l’impero di Atene
DREAMSTIME
LA LEGA DELIO-ATTICA
L’ALLEANZA DI DELO
Pericle, l’accentratore Busto di Pericle oggi al British Museum di Londra: fu lui a decidere di spostare ad Atene i congressi annuali delle città della lega (454 a.C.).
INTANTO NEL MONDO
506 a.C. Prima assemblea della lega peloponnesiaca, un’alleanza permanente di carattere difensivo, stretta tra Sparta e le maggiori città del Peloponneso.
492 a.C. Il re di Persia Dario I conquista la Tracia e la Macedonia e ingiunge alle città greche di sottomettersi all’impero persiano. Scoppia la prima guerra persiana.
481 a.C. Sparta riunisce a Corinto le poleis greche, per fondare l’alleanza panellenica al fine di contrastare l’invasione persiana in Grecia, ma aderiscono solo 32 città, Atene compresa. 480 a.C. Il re di Persia Serse parte da Sardi con un esercito di oltre 10mila uomini per invadere la Grecia e dà inizio alla seconda guerra persiana.
CULTURA
509 a.C. Secondo la leggenda l’ultimo re di Roma, l’etrusco Tarquinio il Superbo, viene cacciato dalla città. Si apre l’epoca repubblicana dell’Urbe. 500 a.C. In Mesoamerica si sviluppano le prime città maya, mentre la civiltà precolombiana degli Zapotechi, fiorita nella valle di Oaxaca, è all’apogeo.
493 a.C. Dopo la vittoria contro i Latini, i Romani firmano un trattato con i vinti (foedus cassianum). L’Urbe riconosce l’autonomia delle città latine, ma tiene per sé il comando in guerra.
482 a.C. Il re di Persia Serse I ordina al suo esercito il sacco della città di Babilonia, annessa all’Impero persiano di Ciro II nel 539 a.C.
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utti i presenti giurarono che, da quel momento in poi, avrebbero condiviso amici e nemici; quindi, come la solennità del momento richiedeva, ognuno fece cadere in mare un blocchetto di ferro rovente. Solo quando quei lingotti fossero riemersi, si diceva, il patto avrebbe avuto fine: cioè mai, in teoria. Così si concluse l’assemblea convocata da Atene sull’isola di Delo nel 478/477 a.C.: qui, vicino al tempio di Apollo, più di cento poleis marittime greche, per lo più della Ionia (antica regione ellenica sulla costa dell’Asia Minore), si unirono alla città attica nella cosiddetta lega navale di Delo, più nota come lega delio-attica. Il loro scopo era “prendersi vendetta dei mali subiti, saccheggiando la terra del Re”, il persiano Serse, che aveva messo a ferro e fuoco la Grecia. Lo raccontava lo storico greco Tucidide e diceva il vero, ma c’era anche dell’altro. «Le fonti antiche ci permettono di capire che la lega fu creata non soltanto per continuare la lotta contro la Persia, ma anche per altri fini non dichiarati: si trattava di un piano di potenza imperialistico, volto a subordinare gli Ioni e a fare di Atene una forza dominatrice dell’Egeo e, più ampiamente, del Mediterraneo orientale», chiarisce Giovanni Parmeggiani, docente di Storia Greca all’Università di Ferrara. La forza della paura. Sfruttare la paura degli altri, incanalarla verso un nemico comune (vero o creato a tavolino) e cavalcarla
ALTRI PAESI
CORBIS
GRECIA
496 a.C. Nasce il drammaturgo greco Sofocle, considerato, insieme a Eschilo ed Euripide, uno dei maggiori poeti tragici dell’antica Grecia.
486 a.C. In India muore Siddhartha, ossia il monaco Gautama Buddha, fondatore del buddhismo e una delle più importanti figure spirituali e religiose dell’umanità.
479 a.C. Muore il filosofo cinese Kung Fu-Tzu, meglio noto come Confucio.
478-477 a.C. Aristide prende il comando delle operazioni antipersiane. Nasce la lega navale delio-attica.
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LA LEGA DELIO-ATTICA GETTY IMAGES (2)
CORBIS
I GRANDI TEMI Marmara
Taso Samothráki Gökçeada Límnos Corfù Skíathos
Cefalonia
Itaca
Skópelos Skíros
Lemno
Mar Egeo
Locride
Khíos Atene Ándros
Zante
Tínos
Kéa Kíthnos Sparta
Sérifos
Síros Delo Míkonos Páros Nasso
Sífnos
Verso la guerra
Íos
Mílos
Come si presentava la Grecia all’inizio della Guerra del Peloponneso: quelli in verde sono i territori delle poleis alleate, quella in rosso l’Attica, sotto diretto controllo ateniese. Nel tondo, l’ingresso al santuario di Apollo a Delo.
Ikaría
Samo
Pátmos Léros Kálimnos Kos Amorgós Astipálaia
Tílos
Thíra Rodi
Kárpathos
C r e t a
Solo le poleis che assicuravano l’invio di navi erano esentate dal versamento del tributo annuo di 460 talenti
La mente economica Aristide, politico e militare ateniese: fu lui a stabilire l’ammontare del tributo annuo che ogni città-Stato doveva versare alle casse “federali” della lega.
per acquisire potere non è solo un trucchetto della moderna politica: succedeva già 2.500 anni fa, nell’antica Grecia. E per gli Ateniesi, lì a Delo, fu piuttosto facile metterlo in pratica: per capirne il perché, occorre però fare un passo indietro. A metà del secolo precedente, i Persiani venuti da Oriente avevano sottomesso le città greche della Ionia: nonostante l’aiuto di Atene e di Eretria, il tentativo dei Greci dell’Asia Minore di recuperare la propria indipendenza, nel 500/499 a.C., era stato un flop. Sedata la rivolta e conquistata anche la Tracia, il re di Persia Dario I aveva inviato il suo esercito a punire Atene (490 a.C.) e, già che c’era, a sottomettere tutta la Grecia. Non ci riuscì, ma il piano, interrotto dalla morte del sovrano, venne ripreso da suo figlio Serse dieci anni dopo. I Greci, uniti nell’alleanza panellenica (32 poleis guidate da Sparta, Atene compresa), erano riusciti a cavarsela per il rotto della cuffia: dopo pesanti sconfitte, la vittoria nella battaglia navale di Salamina (479 a.C.), ottenuta soprattutto grazie agli Ateniesi, aveva ribaltato le sorti della guerra. Due galli nel pollaio. L’anno dopo, a Platea e a Micale, il successo ellenico fu definitivo. L’invasione persiana era stata fermata, ma ora nel pollaio dell’Egeo i galli erano diventati due: a Spar-
INTANTO NEL MONDO
Delo vista dall’alto: qui nei primi anni della lega si tenevano i congressi annuali e si custodiva il tesoro delle città alleate.
ta, da sempre potenza egemone, si era aggiunta Atene, forte della flotta nuova di zecca voluta dallo stratego Temistocle, il vincitore di Salamina. Gli Ioni, che non avevano smesso di sognare l’autonomia, videro nel più giovane e combattivo galletto, ma soprattutto nella sua forza sul mare, l’unica possibilità per riconquistare definitivamente la libertà. Così, dopo l’allontanamento di Pausania, il comandante spartano della flotta panellenica, che era stato accusato di aver abusato del proprio potere, decisero di affidare le loro navi ad Aristide, lo stratego ateniese. Ed ecco perché nel 478-477 a.C. li ritroviamo tutti a Delo, a guardare quei lingotti di ferro affondare veloci nell’acqua. «La rinuncia di Sparta a impegnarsi sul mare contro la Persia e la disponibilità di Atene ad assumersi il carico di questo impegno possono considerarsi un nodo di svolta decisivo per gli sviluppi della storia greca del V secolo a.C. Venne infatti a sancirsi in modo chiaro una divisione di campo tra una forza di terra, che guardava esclusivamente al Peloponneso e alla Grecia balcanica (Sparta), e una forza di mare, che guardava alle isole, alla costa microasiatica e, più in generale, al Mediterraneo in ogni direzione (Atene)», spiega lo storico. L’ideatore. La lega delio-attica, la prima lega navale della storia di Atene, fu figlia della politica di Temistocle e della sua volontà di dare alla polis maggior potere sull’Ellade per mezzo delle sue triremi. Da questo punto di vista, l’alleanza mise a disposizione della città risorse ingenti e l’opportunità concreta di diventare una grande potenza del Mediterraneo Orientale: nel periodo di maggiore splendore arrivò infatti a comprendere quasi tutte le isole dell’Egeo, le città della costa ionico-eolica dell’Asia Minore
469 a.C. Ad Atene nasce il filosofo Socrate, uno dei più importanti esponenti della filosofia occidentale.
461 a.C. Pericle diventa signore di Atene: dà avvio a una politica estera molto aggressiva che desta la preoccupazione di Sparta.
460 a.C. Inizia la Prima guerra del Peloponneso, una definizione in cui gli storici raccolgono la lunga serie di scontri fra Atene e le città della lega peloponnesiaca: si concluderà nel 445 a.C.
431 a.C. Scoppia la Seconda guerra del Peloponneso: si concluderà nel 404 a.C.
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L’isola del tesoretto
465 a.C. La flotta e l’esercito della lega delio-attica, comandati dallo stratego ateniese Cimone, ottengono una doppia vittoria sui Persiani sul fiume Eurimedonte, in Asia Minore.
474 a.C. La flotta siceliota comandata da Ierone I di Siracusa sconfigge gli Etruschi nella battaglia navale di Cuma, impedendo la loro espansione nei territori della Magna Grecia.
453 a.C. Ha inizio in Cina il cosiddetto periodo dei “regni combattenti”: i reami nati dalla spartizione dello Stato di Jin ingaggiano una dura lotta fra loro per la supremazia: gli scontri si concluderanno nel 221 a.C., con la vittoria finale di Ts’in (Qin) che unifica i bellicosi regni nell’Impero cinese.
450 a.C. A Roma, una commissione di dieci legislatori, mette per iscritto su dodici tavole di bronzo, poi esposte nel Foro, le leggi consuetudinarie della città. È la prima volta che il diritto romano viene codificato. 445 a.C. Nasce ad Atene Aristofane, il maggior rappresentante della commedia attica del V secolo a.C. 438 a.C. Viene completata la struttura del Partenone (sulle decorazioni gli scultori continueranno a lavorare per altri sei anni).
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La lega era una federazione di Stati con una politica estera e di difesa comune. fino all’Ellesponto, le principali città della Tracia, Rodi e la penisola Calcidica, quasi triplicando, in mezzo secolo, il numero delle oltre 150 città-Stato inizialmente federate. Patto pesante. Ma come in ogni associazione, i membri della lega avevano degli obblighi da rispettare per mantenere valida la loro iscrizione. Nello specifico si trattava di contribuire alla difesa reciproca e alla guerra alla Persia fornendo navi o pagando una specie di quota di iscrizione quadriennale. Col tempo i versamenti divennero gravosi, complice l’intransigenza di AteCORBIS
LA LEGA DELIO-ATTICA
ORONOZ/MONDADORI PORTFOLIO
I GRANDI TEMI
Federazione-arcipelago Resti della basilica di San Stefanos a Kos: l’isola nel V secolo entrò nella lega delio-attica conoscendo così un periodo di splendore.
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ne nel pretenderne il rispetto, ma almeno all’inizio i 460 talenti richiesti, cifra stabilita da Aristide in base alla ricchezza delle alleate, non erano molti. Lo stratego, che si occupò delle finanze della lega fino a che non morì, non fu l’unico ateniese implicato nell’organizzazione della lega. Da Atene venivano anche gli strateghi che ne comandavano le operazioni militari e gli Ellenotami, cioè i dieci magistrati che custodivano il tesoro comune a Delo. «Atene fu in una posizione di netto predominio fin dal principio. Gli alleati inizial-
Con il vento in poppa Le navi greche entrano nel Pireo dopo la Battaglia di Salamina (480 a.C.), in un dipinto dell’800.
Ma in essa l’Atene di Pericle, grazie ai fondi di Delo, faceva la parte del leone La svolta di Pericle
L
eader carismatico del partito democratico, generale, statista e oratore, personaggio storico discusso e di fatto guida di Atene dal 461 al 429 a.C. (anno della sua morte): Pericle (foto) segnò un’epoca per la sua polis. Non solo per la politica estera, particolarmente aggressiva e tesa a espandere la potenza ateniese su tutta la Grecia, ma anche grazie alla sua politica interna. Rappresentante delle classi popolari, mise mano a diverse riforme per rendere reale l’uguaglianza politica dei cittadini ateniesi, a prescindere dalla loro ricchezza. Stabilì infatti una retribuzione, pari alla paga minima del salario giornaliero di un bracciante, per chi avesse partecipato direttamente all’amministrazione della città. In questo modo, la responsabilità politica venne tolta all’aristocrazia e passò al popolo, che prima non poteva permettersi, economicamente, di perdere giornate di lavoro. Spesa sociale. Gli Ateniesi ottennero anche un’indennità e assegnazioni di frumento e lo
Stato iniziò a coprire persino le spese per far entrare gratis a teatro i poveri; per anni, poi, il costoso piano voluto da Pericle per la ricostruzione e l’abbellimento della città diede lavoro ai cittadini. A spese, però, del tesoro della lega delio-attica.
SCALA
mente erano autonomi e prendevano le decisioni collegialmente, ma la lega era per sua costituzione una struttura militare in cui la guida sul campo di battaglia spettava alla polis, che disponeva della flotta numericamente più ingente e tecnicamente più esperta ed efficiente», afferma Parmeggiani. La “Merkel” dell’antichità. Quasi una Germania dell’Europa unita, Atene non ebbe difficoltà a imporre le proprie decisioni nell’assemblea federale. E infatti le prime azioni militari dell’alleanza furono perfettamente in linea con i fini della sua ideatrice: la lotta contro la Persia, ma anche l’affermazione della propria potenza. Le campagne antipersiane dello stratego ateniese Cimone culminarono con la vittoriosa battaglia dell’Eurimedonte (469 a.C. circa): alla foce di questo fiume della Panfilia (l’odierno Köprüçay, in Turchia), i Persiani vennero sconfitti in un doppio scontro divampato per terra e per mare. La città di Mileto fu liberata: l’Egeo si trasformò in un mare greco, su cui Atene manteneva il controllo. La polis attica non era più una potenza di secondo piano e il suo “chicchirichì” suscitò i timori del “gallo” spartano: le ostilità esplosero nel 460 a.C., quando Pericle, il leader del partito democratico che dall’anno prima aveva di fatto cominciato a governare su Atene, pestò i piedi a Corinto, fedele alleata di Sparta nella lega peloponnesiaca (l’alleanza militare che dalla metà del VI secolo a.C. legava fra loro le città del Peloponneso). Per Atene, impegnata con la lega nella fallimentare impresa d’appoggio alla ribellione antipersiana dell’Egitto, fu un momentaccio. Ma anche stavolta riuscì a cavarsela: con la pace di Callia (449 a.C.), impose all’immenso Impero persiano “di stare lontano dal mare ellenico per tutto lo spazio che può essere coperto da un cavallo, in un giorno, e di non navigare con navi da guerra e con vascelli oltre le isole Cianee e Chelidonie”; quattro anni dopo, con un accordo trentennale siglato con Sparta, chiuse la Prima guerra del Peloponneso (460-445 a.C.). L’impero ateniese. Ma ora che la pace con il nemico pubblico numero 1 della lega era cosa fatta, perché l’alleanza non si sciolse? «L’esperienza aveva insegnato ai Greci che conveniva mantenere alta la guardia con i Persiani, dato che il loro impero continuava a essere una realtà. Non solo: nel 449 a.C. la lega era di-
I GRANDI TEMI L’Acropoli e il Partenone nell’età classica (IV secolo a.C.), in una ricostruzione ottocentesca di Leo von Klenze.
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LA LEGA DELIO-ATTICA
L’età d’oro
Nel 454 il tesoro fu trasferito ad Atene per iniziativa di Pericle. Il pretesto fu questo: dopo la sconfitta in Egitto (456) l’Egeo non era più un mare sicuro ventata un’entità politica che trascendeva i suoi scopi originari, almeno quelli ufficiali e dichiarati. Non era più la federazione antipersiana di Atene e degli Ioni: era, di fatto, l’impero di Atene. Il sinodo di Delo si riuniva sempre più raramente; il tesoro comune era stato trasferito nel 454 a.C. nella città di Pericle; chi si era ribellato aveva già assaggiato la sconfitta e conosciuto la repressione», dice Parmeggiani. Per chi non avesse ancora afferrato il concetto, nel 447 a.C., con il cosiddetto decreto Clearco, Atene vietò a tutti gli alleati di accettare moneta non attica: il che equivalse quasi a creare una “moneta unica”, nello specifico il tetradrammo, la moneta d’argento ateniese. Persino il tesoro federale era ormai diventato, nei fatti, di Atene: saccheggiandolo, Pericle sfruttò il lungo decennio di pace (442-432 a.C.) per finanziare un grandioso e costosissimo programma di opere pubbliche. Rivestì la città di marmi preziosi, ricostruì templi, fortificò le mura e abbellì l’Acropo-
li, facendo erigere, tra l’altro, il Partenone: a spese degli alleati. A dirla tutta, quel denaro, destinato alla lotta contro i Persiani, si era già rivelato utile alla città per fondare colonie, rinforzare la propria flotta, finanziare la costosa democrazia attica (v. riquadro nella pagina precedente). E Sparta non si lasciò sfuggire l’occasione. Approfittando del malcontento e delle ribellioni di quei “sudditi per caso”, con la scusa che Atene era entrata in conflitto con Corinto e Megara, sue alleate, dichiarò guerra alla storica rivale. Il secondo conflitto del Peloponneso fu ben più devastante del precedente: sconfitta, Atene fu costretta a rinunciare a tutti i suoi possedimenti fuori dall’Attica, a distruggere le mura, a consegnare la flotta, salvo 10 triremi. Ma, soprattutto, a sciogliere la sua lega e a entrare in quella peloponnesiaca, guidata da Sparta. Alla fine, per quanto impossibile potesse sembrare, i lingotti di ferro erano tornati a galla. • Maria Leonarda Leone
La seconda lega marittima, soltanto attica
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enché non potesse dire che il primo esperimento si fosse concluso felicemente, Atene decise di riprovarci e, a cento anni esatti dalla fondazione della lega delio-attica, nel 377 a.C. costituì la seconda lega marittima attica. La nuova unione 26
era ben diversa dalla precedente: basata su singoli accordi di allean za, che Atene aveva concluso nel corso degli ultimi sette anni, contò nel momento di massimo splendore appena una settantina di membri, ognuno con la propria autonomia. Tra
questi figurava anche Tebe, ex storica alleata spartana. Fallimento. All’indomani della pace di Antalcida (387-386 a.C.), con cui i Persiani avevano ottenuto il controllo di tutte le città greche della costa asiatica, Sparta conservava ormai un’e-
gemonia di facciata: perciò ne approfittò Atene. Ben presto però i particolarismi presero il sopravvento: le preoccupazioni per l’ascesa di Tebe (371-362 a.C.) sconvolsero i rapporti interni alla lega e a partire dalla Terza guerra sacra, scoppiata nel 356
a.C. tra le città greche, il declino della polis attica e della sua alleanza marittima andarono di pari passo all’ascesa di Filippo II il macedone. La seconda lega marittima si sciolse dopo la vittoria del re di Macedonia sui Greci a Cheronea, nel 338 a.C.
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Vale anche per chi non è appassionato di calcio: dici Juventus e pensi subito alle strisce bianconere. Eppure la divisa originale (1897) era ben diversa. Le prime casacche erano rosa, perché per realizzarle fu impiegato il tessuto rimasto nel magazzino del padre di uno dei fondatori della squadra, che commerciava biancheria femminile. E forse per dare un tono più “maschile” al tutto, fu aggiunto un cravattino nero. Nel 1903, per rinnovare il look, si chiese aiuto a un socio inglese del club, residente a Nottingham: questi inviò una partita di maglie della locale squadra del Notts County e da allora le due squadre hanno divise uguali.
La Roma nacque nel 1927 dalla fusione di tre squadre all’epoca già attive nella Capitale: Alba, Fortitudo e Roman Football Club. Proprio i colori di quest’ultima, tratti dallo stemma municipale, furono mantenuti per le divise della nuova squadra. Da allora la maglia restò pressoché invariata (con l’eccezione di un modello usato negli anni Ottanta, che aveva stravaganti fasce giallo-arancione sulle spalle) e solo la “definizione” dei colori, dopo la caduta del fascismo, fu riveduta: il rosso porpora e il giallo oro, che evocavano i fasti di Roma imperiale, cedettero il passo ai più bonari “giallo becco d’oca” e “rosso sangue di bue”.
Al momento del battesimo, nel 1900, i colori della squadra siciliana erano il rosso e il blu della bandiera britannica, probabilmente su indicazione dei mercanti inglesi che frequentavano il porto della città in quegli anni. Nel 1907 i dirigenti decisero di cambiarli per distinguersi dai tanti club che all’epoca usavano una divisa simile. Ma anche per un altro motivo: visti i risultati altalenanti della squadra, Vincenzo Florio, “animatore” del club e produttore di vini, propose di trasformare il rosso in rosa, come “il liquore dolce usato per brindare alle vittorie”. E il blu in nero, come l’amaro che avrebbero bevuto “per digerire le sconfitte”.
L’inconfondibile maglia della Juventus: una versione in cui domina il rosa, oggi, è ancora usata come divisa di riserva.
Non sempre i colori della città coincidono con quelli della squadra di calcio: la Roma è uno dei casi in cui accade.
Inizialmente rosa e nero erano equamente distribuiti nella divisa del Palermo: ora il primo colore domina sul secondo.
non le riconosceremmo. Ecco come sono cambiati i colori del calcio e perché
DI UNA VOLTA
A cura di Roberto Graziosi
TORINO
FIORENTINA 1906
AVANTI, SAVOIA!
NAPOLI 1926
IL FASCINO UNGHERESE
1903
EREDITÀ BORBONICHE
Nella prima partita della sua storia (dicembre 1906) il Torino sfoggiò la divisa a strisce nere e giallo oro del Football Club Torinese, la squadra con cui, qualche giorno prima, un gruppo di “separatisti” della Juventus aveva stretto un accordo per formare il nuovo club. I colori, che potevano ricordare gli Asburgo, nemici dei Savoia, furono abbandonati a favore del rosso granata che – secondo alcune fonti – fu scelto per ricordare la cravatta dei soldati di quella Brigata Savoia che, duecento anni prima (quando si chiamava ancora III Reggimento “Savoia Cavalleria”), aveva contribuito a liberare Torino dall’assedio franco-spagnolo.
Oggi i tifosi la chiamano affettuosamente “la viola”, per via del colore della maglia. Eppure agli esordi (1926) la Fiorentina aveva una maglia bianca e rossa (col giglio comunale sul petto) per mantenere vivo il ricordo del Club Sportivo Firenze (che aveva divise rosse) e della Palestra Ginnastica Libertas (maglia bianca) dalla cui fusione la squadra toscana era nata. Questo fino a quando, nel 1928, si giocò una partita contro l’Uijpest di Budapest: il presidente Luigi Ridolfi, folgorato dal viola delle divise avversarie, decise che, da quel momento, anche la Fiorentina avrebbe usato quel colore per distinguersi dalle altre squadre.
Il club campano (fondato nel 1926) è frutto della fusione di due squadre: l’Internazionale (nata nel 1911), che giocava con maglie azzurre in onore dei Borbone e degli Angioini, e il Naples (attivo fin dal 1903), per il quale i fondatori avevano scelto strisce di colore celeste e azzurro, come il cielo e il mare che si potevano ammirare guardando il Golfo. Nonostante proprio il Naples, per ragioni d’età, sia da considerare la vera antenata del Napoli, per la scelta dei colori sociali ha prevalso l’azzurro dell’Internazionale che da allora, ininterrottamente (salvo qualche variazione sulla tonalità), caratterizza le divise del club partenopeo.
Secondo altre fonti il colore granata fu voluto da un dirigente di origine svizzera, per imitare la squadra elvetica del Servette.
Dal 1928 la maglia della Fiorentina è rimasta pressoché uguale. Ogni tanto ha avuto elementi (polsini, colletto e altri) in bianco.
Solo una volta, nel 2002, il tradizionale azzurro “pieno” del Napoli è stato sostituito da strisce bianche e azzurre. 29
In molti casi le divise dei calciatori venivano confezionate dai loro stessi BOLOGNA
LAZIO 1900
MILAN 1902
DA COLLEGIO SVIZZERO
IN ONORE DI OLIMPIA
1896
IL FUOCO E LA PAURA
Nei primi anni del ’900 un gruppo di giovani appassionati bolognesi si riuniva nella locale Piazza d’Armi per praticare il gioco del calcio, disciplina che contava già un discreto numero di seguaci. Uno di loro, tale Arrigo Gradi, si presentava agli allenamenti indossando la bella casacca rossa e blu della squadra di calcio dell’Istituto che qualche anno prima aveva frequentato in Svizzera, il collegio Wiget di Rorschach. La maglia piacque al punto che, quando nel 1909 Gradi e compagni fondarono il Bologna Football Club, per la divisa adottarono gli stessi colori.
Prima ancora di dedicarsi anche al gioco del pallone, la Lazio era una “Società Podistica” (fondata nel 1900) i cui colori sociali, bianco e celeste, vennero scelti in omaggio alla bandiera della Grecia, Paese che appena 4 anni prima aveva ospitato la prima edizione delle Olimpiadi moderne. Nel 1901 nacque la squadra di calcio, che all’inizio adottò una semplice maglia bianca. La prima vera divisa arrivò l’anno dopo: una camicia di flanella a scacchi bianchi e celesti, cucita dai familiari degli stessi calciatori. Nel 1910 fu sostituita dalla maglia celeste, ancora oggi usata.
“I nostri colori saranno il rosso come il fuoco e il nero come la paura che incuteremo agli avversari”: così parlava la sera del 16 dicembre 1899 (il 13 secondo altre fonti), Herbert Kiplin, fondatore del Milan Cricket and Football Club, durante la presentazione della nascente squadra di calcio. La divisa prescelta, rimasta da allora inalterata o quasi, fu una camicia di seta a strisce con lo stemma di Milano sul petto. Quest’ultimo fu eliminato, negli Anni ’40, e poi reintrodotto: una prima volta nel 1999 per il centenario del club e poi, stabilmente, nel 2014.
L’originale prevede 4 strisce, ma in qualche anno è stata impiegata una variante a 6.
La divisa classica: si alterna con la “magliabandiera”, che sfoggia un’aquila gigante.
Cambia ogni tanto la larghezza delle strisce, ma la maglia è la stessa da 116 anni.
E PER GLI ALTRI? VALGONO I COLORI MUNICIPALI
Q
uando nasceva un nuovo club, la scelta dei colori avveniva spesso in modo casuale (un esempio su tutti: la Juventus, v. pag. precedente) o era legata 30
alle origini o alla storia dei fondatori (come per Palermo, Bologna e Genoa), mentre ci furono casi (per esempio Fiorentina e lnter) in cui a guidare la scelta fu l’in-
tenzione di distinguersi dai rivali. Per gran parte delle squadre che oggi giocano in Serie A (e per molte delle categorie inferiori), i colori della divisa si rifanno invece
a quelli municipali: è il caso del gialloblu che contraddistingue le maglie di Hellas Verona e Chievoverona, il biancorosso del Carpi, l’azzurro dell’Empoli e il
bianconero dell’Udinese. Anche il Frosinone, inizialmente, sfoggiava i colori (rosso e blu) delle insegne comunali: le attuali maglie gialle e blu, adottate a partire
familiari. Con i materiali (e a volte i colori) che si avevano a disposizione GENOA
INTER 1900
SAMPDORIA 1908
1895
1901 MADE IN ENGLAND
SPIRITO DI CONTRADDIZIONE
È il 1893, un gruppo di inglesi trapiantati a Genova fonda la società sportiva Genoa Cricket and Athletic Club, che, qualche anno più tardi, inizia a praticare anche il football. All’inizio i giocatori usano le casacche bianche del team di cricket, poi, nel 1900, la prima “vera” maglia: a strisce bianche e azzurre, come quelle dello Sheffield Wednesday, tra i più importanti club dell’Inghilterra, culla del calcio. L’anno seguente, la scelta definitiva: dopo un referendum tra i soci, si adotta la maglia a quarti rosso granata e blu, forse per onorare i colori della bandiera britannica.
Il 9 marzo 1908 un gruppo di soci del Milan decide di abbandonare il sodalizio e di fondare una nuova squadra, il Football Club Internazionale Milano: l’Inter. La scelta dei colori fu affidata a uno dei transfughi, Giorgio Muggiani, di mestiere illustratore e cartellonista. Questi, osservando una delle matite bicolori (metà rossa, metà blu) che erano sulla sua scrivania, decise che le maglie interiste sarebbero state... “contrarie” a quelle del Milan: così, al posto delle strisce rosse dei “cugini”, disegnò quelle azzurre. Che insieme a quelle nere, da allora, formano la divisa dell’Inter.
I colori (oltre che il nome) del Genoa sono un tributo alle origini dei suoi fondatori.
La divisa dell’Inter è, caso raro, sempre la stessa fin dalla nascita della squadra.
dal 1932, si rifanno invece allo stemma della provincia. L’Atalanta Bergamasca (questo il nome completo della squadra) nacque dall’unione di due club: l’Atalanta
(maglia a strisce bianche e nere) e la Bergamasca (bianco e azzurro): la fusione riguardò anche le maglie, dalle quali fu “cancellato” il bianco, per dare vita alla divisa
a strisce nere e azzurre ancora adottata. Nessuna notizia, infine, sul Sassuolo: sull’origine dei suoi colori (nero e verde) nemmeno i dirigenti sono in grado di fare luce.
BLUCERCHIATI: ECCO PERCHÉ
Tra le squadre italiane nate da una fusione, la Sampdoria è quella che ha mantenuto più evidenti le tracce dei club “genitori”, Sampierdarenese e Andrea Doria. Nel nome, ma anche nella maglia, che dalla prima ha tratto il bianco e la fascia rossonera, mentre dalla seconda il blu e lo stemma di Genova con la croce di San Giorgio. L’originale divisa, da cui deriva il soprannome “blucerchiati” riservato a calciatori e tifosi del club, è stata eletta qualche anno fa “la più bella del mondo” in un sondaggio indetto dalla rivista Guerin Sportivo.
ILLUSTRAZIONI: F.SPELTA
L’altezza della fascia sul petto varia a seconda delle esigenze degli sponsor. 31
PRIMO PIANO
Vizi e virtù d’ITALIA
SCALA
Prima dell’Unità il nostro Paese ha conosciuto secoli di dominazioni. Che, nelle diverse epoche, con le loro eredità hanno modellato le identità regionali. Al Nord, al Centro e al Sud.
1760-1861
PIEMONTE VS. LOMBARDIA pag. 34
1350-1450
INDOMABILI SARDI pag. 40
1800-1870
NEGLI UFFICI PAPALINI pag. 44
STEREOTIPI E LUOGHI COMUNI pag. 50
1100-1861
NAPOLI O PALERMO? pag. 54
1797-1859
GLI ASBURGO A VENEZIA pag. 60
1100-1600
TESORI DI PUGLIA pag. 66
LE ORIGINI DELLA BUROCRAZIA pag. 72
Sicilia inquieta I Vespri siciliani, che nel 1282 avviarono il passaggio fra Angioini e Aragonesi, in un dipinto di epoca risorgimentale.
PRIMO PIANO
I Savoia verso il Duomo Vittorio Emanuele II, re di Sardegna e poi primo re d’Italia, entra a Milano con Napoleone III, l’8 giugno 1859.
Lombardia Diversi per carattere e storia, governanti e cucina, lombardi e piemontesi
MILANO-TORINO T
orino malinconica e riservata, Milano intraprendente e iperattiva. Il Piemonte chiuso tra le Alpi con il suo dialetto che ricorda il francese, la Lombardia pratica e concreta come solo gli austriaci sanno essere. Luoghi comuni? Certo, ma anche differenze che affondano le proprie radici nella diversa storia delle due regioni. E nei governi che le ressero prima che l’Italia fosse unita: i Savoia da una parte e, per limitarci al Settecento, gli Asburgo d’Austria dall’altra. «Le diverse entità statali presenti sul nostro territorio in epoca preunitaria hanno lasciato una importante eredità culturale, che ha creato uno straordinario mosaico di differenze. Differenze che, per quanto dopo l’Unità abbiano faticato e ancora fatichino a conciliarsi le une con le altre, andrebbero conside-
La moneta austro-lombarda
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DEAGOSTINI
Un tallero d’argento con l’aquila bicipite imperiale. Il dominio degli Asburgo sulla Lombardia durò quasi un secolo e mezzo, a partire dal 1714.
rate un valore aggiunto», spiega Elena Riva, docente di Storia Moderna e Contemporanea all’Università Cattolica di Milano. Ma a metà Ottocento non la pensavano così i milanesi che, a Regno d’Italia fatto, trovarono il modo di sbeffeggiare i Savoia. Come? Prendendo di mira, dopo l’inaugurazione della galleria intitolata al re Vittorio Emanuele II (1867), gli attributi del toro rampante simbolo di Torino, rappresentato nel mosaico pavimentale insieme agli altri tre stemmi delle città capitali d’Italia (Milano, Firenze e Roma). Con la scusa di dare col piede una sfregatina antisfortuna alle parti basse del cornuto bovino (tradizione rimasta oggi fra i turisti, che le pestano con il tallone destro), i milanesi ridevano sotto i baffi del doppiosenso politico di quel gesto con cui schernivano la città sabauda, mettendo in quel pestone tutto il loro risentimento nei confronti della dinastia regnante. Era trascorso troppo poco tempo perché il passato recente potesse essere già stato archiviato.
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I lombardoveneti a Torino La delegazione lombardo-veneta arriva in una Torino festante dopo l’istituzione del Regno d’Italia.
Piemonte erano abituati a comandare a casa propria. E quando Torino divenne capitale...
RIVALI DI STILE co nobiltà e clero, per rafforzare la potenza della dinastia regnante e al tempo stesso modernizzare lo Stato, muovendosi nel senso della centralizzazione», dice Riva. Il dispotismo illuminato di Maria Teresa si tradusse in una amministrazione tutt’altro che oppressiva, gestita in larghissima parte dai ceti dirigenti locali e ricca di riforme volte a laicizzare lo Stato, renderlo più efficiente dal punto di vista amministrativo e più equo da un punto di vista fiscale. Più o meno lo stesso fece Carlo Emanuele III, o, come lo chiamavano i piemontesi, “Carlin il Laborioso”, che resse il suo regno seguendo la politica assolutista del padre Vittorio Amedeo II, ispiratosi a sua volta a quella del re di Francia Luigi XIV. Agirono però in contesti storici, geografici, politici, culturali, sociali ed economici molto diffe-
Il soldo del duca sabaudo
Mezzo scudo di Carlo Emanuele III di Savoia, soprannominato “Carlin il Laborioso”, del 1764. Vi sono emblemi del Ducato di Savoia e Monferrato.
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Stati moderni. Il Ducato di Milano passò ufficialmente all’impero austriaco nel 1714. Il dominio degli Asburgo d’Austria sulla Lombardia settecentesca, più piccola di quella attuale e più o meno strizzata tra Mantova e il Ducato di Savoia, durò quasi un secolo e mezzo, interrotto solo dal regno di Napoleone Bonaparte in Italia (1796-1814) e, tra il 1733 e il 1736, dal governo dei Savoia, allora alleati della Francia in guerra contro l’Austria. La dinastia francese dei Savoia, insediata dall’inizio dell’XI secolo nei territori a cavallo delle Alpi (tra Lione e il Piemonte Occidentale), all’epoca possedeva quasi tutto il Piemonte attuale e la Sardegna, annessa nel 1720. «Carlo Emanuele III di Savoia e Maria Teresa d’Austria, che regnarono sul Piemonte e sulla Lombardia in qualità di sovrani assoluti e illuminati in un periodo compreso tra il 1730 e il 1780, furono ispirati nella loro azione riformista dallo stesso scopo: indebolire progressivamente i poteri dei ceti privilegiati, nello specifi-
Intellettuali di Milano
Num verostrud etuer sequip endre dolutat, cor senim dunt doloreet wisim quis et dunt esto od exerosto dolobortindf ddsada doloreet wisim quis et dunt esto od exerosto dolobortindf ddsada
A sinistra, riunione dell’Accademia dei Pugni, circolo illuminista milanese tollerato dagli austriaci. A destra, raccolta della prima annata della rivista letteraria milanese ll Caffè (1765).
SCALA (4)
PRIMO PIANO
Ut ut diamcommy
I lombardi erano abituati a signori lontani, “stranieri” con cui accordarsi. Per i piemontesi fu più facile sentirsi italiani: la corte dei Savoia era di casa renti. Così, a sostanziale parità di riforme e intenti, gli esiti furono diversi. «In Lombardia, priva di una dinastia autoctona dal ’500, le élite locali dovettero imparare a essere fedeli a signori diversi e lontani, e a ritagliarsi spazi di gestione del potere in accordo con “gli stranieri”», sostiene la docente. «I Savoia, invece, in quanto sovrani territoriali, riuscirono a creare un più forte legame di fedeltà con le élite locali attraverso la corte. Un legame funzionale alla costruzione di un vero Stato monarchico, unico nel suo genere in Italia».
Lombardia All’ombra della Scala Il Teatro alla Scala in un dipinto del 1852. Aristocratici e intellettuali illuministi si ritrovavano nei palchi del teatro e nei caffè vicini. Dopo l’Unità d’Italia di fronte alla Scala fu inaugurata la Galleria Vittorio Emanuele II.
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Tra Francia e cotolette. Per questo i membri delle alte sfere piemontesi diventarono “italiani”, sotto i loro stessi sovrani, in modo molto più naturale di quanto fecero i loro vicini lombardi, con l’autonomia nel Dna e l’abitudine a essere i primi della classe nella loro capitale, non i secondi in un regno che consideravano comunque straniero. E non bisogna nemmeno meravigliarsi, quindi, se chi li conobbe allora affermò che i piemontesi erano “più lontani dai milanesi di quanto non lo siano dai francesi”. Di quest’ultimi ave-
vano persino l’idioma, lingua ufficiale del Regno sabaudo insieme all’italiano, superata però nell’uso dal dialetto piemontese, una specie di italo-francese arricchito di espressioni savoiarde e nizzarde, con tante varianti quante erano le classi sociali e i luoghi in cui veniva parlato. Se non fu la lingua, ciò che i dominatori austriaci lasciarono ai milanesi aveva comunque a che vedere col palato: la Wiener Schnitzel (la cotoletta viennese). In realtà il tema scotta più della nota fettina di carne fritta. I cuochi nostrani infat-
ti rivendicano tuttora il primato gastronomico, chiamando in causa le note che il comandante dell’esercito austriaco in Italia, Josef Radetzky, avrebbe scritto a metà Ottocento su un suo pasto a base di cotoletta alla milanese. A quanto pare quella lombarda era la sua versione preferita: prima passata nell’uovo e poi fritta nel burro, non semplicemente infarinata come la preparavano i suoi connazionali. Neppure il Piemonte fu immune da contaminazioni culinarie: nonostante “i prosciutti di Torino, che hanno una grande reputazione in tutta l’Alta Italia” e la polenta di mais, tanto apprezzati dall’intellettuale Aubin Louis Millin, i piatti della tradizione piemontese ricordano senza dubbio la robusta cucina francese e i suoi intingoli micidiali per la dieta. Inoltre, se non fosse stato per i problemi gastrici del giovane Vittorio Amedeo II, forse oggi non potremmo sgranocchiare i celebri grissini torinesi, pare creati nel 1679 dal fornaio di corte per il principe che non digeriva la mollica di pane. Milanesi illuministi. Quel che invece non digeriva bene Carlo Emanuele erano le idee illuministiche di uguaglianza e libertà che giungevano dalla Francia in fermento prerivoluzionario e che nella seconda metà del Settecento trovarono ter-
Capitale squadrata Piazza Castello a Torino, con l’Accademia Reale, in una tavola d’epoca. Il centro del capoluogo piemontese ha un aspetto “parigino”, con ampi viali e grandi piazze. reno fertile in Lombardia: qui Maria Teresa fece partecipare attivamente al governo i migliori intellettuali dell’epoca, affidando loro cariche pubbliche e chiedendo appoggio per le sue riforme. E, pur non accogliendo mai le loro proposte, permise che si riunissero nell’Accademia dei Pugni (fondata nel 1761) o che stampassero Il Caffè (1764), un giornale letterario che aveva preso il nome del luogo in cui gli illuministi si riunivano. In Piemonte invece bisognò aspettare il più liberale Vittorio Amedeo III, sul trono dal 1773. «Nel secondo Settecento la corte sabauda appariva come un luogo di apertura alla modernità e in particolare a quel-
la cultura illuministica che era stata tradizionalmente esclusa dal riformismo sabaudo», afferma Riva. Gli elementi di modernità nascevano all’interno della corte, non da circoli di sapienti: è il caso dell’Accademia Reale, una società privata riconosciuta dal re come istituzione pubblica nel 1783, per “procurare qualche vantaggio alla comune società”. A metà secolo, un precoce esempio del progresso piemontese fu l’industria della seta, che grazie ad alcune innovazioni nei metodi di lavorazione era diventata particolarmente redditizia. Tanto che i francesi, pazzi per il prezioso filato e costretti a importarlo dal regno vicino per soppe-
Piemonte Paesaggio urbano Torino vista dai Giardini Reali, in un dipinto di Bernardo Bellotto (17211780). I Savoia arricchirono il patrimonio urbanistico della loro capitale grazie al contributo di architetti come Filippo Juvarra.
SCALA
Popolare Corsia dei Servi (oggi Corso Vittorio Emanuele), ritratta nel 1836. Il corso sboccava già allora in piazza Duomo.
Lombardia Milano primeggiava nella costruzione di carrozze, calessi e altri tipi di vetture. rire alla loro insufficiente produzione interna, nel 1749 spedirono il fisico francese Jean Antoine Nollet a fare spionaggio industriale. Con la scusa di non voler destare sospetti, lo 007 d’Oltralpe ne approfittò per girare l’Italia e durante una sosta di tre giorni a Milano, che trovò “molto grande e bella”, dovette notare che lì l’arte della seta non era “altrettanto ben coltivata che
in Piemonte”, ma fiorivano l’arte del ricamo e, vero smacco per il futuro regno della Fiat di Agnelli, “tutto ciò che riguarda le carrozze, i calessi e altre vetture”. In quelle carrozze, nelle serate estive, i ricchi milanesi prendevano il fresco, fermi in piazza Duomo, prima di assieparsi nei salotti. Gaudenti e taciturni. “L’arte di godere la vita è a Milano di due secoli più progredi-
Ticino, un confine naturale
S
corre per 248 km tra la Svizzera e l’Italia prima di gettarsi nel Po, di cui è il più grande affluente. È il Ticino, il secondo fiume italiano per portata d’acqua, che in una parte del suo tratto inferiore segna il confine tra Piemonte e Lombardia. Lo fa, anche se non in modo
continuativo, dall’888 d.C. Cioè da quando il franco Guido II di Spoleto, re d’Italia, stabilì che il suo corso avrebbe diviso la Neustria, cioè la parte centrosettentrionale del regno longobardo, in Marca d’Ivrea e Marca di Langobardia. Da questo stesso confine, i Savoia, sollecitati dai liberali mi-
Veduta dell’antico ponte sul Po alle porte di Torino, nel XVIII secolo.
ta che a Parigi. Quel che rende più prezioso questo fatto, è che i buoni e grossi milanesi non debbono quest’arte al ragionamento, ma al clima e al governo snervante dell’Austria”, confermava lo scrittore francese Stendhal nel 1811. E i torinesi? Se anche quel “falsi e cortesi” del detto potrebbero averlo ereditato dal comportamento dei Savoia che, secondo il re di Francia
lanesi in rivolta, il 23 marzo 1848 dichiararono guerra all’impero austriaco: poi passarono il fiume ed entrarono in territorio nemico, dando così inizio alla prima guerra d’indipendenza. Ai tempi di Cartagine. Due millenni prima, all’inizio della Seconda guerra punica (218 a.C.202 a.C), lungo il corso del Ticino
il condottiero cartaginese Annibale respinse le legioni romane di Publio Cornelio Scipione. Lo fece dopo aver sconfitto la tribù celtica dei Taurini, stanziati nell’attuale parte piemontese del fiume, ed essersi alleato con i Galli Insubri, che abitavano nell’odierna pianura lombarda tra il Po e il Ticino.
Manifestazione a Torino nel 1848, sotto il regno di Carlo Alberto I, che quell’anno concesse lo Statuto Albertino, poi Costituzione italiana.
Piemonte Il Piemonte invece eccelleva nella filatura della seta Luigi XIV, “non terminano mai una guerra sotto la stessa bandiera con cui l’hanno iniziata”, alla maggior parte degli stranieri davano comunque l’impressione di essere “taciturni e schivi”. Eppure, nonostante il caratteraccio dei suoi abitanti, la capitale del regno in continua evoluzione urbanistica attirava visitatori e complimenti. “Torino è una città ridente, piccola, anche se ingrandita dal padre del Re, e dal Re stesso dopo l’assedio. Le parti aggiunte alla città sembrano veramente tirate con la squadra. La piazza principale è una delle cose più belle che si possano vedere”, scriveva il pensatore francese Montesquieu, ricordando la sua visita nel 1728. L’inaugurazione del Teatro Regio, uno degli imponenti edifici fatti costruire dal Laborioso Carlin per celebrare il prestigio della sua casata, risale a 12 anni dopo, precedendo di quasi 4 decenni quella del Teatro alla Scala di Milano. Il sovrano mise l’architettura torinese nella mani di importanti maestri del tempo, che lentamente diedero alla città il suo volto barocco. Persino l’acidissimo magistrato e filosofo Charles des Brosses, nel 1740, la giudicò “la più bella città d’Italia; e forse dell’Europa, per le strade dritte, la regolarità degli edifici e la bellezza delle piazze”.
Aggiungendo però che “qui niente è estremamente bello, ma tutto è uguale e nulla di mediocre”. Non se la prendano i torinesi. L’anno prima, di fronte al Duomo di Milano ancora incompleto, aveva esclamato: “Perdio! Gli italiani i superlativi li sprecano. Non costa molto, a loro; ma costa parecchio agli stranieri, i quali non di rado sciupano fatica e spese per vedere cose molto celebrate ma poco degne di esserlo”. Certo, questione di gusti. Un po’ come quando bisogna scegliere tra cotoletta o grissini col prosciutto. • Maria Leonarda Leone
L’effigie del toro nella Galleria di Milano: l’uso di calpestarne i testicoli nasce come sberleffo.
In gara sulle due ruote
L
e antiche ostilità fra lombardi e piemontesi oggi si fanno sentire per lo più sui campi di calcio. Ma è soprattutto in una coppia del ciclismo del secolo scorso che la rivalità sportiva si è accesa più forte di altre. Costante Girardengo, piemontese, e Alfredo Binda, lombardo: due ciclisti, due avversari, ma soprattutto il simbolo sportivo del campanilismo fra Piemonte e Lombardia. Campione. Classe 1893, passato alla storia oltre che per la sua bravura anche per la presunta amicizia con il noto bandito Sante Pollastri (cantata da Francesco De Gregori), il primo vinse due volte il Giro d’Italia, tre volte il Giro del
“suo” Piemonte e altrettante il Giro della Lombardia di Alfredo Binda. Finché, nel 1926, Binda gli strappò il titolo italiano. Giro di boa. A 35 anni il recordman di Novi Ligure non poteva più competere con quel fortissimo emergente: 9 anni più giovane di lui, nel 1927 Binda vinse ben 12 delle 15 tappe del Giro. Era così forte che 3 anni dopo gli organizzatori preferirono pagarlo 22.500 lire, la cifra che spettava al vincitore, per non farlo iscrivere alla corsa a tappe. Un destino sfortunato (un incidente in cui si ruppe il femore) lo costrinse a lasciare l’attività professionale nel 1936: Girardengo si era ritirato quello stesso anno. 39
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Costituzione
SHUTTERSTOCK
PRIMO PIANO
Sardegna
Tracce di
CATALOGNA Lo spirito d’indipendenza è a volte il risultato di una forte identità e di ingerenze straniere. Un esempio? Nell’isola dei nuraghi, l’eredità catalano-aragonese del Trecento
Il mistero della civiltà nuragica
S
ul territorio sardo sono state rinvenute circa 7mila torri megalitiche, costruite tutte con la stessa tecnica, ossia con grandi massi e senza l’uso di malta: si chiamano nuraghi e ce n’è uno ogni 3 km2. Nell’Età del bronzo e del ferro, fra il 40
1800 e il 1100 a.C., si sviluppò in Sardegna una civiltà unica, che condivideva le tecniche costruttive e forse anche aspetti culturali con altre civiltà mediterranee. I documenti degli antichi, vissuti secoli dopo, riportano lo stupore per queste
grandi costruzioni, dette nuraghi da Norax, il mitico fondatore della più antica città sarda, Nora. Nessuna fonte cita invece il popolo che li costruì. Tribù. Alcuni sostengono che la civiltà nuragica fosse contemporanea a quella micenea. Ma i
dati sono ancora pochi per avere un’idea chiara: si può suppore fosse organizzata in tribù autonome con sovranità su territori limitati, senza raggiungere una dimensione nazionale, ma con intensi rapporti con il resto del Mediterraneo.
ALAMY
cero ingresso i popoladores catalani giunti in blocco dalla madrepatria. I nuovi abitanti godevano degli stessi diritti dei barcellonesi. Ebbero privilegi commerciali ed enormi benefici economici: dalla concessione di proprietà terriere e immobiliari (i “guidatici”), alle sovvenzioni per le attività agricole, fino a vantaggi fiscali. I sardi superstiti subirono trattamenti diversi. I “collaborazionisti”– quelli che durante l’assedio avevano tramato contro la città – poterono rimanere, ma fuori dalle mura. Se volevano integrarsi dovevano imparare a parlare il catalano. La città divenne una roccaforte: ogni notte si chiudevano gli accessi alle mura, che venivano riaperti al mattino per permettere le attività di pesca e commercio.
Conquistatore Pietro IV d’Aragona (1319-1387) in un manoscritto del XV secolo. Da Barcellona lanciò la conquista della Sardegna. A lato, la bandiera sarda dei “quattro mori”, la cui origine storica resta dibattuta.
DEA/ALINARI
N
el 1353 Alghero era sotto assedio. Da un lato i catalanoaragonesi guidati da Pietro IV d’Aragona, alleati dei veneziani, impegnati nella conquista della Sardegna. Dall’altro gli arborensi, alleati con i genovesi, a difesa dell’ultimo dei 4 regni autonomi della Sardegna: il Giudicato d’Arborea (v. cartina nella pagina successiva). A settembre si combatté una ferocissima battaglia e la città l’anno dopo cadde nelle mani dei catalani. Divenne l’Alguer o meglio ancora Balzarunéta, la “piccola Barcellona”. Non senza conseguenze: l’arrivo degli aragonesi significò infatti la deportazione degli algheresi più riottosi alle Baleari. Le riserve alimentari vennero requisite e nella città, ancora stremata dall’assedio e dalle malattie, fe-
Civiltà perduta Il nuraghe Santa Barbara, presso Nuoro. Le funzioni di queste strutture, erette oltre 3mila anni fa, non sono state ancora del tutto chiarite.
Tradizione giuridica
ALAMY
Gli Statuti Sassaresi, raccolta di norme di fine ’200. Nel Trecento in Sardegna fu elaborata la Carta de Logu dei Giudicati, codice di leggi rimasto in vigore (con aggiornamenti) fino al 1827.
La rocca del giudice Il castello di Burgos (Sassari), eretto intorno al 1130 dal “giudice” Gonario II di Torres. Controllava la zona del Goceano, dove nell’Alto Medioevo si insediarono i Goti.
In Sardegna si parla una lingua in parte enigmatica: è neolatina, ma con vocaboli fenici e nuragici. E per alcuni è imparentata anche con il basco
Oro rosso. La conquista catalana rappresentò però anche la fortuna di Alghero, fino a quel momento un porto secondario. Pietro IV aveva fortemente voluto la città perché consentiva agli aragonesi il dominio totale sul Mediterraneo Occidentale. Divenne testa di ponte alla cosiddetta “diagonale delle isole”, una linea ideale che dal Sud della Catalogna passava per le Baleari e giungeva in Sardegna, ad Alghero appunto. In breve divenne il secondo porto dell’isola dopo Cagliari. I documenti di viaggio, i rapporti sui dazi e i balzelli conservati negli archivi spagnoli e sardi riportano un intenso commercio di vino greco, sardo e “latino” (così erano chiamati i vini italiani). Cuoio, pelli di bue, di montone e di agnello finivano invece agli artigiani pisani dell’abbigliamento e dei tessuti. Per Alghero passava poi bestiame: cervi, caprioli e falconi per la caccia. Ma era il corallo il petrolio sardo. Poter controllare il commercio dell’“oro rosso”, richiesto da tutti i porti del Mediterraneo per la sua altissima qualità, era motivo di orgoglio per i catalani. Persino centri come Amalfi o Napoli, le cui acque erano pure ricche di corallo, acquistavano quello algherese. E fu proprio questo commercio a favorire l’apertura di consolati e fondaci rendendo per diverso tempo Alghero il centro del Mediterraneo. Anche la scoperta dell’America non le tolse lustro. Lo spostamento dell’asse dei commerci spagnoli verso l’Atlantico danneggiò infatti la Sardegna e altre regioni d’Italia, ma non Alghero che mantenne i rapporti commerciali con la “madre patria” e divenne una fondamentale fortezza per l’organizzazione militare di difesa dai turchi, che nel XV secolo avevano iniziato a imperversare nel Mediterraneo salpando dalle coste dell’Africa.
Olbia Sassari Burgos
GIUDICATO DI TORRES
Alghero
GIUDICATO DI GALLURA Nuoro
GIUDICATO D’ARBOREA Oristano
GIUDICATO DI CAGLIARI Cagliari
Farsi in quattro I giudicati sardi nati con il declino del potere bizantino sull’isola. Il più longevo fu quello di Arborea, che sopravvisse fino al 1420.
Orgoglio. La città rimase a lungo proiettata verso la Spagna e la lingua catalana continuò a essere percepita come altolocata: chi si trasferiva entro le mura la imparava. Nemmeno quando la Corona di Aragona, unitasi nel 1469 con quella di Castiglia, adottò il castigliano come lingua ufficiale estendendolo ai sardi, l’idioma perse forza. E i “catalani” di Alghero sono rimasti fino ai nostri giorni una delle enclave linguistiche e culturali più radicate d’Italia. In una regione, come ha scritto Giovanni Lilliu, archeologo e decano degli storici sardi, “che ha avuto uno strano marchio storico: quello di essere stata sempre dominata (in qualche modo ancora oggi), ma di avere sempre resistito”. • Piero Pasini
La “tetrarchia” sarda: i Giudicati
ALINARI
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rima di cadere quasi del tutto in mano spagnola, la Sardegna visse un periodo di indipendenza iniziato attorno all’XI secolo, per alcuni alla radice dello spirito autonomista sardo. È il cosiddetto periodo dei Giudicati (cartina in alto). Si trattava dei governi delle quattro partes in cui fu divisa la Sardegna dopo
l’allentamento della presenza bizantina: Cagliari, Torres, Gallura e Arborea. I Giudicati erano di fatto monarchie elettive, con un gabinetto e vari “ministri”. Oscure origini. Secondo alcuni documenti, i Giudicati sarebbero sorti nel VI secolo dopo una sommossa anti-bizantina. Ma c’è chi giudica questa ipotesi
leggendaria. Si sa invece che ingerenze esterne e rivalità tra i “giudici” (i “re”) portarono alla rovina questa sorta di tetrarchia. Il più longevo fu il Giudicato di Arborea: per un secolo combatté tenacemente contro la Spagna, fino a estinguersi nel 1420 (a lato, Eleonora, “giudicessa” d’Arborea dal 1383 al 1404). 43
PRIMO PIANO
Roma Udienza suprema Pio VII (papa dal 1800 al 1823) riceve nella Cappella Sistina, “sala del trono” del pontefice.
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Annessione
ALINARI (2)
Bersaglieri entrano a Roma dalla Breccia di Porta Pia, il 20 settembre 1870. La città diventerà capitale l’anno dopo.
I raccomandati del PAPA RE L’amministrazione papalina era tra le più clientelari ed elefantiache tra gli Stati preunitari. E tale rimase quando Roma divenne capitale del Regno d’Italia
I
l ragazzo dall’aria gracile e goffa che trotterella per le vie del centro di Roma ha poco più di vent’anni e viene dalla provincia; alloggia in una soffitta, a casa di parenti ricchi ma taccagni. È arrivato nella Città Eterna inseguendo un miraggio comune a tanti: conquistarsi il posto fisso in un’amministrazione pubblica. Lo stipendio è modesto, ma i placidi ritmi dell’impiegato statale gli lascerebbero tempo per la passione di sempre, la scrittura. Chi fa questi ragionamenti nell’inverno del 1822, camminando nel cuore del regno temporale di papa Pio VII, è un Giacomo Leopardi in fuga dal “natìo
borgo selvaggio” di Recanati (allora territorio pontificio). Il poeta spera che l’ambasciatore prussiano Nieburh, suo estimatore, interceda presso il cardinale segretario di Stato Ercole Consalvi per procuragli la sospirata “cadrega” nella Cancelleria del Censo. Resterà deluso, perché, l’anno dopo, la morte di papa Pio VII archivierà la pratica. Ma non bisogna essere troppo duri con lui: l’istanza di Leopardi era perfettamente congruente con il “sistema” in vigore nel regno teocratico e in particolare nella sua immensa, inefficiente e spesso contraddittoria burocrazia. Un groviglio che la fine 45
Porporati e non La vita della corte papalina: Carlo III di Spagna in visita a Benedetto XIV (papa dal 1740 al 1758) al Quirinale, residenza dei pontefici.
DEA/GETTY IMAGES
Gli alti funzionari erano anche alti prelati di antiche famiglie aristocratiche. E il papa, sovrano assoluto, decideva su molte questioni personali
Monete sonanti Una moneta dello Stato Pontificio da 4 soldi (pari a 20 centesimi di lire) emessa nel 1866, sotto Pio IX. A destra, Giacomo Leopardi, suddito dello Stato Pontificio e aspirante impiegato statale. 46
dello Stato Pontificio e l’irruzione dei Savoia a Roma, pochi decenni più tardi, sarebbero solo in parte riuscite a dipanare. Alti funzionari. «Tutte le cariche di vertice erano in mano a cardinali e alti prelati, quelle medie o basse frutto di relazioni clientelari con personalità ecclesiastiche o con le potenti famiglie romane a esse imparentate», sintetizza Carlo Fiorentino, storico e ricercatore dell’Archivio centrale dello Stato a Roma. «In più il pontefice, che era un sovrano assoluto, aveva diritto di entrare in ogni questione. Il risultato era una gestione paternalistica dell’amministrazione pubblica, con la componente laica schiacciata in ruoli subalterni».
Descrivere in dettaglio i meccanismi barocchi dell’apparato statale pontificio sarebbe arduo. C’erano però alcuni punti fermi, che si possono ricostruire. Se il “motore immobile” degli affari interni ed esteri era il cardinale segretario di Stato, per economia e finanze fino a metà del XIX secolo lo era la Camera Apostolica. Si trattava di un enorme network di uffici e cariche: dal “numero uno”, il cardinale Camerlengo, in secolare contrasto con il comprimario Tesoriere generale, fino all’Uditore generale e ai chierici del Tribunale della Piena Camera, competenti in materia di fisco. Attorno a essi una sterminata rete di organismi, commissari, presi-
ALINARI SCALA
denti. La Prefettura dell’Annona e quella della Grascia si occupavano dell’approvvigionamento di grano e di carne, con relativo sistema di licenze e dogane. Poi c’era la Presidenza della Ripe (per il traffico fluviale), delle Acque, delle Strade… L’elenco potrebbe andare avanti a lungo, tra competenze ridondanti e funzioni spesso duplicate. «Senza contare la stratificazione quasi infinita di commissioni create ad hoc per singole questioni, e che in sostanza “pestavano i piedi” alle amministrazioni già preposte a trattare quel determinato settore di competenza», aggiunge Fiorentino. Contro i mulini a vento del disordine finanziario si ergeva la Congregazione del Buon Governo, una Corte dei Conti ancien régime, spesso in contrasto con la tentacolare Camera. Ma sul fronte normativo, regnava un discreto caos: ai motu proprio e alle bolle del pontefice si aggiungeva la giurisprudenza locale contenuta nei bandi dei cardinali a capo delle legazioni, cioè le circoscrizioni del regno, e quella dei governatori provinciali. Un corpus di leggi mai stabilizzato in un Codice civile o penale e, fino al 1831, neanche riunito in una semplice raccolta. Giustizia sia fatta. I tribunali erano altrettanto caleidoscopici. I vari gradi della giurisdizione civile erano spartiti – mediante distinguo a dir poco farraginosi – tra i tribunali dell’Uditore di Camera, della Sacra Rota e della Segnatura, mentre per quella penale il primo riferimento era il tribunale del Governatore di Roma, che era anche capo della polizia. O meglio, di quella che diventerà polizia dopo il 1816. La sede era quella dove oggi c’è il Senato della Repubblica: Palazzo Madama. Da qui l’appellativo di “madama” riferito alle forze dell’ordine. «Prima di allora c’erano i “birri”, riuniti in compagnie guidate dai “bargelli”: un’accozzaglia di personaggi poco raccomandabili e spesso contigui al mondo del crimine», spiega la studiosa Elvira Grantaliano dell’Archivio di Stato di Roma. Per avere giustizia in caso di abusi degli ufficiali pontifici in periferia bisognava rivolgersi alla Congregazione della Consulta, da cui gran parte di quegli ufficiali erano nominati. Riformisti. Questo, in estrema sintesi, l’antico e sgangherato organismo che gli ultimi papi-re dell’Ottocento cercarono di curare. Iniziò Pio VII con il suo segretario di Stato, il conservatore illuminato cardi47
RMN/ALINARI
In fila con i clientes romani
L’
arte di arrangiarsi fioriva già nella Roma al tempo dei Cesari, affollata di clientes, cittadini che in cambio di denaro e tutele praticavano il “mestiere” di riverire il patronus. Per i Romani d’alto rango avere uno stuolo di estimatori era indice di prestigio. I protetti ricevevano la sportula (borsa), cioè una certa quantità di cibo e denaro, oppure terreni in usufrutto; in cambio dovevano appoggiarlo politicamente, ma soprattutto recarsi
ogni giorno all’alba di fronte alla sua villa per la salutatio mattutina. Salve! Il buongiorno al potente (a lato, in un dipinto dell’800) seguiva un’etichetta precisa: i clientes dovevano vestirsi con la toga e rivolgersi al benefattore chiamandolo dominus, “signore”. Non c’erano solo plebei, ma anche professionisti in ristrettezze e artisti squattrinati: tutti in fila, in base a una rigida gerarchia sociale, dal magistrato all’ex schiavo.
Dopo il 1870 la nobiltà romana si divise in “bianca” (filosabauda) e “nera” (fedele al papa re). La prima fu favorita, ma la seconda riuscì ad arricchirsi nal Consalvi che cercò addirittura di imparare qualcosa dal “nemico”, studiando le riforme napoleoniche. Proseguì (e finì) Pio IX, ultimo sovrano dello Stato Pontificio, che sull’esempio di altri Paesi europei dopo la parentesi rivoluzionaria della Repubblica Romana ridisegnò l’amministrazione in base a ministeri: nove in tutto, ridotti a cinque nel 1850. «Certe storture però continuarono», chiarisce Carlo Fiorentino. «Le sterminate competenze della Camera Apostolica confluirono nell’elefantiaco dicastero del Commercio, Belle Arti, Industria e Agricol-
Cortigiani
SCALA
Il corteo di un cardinale nel monastero di Santa Maria degli Angeli, a Roma, in un dipinto ottocentesco.
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tura, mentre gli Esteri, appannaggio della segreteria di Stato, spesso si sovrapponevano agli altri enti. In sostanza tutta l’amministrazione restava in mano a un pugno di porporati, per cui con poche eccezioni le istanze dei laici rimasero lettera morta». Raccomandati e assenteisti. Ma dentro gli uffici, come e quanto si lavorava? «Poco: in media tre o quattro ore al giorno, non c’era un orario fisso. Si era assunti a chiamata diretta, spesso non in base a capacità specifiche ma ai rapporti con il potente o il parente di turno. Un ostentato zelo religioso non guastava, anzi “face-
va titolo”», continua Fiorentino. La concessione dell’impiego era considerata alla stregua di una sinecura, cioè una rendita che non implicava obblighi. Prima dell’Ottocento, però, lo stipendio non veniva erogato regolarmente, obbligando i travet pontifici ad arrotondare chiedendo, o estorcendo, mance e regali. Le riforme cambiarono un po’ le cose, ma fino allo showdown di Porta Pia emolumenti, assunzione, mansioni, carriera e pensione (la cosiddetta “giubilazione”) rimasero legate a criteri arbitrari. L’idea del posto fisso come rendita a fondo perdu-
Il nuovo corso azzerò le vecchie istitu zioni municipali. Sparì la carica del Se natore di Roma, sostituita da quella del sindaco. L’ultimo governatore di Roma (ovvero capo della polizia) pontificio, monsignor Ilarione Randi, assicurò una transizione efficiente piazzando – forse con l’accondiscendenza delle stesse auto rità italiane – molti suoi uomini nei nuovi commissariati dei rioni romani. Nei mini steri accadde la stessa cosa. Mescolanza. «Gli impiegati romani si mescolarono a quelli che l’amministra zione sabauda aveva ereditato dagli Stati preunitari e che dalla capitale provvisoria, Firenze, sciamarono in massa verso Ro ma», continua Fiorentino. «Ex ingranag gi di amministrazioni come quella sarda o austrongarica, ben più efficienti e disci plinate di quella papale». Questo “scontro di civiltà” a scrivanie unificate possiamo solo immaginarcelo, soprattutto nei prov visori “Uffici Stralcio” creati in ogni nuo vo ministero per il disbrigo delle prati che pendenti ereditate dai vecchi dicaste ri pontifici». Tutto da buttare, insomma, nella mil lenaria burocrazia dei successori di San Pietro? Non proprio: «Il Cata sto gregoriano, particella re e dettagliatissimo, era un capolavo
Riformatore
ALINARI
to creava situazioni paradossali: impie gati capaci, volenterosi e frustrati si ve devano superati nella scala gerarchica da raccomandati poco più che adolescen ti, o viceversa da anziani. Come Giusep pe Gioachino Belli, grande poeta romano che per intercessione della moglie fu as sunto nell’amministrazione pontificia a 61 anni suonati. Senza contare i “fantasmi” che occupavano un posto in ufficio senza avervi mai messo piede. In questo pano rama faceva notizia qualche sporadica ap parizione di funzionari d’alto livello, come Luigi Pianciani, futuro sindaco della Ro ma sabauda, o Carlo Armellini, triumviro nella breve Repubblica Romana del 1849. Si volta pagina? Con l’arrivo delle trup pe piemontesi a Roma, nel 1870, si voltò inesorabilmente pagina. «Il generale Lui gi Cadorna, con poteri quasi dittatoria li, creò una giunta municipale provviso ria composta dalla nobiltà romana “bian ca” che, in contrapposizione a quella “ne ra” papalina, negli anni precedenti aveva dato prova di attaccamento all’ideale uni tario. Spesso si trattava di rami collatera li delle stesse famiglie “nere”, che peraltro dal nuovo Stato avrebbero presto avuto il loro tornaconto, con la vendita dei loro terreni ex agricoli nell’ambito della febbre edilizia nella capitale di fine secolo», spie ga Fiorentino.
Papa Pio IX fotografato nel 1875, quando Roma era già capitale d’Italia. Durante il suo papato furono avviate varie riforme amministrative.
ro dei suoi tempi», sottolinea Elvira Gran taliano. «E anche la normativa pontificia sulla tutela delle belle arti, da cui l’Italia andò sostanzialmente a lezione». I risultati più vistosi, però, si erano ottenuti altrove. «Alla leva del 1871 i ragazzi romani fu rono i meno riformati d’Italia», racconta Fiorentino. «Una sana e robusta costitu zione legata al valido lavoro delle ammi nistrazioni annonarie del papa. Ma anche al fatto che in una città di orti rigogliosi e conventi caritatevoli nessuno moriva di fame: neppure chi lavorava poco, o i mol ti che non lavoravano affatto». Dal mito del posto fisso allo stereotipo dei “vitello ni” dell’Urbe belli e sfaticati, tutte le stra de del luogo comune portano a Roma. • Adriano Monti Buzzetti Colella
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■ FALSI ■ CORTESI ■ RISERVATI
Genovesi
A sinistra, un ligure con l’abito tradizionale di Biassa (La Spezia). A destra, un costume friulano.
■ INTELLIGENTI ■ IRONICI ■ COLLERICI
Toscani
Milanesi
■ ARROGANTI ■ FREDDI ■ EFFICIENTI
■ AVARI ■ SCONTROSI
Torinesi
A cura di M. L. Leone e G. Rotondi
■ GENTILI ■ CHIUSI
Umbri
■ PASSIONALI ■ COMBATTIVI ■ INGORDI
Romagnoli
■ GRANDI BEVITORI ■ POCO PATRIOTTICI
Veneti
Molti stereotipi regionali, alla base dei nostri pregiudizi, hanno radici storiche. E hanno dato vita a campanilismi che resistono da secoli
I
genovesi sono taccagni, i torinesi “falsi e cortesi”, i fiorentini intelligenti e i siciliani permalosi. Sono solo alcuni degli stereotipi più diffusi tra quelli sulle differenze regionali. Ma come si sono affermate queste convinzioni e che fondamento hanno? Quasi sempre si tratta di stereotipi. Il termine fu coniato da un giornalista statunitense: Walter Lippmann. Era il 1922 e nel suo libro L’opinione pubblica chiamò così le conoscenze fisse e impermeabili a ogni critica che stanno alla base delle nostre rappresentazioni del mondo. In altre parole, i pregiudizi con cui ci facciamo un’idea della realtà. E gli stereotipi influenzano molte delle decisioni che prendiamo. Con le conseguenze del caso: aspettarsi che una persona sia furba perché è napoletana porterà a vedere la furbizia in tutti i comportamenti dei napoletani. Non riconoscendo i casi di onestà e lealtà di quel gruppo. Le origini. Gli stereotipi, così come le rivalità storiche tra paesi o regioni, non nascono dal nulla. Alla base ci sono elementi storici che li alimentano: Genova per esempio, a partire dal Medioevo, fu una città di commerci e banchieri. Non è difficile immaginare come abbia potuto diffondersi l’idea che i suoi abitanti fossero tirchi e scontrosi. Così come Firenze – patria di Dante e di grandi artisti – è automaticamente associata alla convinzione che i fiorentini siano tutti intelligenti e creativi. Le opere letterarie hanno fatto il resto: la Cavalleria Rusticana di Giovanni Verga (1880) confermò il luogo comune che i siciliani siano gelosi e permalosi, mentre il teatro della commedia dell’arte seicentesca contribuì a creare nell’immaginario una classificazione semplificata di alcune tipologie umane regionali: il dottor Balanzone – sapientone borioso e vanesio – viveva a Bologna, dove nacque la prima università. Il mercante Pantalone, avido e lussurioso, veniva dalla Venezia del ’500, popolata di commercianti, servette e cortigiani. Anche da figure come queste sono nati stereotipi e storiche rivalità giunte fino a noi. •
ITALIANI PER CASO
PRIMO PIANO
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FOTOTECA GILARDI (5)
Stampa con costume sardo: l’abito è influenzato dalla moda che si diffuse negli anni dell’occupazione spagnola.
■ FIERI ■ TESTARDI ■ ORGOGLIOSI
Sardi
■ RUMOROSI ■ “CAFONI”
Siciliani
■ CHIASSOSI ■ SUPERSTIZIOSI ■ SCALTRI
Napoletani
■ OMERTOSI ■ GELOSI
Palermitana in abiti tipici: il capo era coperto da un velo che lasciava intravvedere solo il volto.
Romani
Ragazza in costume tradizionale calabrese.
■ SOSPETTOSI ■ TESTARDI ■ GELOSI
Calabresi
■ OSTINATI ■ CHIUSI
Lucani
■ ORGOGLIOSI ■ IRONICI ■ OPPORTUNISTI
Pugliesi
L’TALIA È IL PAESE DEI MILLE CAMPANILI. IN LOTTA DA SECOLI
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Il castello di Rapallo, del XVI secolo. CORBIS/CONTRASTO
Crema-Cremona 2
S. Margherita-Rapallo
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Pisa-Livorno
on c’è vicinanza che tenga se due città non si sopportano. Lo dimostrano due rivali come Pisa e Livorno. Tra loro corrono una ventina di chilometri, ma mai distanza potrebbe essere più grande. “Primi effetti della nube radioattiva: è nato un pisano furbo. Stupore nel mondo, sgomento in Toscana”: così titolò nel 1986 Il Vernacoliere, mensile satirico livornese, dopo il disastro nucleare di Černobyl. Chi sale e chi scende. Le radici di questa antipatia risalgono all’agosto del 1284, quando la flotta pisana venne sconfitta da quella genovese tra gli scogli della Meloria, al largo di Livorno. Fu l’inizio della decadenza della repubblica marinara (sancita poi dall’interramento del porto). In capo a un secolo da piccolo scalo, Livorno diventò il principale approdo toscano.
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Modena-Bologna
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Pisa-Livorno
Santa Margherita-Rapallo
l 4 luglio 1549 il pirata turco Dragut attaccò la costa ligure. Mentre i Saraceni distruggevano Rapallo, gli echi della battaglia raggiunsero Santa Margherita e gli abitanti fecero in tempo ad armarsi, sfuggendo alla sorte dei vicini. Il podestà di Rapallo chiese allora al doge di Genova il permesso di costruire un castello fortificato sulla costa, per evitare altri simili episodi, ma suggerì che la costruzione fosse pagata dagli abitanti di Santa Margherita. “Dall’attacco turco non hanno subìto danni e poi si dice che sia stato uno dei loro, un certo Maranola, a guidare l’assalto nemico”, spiegò. Protesta. I sammargheritesi si riversarono in piazza, pronti a finire il lavoro iniziato da Dragut. L’avrebbero fatto se non fosse intervenuto il doge, che costrinse i contendenti a costruire a proprie spese i due castelli che si ergono uno sulla passeggiata di Rapallo e l’altro nel golfo del vicino comune.
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Sassari-Cagliari 4
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Sassari-Cagliari
a “lotta per il primato” cominciò nel tardo Medioevo: Sassari e Cagliari erano rispettivamente le capitali del Capo di sopra (su Cabe susu) e del Capo di sotto (su Cabe josso), le regioni amministrative create dai sovrani aragonesi durante la loro dominazione. Sassari fu costretta a rinunciare a ogni velleità quando nel 1582 un’epidemia di peste decimò la popolazione. E oggi i sassaresi ripetono che i cagliaritani non sono sardi, ma maurreddinus o maùrrus, cioè “mauritani” (“mori”), più vicini all’Africa che al Nord della Sardegna.
FOTOTECA GILARDI (3)
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Brescia-Bergamo
Modena-Bologna
er 99 anni – dice la tradizione – le due città si scontrarono con alterne vicende, fino alla cruenta notte del 15 novembre 1325, quando a Zappolino (Bo) i bolognesi furono sconfitti dai modenesi di Rinaldo d’Este e Passerino Bonacolsi. I vinti furono inseguiti fin dentro la città e i vincitori, dopo essersi fermati a bere al pozzo di Porta San Felice, si impadronirono del secchio di legno messo lì per tirar su l’acqua e lo portarono a Modena come trofeo. Una copia della cosiddetta (al femminile, come si usava allora) secchia – l’originale è custodito in municipio – si trova ancora nella Ghirlandina, la torre campanaria del duomo modenese. Ce n’è per tutti. L’episodio ispirò al poeta Alessandro Tassoni l’opera eroicomica La secchia rapita (1614) che, pur raccontando i fatti in modo romanzato, offrì ai modenesi lo spunto per provocare anche i cugini di Reggio Emilia, detti “teste quadre”: così gliele avrebbe fatte il dio Marte a forza di percuotere i soldati sconfitti rilasciandoli dal castello di Rubiera (dove effettivamente Modena e Illustrazione per La Reggio si scontrarono in secchia rapita (1929). armi nel 1202).
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Molte delle rivalità tra i comuni risalgono al Medioevo. E alle antiche divisioni tra guelfi e ghibellini 5
Da sinistra, una contadina toscana venditrice di uova, un costume pugliese e uno tradizionale del Gargano.
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Crema-Cremona
a divisione tra guelfi e ghibellini è la “madre di tutti i campanilismi”. Alleandosi con i ghibellini cremonesi nel 1158, Barbarossa mise zizzania tra Crema e Cremona. Il cronachista Acerbo Morena narra che l’imperatore durante l’assedio di Crema fece legare alcuni ostaggi sulle macchine da guerra, convinto che “i nemici non tireranno addosso ai loro padri e fratelli”. Nessuna pietà. Sbagliò: i cremaschi non si fermarono, ma la città cadde comunque, il 25 gennaio 1160. Per questo ancora oggi Crema vorrebbe far provincia a sé piuttosto che targare le auto con la sigla della nemica storica.
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ella civilissima Lombardia, non mettete insieme bresciani e bergamaschi: “Noter dè Bresà som ei piò bei, voter de Berghem sif dei porcei”. E i secondi, che non ci stanno a esser presi per porcelli, li apostrofano “Bresà, làrg de boca, strèc de ma”, cioè grossolani e pure tirchi. Così si ripagano reciprocamente dei poco affettuosi rapporti medioevali. Nel 1156, infatti, Brescia fece morti e prigionieri tra le truppe bergamasche per il possesso dei castelli di Volpino, Ceretello e Qualino. Contese. Qualche anno più tardi però toccò a loro alzare bandiera bianca, dopo l’attacco dell’imperatore Federico Barbarossa, in alcune occasioni alleato con Bergamo contro la ribelle Milano. Anche in seguito le due città nemiche non persero occasione per scontrarsi finché, nel 1192, il successore, Enrico VI, pose fine al braccio di ferro assegnando i possedimenti contesi.
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Lecce-Brindisi
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Catanzaro-Reggio Calabria
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Lecce-Brindisi
a secolare disputa tra Lecce e Brindisi (meno nota di quella fra Lecce e Bari) cominciò dopo l’epidemia di peste che nel 1656 colpì il Regno di Napoli. In migliaia morirono, ma in mezzo a quell’orrore la Terra d’Otranto (le attuali province di Lecce, Brindisi e Taranto) si salvò miracolosamente. Merito di sant’Oronzo, dissero i leccesi, che lo proclamarono patrono e La colonna gli eressero un monumento. romana rimasta Generosi? In un attimo di a Brindisi. esaltazione religiosa, il “nobile sindico” di Brindisi pensò di donare ai vicini una delle due colonne romane poste di fronte al porto perché la usassero come basamento per la statua. Non si preoccupò dei mugugni dei concittadini, ma i suoi successori sì: ci vollero due anni e un ordine del viceré perché la colonna giungesse a Lecce. E i brindisini la reclamano ancora oggi.
Catanzaro-Reggio Calabria
on si sono limitati alle parole i reggini, che tra il 1970 e il 1971 protestarono a suon di barricate contro la decisione di fare di Catanzaro, secondo loro un paesazzu, il capoluogo della neonata Regione Calabria. Fin dall’epoca medioevale Reggio era stata capoluogo a fasi alterne della cosiddetta Calabria Ulteriore, la parte più a sud del territorio. Nel 1816 quella zona fu divisa in due province, una con capoluogo Reggio, l’altra con capoluogo Catanzaro. Consolazione. La regione però era una e ci vollero sei morti, feriti e carri armati per fare andar giù l’esclusione di una delle più importanti città della Magna Grecia. Che diventò, come premio di consolazione, sede del Consiglio regionale. 53
SCALA
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PRIMO PIANO SCALA (2)
Palermo
Il gioiello di Monreale La Cattedrale di Monreale, presso Palermo. Costruita dal 1174 per volere di Guglielmo II d’Altavilla, è famosa per i ricchi mosaici bizantini.
DUE CAPITALI Per secoli si sono alternate come poli del potere in Meridione. Anche per questo Napoli e Palermo sono “eterne rivali” della Storia, fra spinte centraliste e indipendentismo 54
S
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imm’ tutte purtualle”, cioè “siamo tutti arance di Palermo”. Tra i gentiluomini napoletani dell’Ottocento era un modo per sfottere l’atteggiamento del parvenu, che si dava un tono vantando conoscenze altolocate. A simili lazzi la città siciliana e l’intera isola replicavano con invetti-
Napoli
Sede regale
PER UN REGNO ve salaci come quella che magnificava l’imponenza del Mungibeddu (l’Etna), deridendo in parallelo le pretese del “monticello” (il Vesuvio), “che stu gran munti vulissi assuggittatu” (“che voleva sottomettere questo gran monte”). Dietro alla metafora della gara tra vulcani c’è la sintesi di un antagonismo politico che ha at-
traversato i secoli: quello tra Meridione continentale e insulare, e nello specifico tra Napoli e Palermo. Fascino esotico. Due capitali per un dominio conteso e ricco di storia e tradizioni: il Regno di Sicilia, nato nel 1130 per volere del normanno Ruggero d’Altavilla (1130). Da allora e fino 55
MONDADORI PORTFOLIO
A destra, l’ingresso del Maschio Angioino (XIII secolo), a Napoli. A sinistra, Clemente I incorona Carlo I d’Angiò in una miniatura del XV secolo.
© PAOLO GIOCOSO/SIME
Le suggestive strade di Palermo raccontano secoli di dominazioni: bizantine, arabe, normanne, sveve, angioine e aragonesi
Sicilia araba e normanna San Giovanni degli eremiti a Palermo. Costruita nel VI secolo, durante la dominazione araba fu trasformata in moschea, poi ridivenne una chiesa cristiana.
quelle del Sacro romano impero germanico. In compenso quando, a 26 anni, Federico fu incoronato imperatore, modellò la sua corte tedesca a imitazione di quella palermitana. Ma la prima capitale del Sud, ormai periferia dell’impero, cominciò a perdere importanza. Nel 1231, con le “costituzioni” (una serie di leggi scritte) concesse a Melfi, che regolavano l’apparato burocratico-amministrativo dell’Italia Meridionale, Palermo fu declassata a provincia, mentre Foggia divenne una delle capitali del regno per la posizione strategica. Altra diminuzione, stavolta alla sua centralità culturale, arrivò a Palermo dalla fondazione a Napoli di una grande università del regno, la seconda in Italia dopo Bologna ma la prima a carattere pubblico. Palermo rimase nel cuore di Federico II, che volle essere sepolto nella cattedrale della sua prima capitale, ma Napoli aveva ormai lanciato la sua sfida. Verso nord. Dopo la morte dello Stupor Mundi (Federico) il papato, che continuava a considerare la Sicilia un suo possedimento feudale, si affidò a una diversa casata per difendere i propri interessi meridionali: i D’Angiò francesi. Papa Clemente IV incoronò re di Sicilia Carlo I d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX, e il nuovo re arrivò a Palermo dopo aver sconfitto lo svevo Manfredi a Benevento (1266). Corradino, l’ultimo pretendente degli svevonormanni, finì decapitato in piazza Mercato, a Napoli: era questa infatti la città che gli Angioini avevano scelto come capitale. Un cambio di sede che formalizzò
Antichi bizantinismi Incoronazione di re Ruggero II in un mosaico del XII secolo, conservato nella chiesa della Martorana a Palermo. Sotto, una formella siciliana in avorio di arte islamica del XIII secolo.
Il gran duello Sotto, duello tra un cavaliere francese e Manfredi, per la conquista del regno di Sicilia. L’affresco si trova a Pernes-lesFontaines (Francia).
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all’età moderna, le città vissero una rivalità continua: e alla crescente potenza di Napoli, Palermo contrappose sempre i suoi diritti di primogenitura di sede regale. Un primato istituzionale che non deve stupire: la Sicilia del XII secolo era infatti terra di mare e commerci, con un’agricoltura fiorente e molte basi nel Mediterraneo. Il viaggiatore e poeta arabo-andaluso Ibn Gubayr (1145-1217) descrisse Palermo come “città antica, elegante e splendida, dall’aspetto aggraziante”. Che ne parlasse un arabo non deve stupire: dall’827 la città era stata sede di un emirato musulmano con una moschea che ospitava fino a 7mila persone. Tra le coltivazioni importate in Sicilia in quel periodo, la canna da zucchero, ancestrale progenitrice di una lunga tradizione culinaria di cassate, gelati e sorbetti. Fu il conte Ruggero II, detto il Normanno, a scendere dalla Francia e scalzare gli Arabi, su richiesta del papato. Scelse Palermo come capitale cosmopolita di quel primo Regno di Sicilia, mentre Napoli rimase sede di arcidiocesi e principale porto commerciale. Il tutto nell’orbita del papato, che considerava la Sicilia un proprio feudo da concedere a un re-vassallo, naturalmente cattolico: così, da normanna divenne sveva, poi svevo-normanna. Fu Federico II, figlio di Costanza di Altavilla e nipote dell’imperatore Federico Barbarossa, a ingrandire il Regno di Sicilia rivendicandone l’autonomia dalla Chiesa. Federico II parlava l’arabo, il greco, il provenzale, il latino e favorì i poeti in lingua volgare siciliana. Con lui il palazzo reale di Palermo divenne un centro di vita mondana ed arte, e la città un crocevia di culture: la New York o la Parigi del tempo, meta di cantastorie, poeti, intellettuali e scrittori. Dimenticare Palermo. Quando ereditò l’impero, Federico, si impegnò con il papa di turno, Innocenzo III, a mantenere l’autonomia del Regno di Sicilia, affidandolo al figlio Enrico. Mentì: le vicende siciliane e di Palermo rimasero legate a
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CRONOLOG I A
Storia di un regno conteso
Caccia col falcone
SCALA (3)
Il re di Sicilia, Corradino di Svevia, ultimo degli svevonormanni, a caccia con il falcone, in una miniatura del Codice Manessiano, del XIV secolo.
1130 Ruggero II d’Altavilla, detto il normanno, istituisce il Regno di Sicilia.
1194 Inizia il periodo svevo con Palermo capitale. Federico II diventa re nel 1197.
l’aperta rivalità fra le due capitali del Sud. Non passarono vent’anni che a Palermo scoppiarono i “Vespri siciliani”. Sei secoli dopo, il Risorgimento avrebbe descritto quella rivolta contro gli Angioini come primo episodio di ribellione dell’isola al dominio straniero. In realtà era un conflitto tutto interno al Sud: a soffiare sul fuoco era infatti la nobiltà siciliana, penalizzata dal cambio di regime, dalla crisi economica e dall’estraneità di Palermo alla corte angioina di Napoli. Risultato: con la pace di Caltabellotta (1302) il regno si spezzò in due. A fare da spartiacque, il faro di Messina, con i possedimenti ultra Pharum (la Sicilia) a guida aragonese e quindi spagnola, quelli citra Pharum sotto gli Angioini. Governata da questi ultimi, Napoli surclassò definitivamente Palermo. La popolazione esplose e la città divenne una metropoli europea. Ai primi del ’300 contava 35mila abitanti, che crebbero fino a 50mila nei due secoli successivi. Boccaccio, Giotto, Petrarca ne fecero la loro destinazione. La città rimase l’indiscussa capitale anche con la nuova dinastia, gli Aragonesi: era il 1442 e i semi del Rinascimento germogliavano nel Mezzogiorno. Alfonso, detto il Magnanimo, fece di Napoli la “Firenze del Sud”. Autonomismi. Però la suddivisione dei due domini (con le rispettive capitali) continuava. E tale sarebbe rimasta, se si esclude una parentesi con Alfonso d’Aragona, fino all’avvento dei Borbone. Nel 1816, sulla scia della Restaurazione sancita dal Congresso di Vienna, un sovrano di questa dinastia unificò i possedimenti: per i sudditi napoletani era Ferdinando IV, per quelli siciliani Ferdinando III, per tutti diventò Ferdinando I, monarca del nuovo regno “delle Due Sicilie”. Nell’isola, e in particolare a Palermo, l’azione borbonica, che da tempo sponsorizzava il “polo nord” parteno-
Il grande Federico Busto di Federico II di Svevia, oggi al Museo nazionale di Napoli. Il suo regno si caratterizzò per una forte attività legislativa e per l’innovazione artistica e culturale.
1266 Battaglia di Benevento: finisce il controllo svevo. Inizia quello angioino.
1268 Carlo I d’Angiò sconfigge Corradino e sposta la capitale da Palermo a Napoli.
peo a scapito dei palermitani, fu vissuta come un tradimento. Si umiliavano secoli di autonomia e si riduceva la Sicilia a provincia napoletana. La satira se la prese con i “numerali” di Ferdinando: “fosti quarto e insieme terzo / Ferdinando, or sei primiero / e se seguita lo scherzo / finirai per esser zero”, ammoniva una popolare strofetta. Ma sotto il sarcasmo covava la rivolta. In esilio a Palermo durante gli anni del dominio napoleonico, i Borbone si comportarono da ospiti, senza celare il rimpianto per la vera “patria” napoletana. Ma avevano concesso nel 1812 una Costituzione in cui tra l’altro si garantiva che in caso di riconquista di Napoli, la Sicilia sarebbe divenuta un regno indipendente affidato al primogenito del sovrano. Quattro anni dopo quelle promesse divennero carta straccia: da allora il separatismo siciliano fu “il” problema della corte borbonica, nonché il propellente di moti e insurrezioni represse nel sangue, come nel 1821 e nel 1848, quando proprio a Palermo s’inaugurò la stagione rivoluzionaria che avrebbe fatto tremare i troni di mezza Europa (v. riquadro a destra). Nell’antica capitale normanna il Parlamento dell’isola proclamò solennemente la dinastia borbonica decaduta sull’isola; il re di allora, Ferdinando II, convinto che “la prima cosa a cui bisogna abituare la Sicilia è di obbedire”, rispose con le armi, guadagnandosi l’appellativo di “Re Bomba” per i cannoneggiamenti ordinati contro gli insorti di Messina. Legami inconfessabili. Dopo quella terribile guerra civile la rottura fu definitiva. Quando nel 1852 Ferdinando II vietò ai siciliani la barba e i baffi, considerati un “gadget” rivoluzionario, per i vicoli di Palermo iniziò a circolare una filastrocca che canzonava la polizia borbonica rivolgendole un irridente quesito sulla natura del pelo pubico: “su varva o su mustazzu? (“sono barba oppure baffi”?). Anche l’adesione alla causa dell’Unità d’Italia (non a caso Garibaldi sbarcò in Sicilia) va interpretata almeno in parte come desiderio di rivalsa degli isolani. A dispetto dell’antica rivalità, però, a Palermo, oltre ai dolci di memoria araba sono rimaste inconfessabili eredità napoletane, come il presepe e i timbri neomelodici che gli chansonnier palermitani cantano direttamente in napoletano. Senza però perdere quel senso di malizioso disincanto e di orgoglio per una grandezza perduta dopo tanti secoli di convivenza più o meno forzata. • Achille Prudenzi
1282 Vespri siciliani: gli Aragonesi arrivano in Sicilia; a Napoli ci sono gli Angiò.
1302 Il regno è diviso in due. La corona sarà riunita nel 1442, sotto gli Aragonesi.
1734 Il Regno di Sicilia, come prima il Regno di Napoli, è invaso dai Borbone.
1798 Conquista napoleonica del Regno di Napoli: Ferdinando III si rifugia a Palermo.
Il primo ad attribuirsi il titolo di re delle due Sicilie fu nel 1442 Alfonso V d’Aragona, che unì per un breve periodo sotto il suo controllo i regni di Napoli e Trinacria (la Sicilia)
1816 Il regno è riunificato e Ferdinando di Borbone diventa re delle due Sicilie.
Palazzo reale Il castello normanno-svevo a Rocca Imperiale (Cosenza), in Calabria. Nel XIII secolo fu residenza di Federico II. La costruzione originaria è attribuita ai Bizantini, che dovevano difendersi dalle scorrerie saracene.
Le antiche ruggini riesplodono, in salsa risorgimentale
L
a rivalità tra Napoli e Palermo divenne più accesa sotto il regno dei Borbone. Palermo allora riviveva gli antichi fasti svevo-normanni e per due volte Ferdinando IV fu costretto a trasferirsi qui per difendere il suo regno. La prima fu durante i sei mesi di vita della Repubblica partenopea (1799). Poi nel cosiddetto decennio
francese con l’arrivo a Napoli dei re imposti da Napoleone: il fratello Giuseppe e il cognato Gioacchino Murat. Fu in questi anni che alla Sicilia fu concessa la Costituzione e si insediò il parlamento. L’entusiasmo riformatore però durò poco: con l’ondata restauratrice Ferdinando IV tornò a Napoli e diede vita al Regno delle Due
Sicilie, riducendo l’autonomia di Palermo e innescando una frattura tra il potere e i baroni. Risentimenti. Contro Napoli, identificata con la dinastia dei Borbone, esplosero le rivolte del 1821 e del 1848. Si trattava di un odio anti-napoletano che diede vita a episodi di violenza contro i soldati dell’esercito inviati a combattere sull’isola. In
queste occasioni decine di cadaveri dei militari furono scempiati e deturpati. Lo raccontò anche il generale Carlo Filangieri che nel 1849 riconquistò la Sicilia al comando delle truppe napoletane, evitando la secessione. Era sbarcato sull’isola l’anno prima con 14mila uomini, numerose artiglierie e flotta imponente. 59
PRIMO PIANO
Venezia
Serenissima addio Ritratto dell’imperatore Francesco I d’Austria, che nel 1797 acquisì Venezia con il Trattato di Campoformido, cedendo in cambio a Napoleone i Paesi Bassi. Da allora la Serenissima non fu mai più autonoma. Nell’altra pagina, piazza San Marco in un dipinto del XIX secolo. 60
Dal 1797 all’annessione all’Italia, a Venezia dominarono, con parentesi francesi, gli austriaci. Lasciarono “spritz” e “schei”, ma la privarono della libertà
IN LAGUNA CON GLI
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l mattino colazione con cappuccino e kipferl, oppure un krapfen. Prima di pranzo uno spritz per aperitivo, da pagare con i schei. Gli austriaci hanno governato Venezia per settantotto anni e la loro eredità è ancora viva ai nostri giorni. Sono stati loro a mettere ringhiere di ferro lungo rive e ponti, che una volta ne erano privi. E sono stati loro a introdurre
una moneta che si chiamava Scheidemünze: se anziché leggere la prima sillaba in tedesco, cioè sciai, la si legge in italiano, ovvero schei, ecco la parola che ancora oggi in Veneto si usa per dire “soldi”. Anche se nelle commedie di Carlo Goldoni si ritrova il più antico termine “bezzi”. Ancora: spritz viene dal tedesco spritzen, “spruzzare”, e tuttora a Vienna servono il “vino spruzzato”, mentre a Venezia
SCALA (2)
ASBURGO
qualcuno ha avuto l’idea di aggiungerci un po’ di aperitivo rosso (Campari, Aperol, Cynar). Ottenendo lo spritz, appunto. Il kipferl a Venezia (dove tutti lo chiamano kiffel) è una specie di croissant fatto con la sfoglia e le mandorle, mentre i primi a mettere a punto il kapuziner sono stati i viennesi, con la panna montata: quando la bevanda ha valicato le Alpi, la panna è stata sostituita dal latte e nacque 61
ARCHIVES DE FRANCE /REALY EASY STAR
Il 12 maggio 1797 una rapida seduta del Maggior Consiglio decretò la fine, dopo un millennio di alterne vicende, della Repubblica di Venezia
Autografo
SCALA (3)
Il Trattato di Campoformido, tra Francia e Austria, firmato nell’ottobre del 1797: sulla destra, la firma di Bonaparte.
il cappuccino. Infine il krapfen, dal Lombardo-Veneto ha conquistato vasti territori italiani (diventando bombolone a Roma) Serenissima fine. Queste eredità non ci sarebbero state, forse, senza quella frettolosa seduta del 12 maggio 1797. Quel giorno il Maggior Consiglio (il parlamento aristocratico veneziano) dichiarò decaduta la Serenissima Repubblica di Venezia. Alla riunione, per inciso, mancava il numero legale: per cui qualcuno, ai giorni nostri, ha pensato bene di presentare un ricorso al Consiglio d’Europa, sostenendo che la Serenissima non ha mai cessato di esistere. Rivendicazioni postume a parte, resta il fatto che dopo quella data si verificò un alternarsi di dominazioni francesi e au-
striache (con prevalenza delle seconde). Quella francese, la prima, durò appena otto mesi. Poi Napoleone cedette Venezia all’Austria con il Trattato di Campoformido e in laguna arrivarono gli austriaci. Ci rimasero dal 18 gennaio 1798 all’inizio del 1806 (dopo la vittoria napoleonica ad Austerlitz). Seguirono la seconda parentesi francese, fino al 1814, e l’ultimo mezzo secolo austriaco. Fino al 1866, anno in cui Venezia fu annessa al neonato Regno d’Italia. Ma che cosa lasciarono a Venezia quei decenni a lungo rimossi? «I francesi non furono accolti bene dai veneziani», spiega Alvise Zorzi, autore di Venezia austriaca (Editrice Goriziana) e Napoleone a Venezia (Mondadori), «tranne che da parte dell’esigua categoria de-
Morti eccellenti Vignetta filofrancese del 1799: il funerale della democrazia, dopo il primo addio francese a Venezia.
Manin e l’assedio di Venezia
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gli “inclini alle idee di Francia”. In generale, erano considerati prepotenti e spacconi. Mantennero questa nomea per tutto il periodo napoleonico, anche se non mancarono esigui combattenti veneti negli eserciti imperiali. Erano invece visti di buon occhio dagli ebrei, perché aprirono definitivamente le porte del ghetto e abolirono le norme discriminatorie».
Ritorno trionfale Napoleone entra a Venezia (dopo la vittoria sugli austriaci ad Austerlitz) passando sotto un arco di trionfo galleggiante, nel dicembre del 1806.
Austria vs Francia. Quanto agli austriaci, Michele Gottardi, già docente all’Università di Venezia e studioso dei sistemi amministrativi di quell’epoca, afferma che «la prima cosa che fecero fu riportare la legislazione veneziana al gennaio 1796. Ovvero a prima dell’epoca napoleonica». Risultato? Veneto e Friuli avevano una legislazione, Trieste (che era già da prima territorio austriaco) un’altra. «Se ne accorsero gli ebrei triestini, che vennero a Venezia pensando di aprire un’attività e invece se lo videro impedire», prosegue Gottardi. «A partire dal 1802 si cercò di creare un maggior senso dello Stato, si istituì il catasto, si formò una classe dirigente di non veneziani e non aristocratici: la città ebbe prima un governatore ungherese e poi un tirolese. Quando tornarono, i francesi riaprirono definitivamente il ghetto e istituirono la Camera di Commercio: il primo presidente fu Jacob Treves de’ Bonfili, ebreo, uomo di Napoleone, mecenate dello scultore Antonio Canova. In questo periodo si cominciò a pavimentare la città, a interrare i Daniele Manin il 22 canali, a costruire l’Amarzo 1848 proclama la la napoleonica in piazRepubblica di Venezia. za San Marco, al posto della chiesa di San Geminiano. Il porto di Venezia soffriva invece per il blocco navale inglese e per la concorrenza degli scali adriatici di Senigallia e Trieste». «I francesi erano odiati», aggiunge Zorzi, «per le massicce soppressioni di chiese, ordini religiosi e con-
enezia insorse contro gli austriaci il 22 marzo 1848. A capo della rivolta c’era Daniele Manin, ebreo convertito che portava il cognome dell’ultimo doge, Lodovico, non in quanto suo parente, ma perché fu tenuto a battesimo da un patrizio della famiglia Manin. Suo vice era Niccolò Tommaseo, dalmata di Sebenico. Nella Venezia in rivolta accorsero patrioti dai luoghi più disparati: i napoletani Alessandro e Carlo Poerio, l’ungherese Lajos Winkler. Mentre dall’altra parte i veneziani arruolarono un contingente di cento mercenari svizzero-tedeschi, al comando del colonnello Johann Debrunner. Quando giunsero in città, i veneziani li scambiarono per austriaci poiché parlavano tedesco. A ferro e fuoco. L’assedio fu durissimo. Le artiglierie asburgiche, schierate lungo la linea di difesa lagunare, provocarono parecchi incendi nella zona di Cannaregio, ovvero quella rivolta verso la terraferma. Si registrò anche il primo tentativo di bombardamento aereo della Storia, con aerostati austriaci che cercarono di sganciare bombe sorvolando la città: fallirono per via dei venti contrari. Dopo un anno e mezzo Venezia si arrese e il poeta Arnaldo Fusinato scrisse questi celebri versi: “Il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca”.
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Lissa, battaglia fratricida?
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fraternite, e per la pesante fiscalità dalla quale dipese in parte l’ondata di ribellioni del Veneto rurale nel 1809. Per questo il ritorno dell’Austria fu visto positivamente, come l’instaurarsi di un sistema ordinato». «Nel 1829 gli austriaci istituirono il porto franco», riprende Gottardi. «La città si rivitalizzò e si affermarono le categorie professionali, grazie anche alla ferrovia Ferdinandea, la Venezia-Milano, la cui costruzione fu la “palestra” di una generazione di avvocati. L’idea della ferrovia nacque negli anni Quaranta: per realizzarla si dovettero disporre espropri, stilare atti, trovare accordi con gli avvocati di Milano». Il dibattito “ferroviario” formò molti progressisti del tempo e si trasformò in uno scontro tra liberali e conservatori. «Non a caso i capi dell’insurrezione veneziana del 1848 (v. riquadro nella pagina precedente) erano avvocati, da Daniele Manin a Niccolò Tommaseo». I rapporti tra austriaci e veneziani fino al 1848 rimasero dunque abbastanza buoni. Spiega Zorzi: «Molti patrizi di fortune modeste trovarono impiego nell’amministrazione imperial-regia. Alcuni patrizi ricchi assunsero cariche di corte e molte signore del patriziato ottennero il prestigioso ordine femminile della Croce stellata». Era un modo per recuperare il prestigio perduto dai nobili veneziani nonostante l’omologazione del patriziato della Serenissima alla nobiltà dell’impero. Scostumati. Non erano però tutte rose e fiori. La poetessa francese George Sand, a Venezia nel 1834, riferisce di un curioso episodio. Un giorno deve intervenire per impedire che il suo anziano gondoliere, un certo L’ammiraglia Ferdinand Catullo, finisca in galera. Max alla Battaglia di Lo sente urlare: “Porco di Lissa, il 20 luglio 1866. un tedesco” a un ufficiale austriaco che sta orinando sulla gondola. Quello, per tutta risposta, lo apostrofa: “Sappi che io sono un ufficiale al servizio di Sua Maestà apostolica e che ho perfettamente il diritto di pisciare sulla tua gondola, se così decido”. Il gondoliere replica che c’è una donna in gondola e l’ufficiale, per nulla RES /REALY EASY STAR
uando a scuola si studia la battaglia navale di Lissa (20 luglio 1866), ci spiegano che gli austriaci sconfissero gli italiani. Oppure che fu una battaglia fra italiani, con i veneto-istriani che combattevano contro napoletani e genovesi. In realtà le cose non stanno esattamente così: i marinai di coperta della flotta asburgica provenivano quasi tutti da Veneto e Friuli, Istria e Dalmazia (al tempo ancora austriaci), i macchinisti erano in buona parte boemi, gli altri marinai boemi e ungheresi. Gli ufficiali, infine, quasi tutti austro-tedeschi. Non autentici. Vero è invece che i due marinai austriaci, decorati con medaglia d’oro al valor militare, tanto austriaci non erano: Tommaso Penzo, detto “Ociai”, di Chioggia, al timone dell’ammiraglia Erzherzog Ferdinand Max, e Vincenzo Vianello, detto “Graton”, di Pellestrina, al timone della nave Kaiser. Quanto all’ammiraglio Wilhelm von Tegetthoff, un montanaro di Marburg (oggi Maribor, in Slovenia), parlava normalmente in veneziano con i suoi uomini perché era diventato ufficiale nell’Accademia di Marina di Sant’Anna, a Venezia.
La banda militare austriaca suonava ogni sera in
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ubriaco o alterato, apre il felze (la struttura mobile che si trovava sulle gondole per riparare i passeggeri) e apprezza la “gentilezza e prudenza” della scrittrice che fino a tal momento era rimasta in silenzio. La scrittrice intervenne solo quando l’uomo minacciò di portare in prigione il gondoliere il giorno successivo e gli disse di ritenersi fortunato del fatto che non lo aveva trapassato con la sciabola: “Il povero Catullo sarebbe davvero finito in prigione se non avessi interceduto per lui dicendo che era alticcio e affermando che consideravo un onore che l’austriaco si fosse degnato di orinare sulla mia gondola”. Tale era il potere degli austriaci. Che cosa era cambiato rispetto ai primi anni dell’Austria in laguna? Semplice: con la fine della Serenissima i patrizi ve-
Imperatori sgraditi L’imperatore Francesco Giuseppe e la moglie (l’imperatrice Sissi) arrivano in piazza San Marco nel 1856, acclamati solo dagli austriaci. A destra, una Scheidemünze (uguale a quella usata anni prima a Venezia) da cui deriva il veneto schei (“soldi”).
piazza San Marco. Che i veneziani lasciavano vuota Declino. La situazione peggiorò dopo l’insurrezione del 1848 e precipitò dopo il 1859 con la proclamazione del Regno d’Italia. L’Austria si rese conto che avrebbe perso il Veneto e intensificò la repressione, rafforzando l’apparato poliziesco. Il console americano William Dean Howells, a Venezia dal 1861 al 1865, nel suo libro di memorie scrisse che tutte le sere, quando la banda militare austriaca iniziava a suonare, i veneziani abbandonavano piazza San Marco per protesta. Non è quindi difficile capire perché, nell’ottobre 1866, quando le truppe austriache lasciarono definitivamente la laguna, in molti tirarono un sospiro di sollievo. Anche se le tracce di quella lunga parentesi non si potevano più cancellare. • Alessandro Marzo Magno
L’avvocato che fece un ’48 Niccolò Tommaseo, patriota e scrittore protagonista insieme a Daniele Manin dei tumulti del 1848 a Venezia. SCALA (2)
neziani avevano perso il loro ruolo di sovrani del loro Stato. E non lo riacquisiranno mai più, neanche con il Regno d’Italia. Un solo ex patrizio veneto diventerà un importante uomo politico dopo l’Unità d’Italia: Filippo Grimani, sindaco di Venezia e senatore del Regno per due anni. La vera eredità della dominazione austriaca (e francese) fu quella: l’azzeramento di una potenza plurisecolare.
PRIMO PIANO
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uest’estate l’avete forse scelta come meta delle vostre vacanze. E studiando una mappa turistica avete magari notato che la Puglia somiglia a una freccia proiettata verso la Grecia e il Vicino Oriente. Non a caso, al tempo dei Romani, qui terminava la Via Appia che conduceva dall’Urbe al porto di Brindisi. E non a caso, nel Medioevo, divenne la testa di ponte per i crociati che si recavano in Terrasanta. Pur essendo parte di una vicenda comune al resto del Sud, la Puglia, con Napoli e la Sicilia, è stata il “terzo polo” del Meridione, con vicende tutte sue. Persino la specialità gastronomica simbolo della regione, le orecchiette, è lo specchio del suo multiculturalismo: un mix di tradizione angioina ed ebraica, con ricette diverse a Nord e a Sud della regione. Proprio per questa varietà si parla di “Puglie”. Piccola Italia. «Per alcuni aspetti la Puglia riassume, anche fisicamente, la tripartizione geografica dell’Italia, con un Nord in cui sorgono i laghi più grandi e le vette più alte, un’area centrale segnata da un altopiano carsico, le Murge, e un Sud, il Salento, caratterizzato da clima secco», spiega lo storico pugliese Vincenzo La Salandra, esperto di storia del Meridione. «Alle diversità geografiche si sommano quelle culturali
Puglia
LA PORTA DELL’ORIENTE Il “colosso di Barletta” Questa statua, alta 4,50 metri, rappresenta forse l’imperatore Teodosio II. Leggenda vuole che sia stata abbandonata su una spiaggia dai veneziani che l’avevano trafugata durante il sacco di Costantinopoli (1204). 66
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Un’unica regione e diverse tradizioni e culture: per questo motivo si parla di “Puglie”, al plurale. Il suo territorio è stato infatti dominato da diverse civiltà, dai Bizantini ai Longobardi, dagli Svevi agli Angiò fino agli Aragonesi. Che ne fecero il “terzo polo” del Sud, proiettato verso est
In un’area della provincia di Lecce ancora oggi è usata (da pochi) una lingua e linguistiche: il dialetto parlato nel Nord è per esempio imparentato con il napoletano, quello del Sud con il siciliano». La peculiarità pugliese ha origini remote: nell’antichità romana e nella Magna Grecia, ma soprattutto nel Medioevo. Dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente (476) si alternarono in Puglia Bizantini e Longobardi. I primi al Sud, i secondi al Nord della regione. Se non fosse stato per i Longobardi, devoti a san Michele Arcangelo, non esisterebbe il santuario dell’omonima località in provincia di Foggia, una delle mete di pellegrinaggio più frequentate nei secoli. «Quanto ai Bizantini, nell’871 presero Bari dopo che per oltre vent’anni era stata occupata dai Saraceni, le cui scorrerie segnarono an-
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Antichi testimoni Sopra, elmetto corinzio di bronzo del 600 a.C. Sul reperto si vede un’antica riparazione di un foro. A destra, un contenitore di liquidi del IV secolo a.C., detto rhyton: veniva usato dai Greci soprattutto durante le cerimonie in onore degli dèi.
che Taranto», prosegue La Salandra. In epoca bizantina approdarono sulle coste pugliesi le reliquie di san Nicola, dando vita a un altro centro di culto cristiano. I Bizantini hanno lasciato in eredità maestose abbazie, basiliche e chiese, prima di essere scalzati nel 1071 dal condottiero Roberto il Guiscardo, con cui iniziò la dominazione normanna. «I nuovi governanti fortificarono la regione e bonificarono l’area di Foggia, un tempo paludosa». Voci di Bisanzio. Con i Bizantini si aggiunse un altro importante tassello al multiculturalismo pugliese. Ne resta traccia nella lingua. Nella provincia di Lecce c’è infatti un’area, la cosiddetta Grecìa salentina, in cui è tuttora diffusa una lingua parente stretta del greco. La plurisecolare presenza bizantina, che si protrasse fino a dopo il Mille, favorì la nascita di comunità greche che si rafforzarono. La loro lingua, contaminata con termini neolatini e locali, dette vita a una lingua a sé, detta griko. Simile a quella parlata in un’altra isola linguistica greca del Sud: la bovesìa, nella provincia di Reggio Calabria. I comuni pugliesi della Grecìa salentina sono storicamente nove: Calimera, Castrignano de’ Greci, Corigliano d’Otranto, Martano, Martignano, Melpignano, Soleto, Sternatia, Zollino (ma all’“Unione dei comuni della Grecìa salentina” partecipano anche altri centri). Solo in alcuni di questi paesi si usa ancora il griko, che rischia di
Dai megaliti Scrivere titoliai Romani no per il box
Resti romani Le rovine dell’anfiteatro romano nel sito archeologico di Egnazia (presso Fasano). L’anfiteatro era forse usato non per gli spettacoli ma come piazza per il mercato.
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parente stretta del greco (il griko): un’eredità bizantina za elementi classici con altri nordici, orientali ed esoterici, riflettendo la poliedrica personalità del sovrano e, ancora una volta, l’apertura culturale pugliese». Disfida simbolica. Il “puer Apuliae” morì nella sua patria adottiva, a Fiorentino di Puglia, nel 1250. Sedici anni più tardi il figlio Manfredi, fondatore di Manfredonia, fu sconfitto dal francese Carlo I d’Angiò. La regione passò allora agli Angioini, prima di cadere nel XV secolo sotto la Corona d’Aragona. «Gli Aragonesi si fecero detestare. Tassarono tutti i pastori che con la transumanza (altro lascito plurisecolare) portavano le greggi nel Ta-
Cristo bizantino Nella cripta di Santa Cristina a Carpignano Salentino (Lecce), l’affresco di Cristo, dipinto dall’artista Teofilatto nel X secolo: rappresenta uno degli esempi più importanti dell’arte bizantina nel Sud Italia. SIME PHOTO
scomparire: è parlato da poco più di 10mila persone, tanto che l’Unesco l’ha classificato tra le lingue in pericolo di estinzione. Se i Bizantini lasciarono lingua e chiese, i loro successori, gli Svevi di Federico II, seminarono castelli. Federico (detto “puer Apuliae”, “figlio della Puglia”) partecipò alla sesta crociata (1228-1229) partendo con i suoi cavalieri da Brindisi. Cioè dal porto per l’Oriente per eccellenza. «Tra i castelli di Federico il più famoso è Castel del Monte, presso Andria, patrimonio Unesco raffigurato sul nostro centesimo di euro. Questo imponente edificio, a forma di ottagono e avvolto da leggende e misteri, sintetiz-
Pugliasequip fu abitata Numa etuer endre già nel dolutat, corcuore senimdella dunt preistoria, tanto doloreet wisim quische et ad Altamura (Bari) dodunt esto od exerosto sono conservati lobortindf ddsada idoloreet resti di unetuomo wisim quis dunt di esto Neanderthal databili od exerosto dolobortindf a oltre 100mila ddsadaolutat, coranni senim fa, mentre risalgono dunt doloreet wisim quis et al periodo IV e dodunt esto odtra exerosto I millennio a.C. ledoloreet lobortindf ddsada strutture wisim quis megalitiche et dunt esto delexerosto territorio, tra cui od dolobortindf spicca vicino a Bisceddsada glie il dolmen della Chianca. Colonizzatori. Quanto ai primi grandi colonizzatori della regione, nel corso del II millennio iniziarono a imporsi gli Japigi (da cui l’antico nome della Puglia: Japigia), provenienti dall’Illiria. «Si unirono a genti italiche, formando tre gruppi: i Dauni al Nord, i Peucezi al centro e i Messapi nell’attuale Salento», spiega lo storico Vincenzo La Salandra. «Dal 706 a.C. fu il turno dei Greci. Gli Spartani fondarono Taras (Taranto), uno dei maggiori centri della Magna Grecia». Tra IV e III secolo a.C. il territorio pugliese finì sotto il dominio dei Romani. Furono loro a fare di Brindisi la base di partenza per i Balcani e la Grecia, e dopo aver costruito l’Appia (cruciale per il trasporto di grano, olio e vino nell’Urbe) tracciarono dall’altra parte dell’Adriatico la sua prosecuzione, la Via Egnatia. I Romani favorirono inoltre la crescita di Bari, Taranto e Lecce. «Più tardi, in età augustea (I secolo d.C.), la regione venne denominata Apulia et Calabria, con il secondo termine usato non nell’accezione odierna, ma per indicare l’area salentina».
I trulli (dal greco trulos, “cupola”) vennero edificati nel XVI secolo ed essendo costruiti a secco potevano essere smontati in poco tempo Longobardo
SIME PHOTO (2)
Il santuario di San Michele Arcangelo, a Monte Sant’Angelo, nel Gargano.
Fortezza sveva Castel del Monte, in provincia di Andria. Il castello fu fatto costruire da Federico II nel 1240.
voliere delle Puglie, la vasta pianura della Capitanata, l’area nel Nord della regione e che include anche il promontorio del Gargano», dice La Salandra. Epoca detestabile, quella aragonese, ma feconda: i commerci con l’Oriente esplosero e nelle città costiere spuntarono come funghi comunità di mercanti provenienti da Venezia, l’altra storica “porta d’Oriente” sull’Adriatico. A riportare tensione nella regione fu l’ennesima ondata di incursioni musulmane, guidate dai turchi ottomani e culminata nel saccheggio di Otranto (1480). Dal 1494 si registrò inoltre la pressione francese, prima con Carlo VIII e poi con Luigi XII, che concordò la spartizione del Regno di Napoli (a cui apparteneva allora la Puglia) con lo spagnolo Ferdinando II d’Aragona. I due entrarono presto in rotta e nel 1503 i francesi fecero marcia indietro. Anche questo viavai di corone ha lasciato un’eredità storicoturistica: il 13 febbraio di quell’anno si tenne la “disfida di Barletta”: tredici cavalieri italiani affrontarono – per conto degli spagnoli – altrettanti francesi guidati da Monsieur de La Motte, che aveva lanciato, sprezzante, il guanto della sfida al condottiero Ettore Fieramosca. «Ad avere la meglio furono gli italiani, la cui vittoria, festeggiata con entusiasmo dalla popolazione, per un momento affrancata dalle secolari ingerenze straniere, entrerà poi nel mito risorgimentale», commenta lo storico. Trulli e taranta. La presenza spagnola è oggi particolarmente evidente a Lecce: senza gli Aragonesi non ci sarebbe il famoso barocco di quella città (e di Gallipoli). Chiese e palazzi furono finanziati “a pioggia” dai vescovi locali, che gareggiavano in decorazioni e raffinatezza. Ma la firma architettonica della Puglia restano i trulli (dal greco trulos, “cupola”). Questi edifici conici in pietra sono parenti degli antichissimi thòlos (tombe a cupola), diffusi in Grecia dall’Età del bronzo. «Edificati nelle campagne a partire dal XVI secolo, i trulli fungevano da ricoveri
Un ragno all’origine della danza della taranta
A
partire dal Medioevo si diffuse nell’area salentina la credenza legata al cosiddetto “tarantismo”: una sorta di psicosi che colpiva coloro che venivano morsicati da un ragno (Lycosa tarentula) detto tarantola (o taranta, forse da Taranto o dal fiume a essa vi-
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cino, il Tara). I tarantati erano spesso donne che lavoravano nei campi: presentavano, secondo la tradizione, forti dolori addominali, tremori diffusi, sudorazione e perdita di coscienza. Per guarirli, si ricorreva a un complesso rituale musicale – perdurato in
alcuni casi fino al XX secolo – che ha appassionato antropologi, etnologi ed etnomusicologi come Ernesto de Martino (1908-1965), autore del libro La terra del rimorso. Danza guaritrice. Durante gli “esorcismi musicali” che si prolungavano a volte per
giorni, il tarantato veniva sottoposto all’ascolto di melodie sfrenate (le stesse che connotano oggi la pizzica) sulle note di tamburelli, organetti e armoniche finché, dopo un’estenuante e convulsa danza, cadeva a terra stremato ma finalmente libero dal male.
Gli albanesi Scrivere titolidel Sud Italia no per il box
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per gli agricoltori e la loro diffusione fu massiccia ad Alberobello (Bari), altro patrimonio Unesco della regione», racconta l’esperto. «Essendo costruiti a secco, bastava sfilare poche pietre per smontarli, evitando le “tasse sulla casa” previste nel Regno di Napoli». Un’idea che piacerebbe agli abusivisti incalliti dei nostri giorni. In parallelo si diffusero le masserie, fattorie fortificate, oggi trasformate in alloggi al centro di un eccezionale boom turistico. Dal tardo Medioevo arriva infine il tarantismo del Salento (v. riquadro a sinistra), che rivive oggi in ambito musicale nella pizzica, o taranta, a cui è dedicato ogni anno un festival internazionale di enorme richiamo: “La Notte della Taranta”.
In senso contrario. Nel XVIII secolo, dopo essere finita agli Asburgo d’Austria, la Puglia passò ai Borbone, nuovi padroni del Regno di Napoli e del Regno di Sicilia. E nel 1816 confluì nel Regno delle Due Sicilie. Ma le sue specificità rimasero intatte. «Dopo l’Unità d’Italia (1861), la regione ha mantenuto – con la Sicilia – lo storico ruolo di “granaio d’Italia”, soprattutto durante il fascismo. E in epoca più recente, negli anni Novanta, la Puglia è stata la meta di migliaia di albanesi approdati sulle sue coste, confermando così l’antica vocazione di “porta d’Oriente”», conclude La Salandra. Anche se questa volta la direttrice è soltanto una: da est verso ovest. • Matteo Liberti
SCALA
Odiato re Ferdinando II d’Aragona, re di Napoli. Nel XV secolo gli Aragonesi dominarono la Puglia, imponendo nuove tasse ma sviluppando anche i commerci con l’Oriente.
è queNumrbëreshë, etuer sequip endre stocor il nome dolutat, senimdegli dunt albanesiwisim d’Italia, doloreet quis et minoranza dunt esto od etnoexerosto dolinguistica stanziata lobortindf ddsada doloreet nellequis regioni meriwisim et dunt esto dionali dello Stivale od exerosto dolobortindf e in particolare ddsadaolutat, cor in senim Calabria. Nelle co- quis et dunt doloreet wisim munità dunt estoarbëreshë, od exerosto docinquantaddsada in tutto, lobortindf doloreet si parla una lingua wisim quis et dunt esto detta arbërisht che è od exerosto dolobortindf una variante storica ddsada della lingua albanese tosca, diffusa nel Sud dell’Albania e in minima parte anche in Grecia e Turchia (amalgamatasi nel Sud Italia con i vari dialetti locali). Dal Medioevo. Le comunità albanesi si stanziarono sul suolo italiano tra XV e XVIII secolo, a seguito della morte dell’eroe nazionale albanese Giorgio Castriota Scanderbeg (14051468), protagonista della resistenza contro i turchi ottomani. La progressiva conquista della stessa Albania da parte ottomana produsse infatti una forte migrazione verso le nostre coste meridionali. In totale, si stima che gli albanesi d’Italia siano all’incirca 100mila. Oltre che in Calabria, dove si trova la gran parte degli arbëreshë, le comunità albanesi – che praticano tuttora il rito greco-bizantino – sono presenti in Abruzzo, Basilicata, Campania, Molise, Puglia e Sicilia. All’interno di esse, circa il 70% della popolazione parla ancora la lingua arbërisht, seppure con percentuali estremamente differenti tra una comunità e l’altra, tuttavia in ciascuna di esse in un contesto di bilinguismo.
PRIMO PIANO
L’amministrazione dello Stato italiano, con i suoi tanti difetti così difficili da sradicare, è anche il risultato delle eredità degli Stati regionali preunitari
LE RADICI DELLA BUROCRAZIA Finalmente uniti
SCALA
La prima seduta del parlamento del Regno d’Italia, a Torino, il 2 aprile 1860.
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Quanto “pesa” l’amministrazione piemontese nell’eredità statale italiana? «L’amministrazione piemontese dopo l’Unità fece ovviamente la parte del leone, visto che fu estesa al resto della Penisola. Si trattava di un sistema improntato al modello dell’accentramento francese, di origine giacobina e napoleonica. Questo tipo di amministrazione (molto diverso, per esempio, da quella del Lombardo-Veneto e del Granducato di Toscana) esercitava un controllo diretto anche a livello locale: nei comuni persino il sindaco era di nomina regia. Per diversi anni dopo l’Unità questa forte intromissione dell’amministrazione centrale dello Stato in quella degli enti territoriali suscitò parecchi malumori, in particolare della classe dirigente lombarda, che aveva goduto sotto l’Austria di maggiore autonomia amministrativa». Si può dunque parlare di una “piemontesizzazione” della Penisola, come qualcuno ha sostenuto? «In realtà no, perché già dopo la Prima guerra d’Indipendenza (1848-49) il parlamento di Torino aveva accolto emigrati provenienti da tutte le parti d’Italia, e molti di questi, ancor prima dell’Unità, ebbero un ruolo di primo piano nell’amministrazione statale sabauda. Peraltro, anche i funzionari provenienti dagli ex Stati regionali (specie lombardo-veneti e toscani), pur adeguandosi alle nuove leggi e ai nuovi regolamenti, favorirono con il loro bagaglio culturale riforme che ridussero certe asperità del sistema piemontese». Quali erano queste “asperità”? «La burocrazia dell’antico Stato piemontese aveva un’impostazione di tipo militare. Ministri, gabinetto del ministro e, a scendere, le direzioni generali, le di-
visioni, gli uffici. Tutto era regolato da gerarchie molto rigide. I “livelli base” erano costretti in alcuni casi a subire vere e proprie vessazioni da parte dei superiori. Di questa situazione di disagio si trova persino traccia in una commedia in dialetto piemontese di Vittorio Bersezio, del 1863: Le miserie ‘d Monsu Travet. Un Fantozzi ante litteram che subisce i soprusi dei superiori: tradotta in italiano nel 1871, in coincidenza col trasferimento della capitale a Roma, il suo successo creò il neologismo “travet”, a lungo usato per indicare l’impiegato statale di basso profilo». Il 1871 fu l’anno in cui l’amministrazione sabauda irruppe nel pigro trantran della Roma ex papalina. Che cosa accadde? «Nella Città Eterna le consuetudini della rigida, corretta e in qualche caso pedante amministrazione piemontese andarono a scontrarsi con l’ironia e una certa indolenza della popolazione romana, che si inserì prima nei ruoli più bassi nell’amministrazione dello Stato. Inutile negare che i nuovi impiegati dell’Urbe portarono in qualche modo con sé un po’ degli usi e costumi della vecchia amministrazione pontificia: con quella napoletana, una tra le più lassiste degli Stati preunitari». Quali elementi storici differenziano le “tre Italie” (Nord, Centro e Sud) dal punto di vista dell’amministrazione? «Sono diversi i fattori che nel corso del tempo accentuarono le differenze, anche in termini di evoluzione amministrativa, tra Centro-Nord e Sud. La speranza, do-
po l’Unità, era che l’Italia tornasse (come nel Rinascimento) al centro dei commerci internazionali soprattutto verso Africa del Nord e vicino Oriente. Ci si aspettava che nel Meridione si sarebbero sviluppati porti e rete ferroviaria, che sarebbe nata una nuova e vivace borghesia imprenditoriale, favorendo l’accesso alle materie prime per lo sviluppo industriale. Tali aspettative andarono però in gran parte frustrate per le ingerenze delle grandi potenze, in particolare della Gran Bretagna. La conseguenza fu una stagnazione dell’economia al Sud, mentre quella del Nord poté godere del capitale accumulato dalle grandi famiglie centro-settentrionali nei secoli precedenti. E gli investimenti di borghesia e aristocrazia del Centro-Nord favorirono anche un maggior sviluppo dell’agricoltura. «Nell’Agro Romano e nel Meridione, comprese le isole maggiori, che avevano conosciuto fino all’Unità un’amministrazione non all’altezza di quella degli Stati regionali del Centro-Nord, la proprietà terriera borghese e aristocratica rimase perlopiù apatica e parassitaria: il latifondo dominava incontrastato, causando una maggiore arretratezza e favorendo forme di devianza sociale come la mafia in Sicilia e la camorra in Campania. Queste forme di criminalità si inserirono nel sistema politico e amministrativo a livello sia locale sia centrale. Inquinando in alcuni casi anche l’alta burocrazia statale. Dinamismo sociale al Nord, assenteismo economico al Sud: un “peccato originale” dell’Unità, che continua a riproporsi a livello di inefficienza amministrativa». • Adriano Monti Buzzetti Colella MASSIMO SIRAGUSA/CONTRASTO
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orbonici, sabaudi, papalini, austriaci... Un bel rompicapo per i padri fondatori dell’Unità nazionale. Da ricomporre non solo nella geografia, ma anche nella gestione della cosa pubblica: i territori degli antichi Stati italiani portavano infatti con sé tradizioni amministrative molto diverse tra loro. Cosa e quanto, di ognuna di queste eredità, è sopravvissuto nel nostro apparato burocratico, nei pregi come nei difetti? Lo abbiamo chiesto allo storico e archivista Carlo Maria Fiorentino.
Ricerche in un archivio storico comunale. 73
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Benedizione di Pio IX, ultimo papa-re, dal balcone di San Pietro.
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PRIMO PIANO
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LE IDENTITÀ ITALIANE La storia d’Italia è in gran parte quella di Stati regionali spesso in conflitto, origine di virtù e difetti giunti fino a noi. Medioevo e Risorgimento. L’invenzione dell’identità italiana nell’Ottocento Duccio Balestracci (Il Mulino) L’idea che l’Italia abbia caratteristiche identitarie simili dalle Alpi alla Sicilia è un’invenzione del Risorgimento. La realtà storica è diversa: il succedersi di diverse dominazioni straniere nelle varie regioni d’Italia ha differenziato l’eredità culturale fra Nord, Centro e Sud. Il Risorgimento italiano Alberto M. Banti (Laterza) Una panoramica aggiornata e sintetica sugli aspetti politici, militari e sociali del lungo e difficile processo unitario. Un processo nel quale l’identità italiana si formò molto lentamente, a causa del permanere delle realtà degli Stati preunitari. Storia della Lombardia vol. 2 L. Antonielli, G. Chittolini (Laterza) Il secondo volume di questa Storia della Lombardia va dal ’600 a oggi. Una parte consistente del libro è dedicata al periodo asburgico, nel quale, grazie al riformismo 76
di Maria Teresa d’Austria, Milano divenne un centro illuminista e un laboratorio della modernità. Un “imprinting” che per molti versi è rimasto vivo anche dopo, con la nascita dell’Italia unita. Il Piemonte risorgimentale nel periodo preunitario A cura di Frédéric Ieva (Viella) I primi decenni dell’Ottocento, fino ai moti del 1848, furono decisivi per la formazione dell’élite che avrebbe guidato il processo unitario italiano. Questo saggio indaga vari aspetti della società del Regno di Sardegna che in parte si ritroveranno nell’amministrazione del nuovo regno unitario italiano. Il Mezzogiorno medievale Salvatore Tramontana (Carocci) Normanni, Svevi, Angioini e Aragonesi fra il X e il XV secolo decisero le sorti del nostro Meridione alternandosi al potere fra Napoli e Palermo. Ognuna di queste dominazioni lasciò importanti lasciti architettonici e sociali oggi meta del turismo culturale, ma anche vizi e virtù in parte ereditati nell’Ottocento dal Regno delle Due Sicilie borbonico. E in qualche caso giunti fino a noi.
La costante resistenziale sarda Giovanni Lilliu (Ilissu) Il massimo archeologo della civiltà nuragica e storico sardo, scomparso nel 2012, delinea le lotte condotte dal popolo sardo contro le potenze coloniali che di volta in volta hanno conquistato l’isola. Proprio questa tenace volontà di opporsi, in nome della propria identità culturale, linguistica e storica, agli invasori e ai colonizzatori è, secondo Lilliu, alla radice di uno dei caratteri principali dei sardi. La nazione napoletana Gigi Di Fiore (Utet) Il sottotitolo del libro ne illustra il taglio “controcorrente”: Controstorie borboniche e identità “suddista”. Si tratta di una serie di episodi storici poco conosciuti o riletti alla luce di ricerche d’archivio e utilizzando fonti spesso poco considerate dalla storiografia ufficiale. Emerge così il conflitto che oppose i “conquistatori” piemontesi agli sconfitti borbonici nei primi anni dopo la nascita del Regno d’Italia. E che gettò il seme della “questione meridionale”.
Napoleone a Venezia Alvise Zorzi (Mondadori) I progetti urbanistici che interessarono Venezia nei periodi di dominazione napoleonica del 1806-14. Un periodo di cui restano l’Ala Napoleonica e altri interventi, tutti messi in secondo piano dalla “rapina” di tesori artistici che subì la città lagunare. Venezia austriaca Alvise Zorzi (Editrice Goriziana) Dal 1798 fino al 1866, quando fu annessa al neonato Regno d’Italia, Venezia fu governata dagli austriaci. Lo divenne in seguito al Trattato di Campoformido, secondo il quale la Francia cedeva questa importante conquista di Napoleone Bonaparte in cambio dei Paesi Bassi. Il risultato fu un periodo controverso della storia veneta: da una parte gli odiati francesi (che torneranno per una parentesi napoleonica dal 1806 al 1814), dall’altra gli austriaci, all’inizio considerati potenziali alleati del patriziato veneto, di fatto i “liquidatori” della Serenissima, l’ultima repubblica marinara in Italia a perdere l’indipendenza.
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L'AVVENTUROSA STORIA DEI BRIGANTI DEL MARE Il libro ricostruisce le condizioni geografiche e sociali alla base della nascita della pirateria, ne traccia le fasi di sviluppo e di declino, le sue forme e le sue alterne fortune, descrive i suoi suggestivi e crudeli protagonisti, racconta come le nazioni abbiano cercato ripetutamente di debellare questa piaga dei mari. Questo classico sulla storia dei pirati propone, dai Vichinghi ai corsari inglesi e francesi, dai bucanieri ai predoni delle coste americane, una lunga carrellata di eventi e protagonisti che ci porta sulle rotte di tutto il globo. Una lettura avventurosa alla scoperta di questi briganti del mare entrati nel mito. Introduzione a cura di VALERIO EVANGELISTI
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una foto un fatto
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POLESINE 14 NOVEMBRE 1951
Mezzi di soccorso tra i campi invasi dall’acqua subito dopo l’alluvione che aveva colpito la zona tra il Po e l’Adige, nel basso corso dei due fiumi. Fu la prima grande catastrofe ambientale dell’Italia repubblicana.
La tragedia del grande fiume La ricostruzione era agli inizi. A fermarla, in una delle regioni più povere del Nord, il Polesine, ci pensò l’acqua.
N
el tardo pomeriggio del 14 novembre 1951 l’Italia visse una delle sue peggiori tragedie del Dopoguerra: l’alluvione del Polesine. Il Polesine è una terra agricola che si trova tra i fiumi Po e Adige, in prossimità delle loro foci, e si identifica con la provincia di Rovigo. All’epoca era una zona arretrata, abitata da contadini poveri. Ecco quello che accadde: dopo due settimane di piogge incessanti la piena del Po, sommata a quelle dei suoi affluenti, spazzò via ogni tentativo della popolazione di arginare con mezzi di fortuna la violenza dell’acqua: chi ci provò, peraltro, lo fece con semplici attrezzi portati da casa e insufficienti sacchi di sabbia. Cedimento. Che cosa era accaduto quel maledetto giorno? L’argine sinistro del Po aveva ceduto e milioni di
metri cubi di acqua si riversarono sulle campagne. Tutta la vasta area della provincia di Rovigo fu sommersa. Interi paesi, evacuati a stento, vennero spazzati via. Le vittime furono 89, gli sfollati circa 180mila: tutti avevano perso casa e beni, l’economia dell’intera provincia, ancora fragile, fu distrutta. Ad appena sei anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’alluvione del Polesine mise in ginocchio la regione. Per fortuna sia in Italia sia all’estero la solidarietà fu grande e la bonifica permise di tornare a coltivare la terra già nel 1952. Ma molti emigrarono verso le grandi città o all’estero: nel 1951 la popolazione del Polesine era di quasi 358mila abitanti. Dieci anni dopo si era ridotta a meno di 278mila. • Irene Merli
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domande & risposte
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Queste pagine sono aperte a soddisfare le curiosità dei lettori, purché i quesiti siano di interesse generale. Non si forniscono risposte private. Scrivete a Focus Storia, via Battistotti Sassi 11/a, 20133 Milano o all’e-mail
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Chi inventò i fiammiferi?
SSPL/GETTY IMAGES
1895: una fabbrica inglese di fiammiferi (inventati nel 1827 da John Walker, a sinistra).
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ià i Cinesi, nel V secolo, bruciavano bastoncini di pino impregnati di zolfo. Ma se oggi possiamo accendere il fuoco con un fiammifero lo dobbiamo a un chimico inglese, che lo inventò per caso nel 1827. John Walker, infatti, mentre conduceva esperimenti con alcune sostanze, notò che qualche goccia si era seccata su un bastoncino di legno. Nel tentativo di pulirlo lo strofinò sul pavimento e il legnetto prese immediatamen-
te fuoco. La miscela infiammabile inventata da Walker era costituita da solfato di antimonio, clorato di potassio, amido e gomma. I fiammiferi di Walker però si accendevano in modo violento, così con il passare del tempo si tentò di perfezionarli. Nel 1831 alla miscela originaria fu aggiunto prima il fosforo bianco (altamente tossico e proibito già nei primi del ’900) e successivamente l’ossido di piombo, al posto del clorato di
BRIDGEMANART/MONDADORI PORTFOLIO
Domanda posta da Ivano Campagna.
potassio: così l’accensione divenne più sicura e si eliminava il cattivo odore della combustione. Svedesi. I primi fiammiferi si potevano accendere sfregandoli su qualsiasi superficie. Nel 1844 nacque lo “svedese” (dal suo inventore, lo svedese Gustaf Erik Pasch), o fiammifero di sicurezza, nel quale la miscela è divisa in due: un po’ sulla capocchia del legnetto e un po’ su una parte della scatola sulla quale sfregare il fiammifero. (f. c.)
i attribuisce al matematico e filosofo francese Blaise Pascal l’invenzione, nel 1662, del primo mezzo per il trasporto pubblico: un servizio di carrozze trainate da cavalli con orari regolari, istituito a Parigi. Quel servizio durò 15 anni, ma fino all’avvento delle ferrovie (1830 circa) tutti i trasporti via terra continuarono ad avvenire con diligenze. Per le merci, invece, si usavano i carri. Nell’800, con l’industrializzazione e la necessità di spostarsi tra la casa e il luogo di lavoro nacquero i veri trasporti pubblici. Nel 1824 a Manchester, in Inghilterra, debuttò l’omnibus, un vagone su rotaia tirato da un cavallo. L’esempio fu seguito da Berlino (1825), Nantes (1826) e Parigi (1828). Questi omnibus potevano trasportare 14 passeggeri. Meccanici. Verso il 1830 a Londra entrò in circolazione il primo bus a vapore, più veloce ed economico dell’omnibus. E a fine Ottocento apparvero i primi omnibus con motore a scoppio, in Germania. Sempre in Germania, nel 1901 a Dresda, fu inaugurato l’antenato del filobus: si chiamava il “trolleybus elettrico” ed era collegato da un lungo filo a una rete elettrica aerea. (g. l.)
ALINARI
Qual è la più antica università del mondo, anche fuori dall’Europa? Domanda posta da Luisa Cantone.
S
e guardiamo all’Europa e al mondo occidentale, il primato è tutto italiano e spetta all’Università di Bologna, fondata nel lontano 1088. La data di fondazione venne stabilita d’ufficio da una commissione guidata da Giosuè Carducci, nel XIX secolo. E proprio Carducci fu di quella università uno dei tanti illustri personaggi che, in veste di allievi, insegnanti, o studiosi, sono 80
passati dall’ateneo emiliano. Tra gli altri: Pico della Mirandola, Niccolò Copernico, Torquato Tasso, Giovanni Pascoli, Pier Paolo Pasolini. “Lo Studio”, come veniva chiamato in origine l’istituto, ha il primato anche sull’Università di Parigi, nata nel 1090, e su quella inglese di Oxford (1096). Ma non sul Medio Oriente. Nel mondo infatti il primo posto non è italiano.
Primato arabo. Il più antico ateneo del mondo è infatti l’Università al-Qarawiyyin di Fès in Marocco, che è anche la più antica istituzione educativa della Storia, fondata nell’859. Il secondo posto spetta ancora a un’istituzione del Medio Oriente: l‘Università al Azhar del Cairo, in Egitto (975). A Bologna non resta dunque che “accontentarsi” del 3° posto nel globo. (m. l.)
Lezioni nell’ateneo bolognese in una miniatura del XV secolo.
Quale fu il primo servizio di trasporto pubblico?
Domanda posta da Silvia Campo.
Alla fermata DEA/ALINARI
Stazione per diligenze a Monaco di Baviera, in Germania, in un dipinto del XVIII secolo.
In quale Paese si sono verificati più colpi di Stato? Domanda posta da Pino Locatelli.
è stato teatro di circa 20 golpe (il numero esatto è discusso), 12 dei quali riusciti. Il primo risale al 1932, anno in cui un colpo di Stato incruento portò alla fine della monarchia assoluta e alla nascita di uno Stato costituzionale. L’ultimo è del 2014: l’esercito ha annullato la Costituzione in vigore e introdotto la legge marziale.
In Asia, a contendere alla Thailandia il primato sono Afghanistan e Cina. Ma il continente con più golpe (non a caso una parola spagnola) è il Sud America: oltre 100 solo nel XX secolo. I più martoriati? Bolivia e Haiti. In Africa spiccano le isole Comore (oceano Indiano), mentre in Europa, con più di 10 colpi di Stato, “vince” la Grecia.(m. l.)
Soldati a Bangkok durante il colpo di Stato del 1932.
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icostruire l’elenco di tutti i colpi di Stato che hanno segnato la Storia è pressoché impossibile (e altrettanto difficile è stilare una classifica). Ma se ci si limita all’epoca moderna gli esperti di geopolitica sono concordi nell’attribuire il triste primato alla Thailandia. Rivolgimenti recenti. Negli ultimi ottanta anni il Paese asiatico
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In altre parole A cura di Giuliana Rotondi
I discorsi dei grandi spiegati in parole semplici
Il sogno afroamericano
Martin Luther King 28 agosto 1963, al Lincoln Memorial di Washington (Usa)
”
Sono felice di unirmi a voi in questa che passerà alla
Storia come la più grande dimostrazione per la libertà nella storia del nostro Paese. Cento anni fa un grande americano, alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il proclama sull’emancipazione. Questo fondamentale decreto venne come un grande faro di speranza per
Si tratta della Marcia per il lavoro e la libertà, alla quale parteciparono oltre 250mila persone: un grande evento mediatico. Serviva a sostenere il presidente Kennedy, che aveva presentato il Civil Rights Act per estendere i diritti civili ai neri, tra le resistenze di molti Stati del Sud.
milioni di schiavi neri che erano stati bruciati sul fuoco dell’avida ingiustizia. (…) Anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho ancora davanti a me un sogno. È un sogno che ha radici profonde nel sogno americano. Ho un sogno che un giorno questa nazione si leverà convinzioni: noi riteniamo evidente questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali. Il proclama di emancipazione a cui King fa riferimento è quello promulgato il 22 settembre 1862 dall’allora presidente Lincoln durante la Guerra civile americana. Prevedeva l’abolizione della schiavitù negli Stati del Sud a partire dal 1º gennaio 1863.
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Nel 1964 il Civil Rights Act venne approvato e, nello stesso anno, Martin Luther King ricevette il Nobel per la pace. Il processo di desegregazione era avviato. L’attivista nero continuò la sua attività per altri quattro anni: venne ucciso il 3 aprile 1968 a Memphis da un fanatico bianco.
”
V. SIRIANNI
in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue
tecnovintage A cura di Eugenio Spagnuolo
1980
Arrivano i minigiochi
Q
uando nel 1980 il Ninten do Game&Watch Ball arri vò sul mercato fu l’inizio di una rivoluzione: il mondo sco priva i videogame portatili. L’intui zione fu della Nintendo, un’antica azienda giapponese, nata nel 1889. Il gioco in sé, “Ball”, era abbastan za semplice da generare dipenden za. La grafica era ridotta all’os so: pochi pixel neri, muovendosi in modo sincopato, davano vita a un giocoliere che bisognava mano vrare in modo da non far cadere le palline. Eppure Ball vendette circa 250mila unità: un successo per quei tempi, che spianò la strada ad altri Game&Watch della ditta Nintendo, progettati dal celebre sviluppatore Gunpei Yokoi. Se fosse stato un fal limento, forse, non sarebbero nate console e videogame famosi e anco ra oggi esistenti, come il GameBoy. Conviene comprarlo? Nel 2010 per celebrare il trentennale di Ball, la Nintendo ha prodotto una repli ca del videogame, per i membri del club Nintendo. È possibile acqui starlo, nuovo, su eBay a circa 70 eu ro. Mentre l’originale è più raro e il costo supera i 100 euro. •
Non solo gioco Sulla confezione e sul libretto di istruzioni il giocoliere del Game&Watch della Nintendo. Funzionava anche da orologio e sveglia (come dice il nome).
E NELLO STESSO ANNO...
CINEMA Nelle sale francesi esce Il tempo delle mele, con una giovanissima Sophie Marceau. Diventa il film culto di una generazione di adolescenti.
STATI UNITI Ronald Reagan vince le presidenziali Usa, sconfiggendo Jimmy Carter: sia lui che la first lady Nancy sono due ex attori di Hollywood.
ECONOMIA Vengono introdotte le ricevute fiscali per “particolari categorie di contribuenti”: in quei mesi si scopre che l’evasione dell’Iva sfiora il 50%.
ITALIA Ucciso dalla mafia il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella (fratello dell’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella). 83
MISTERI
Scoprire un manoscritto inedito, una mappa che riscrive la Storia o il testamento di un grande del passato è il sogno di ogni studioso. Ma l’inganno è dietro l’angolo
CARTE FALSE U
sati per sostenere tesi più o meno plausibili, come legittimazione di dominazioni e conquiste territoriali, per interessi di parte o più semplicemente per fare scalpore o magari venderli a caro prezzo, i falsi storici hanno da sempre giocato un ruolo dietro le quinte della Storia. Un “pezzo di carta” può infatti certificare una proprietà, assegnare un privilegio, riconoscere un diritto. Oppure fornire la prova decisiva per dimostrare un’ipotesi altrimenti senza fondamento. O, ancora, costituire in sé una testimonianza storica o documentaria rara, quindi preziosa e ricercata da collezionisti e studiosi disposti a pagarla a caro prezzo.
Smascherati. Gli storici hanno dunque dovuto imparare a districarsi in questa giungla di documenti. Un compito in cui sono aiutati dalla filologia, disciplina nata nel Quattrocento proprio con un clamoroso smascheramento: la falsa Donazione di Costantino (v. qui sotto). E dove non arriva la filologia entrano in gioco la scienza e la tecnologia. Analisi chimiche degli inchiostri, osservazioni al microscopio elettronico, datazioni con il radiocarbonio, software programmati per spulciare immensi archivi digitalizzati: spacciare carte false è sempre più difficile. A meno che non si voglia crederle vere oltre ogni evidenza. •
LA DONAZIONE DI COSTANTINO L’ esistenza dello Stato pontificio, o meglio di ciò che nell’Alto Medioevo era chiamato Patrimonio di san Pietro, si fondava su un documento del IV secolo in cui si attestava la donazione di quei territori da parte di Costantino I a papa Silvestro I e nel quale si affermava anche il dominio del pontefice su tutta l’Italia. Data: 30 marzo 315. Quell’atto, dall’XI secolo, fu usato dalla Chiesa per sostenere i propri diritti territoriali e legittimare il proprio potere temporale nelle lotte contro l’impero. Parole rivelatrici. Nel 1440 l’umanista Lorenzo Valla, in un libro poi messo all’Indice dalla Chiesa, dimostrò che il documento era un falso, anche piuttosto grossolano. L’uso di termini posteriori al IV secolo e molti altri riferimenti (per esempio si citava Costantinopoli, fondata soltanto nel 330) dimostrano che la Donazione fu scritta assai più tardi, forse intorno all’VIII-IX secolo.
L’atto della donazione dipinto da Raffaello in Vaticano, nella Sala di Costantino. 84
Piero Pasini
LA MAPPA DI VINLAND C
he i Vichinghi abbiano raggiunto le coste nordamericane intorno al Mille è stato a lungo dibattuto. Di certo a quel tempo erano in Groenlandia e l’ipotesi che da lì si siano spinti fino all’isola di Terranova (Canada) è stata supportata dal ritrovamento, nel 1965, di una mappa. Presentata come copia del XV secolo di un originale del XIII secolo, mostra un’isola a ovest della Groenlandia e denominata Vinland (“Terra del vino”, forse per la presenza di vite selvatica): il nome scandinavo di Terranova, con un’iscrizione che datava la scoperta all’XI secolo. Posticcia. Le analisi chimiche hanno dimostrato che la pergamena è del XV secolo, ma l’inchiostro successivo al 1920. Il che non significa che i Vichinghi non abbiano fondato, come provano alcuni ritrovamenti archeologici a Terranova, avamposti poi abbandonati.
Groenlandia Vinland
LE AGENDE DI MUSSOLINI I l caso dei diari di Mussolini, scritti fra il 1939 e il 1942 (anni decisivi per il nostro Paese), si situa a metà fra lo scoop giornalistico e la manipolazione. Quello relativo al 1939, per esempio, è stato pubblicato in volume, suscitando un grande scalpore mediatico. Il fatto è che agende di Mussolini ne sono esistite. Ma è altrettanto certo che, a partire dagli Anni ’50, ne sono apparse molte di dubbia provenienza o decisamente false. Copiature. Nel 1957 due sorelle di Vercelli diffusero un diario, in 30 volumi manoscritti, che fu autenticato dal secondogenito del duce, Vittorio Mussolini: gli storici lo hanno dichiarato falso senza appello. Un altro manoscritto di 6 volumi proverrebbe dall’eredità di un ex partigiano che ne avrebbe fatto dono all’ex senatore Marcello Dell’Utri nel 2007. Nonostante Emilio Gentile, uno dei massimi storici del fascismo, li consideri senza dubbio falsi, ancora nel 2011 sono stati presentati come autentici. La scorsa estate, infine, è spuntata dalla Svizzera un’altra (assai sospetta) “agenda inedita” del 1942.
Mussolini nel 1925: i suoi scritti sono molto ricercati perché (se autentici) permetterebbero di far luce sulla sua politica.
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SCALA
La Mappa di Vinland, con l’Europa nella sua rappresentazione medioevale e, a ovest, Vinland (Terranova).
Il “ritratto” di Salvino degli Armati, che in realtà non è mai esistito.
IL MISTERO DELL’ISCRIZIONE DI SALVINO N el 1684 l’erudito fiorentino Ferdinando Del Migliore sostenne in uno scritto che a Firenze era esistita una tomba, già distrutta al suo tempo, la cui iscrizione funeraria attribuiva a un certo Salvino degli Armati, vissuto nel ’200, l’invenzione degli occhiali. La tesi fu creduta vera a lungo. Tanto che nell’Ottocento, nella chiesa fiorentina di Santa Croce fu ricostruita una copia della tomba con l’iscrizione. Peccato
che Salvino esistesse solo nella fantasia di Del Migliore. Incompatibile. A inizio Novecento si stabilì che l’iscrizione riportata dallo studioso non poteva essere medioevale perché la lingua non era compatibile con l’epoca. La “prova” era stata inventata di sana pianta per sottrarre al monaco duecentesco Alessandro della Spina, della nemica città di Pisa, la paternità degli occhiali.
uello relativo ai diari di Hitler dal 1932 al 1945 (a destra) fu un clamoroso scandalo che negli Anni ’80 coinvolse uno dei più diffusi settimanali tedeschi, Stern. I diari erano stati confezionati da Konrad Kujau, che aveva già fatto la sua fortuna vendendo falsi quadri di Hitler e che era in grado di riprodurre perfettamente la calligrafia del Führer. Gabbati. Kujau li vendette nel 1983 per 10 milioni di marchi a uno dei giornalisti della rivista, dichiarando
che erano stati recuperati dal relitto di un aereo precipitato poco prima della fine della Seconda guerra mondiale. Il giornale li pubblicò sostenendo che gettavano nuova luce sulle idee politiche del dittatore e che quindi il giudizio storico sul suo operato andava riscritto. Il falso fu però rivelato dalle analisi della carta e dell’inchiostro (successivi al conflitto). Kujau e il giornalista di Stern furono condannati per frode e i vertici del periodico si dimisero.
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I DIARI DI HITLER Q
Nell’Ottocento molti “artisti del falso” realizzavano finti manoscritti riciclando papiri antichi. Poi li vendevano a musei e università Il testo italiano in una rivista antisemita del 1938. Sotto, l’originale russo.
I PROTOCOLLI DEI SAVI DI SION F urono pubblicati a puntate in Russia nel 1903-05, con il preciso intento di diffondere l’odio nei confronti degli ebrei. Messi insieme negli ambienti della polizia politica zarista, i Protocolli prendevano spunto da un romanzo del 1868 del tedesco Hermann Goedsche, antisemita e agente segreto: nel libro si immaginavano oscure riunioni di rabbini nel Cimitero di Praga, parte di un piano per la conquista del mondo. Goedsche si era ispirato a sua volta a testi precedenti e pro-
prio lo studio delle analogie tra i Protocolli e queste opere di fantasia dimostrò, negli anni Venti, la falsità dei Protocolli. Successone. Nel contesto del diffuso antisemitismo del primo Novecento, i Protocolli furono usati per giustificare le persecuzioni degli ebrei, motivate dal fine di salvare il pianeta dalla “cospirazione sionista”. In Italia ebbero fortuna dopo l’edizione del 1937, curata da Julius Evola. E ancora oggi nel mondo ci sono complottisti e antisemiti che li pubblicano.
ANNIVERSARI
STEFANO CELLAI/SIME
I
l 13 settembre 1565, quando quel che restava della flotta ottomana comandata da Piale Pascià lasciò definitivamente Malta, il paesaggio di rovine doveva essere impressionante. Per quattro mesi un esercito di 40mila ottomani, sbarcati da 180 navi e un impressionante dispiego di artiglieria, avevano inutilmente cercato di conquistare l’isola. Difesa solo da 600 cavalieri provenienti da diversi Paesi europei e da meno di 10mila fanti maltesi, italiani e spagnoli.
Forte Sant’Elmo, che con i forti di Sant’Angelo e San Michele costituiva la linea di difesa dell’isola, era ridotto a un cumulo di macerie fumanti. Da quelle macerie, 450 anni fa, nacque La Valletta (o, più correttamente, Valletta), oggi capitale maltese. Tempi record. Il Gran Maestro dell’Ordine di San Giovanni, Jean Parisot de la Valette (1494-1568), intuì che di quel disastro si sarebbe dovuto tenere conto. Per questo si affidò a uno dei più famosi architetti militari dell’epoca, France-
sco Laparelli (1521-1570). Inviato a Malta da papa Pio IV, Laparelli a Roma aveva lavorato tra l’altro alle fortificazioni di Castel Sant’Angelo. Approdato sull’isola il 28 dicembre 1565 si mise subito al lavoro: il 3 gennaio aveva già presentato la sua prima relazione, completa di misurazioni e prospetti geologici. Si impegnò a completare le difese esterne in tre mesi, se gli fossero stati accordati 3.500 guastatori (soldati specializzati in scavi di trincee e costruzioni di strade), 100 mastri (artigiani) e 3.000 soldati. Il 28
1.125
Le case erette nella nuova città ricostruita su progetto di Francesco Laparelli.
Nel 1566, dopo il grande assedio ottomano di 450 anni fa, che i cavalieri
LA FORTEZZA DEL
marzo 1566 fu posata la prima pietra. La nuova capitale dell’Ordine dei Cavalieri di Malta avrebbe avuto il nome di La Valletta, in onore del Gran Maestro che aveva guidato la vittoriosa resistenza all’assedio ottomano. Ricostruzione. Il progetto del Laparelli avrebbe mantenuto la pianta difensiva a stella con l’aggiunta di un rivellino (un tipo di torre difensiva). Alle sue spalle, sulle pendici del monte Xiberras, fu pianificata una nuova città su una superficie di 140.000 “canne quadrate” (poco meno di
un chilometro quadrato), con otto piazze, ognuna con un auberge (“albergo”) di una delle “lingue”(i Paesi di provenienza) dei cavalieri. In più, una vasta piazza d’arme, una via centrale intersecata da dieci traverse e 1.125 case. La città aveva grandi mura, che la cingevano senza soluzione di continuità con i suoi possenti bastioni angolati e protetti da un bastione più basso collegato con passaggi sotterranei. Insomma, la nuova capitale sarebbe stata inattaccabile. Del lavoro della sua vita Laparelli non vide
la fine. Morì prima, nel 1570. A completarne l’opera fu il maltese Girolamo Cassar (1520-1590), che “firmò” diversi edifici della città. Come la chiesa conventuale (poi co-cattedrale) di San Giovanni, il monumento più importante. La Valletta, nel 2018 Capitale Europea della Cultura, una città nata da un assedio, da fortezza del Mediterraneo si trasformò in scrigno di tesori d’arte, nota come “città umilissima, costruita da gentiluomini per gentiluomini”. •
Daniele Venturoli
6.600
Il numero degli operai (soldati, guastatori e artigiani) impegnati per la ricostruzione.
di Malta respinsero, fu progettata a tavolino la capitale: Valletta
LEEMAGE
MEDITERRANEO
Lezione imparata A destra, un momento dell’assedio ottomano del 1565 (durato 4 mesi) in un dipinto dell’epoca. Sopra, le fortificazioni della Valletta oggi.
GIOCHI
La guerra degli
SCACCHI
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Dalla nascita nell’India del VI secolo alle sfide nella Guerra fredda del ’900, da secoli alfieri e pedoni si affrontano nel gioco che somiglia a una battaglia
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A sinistra, due arabi giocano sotto una tenda, in una miniatura del Trecento. Sopra, il sovietico Garry Kasparov, per molti il più grande scacchista di tutti i tempi, sfida (e batte) il computer Ibm Deep Blue nel febbraio 1996. L’anno dopo il match fu vinto dal calcolatore. A destra, un elefante indiano (antenato dell’alfiere) dell’XI secolo.
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Uomo contro macchina
P
erché mai, alla fine di una partita in cui il re avversario subisce un attacco mortale, si esclama “Scacco matto”? Il termine viene probabilmente dal persiano Shah Mat, cioè “Il re è morto”. E, poi, l’alfiere è davvero un cavaliere? No. Si tratta di una errata traduzione del termine al-Fil, ovvero “l’elefante”. Non sono le uniche curiosità della millenaria storia degli scacchi. La loro stessa origine è oscura: le prime tracce ci portano in India, nel VI secolo d.C. Da qui, attraverso varie trasformazioni, raggiunsero la Persia, l’Arabia e finalmente il mondo occidentale, con l’espansione dei Mori in Spagna, a partire dal 711. In India il gioco si chiamava Chaturanga ed era molto simile alla versione che si pratica oggi: 64 caselle (ma tutte dello stesso colore; la ripartizione in bianche e nere avverrà solo attorno all’Anno Mille) e 16 pezzi per parte, come quelli moderni. Nessun dubbio invece sul significato allegorico del gioco: rappresenta una guerra e vi sono simboleggiate le quattro parti di un esercito dell’epoca (carri, elefanti, cavalieri e fanti). Leggendari. Se poche sono le certezze sulle origini, le leggende abbondano. La più nota è quella del re indiano che, per ringraziare il bramino che aveva inventato gli scacchi, gli offrì ricchezze e palazzi. Ma il monaco rispose: “Mi basta che tu metta un chicco di riso sul primo quadrato della scacchiera, due sul secondo, quattro sul terzo, e così via...”. Il re si stupì per la modestia della richiesta.
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Durante il Medioevo la Chiesa
Teoria e... pratica
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Sopra, manuale italiano del XV secolo: nel Rinascimento si iniziarono a studiare modelli teorici e tipologie di mosse standard. Sotto, una rissa scoppiata dopo una partita a scacchi, in una miniatura del ciclo di Renaud de Montauban (Francia, XV secolo).
Ma poi scoprì che per soddisfarla non sarebbero bastati secoli di raccolti: i chicchi dovuti erano più di 18 miliardi di miliardi, per la precisione 18.446.744.073.709.551.615. Per fortuna il bramino si accontentò di aver insegnato al re i rischi dell’imprudenza: accettò una ricompensa più ragionevole. Distrazione strategica. Giunti in Europa grazie agli Arabi, gli scacchi si diffusero in tutte le corti, ed entrarono a far parte della formazione di nobili, dotti e cavalieri. Comprensibile il perché: erano sia un esercizio di strategia e comando, sia un ammaestramento morale (stimolano logica e pazienza). Eppure subirono periodicamente gli anatemi degli ecclesiastici più radicali. L’accusa era sempre la stessa: gli scacchi rischiavano di distogliere il cristiano dal suo dovere, quello di dedicarsi a Dio. Inoltre al tempo era diffusa la pratica di scegliere le mosse con
CRONOLOG I A
14 secoli a scacchi 92
VI secolo d.C. Il gioco nasce in India, poi si diffonde in Persia e nel mondo arabo.
VIII sec. Gli scacchi arrivano in Europa, in seguito alle conquiste arabe in Spagna.
1575 A Madrid da Cutro batte Lopez: è l’epoca d’oro degli scacchisti italiani.
1619 Gioacchino Greco scrive il Trattato del nobilissimo gioco de Scacchi.
condannò gli scacchi e altri giochi ai “roghi delle vanità”
1851 Primo torneo internazionale a Londra, per l’Esposizione Universale.
1886 Nasce il Campionato del mondo. Il primo a vincerlo è Wilhelm Steinitz.
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racusano” e Giulio Cesare Polerio “l’abruzzese,” star della scacchiera. Nel 1608, con gli elogi agli scacchi firmati san Francesco di Sales nell’Introduzione alla vita devota, il gioco si poteva dire riabilitato definitivamente. Così riabilitato che il Trattato del nobilissimo gioco de Scacchi, pubblicato a Roma nel 1619 dallo scacchista Gioacchino Greco, supererà le 50 edizioni in tutta Europa. L’Illuminismo non poté che esaltare la componente razionale degli scacchi, e i caffè di Parigi si riempirono di seguaci di François-André Danican Philidor, musicista e campione, detto “il Mozart degli scacchi”. Ma bisognò aspettare l’epoca moderna per il primo torneo internazionale, organizzato in occasione dell’Esposizione Universale di Londra nel 1851. Attirò i migliori giocatori dell’epoca (anche per il ricco montepremi in palio) e il successo aprì la strada al primo campionato del mondo, negli Usa del 1886. Legami politici. Nel secolo scorso, però, gli scacchi si arricchirono di un nuovo aspetto: quello politico. Basti pensare a quello che è stato definito “il match del secolo”. L’incontro si
Il caso Alechin
N
Alfiere in avorio del XII-XIII secolo, di produzione francese.
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l’aiuto dei dadi, per velocizzare le partite e dare più possibilità di vittoria ai giocatori deboli. Ciò favoriva le scommesse e trasformava gli scacchi in un gioco d’azzardo. Ecco allora le condanne di Pier Damiani (1061), cardinale di Ostia: denunciò a papa Alessandro II un vescovo di Firenze che aveva fatto le ore piccole davanti alla scacchiera, rapito da un gioco “disonesto, assurdo e libidinoso”. Poi fu il turno di san Bernardo di Chiaravalle che nel 1128, stilando la regola dei Templari, vietò loro questo passatempo. Nel 1212, in occasione del Concilio di Parigi, la Chiesa ribadì il veto. Le scacchiere, con dadi, carte e vesti sontuose, finirono vittime dei “roghi delle vanità”, che la Chiesa ordinò più volte durante tutto il Medioevo. Nell’anno 1426, in una predica tenuta a Siena, san Bernardino lodò a gran voce uno dei suoi frati, Matteo da Cecilia, per aver bruciato “duomila settecento tavolieri in uno dì a Barzelona, che v’erano di molti che erano d’avorio, e anche molti scachieri, e convertì molte anime”. Nel 1496 e 1497 fu Girolamo Savonarola a ordinare due simili “bruciamenti di vanità” in piazza della Signoria a Firenze. Riabilitazione. Ogni volta, però, la tempesta si placava in fretta: il gioco era troppo amato nelle corti e tra il popolo per poter essere davvero vietato. E finalmente, con l’arrivo sul soglio papale, nel 1513, di Leone X, grande appassionato e protettore dei giocatori, le cose migliorarono. Estensi, Angioini, Aragonesi: nel Rinascimento non c’era corte d’Europa che non sfoggiasse il proprio campione. Fu allora che fece la sua comparsa la figura del giocatore professionista. Quello dello scacchista, in pochi anni, divenne un mestiere redditizio. Ruy López, monaco di Segura (Spagna) e campione a lungo imbattuto, godeva di una rendita vitalizia di 2mila corone annue: nel 1561 pubblicò l’Arte degli scacchi, unendo informazioni storiche e teoriche sul gioco. Dall’Italia gli rispondevano le imprese di Leonardo da Cutro, che di fronte al re di Spagna Filippo II sfidò Ruy Lopez, battendolo, nel più celebre match dell’epoca. Furono loro, insieme a Paolo Boi detto “il si-
1914 Lo zar Nicola II crea il titolo di Grande maestro per i migliori giocatori.
1972 Si disputa il più celebre match della storia scacchistica: Fischer-Spasskij.
el 1946, da poco finita la Seconda guerra mondiale, il mondo degli scacchi cercava di tornare alla normalità: l’ultimo campionato si era disputato nel 1937, e la corona era ancora sul capo del geniale e odiato russo Aleksandr Alechin (foto). Geniale, perché da vent’anni era considerato il più forte giocatore vivente. Odiato, perché quando viveva a Parigi si sospettò una sua collaborazione con i nazisti (circostanza da lui negata). Discusso. Lo sfidante più accreditato era Mikhail Botvinnik, anche lui russo e pupillo del regime sovietico. Botvinnik era pronto ad affrontare il campione, mentre il regime era contrario: Alechin andava privato del titolo per il suo comportamento “criminale”. Dopo lunghe trattative con Alechin, che viveva esule in Portogallo, il 23 marzo 1946 la British Chess Federation organizzò il match in Inghilterra. Ma Alechin non lesse mai il telegramma di invito. Il 24 marzo fu trovato morto nel suo albergo a Estoril. Secondo l’autopsia, era stato soffocato da un pezzo di carne. Ma fu avanzata anche l’ipotesi di un delitto. I responsabili? Partigiani francesi, secondo alcuni; o i sovietici, che avrebbero voluto evitare al regime l’imbarazzo di una sconfitta da parte di un “amico dei nazisti”.
1997 Il computer Deep Blue sconfigge il campione sovietico Garry Kasparov. 93
ALAMY
Match del secolo Stretta di mano alla fine del match tra Bobby Fischer (a destra) e Boris Spasskij, nel 1972: fu vinto da Fischer, dopo 35 anni di dominio russo. Sotto, una partita del XIV secolo cesellata nell’avorio.
Negli Anni ’70 la sfida tra Stati Uniti e Unione Sovietica si trasformò in una questione politica: al culmine della Guerra fredda, in gioco c’era l’onore delle superpotenze
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va pensato apposta per i software. Nel 1997 un campione sovietico, Garry Kasparov, perse di nuovo un match contro un americano. Non un uomo, ma un computer progettato apposta dalla Ibm: si chiamava Deep Blue e scrisse la prima pagina di un nuovo capitolo, tutto tecnologico, dell’immortale gioco degli scacchi. •
Gli scacchi nella storia e nell’arte, Adolivio Capece (De Vecchi). Pessima mossa, maestro Petrosi, Paolo Fiorelli (Sperling & Kupfer). Un giallo storico sul mondo degli scacchi.
Paolo Fiorelli
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disputò nel 1972 tra il campione del mondo, il sovietico Boris Spasskij, e lo sfidante americano Robert James Fischer, detto “Bobby”. C’era la Guerra fredda e le due superpotenze cercavano di superarsi in tutto. Gli scacchi, poi, erano un fiore all’occhiello del regime sovietico. Già nel 1914 lo zar Nicola II aveva creato il titolo di Grande maestro. Nell’Urss se ne fece una sorta di sport nazionale, con centri e scuole finanziati dallo Stato. C’era da garantire una supremazia che durava da quasi mezzo secolo. Contro i russi arrivò la sfida solitaria di un americano geniale. Un uomo senza tradizione, scuola o allenatori di livello alle spalle. Chi avrebbe vinto il match di Reykjavik, in Islanda? Anche la sede scelta era, simbolicamente, a metà strada tra i due mondi contrapposti. Fischer era un enigma: psicologicamente instabile, conduceva un gioco imprevedibile. Fino all’ultimo non era sicuro di giocare: per convincerlo ci volle l’intervento del segretario di Stato americano, Kissinger. Dall’altra parte del tavolo, la pressione su Spasskij era spaventosa. Vinse l’americano e i russi persero lo scettro dopo 35 anni. Fischer fu però una meteora: avanzò richieste folli per giocare ancora e uscì di scena. Nel 1975 Anatolij Karpov riportò a Mosca il trofeo. Contro Deep Blue. Fine partita? No. Passati i tempi in cui una buona mossa veniva discussa dai teorici anche per decenni, i computer cominciarono a “imparare” un gioco che sembra-
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FILIPPO MAZZEI il libertario A
vete presente quando, durante i temporali, a ogni lampo fa eco un tuono? Ecco: Filippo Mazzei fu il lampo delle maggiori rivoluzioni del suo secolo, da quella americana a quella francese, fino alla svolta della prima costituzione europea, quella “made in Polonia”. Uomo per tutte le rivoluzioni, curioso e razionalista come il suo secolo, quello dei Lumi, Mazzei fu un personaggio eclettico, un anticlericale e un genio nel sapersi riciclare in mille professioni diverse: da medico a commerciante, da diplomatico a giornalista, da “orticoltore” (cioè agricoltore) a ciambellano del re. Mai fermo. Ultimo di quattro figli, venne al mondo all’alba del giorno di Natale del 1730, 98
in una famiglia benestante di Poggio a Caiano (Prato). “Io mi annoiavo molto, non avendo nulla da fare. Avevo portato meco nascendo una sì gran propensione per l’attività, ch’ero sempre in moto, per il che mia madre soleva chiamarmi ‘fastidio’”, scriverà Filippo nelle sue memorie. Eppure, nonostante i tentativi dei genitori, “Fastidio” non si calmò crescendo, anzi: dal 1754 fino alla fine del secolo viaggiò instancabilmente nel Vecchio e nel Nuovo Mondo. E ovunque si trovò, combatté, parlò e scrisse per perorare la causa della democrazia. Ricordate le celebri parole “Tutti gli uomini sono stati creati uguali, dotati dal Creatore di certi inalienabili diritti, fra cui la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità”? Costituiscono il preambo-
Toscano e rivoluzionario Filippo Mazzei (17301816), nato a Poggio a Caiano (Prato), in un ritratto dal celebre pittore francese JacquesLouis David. A sinistra, la Guardia nazionale di Parigi sul Pont Neuf, durante la Rivoluzione francese del 1789, di cui Mazzei fu testimone.
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Medico, diplomatico e commerciante, fu sempre in prima linea in difesa delle libertà: dal Nord America alla Francia e alla Polonia, in nome dell’Illuminismo
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Fonte d’ispirazione In alto, Franklin, Adams e Jefferson redigono la Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776: alcune frasi furono ispirate da Mazzei, vicino di Jefferson. Qui sopra, Stanislao Augusto di Polonia: Mazzei ne influenzò in parte la politica. 100
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lo della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, redatta nel 1776 da Thomas Jefferson, futuro terzo presidente degli Usa. Due anni prima di essere inserite lì, parole molto simili – “tutti gli uomini sono per natura liberi e indipendenti” – furono scritte da Mazzei in un articolo, firmato con lo pseudonimo “Furioso” e pubblicato dalla Virginia Gazette. Gliele aveva tradotte in inglese il suo amico e vicino di casa: Thomas Jefferson. Da Poggio a Caiano alla Virginia, il viaggio era stato lungo e piuttosto articolato: in America Mazzei era arrivato nel 1773. Lo aveva invitato Benjamin Franklin, uno dei 56 futuri firmatari della Dichiarazione d’indipendenza, dopo averlo conosciuto a Londra: galeotte furono due stufe speciali, che Mazzei doveva recuperare dal rappresentante commerciale della colonia americana di Pennsylvania su richiesta del Granduca di Toscana. Il commercio era, all’epoca, l’occupazione londinese dell’intraprendente toscano, impegnato in quello che oggi definiremmo un import-export di made in Italy e libri illuministi. Oltreoceano. Non era stato sempre quello il suo lavoro: quando nel 1755 era sbarcato a Londra, Mazzei si era arrangiato facendo l’insegnante di italiano, abbandonando la professione di medico. Benché da ragazzo fosse stato sospeso dai corsi di medicina “per essere scoperto comunicarsi senza essere digiuno”, era riuscito a prendere la licenza di chirurgo e a lasciare la Toscana come assistente di un dottore ebreo di nome Salinas, che aveva seguito fino a Smirne. Ma la voglia di vedere nuovi posti era stata più forte del giuramento di Ippocrate e per questo il venticinquenne si era imbarcato per Londra nel 1755. Diciotto anni dopo, spronato dal-
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Aveva conosciuto Benjamin Franklin a Londra, grazie a due stufe che doveva ritirare per conto del granduca di Toscana. E lo scienziato lo invitò in Nord America
Affari e ideali Quando Mazzei si trasferì in Virginia vi arrivò con ulivi (a lato), viti, semi di girasole e braccianti toscani: voleva avviare un’azienda agricola. Sopra, volontari dell’esercito rivoluzionario francese in partenza per il fronte. Mazzei restò a Parigi fino al 1791, come rappresentante del regno polacco.
la stessa curiosità, oltre che dalle conversazioni “sulle varie turbolenze d’America” avute con Franklin, si trasferì Oltreoceano. Partì carico di entusiasmo, ma anche di viti, ulivi, semi di granoturco e pochi braccianti toscani, con l’idea di avviare un’azienda agricola in quel luogo che prometteva una grande disponibilità di terre e un clima favorevole alle tipiche coltivazioni della Toscana. Ed è così che lo troviamo in Virginia, vicino di casa di Jefferson, ma anche conoscente di George Washington, di lì a pochi anni primo presidente degli Stati Uniti. Risucchiato dalla vita politica locale, Mazzei trascurò la vanga per la penna: scrisse libelli contro l’opprimente dominazione inglese, fu volontario nella Guerra d’indipendenza (cominciata nel 1775) e due anni dopo venne inviato in Europa per cercare prestiti, armi e alleati per lo Stato della Virginia, di cui era diventato cittadino. La sua prima vera missione all’estero fu un mezzo fiasco e senza ormai un ruolo preciso nei neonati Stati Uniti d’America, nel 1785 li lasciò per sempre. E si infilò in un’altra rivoluzione: quella che sarebbe esplosa nel 1789 a Parigi. A Varsavia! Condizionato e affascinato dai concetti di libertà e uguaglianza che i rivoluzionari americani avevano elaborato durante la loro lotta per l’indipendenza, cercò di capire se e in che modo i medesimi principi potessero essere applicati alla realtà europea: glielo consentì l’illuminato re di Polonia, Stanislao Augusto,
che lo nominò suo rappresentante a Parigi. Rimase nella capitale francese fino al 1791: quando vide gli ideali rivoluzionari naufragare nella violenza dei giacobini, “il partito misto di repubblicanesimo e di anarchia (che) intimorisce gli amanti del buon ordine”, decise di andarsene. Non fu l’ultima delle sue delusioni politiche. Si spostò infatti a Varsavia, alla corte di Stanislao, dove il 3 maggio di quello stesso anno era stata varata la costituzione, la prima moderna d’Europa, seconda, nel mondo, solo a quella federale degli Stati Uniti (1787). Secondo i suoi ideatori, e Mazzei ne era un convinto sostenitore, la carta avrebbe rinnovato la politica, la struttura sociale e l’economia della Polonia, liberandola dall’ingerenza dei potenti vicini russi e prussiani. Speranza vana: quando la zarina Caterina II di Russia invase la Polonia, il ciambellano di Stanislao, accusato dai nemici di essere un cospiratore rivoluzionario filo-giacobino, era già tornato in Italia. Da Pisa, mentre le truppe di Napoleone attraversavano la nostra Penisola, continuò a scriversi con Jefferson e a seguire le vicende internazionali europee, ma sempre con minor entusiasmo. Morì tre anni e due settimane dopo aver completato le sue memorie, il 19 marzo 1816: “come un cappuccino più che come un secolare”, disse la cattolicissima figlia Elisabetta. Ovunque fosse, di sicuro suo padre non apprezzò il paragone. • Maria Leonarda Leone 101
TRADIZIONI
BUON Auguri, Riccioli d’oro!
Shirley Temple (1928-2014) con la sua torta di compleanno guarnita con otto candeline: allora era la bambina prodigio del cinema, soprannominata “Riccioli d’oro”.
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COMPLEANNO! I
La festa come la conosciamo oggi è nata nell’800, con l’affermarsi della famiglia borghese. Ma alcuni usi sono più antichi. Come la torta con le candeline, omaggio alla dea Artemide
CURIOSITÀ
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Nella Bibbia ci sono due “feste di compleanno”: quella del faraone e quella di Erode. Quest’ultimo, alla fine della sua danza, dona a Salomè la testa di Giovanni Battista.
l 28 agosto 1802 una torta con 53 candeline è pronta per celebrare il compleanno di uno dei più noti scrittori europei del Romanticismo, Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832). Questa data può essere individuata come la nascita del compleanno, per lo meno nei termini in cui lo si conosce oggi: un’occasione – come racconta Goethe stesso in alcune lettere inviate alla sorella – per fare un bilancio della propria vita, una ricorrenza che assume una dimensione collettiva e festosa, che ripropone antiche tradizioni e che si ripete ogni anno. Il compleanno in questi termini esiste solo a partire dall’800 e, come dimostra l’esempio dello scrittore tedesco, all’inizio si diffonde fra le classi sociali più alte. Solo nei decenni successivi l’usanza comincia a penetrare in tutte le classi sociali, finché nella seconda metà del secolo in Germania nasce la Kinderfest, la festa dei bambini: il piccolo (o piccola) festeggiato veniva svegliato all’alba con una torta decorata di candeline. Una più della sua età, a rappresentare la “luce di vita”: le candeline stavano accese per tutto il giorno e si sostituivano quando si consumavano. Auguri all’antica. Nonostante la festa di compleanno sia così “recente”, le tradizioni che la accompagnano vengono da tempi molto più lontani. Prendiamo ad esempio il dolce: pare sia di origine egizia. Tradizione vuole infatti che in occasione del compleanno del faraone i sudditi festeggiassero con cibi squisiti. Lo stesso facevano i Persiani, che preparavano una torta speciale, riservata al re, da offrire anche alle divinità e ai nobili. Il tutto, però, senza candeline. A quelle, secondo alcune ricostruzioni storiche, pensarono per primi i Greci. Sarebbero legate al culto della dea della caccia, Artemide, simboleggiata talvolta dalla Luna crescente e dalla sua luce. A lei venivano offerti dolci rotondi, decorati con lumini per renderli, appunto, brillanti come la Luna. Proprio come facciamo noi oggi con le candeline, gli antichi spegnendo quelle luci rivolgevano delle richieste alla divinità: gli antenati dei desideri che accompagnano oggi il “soffio” sulle candeline. I Greci infatti credevano che il fumo trasportasse agli dèi le preghiere. Dèi a parte, i Romani rendevano omaggio soltanto alla nascita di chi era dotato di un certo “pedigree”: nel loro calendario si festeggiava ad 103
In Mesopotamia e in Egitto era importante registrare il giorno della propria nascita: grazie a quel dato gli astrologi potevano fare l’oroscopo
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esempio il dies natalis (“giorno di nascita”) de- gato dalla Chiesa. Le sue origini pagane non gli imperatori e la ricorrenza di particolari even- rendevano il Natale una festa ben vista. Ben ti: dal natalis Romae (il 21 aprile, data tradizio- più importante era il giorno della morte di Crinale della fondazione dell’Urbe) al dies natalis sto, considerata la sua “vera nascita”, che porSolis Invicti, festa per la nascita del Sole (a di- tava salvezza all’umanità. Per assurdo, durante cembre, quando le giornate cominciano a rial- il Medioevo i vocaboli anniversarium e dies nalungarsi) istituita da Aureliano nel 274. Da allo- talis designavano non il compleanno, ma il giorra a Goethe trascorsero più o meno 1.500 anni, no della morte. Per indicare la nascita si usava durante i quali il compleanno fu poco conside- invece il termine “natività” (che anche oggi, con la maiuscola, indica il 25 dicembre): era questo rato, se non addirittura osteggiato. Identità vò cercando. Fino al XVI secolo, del unico evento a essere celebrato. Tra i più assidui nemici del compleanno c’eresto, pochissimi conoscevano la propria data di nascita. Non c’erano i registri dell’anagrafe ra sant’Agostino (IV secolo): per il padre della (c’erano quelli parrocchiali, ma solo nelle città e Chiesa la nascita, atto carnale, ricordava troppo solo in certe epoche) e gli unici a venire in soc- da vicino la perpetuazione del peccato originale. corso a figli e nipoti erano i familiari con la loro La rivoluzione protestante. Molto cambiò memoria. Ma anche così, non bastava: il fatcon la Riforma protestante che nel Quatto di conoscere il giorno del proprio completrocento mise in discussione il culto dei anno non significava infatti tenere anche il santi e promosse l’adozione di nomi divercalcolo della propria età. Come racconta lo si da quelli canonizzati. Il compleanno storico francese Jean-Claude Schmitt e i suoi festeggiamenti cominciaCURIOSITÀ nel libro L’invenzione del complerono così la loro marcia trionanno, misurare il passare del fale. Lo attestano documenMarco Polo si stupì tempo prevede competenze ti in cui sono menzionati quando nel suo viaggio in culturali che, per esempio in epoca medioevale, non Asia vide festeggiare erano diffuse. «Le varie foril compleanno del sovrano me di calendario utilizzate Qublai Khan: lo descrisse nella Storia», spiega il procome un evento fessor Pietro Meloni, doceneccezionale. te di Antropologia dei consumi all’Università di Siena, «servono sì a scandire il tempo, ma in modo circolare (seguendo il ritmo delle stagioni). Il compleanno invece, pur ricorrendo ogni anno, offre un calcolo del tempo lineare (con gli anni che passano). Sono due concezioni differenti». Insomma, per secoli nessuno ebbe a cuore il festeggiamento del proprio compleanno. «Ciò che mancava era la coscienza della persona in quanto individuo. È riconoscere l’individualità, propria e degli altri, che ci spinge a festeggiare una persona. Un concetto che, storicamente parlando, è molto recente. Nel Medioevo ai neo nati veniva quasi sempre dato il nome del santo festeggiato in quel giorno: la festa era quella religiosa, non quella dell’individuo». Come dire che l’onomastico coincideva con il compleanno, e sicuramente era più importante. Persino il compleanno cristiano per eccellenza, il dies natalis di Gesù, per secoli è stato ne104
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Feste da re In alto, il banchetto di compleanno di Erode, con la danza di Salomè, in un dipinto dell’800. Degli stessi anni è il quadro a sinistra: la regina Vittoria d’Inghilterra e il marito Alberto festeggiano il 1° compleanno del principe Arthur.
Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, festeggiò (cosa eccezionale per l’epoca) tutti i suoi 86 compleanni nella residenza estiva di Bad Ischl (Salisburgo).
In alto i calici! Brindisi di compleanno al cuoco di corte nei saloni di Versailles ai tempi del Re Sole. Il dipinto è di fine ’800 ed è stato eseguito dal pittore Andrea Landini: in quegli anni nell’alta società si diffuse la pratica delle feste di compleanno. 105
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CURIOSITÀ
L’attrice Marilyn Monroe il 1° giugno 1956, giorno del suo trentesimo compleanno. Nel 1962 (anno in cui l’attrice si uccise) cantò Happy Birthday al presidente John F. Kennedy.
alcuni compleanni di vip. Il diario di Jean Héro- che esulasse dal quotidiano bilanard, medico di Luigi XIII di Francia, segnala (fat- cio familiare», continua infatti Meto insolito) con precisione data e ora di nascita loni. Insomma, era cosa da re o da del futuro sovrano, venuto al mondo nel 1601 nobili. «E non va sottovalutato il fat“alle ore quattordici della Luna nuova, alle die- tore tempo, o meglio tempo libero. ci e mezza e un quarto secondo il mio orologio”. In una famiglia di contadini nessuno Sappiamo anche che nel 1605 Luigi “vuol far avrebbe sprecato tempo per festegcantare il Te Deum nel giorno del suo complean- giare, perché il tempo era quello del no”, sobria festicciola che si ripeté due anni do- lavoro e delle faccende domestiche. po. E nel 1611, sovrano da un anno, Luigi XIII L’usanza si diffuse quindi quando si cominciò a concepire una dimensione temsi rifiutò di studiare “perché quel giorno porale diversa, non più legata solo all’inera quello della sua nascita”. Insomma, un combenza lavorativa». giorno di festa e di riposo, almeno per lui. Per questo il 53° compleanno di GoeArrivano i bambini. Un dipinto, semthe si può considerare “il complepre del Seicento, contiene invece CURIOSITÀ anno dei compleanni”: per la le prime notizie di “compleanprima volta ritroviamo tutni” di bambini senza corona. I cinesi contano gli anni ti gli elementi tipici di un Era il 1649 quando Philippe a partire dal concepimento rituale legato alla borghede Champaigne, insieme sia e che noi oggi riconoalla data e alla propria fire arrotondando per sciamo come tradizionama, riportò con precisioeccesso. Quindi i 9 mesi di li: gli amici e i parenti riune da ufficio anagrafe, sul gravidanza aggiungono un niti, la torta e le candeline. loro ritratto collettivo (foranno rispetto al conteggio Elementi, come abbiamo vise un regalo?), l’età dei setoccidentale. sto, con un passato, ma rivisti te fratelli de Montort: “Henri in chiave moderna. L’unica cosa Louis Habert 10 anni / Jean Balche mancò al compleanno del poeta thazar 7 anni e 6 mesi / Louis e Jetedesco fu sentire “tanti auguri a te”. Per quello an Paul 4 anni e 9 mesi / Anne Louise 3 anni 3 mesi / François 23 mesi / Jean Louis 8 mesi”. si dovette aspettare l’inizio del Novecento, l’enPassarono un altro paio di secoli prima che, tusiasmo di due maestrine americane e il poteè il caso di dire, la festa cominciasse davvero. re commerciale di una casa discografica che ha «Per organizzare una festa di compleanno era reso celebre il motivetto (v. riquadro a destra).• necessario avere una disponibilità economica Elisa Bortolini
Gli anni del Führer
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Bambini della Gioventù hitleriana festeggiano i 50 anni di Adolf Hitler nel 1939. Anche altri dittatori fecero (come gli imperatori romani) una festa pubblica, con finalità propagandistiche.
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L’origine dei regali pare sia greca: farli proteggeva chi li riceveva dagli spiriti maligni
Il compleanno della diva
LA CANZONCINA CONTESA
A
ttenzione a intonare Tanti auguri a te a voce troppo alta: la Warner/Chappell Music potrebbe chiedervi il pagamento dei diritti d’autore. O meglio, essendo la proprietaria della melodia Happy Birthday to You, ne rivendica i diritti ogni volta che la canzone viene utilizzata in programmi televisivi o film. La questione dei diritti in realtà è controversa almeno quanto le origini del motivetto. Fu inventato nel 1893 da due maestre del Kentucky, le sorelle Hill, che cantavano, sulle note di quella melodia, Good morning to all (“Buongiorno a tutti”) ai loro bambini. Le due sorelle vendettero la musica alla Clayton Summy Company, che la pubblicò. Incroci. Le parole di Happy Birthday to You furono invece pubblicate dall’editore Robert Coleman nel 1924: non si sa chi abbia messo insieme la melodia e le parole di buon compleanno. L’accoppiata ebbe però successo, tanto che Jessica Hill, sorella delle due maestre, ne rivendicò i diritti e vinse la causa. Dopodiché cedette il copyright alla Clayton Summy Company (poi acquisita dalla Warner), che nel 1935 pubblicò la canzone Happy birthday, con la melodia di Good morning to all e il testo Happy Birthday to You.
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AndreA FrediAni
È nato a Roma nel 1963; consulente scientifico della rivista «Focus Storia Wars», ha collaborato con numerose riviste specializzate. Con la Newton Compton ha pubblicato diversi saggi (tra cui Le grandi battaglie di Roma antica; I grandi generali di Roma antica; I grandi condottieri che hanno cambiato la storia; L’ultima battaglia dell’impero romano e Le grandi battaglie tra Greci e Romani) e romanzi storici: Jerusalem; Un eroe per l’impero romano; la trilogia Dictator (L’ombra di Cesare, Il nemico di Cesare e Il trionfo di Cesare, quest’ultimo vincitore del Premio Selezione Bancarella 2011); Marathon; La dinastia; Il tiranno di Roma, 300 guerrieri e 300 Nascita di un impero. Sta scrivendo Gli invincibili, una quadrilogia dedicata ad Augusto, iniziata con la pubblicazione di Alla conquista del potere, La battaglia della vendetta e Guerra sui mari. Le sue opere sono state tradotte in sei lingue. www.andreafrediani.it
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N°13 Giugno 2014 d € 6,90
L’inarrestabile marcia del condottiero che non conobbe sconfitte
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Periodico associato alla FIEG (Federaz. Ital. Editori Giornali)
Accertamento Diffusione Stampa Codice ISSN: Certificato n. 7151 del 14/12/2011 1824-906x
Fino alle soglie dei tempi moderni, e in alcuni casi anche in seguito, qualunque generale che aspirasse a lasciare una traccia di sé nella Storia si è posto come modello Alessandro Magno. Il sovrano macedone fu un conquistatore impareggiabile, uno stratega raffinato, un tattico lucido e brillante un generale imbattuto e, soprattutto, un condottiero di inarrivabile coraggio, sempre in prima fila in battaglia e sotto gli spalti di una roccaforte nemica, colpito, ferito e vicino alla morte decine di volte ma in grado, con il suo esempio, di motivare i propri uomini come nessun altro comandante. Ma quanta parte ebbero, nelle sue vittorie, le innovazioni e le conquiste di suo padre, Filippo II di Macedonia, la debolezza di un impero in decadenza come quello persiano, e infine la fortuna, che gli permise di uscire vivo, seppur malconcio, da tutte le più temerarie azioni belliche? Questo libro racconta le imprese di Alessandro depurandole dall’incredibile mole di leggende fiorite sul suo conto dopo la prematura morte, analizzando, oltre agli strumenti e alle capacità che gli consentirono di diventare il più grande condottiero di tutti i tempi, i limiti e i difetti della sua strategia militare e le circostanze che favorirono i suoi successi.
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Rivoluzionari
La vera storia di Paul Revere
Censure e bavagli
Il Massacro di Boston del 1770 fu davvero la strage che accese la miccia della Rivoluzione americana? E chi era davvero il patriota Paul Revere?
Da quando esistono, i giornali sono stati nel mirino della censura: la libertà di stampa è una conquista relativamente recente.
ARCHEOLOGIA
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anniversari
Marignano 1515
Il terzo muro di Britannia
Nel settembre di 500 anni fa, la “battaglia dei giganti”: Francesco I di Francia e i veneziani contro milanesi e svizzeri.
Ai confini settentrionali dell’Impero romano gli archeologi hanno scoperto un terzo vallo anti-barbari, oltre a quelli più famosi di Adriano e di Antonino.
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flashback
Il cane attore Rin Tin Tin nel 1928 in spiaggia con le “colleghe” attrici Myrna Loy e Leila Hyams. Il pastore tedesco della foto, protagonista di molti film degli Anni ’20 e ’30, è il trisavolo del per noi più noto Rin Tin Tin IV, protagonista della serie tv Le avventure di Rin Tin Tin (1954-59). Il “Rinty” (questo il suo soprannome) capostipite della dinastia era miracolosamente sopravvissuto alla Grande guerra. Nel 1918 fu ritrovato ancora cucciolo da un soldato americano, Lee Duncan, in un campo di addestramento austriaco appena bombardato. L’uomo lo portò con sé in California, lo addestrò e ne fece un divo di Hollywood. 110
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✔ serie ineDita in italia ✔ granDe formato cartonato ✔ volumi tutti a colori Alix, un orfano che vive nella Roma del I sec. a.C., viene adottato dal nobile patrizio Onorio Gracco e grazie alla sua intraprendenza compie ardite missioni per conto del grande Gaio Giulio Cesare. Alix viaggerà dalla Grecia a Cartagine, dall’Egitto alla Gallia, dai Balcani fino alla Cina, componendo con le sue avventure un affresco storicogeografico a fumetti che ha appassionato più di tre generazioni di lettori. Accanto a grandi protagonisti dell’antica Roma quali Pompeo, Ottaviano, Cleopatra, Alix si distingue per il ferreo senso della giustizia e l’indomito coraggio.
Dal 16 settembre, ogni mercoledì in edicola libreria e fumetteria.
www.mondadoricomics.it
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