Storia SCOPRIRE IL PASSATO, CAPIRE IL PRESENTE
n°124 Febbraio
MENSILE – Austria, Belgio, Francia, Lussemburgo, Portogallo, Spagna � 8 - MC, Côte d’Azur � 8,10 - Germania � 11,50 - Svizzera CHF 10,80 - Svizzera Canton Ticino CHF 10,40 - Canada CAD 11,50 - USA $ 11,50
HITLER
Il “fuori onda” che nel 1942 registrò le idee del Führer sulla guerra
Le dinastie di Roma
17 GENNAIO 2017 - MENSILE � 4,90 IN ITALIA
Sped. in A.P. - D.L. 353/03 art.1, comma 1, DCB Verona
TRAME, INTRIGHI, PERSONAGGI LE GRANDI FAMIGLIE DELL’URBE DALLA FONDAZIONE ALL’IMPERO CUBA
FATTI E PROTAGONISTI DELL’ISOLA CARAIBICA, DA COLOMBO A FIDEL CASTRO
SETTECENTO
LE SORELLE NESLE, DALLA PROVINCIA AL LETTO DEL RE DI FRANCIA
VITA QUOTIDIANA COME IL COTONE CONQUISTÒ IL MONDO E RISCRISSE LA STORIA
124 febbraio 2017
focusstoria.it
Storia Il matrimonio di Venere e Marte, in un affresco di Pompei.
A
Jacopo Loredan direttore
Le parole rubate al Führer nel 1942.
18 TECNOLOGIA 3.600 km
sotto i mari
La posa del primo cavo transatlantico.
24 ASETTECENTO letto con il re Le sorelle Nesle, amanti di Luigi XV.
FAMIGLIE ROMANE 36
Gens: il potere di Roma I legami tra politica, denaro e famiglia spiegati dagli storici.
40 Nati per la guerra Gli Emili signori delle legioni e gli Scipioni nemici di Cartagine.
46 Potenti matrone Cornelia, Livia Drusilla, Agrippina e le altre: le donne e il potere.
52 Sangue etrusco Urgulani: ascesa e caduta di una casata etrusca alla corte di Augusto.
RUBRICHE 4 6 9 10 12 72 74 76 77 114
LA PAGINA DEI LETTORI NOVITÀ & SCOPERTE AGENDA MICROSTORIA COLD CASE UNA FOTO UN FATTO DOMANDE & RISPOSTE SCIENZA E SCIENZIATI IN ALTRE PAROLE FLASHBACK
IN PIÙ...
RIVELAZIONI 14 Hitler fuori onda
GETTY IMAGES
nche gli antichi Romani “tenevano famiglia”. Ma non era considerato un difetto, anzi. I legami di parentela durante buona parte della storia dell’Urbe rinforzavano infatti il tessuto della società ed erano quasi più rilevanti delle istituzioni statali. Ciò era particolarmente vero in epoca repubblicana e riguardava soprattutto l’aristocrazia, ma anche in età imperiale le famiglie, specie quella regnante, mantennero un ruolo centrale nella politica e nell’amministrazione. Certo, si trattava di clan molto estesi, ai quali si poteva accedere persino da adulti e senza legami di sangue o matrimonio con altri componenti. Ma sempre famiglie erano. Il che non impedì a Roma di prosperare, pur con governanti così attenti agli interessi del proprio gruppo da averci trasmesso in eredità termini come “clientela” e “clientelare”.
CI TROVI ANCHE SU:
54 Gli imperatori venuti dal nulla I Flavi: Vespasiano, Tito e Domiziano imperatori dal pugno di ferro.
60
Fraterni intrighi La dinastia dei Severi, funestata da una lotta fratricida.
66
Gente dell’Urbe Giuli, Claudi, Fabi e gli altri “nomi che contano” della storia romana.
ECONOMIA 28 Come il cotone
cambiò il mondo Dagli Arabi agli Usa.
78 IGUERRE sentieri della
Grande guerra
I luoghi del fronte alpino, rivisitati oggi.
NOVECENTO 84 Disastri spaziali
I clamorosi fallimenti nella corsa allo spazio.
CULTURA 86 Maledetti libri I testi proibiti del sapere occulto.
NOVECENTO 92 Mazzetta nera
Il Ventennio fu senza corruzione? Pare di no.
D’ITALIA 96 IlSTORIE mistero dei
Malaspina
La nobildonna, lo stalliere e un fantasma.
GRANDI TEMI 100 Da Colombo
a Castro
Cinque secoli a Cuba.
106 CRIMINALITÀ Le parole
della camorra
Dalle origini a oggi, la storia nel gergo. IMMAGINE DI COPERTINA DI GRZEGORZ PĘDZIŃSKI
3
LA PAGINA DEI LETTORI
Segnalazione da Twitter
rapia: fatti storici alla mano, è facile dimostrare secondo gli autori che non siamo mai stati meglio di così. Un’indicazione bibliografica da aggiungere a quella fornita nel numero 123 di Focus Storia dedicato alle epoche più felici del passato.
Alla scuola dell’obbligo
L’età più felice? La nostra Sul profilo Twitter di Focus Storia (twitter.com/FocusStoria) è arrivata la segnalazione del libro di Lia Celi e Andrea Santangelo: Mai stati meglio - Guarire da ogni malanno con la Storia (Utet). Si tratta di un libro che con ironia scorre i secoli passati scoprendo che oggi stiamo vivendo uno dei momenti più positivi, confortevoli e ricchi di opportunità dall’apparizione dell’uomo sulla Terra. Un modo per spronare il lettore a usare la Storia come te-
Ho letto su Focus Storia n° 122, alla pagina dei lettori, la risposta a un lettore che vi contesta la data della istituzione delle classi miste. Mi sembra abbia ragione. Io sono nata nel 1942 e sia alle medie sia all’istituto tecnico di ragioneria – scuole pubbliche – sono sempre stata in classi miste e nel 1962 avevo già vent’anni; lo stesso posso dire di mia sorella nata nel 1935, che ha conosciuto il futuro marito al ginnasio. Roma era quindi una città all’avanguardia? Gabriella Fantozzi (Roma) Le classi miste alle quali si faceva riferimento nel n° 122 erano quelle della scuola dell’obbligo e in particolare delle elementari, non dell’istruzione superiore.
A fianco del papa Sopra, la bolla con cui nel 1486 papa Innocenzo VIII confermava Torquemada (1420-1498) nel ruolo di Grande Inquisitore, carica ricevuta tre anni prima da Sisto IV (a sinistra, in un dipinto dell’800, con lo stesso Torquemada).
Era il capo assoluto dell’Inquisizione spagnola e il suo nome è sinonimo di crudeltà. Ma che cosa c’è di vero dietro la leggenda nera di Tomás de Torquemada?
Il grande
InquIsItore Sulle tracce degli ebrei espulsi da Torquemada Ho letto con grande interesse l’intensa e nefasta “opera” di Torquemada nella conversione e nell’espulsione degli ebrei di Spagna. Si dà il caso che io sia discendente di questi ebrei espulsi intorno al 1492 e poi sparsi principalmente nel Mediterraneo (Turchia, Grecia...). Infatti mio padre, nato a Rodi, e mia madre, nata a Izmir (Smirne, in Turchia), parlavano a casa l’antico spagnolo, chiamato “judeo spagnolo”. Un vecchio articolo di giornale di Izmir in mio possesso commenta la visita del re di Spagna Alfonso
G
“
iuda una volta ha venduto il figlio di Dio per trenta denari. Le vostre maestà pensano di venderlo ancora per trentamila? Eccolo. Vendetelo dunque, ma tenetemi fuori in ogni modo dalla transazione”, sbottò con voce tonante il priore di Santa Cruz. E gettato, con un gesto teatrale, il crocifisso sul tavolo davanti al re e alla regina, uscì dalla sala senza voltarsi. Chi era quell’uomo di Chiesa alto e segaligno che osava rivolgersi così a Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, i cattolicissimi sovrani di Spagna? E quale causa perorava con tanto ardore? Il suo nome era Tomás de Torquemada ed era il capo dell’Inquisizione spagnola. E, alla faccia della suspense, vi diciamo subito che il plateale tentativo di convincere le Maestà a firmare l’editto di espulsione di tutti gli ebrei dalla Spagna, nonostane le ricchezze che questi offrirono per rimanere, nel 1492 andò a buon fine. 43
XIII a Izmir, nel 1892. Il sovrano scopre l’esistenza di una comunità di ebrei provenienti dalla Spagna che hanno conservato l’uso della lingua spagnola. Consapevole delle ragioni dell’espulsione e stupito dell’attaccamento alla cultura spagnola, il re avrebbe promesso di autorizzare questi ebrei a tornare in Spagna acquisendo tutti i diritti da cittadino dopo 500 anni. Non mi risulta che ci siano stati candidati al ritorno, ma un fatto è certo: il capo dell’Inquisizione spagnola, il famigerato fra Tomas di Torquemada, si sarà rivoltato nella tomba. Roberto Capelluto, Corte Franca (Brescia)
I Borbone di Francia
Identificata la catena misteriosa L’oggetto presentato nella Pagina dei lettori del n° 122 dovrebbe essere il sostegno di un balangandan, purtroppo privato di tutti i suoi pendagli, probabilmente venduti singolarmente. Il balangandan è un oggetto brasiliano, normalmente realizzato in prata da lei (letteralmente “argento della legge”, cioè argento di basso titolo e quindi di scarso valore). I pendagli rappresentano in genere frutti, pesci, ma anche svariati oggetti e, a volte, sono frammisti a pietre dure. Nel passato, le donne del popolo usavano adornarsi di questi amuleti nei giorni di festa (presumo in un formato minore!), per tenere lontano il malocchio e come portafortuna. Il nome balangandan è onomatopeico e deriva dal rumore tipico prodotto dai pendagli in movimento. Terry J. Mills 4
primo piano
Inviateci opinioni, idee, proposte, critiche. Pubblicheremo le più interessanti oltre a una selezione dei commenti alla nostra pagina Facebook (www.facebook.com/FocusStoria). Scrivete a Focus Storia, via Battistotti Sassi 11/a, 20133 Milano o all’e-mail
[email protected]
Sono sempre rimasto soddisfatto dagli articoli proposti e mi piacerebbe sapere qualcosa di più riguardo ai Borbone di Francia... Sostanzialmente un percorso a grandi linee su Enrico IV, Luigi XIII, Luigi XIV, Luigi XV, Luigi XVI e le sue tristi vicissitudini (come il figlioletto Luigi XVII morto a dieci anni!), Luigi XVIII ecc... Sarebbe molto bello fare un panorama su questo argomento. Luca Di Pietrantonio
Ci siamo occupati a più riprese delle vicissitudini dei Borbone di Francia e torneremo a occuparcene presto in uno dei prossimi numeri di Focus Storia.
AA/MONDADORI PORTFOLIO
Ricordando Star Trek
L’amico di Alessandro Magno Riguardo al bellissimo articolo dedicato ad Alessandro Magno nel numero 122, citate Efestione come l’amico più caro di Alessandro. Sono vere le voci secondo le quali oltre a essere stato il suo migliore amico sarebbe stato anche qualcosa di più? Mariaceleste, Villa Celiera (Pescara)
Efestione fu sicuramente una delle persone più intime di Alessandro Magno (sopra), suo amico e compagno fin dalla fanciullezza e un collaboratore molto stretto una volta che il principe macedone fu salito al potere. Secondo il filosofo Aristotele, maestro del condottiero, i due erano “una sola anima dimorante in due corpi”. Non è tuttavia dimostrabile che fossero amanti, sebbene già nell’antichità alcuni lo abbiano ipotizzato. Tra gli storici che paragonarono la relazione tra Alessandro ed Efestione a quella tra Achille e Patroclo (i due guerrieriamanti dell’Iliade), ci fu Arriano di Nicomedia, vissuto però due secoli più tardi.
Memorie di guerra Rovistando tra vecchie carte ho trovato un resoconto scritto da mio nonno della sua
partecipazione alla campagna d’Etiopia (1936) con la Divisione 28 Ottobre del generale Somma. Il resoconto è stato scritto a macchina nel 1984 e riporta i suoi ricordi vivissimi delle due battaglie del Tembien (il massacro di passo Uarieu) con l’intento di inviarlo poi a una rivista di storia. Cosa che cerco di fare io per lui. Ovviamente il nonno è mancato tanti anni fa (a 98 anni dopo una vita intensissima passata in guerra e poi nella carriera militare come bersagliere) ed è un peccato avere solo questo racconto. Sto trovando però tanto suo materiale fotografico (per esempio l’entrata a Fiume dei bersaglieri in bicicletta). Mi chiedo se il racconto possa essere di vostro interesse. Lucia Cottinelli
Non pubblichiamo in forma integrale vicende singole dei tanti soldati italiani impegnati nelle diverse guerre in quanto di interesse forse non abbastanza generale. Tuttavia, segnaliamo sempre volentieri episodi e memorie come quella della lettrice. Se Lucia vorrà inviarci le fotografie potremmo magari dedicare uno spazio a quelle immagini storiche in queste pagine dedicate ai lettori.
Da spettatore delle fantastiche avventure spaziali dell’equipaggio in “pigiama colorato” dell’astronave USS Enterprise, vi ringrazio per l’articolo di Roberto Roveda “Star Trek oltre i confini della tv” (Focus Storia n° 121). Da giovane negli anni Ottanta rimasi affascinato dalla sua filosofia ispirata ai valori positivi dell’Illuminismo e del Razionalismo e come tanti ammiravo il personaggio dello scienziato vulcaniano dalle orecchie a punta, il signor Spock, combattuto interiormente tra la rigorosa logica della scienza e le emozioni ereditate dalla madre umana. Da allora ho sempre sognato di spostarmi velocemente con il teletrasporto, mezzo utilissimo in metropoli congestionate come la mia Roma, di essere visitato dal dottor McCoy con il suo strabiliante e non invasivo apparecchio medico “tricoder” e di far trasmettere dall’incantevole tenente Uhura l’avvertimento a tutto l’Universo di tenersi alla larga dal pianeta Terra a causa dell’immensa malvagità degli uomini. Fabio Lambertucci, Santa Marinella (Roma)
Alla ricerca della fiction perduta Sono una vostra fedelissima lettrice (ho comprato e conservato tutti i numeri di Focus Storia a partire dal primo, incluse i vari Collection) e avrei da chiedervi notizie circa uno sceneggiato (o come si dice oggi una fiction) ambientato nel periodo della colonia penale dell’Australia. Non conosco né l’anno preciso, né la nazione di produzione, né il titolo originale né quello della versione italiana. Posso solo darvi alcune indicazioni: veniva trasmesso in Liguria da TV Esse (legata in quel periodo a Rete4) negli Anni ’70 e raccontava la storia di una ragazza inglese accusata di furto e spedita proprio nella colonia penale
dell’Australia. Qui la ragazza si guadagnava il rispetto delle autorità e otteneva una casa propria e poi... Non ricordo più cosa accadde dopo o meglio, siccome l’emittente televisiva saltava la programmazione, ho perso varie puntate e perciò dopo tutti questi anni ho ancora voglia di sapere come è andata a finire. Vorrei avere l’opportunità di rivederlo perché gli sceneggiati storici sono i miei preferiti: è da ciò che si sono riaccesi il mio desiderio di notizie e ovviamente di curiosità per come i galeotti hanno “colonizzato“ l’Australia, perché il periodo storico ’700’800 è quello che mi interessa maggiormente. Caterina Fabbiani
Abbiamo fatto qualche ricerca, ma non siamo riusciti a risalire alla serie televisiva di cui parla la lettrice. Giriamo il quesito ai nostri lettori, che magari possono aiutarla scrivendo a Focus Storia. Quanto al tema dell’Australia come colonia penale, ce ne occuperemo.
I NOSTRI ERRORI
Focus Storia n° 123, pag. 82: la famiglia fiorentina Oderlaffi si chiamava in realtà Ordelaffi. Focus Storia Collection “Grandi dittatori”, pag. 10: Rafael Trujillo fu dittatore della Repubblica Dominicana, non della Dominica. 5
novità e scoperte
Coppia reale GETTY IMAGES (3)
Nefertari (a sinistra) in trono accanto al marito Ramses II (XIII secolo a.C.).
Le gambe della regina
D
ue gambe mummificate, conservate da oltre cento anni al Museo Egizio di Torino, potrebbero appartenere a Nefertari, moglie del faraone Ramses II (XIII secolo a.C.). Ad avanzare l’ipotesi sulla rivista Plos One, dopo quattro anni di analisi e ricerche, è stato un team internazionale di studiosi. I resti furono trovati nel 1904, assieme a un paio di sandali, dall’archeologo piemontese Ernesto Schiaparelli nella tomba di Nefertari (che si trova presso Luxor, nella Valle delle Regine). Le gambe, esposte al Museo Egizio torinese, non erano mai state analizzate, almeno fino a oggi.
IN PILLOLE
1
Identikit. Secondo gli esperti che se ne sono occupati, i resti potrebbero davvero essere di Nefertari. Innanzitutto gli arti sono quelli di una donna alta circa 165 centimetri (sopra la media dell’epoca), defunta attorno ai 40 anni, come Nefertari che morì quarantenne nel 1255 a.C. circa. I sandali, inoltre, corrispondono a un moderno 39-40 e potevano appartenere a una donna alta. Si è infine osservato che Nefertari fu sepolta da sola e che il processo di mummificazione (corpo avvolto in bende ricoperte di grasso animale) è tipico dell’epoca in cui visse. (s. z.)
Sacrifici di massa in Cina
Nella provincia cinese di Shaanxi, in un vasto sito sacrificale del III secolo a.C., sono emersi 2.000 oggetti: tra questi, strumenti per compiere i sacrifici, soprattutto di cavalli. 6
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NEBBIA ASSASSINA
Nel dicembre 1952, una coltre di smog ricoprì Londra per cinque giorni causando almeno 12mila vittime. Oggi arrivano le risposte definitive sulle cause di questo fenomeno.
L’ultima casa di Augusto
Una villa scavata dal 2002, in provincia di Napoli, potrebbe essere, per gli archeologi, l’ultima dimora dell’imperatore Ottaviano Augusto (63 a.C.-14 d.C.).
3
La lista di Los Angeles
Scoperto al consolato tedesco di Los Angeles un elenco di vip in contatto con i nazisti negli Anni ’30-’40; accademici, industriali e persone dello spettacolo, anche insospettabili.
La Storia e i Simpson
I
Invisibile Il Grande smog che avvolse Londra nel 1952 non fu semplice nebbia. Gli scienziati hanno scoperto soltanto oggi come si formò e perché fu così letale.
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ra il 5 e il 9 dicembre 1952 Londra fu invasa da una nebbia fittissima e malsana. La visibilità si ridusse drasticamente e oltre 150mila persone furono ricoverate per problemi respiratori; tra queste, 12mila morirono. Ma che cosa le aveva uccise? Per più di 60 anni si è indagato il mistero del Grande smog di Londra e oggi un team di scienziati guidati da Renyi Zhang della Te-
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xas A&M University (Usa) ha una risposta: fu un mix letale di anidride solforosa e acido solforico, tossici se respirati in grandi quantità. Cocktail fatale. Si pensava che la nebbia fosse stata causata dall’intenso utilizzo degli impianti di riscaldamento nelle case dei londinesi, ma la verità è più complessa. Gli esperti hanno dimostrato – analizzando l’aria di Pechino e Sian, due delle città
Tacchini (e cani) nel menu
I resti di tacchino presso un sito zapoteco (Messico) di 1.500 anni fa suggeriscono che l’animale venisse allevato e consumato in grandi quantità. Era secondo solo al cane.
5
più inquinate al mondo, ed effettuando sperimentazioni in laboratorio – che la combustione del carbone provoca la formazione di anidride solforosa; la presenza dell’umidità facilita la reazione di ossidazione dell’anidride solforosa da parte del biossido di azoto, che genera anidride solforica che, a contatto con l’umidità, produce il micidiale acido solforico. • Simone Zimbardi
Un governatore sconosciuto
Ritrovato in Israele un blocco di pietra di 1.900 anni fa, forse il basamento di una statua. Riporta il nome di un governatore romano della Giudea finora ignoto.
n un episodio andato in onda nel 2000, Lisa Simpson (sotto, con il fratello Bart) diventava il primo presidente donna degli Stati Uniti. Era il 2030 e a lasciarle la poltrona c’era niente di meno che l’attuale presidente Donald Trump. Chi ha detto che sono solo cartoni animati? «I Simpson aiutano a leggere gli eventi storici, anche se spesso in modo originale», sostiene Giancarlo Poidomani. Docente di Storia contemporanea all’Università di Catania, Poidomani ha spiegato in un libro, I Simpson e la Storia. Viaggio nel tempo a bordo di un divano (Sironi Editore), alcuni cruciali eventi storici presenti in un mezzo migliaio di episodi della serie. Radici lontane. Gli spunti forniti dalla famiglia gialla più famosa della tv sono tanti: nonno Simpson ha combattuto nella Seconda guerra mondiale e il preside Skinner è un reduce del Vietnam. Non mancano poi ben precisi riferimenti alla storia americana degli ultimi secoli, come lo scandalo Watergate (1972), il proibizionismo degli anni Venti del Novecento, i settecenteschi padri fondatori e i nativi americani. (m. l. l.)
AKG/MONDADORI PORTFOLIO
novità e scoperte
Che cosa c’è dentro?
ANSA
Sullo sfondo, la piramide di Kukulkán a Chichén Itzá: al suo interno si nascondono altre due costruzioni.
Le navi di Pisa
C
ome viveva un marinaio di duemila anni fa? Potete scoprirlo visitando il Museo della antiche navi romane, negli Arsenali medicei di Pisa (sopra). Il museo ha aperto a fine novembre (anche se solo parzialmente e visitabile su prenotazione), a 18 anni dalla scoperta della cosiddetta “Pompei del mare”: trenta relitti individuati e 7 recuperati con il loro carico, di età compresa tra il III secolo a.C. e il VII d.C. Affondate da ripetute alluvioni, nella zona in cui nell’antichità scorreva il fiume Auser, le navi si sono conservate grazie al particolare tipo di fondale. In mostra. In attesa che l’allestimento sia completato, nelle sale IV e V del museo sono state esposte le prime quattro, sottoposte a un restauro innovativo: una veloce piroga (II secolo d.C.), una imbarcazione dello stesso secolo, adibita al trasporto merci e lunga come due pullman in colonna, un traghetto fluviale a fondo piatto (III-IV secolo d.C.) e una grossa imbarcazione lunga 13 metri (VI secolo d.C.). Oltre alla ricostruzione a grandezza naturale di una nave da guerra del I secolo d.C.: la Alkedo. (m. l. l.)
Piramide matrioska Nel tempio maya di Kukulkán scoperta una nuova struttura. E non è l’unica.
S
otto la piramide di Kukulkán a Chichén Itzá (Messico), nota come El Castillo, si nascondono ben due piramidi di epoche anteriori, costruite su un cenote (pozzo sacro di origine naturale) individuato l’anno scorso. È quanto riporta René Chávez, geofisico dell’Università nazionale autonoma del Messico e coordinatore del progetto, che paragona il complesso a una
matrioska. Una struttura sottostante era già stata scoperta nel 1930. Ora, con una tecnica non invasiva (tomografia elettrica 3D), gli archeologi hanno individuato una terza piramide a gradoni più antica, alta 10 m, con una scalinata che portava molto probabilmente a un altare costruito sulla cima. A strati. Questa struttura risale alla prima fase di occupazione dell’area da parte dei
Maya (550-800), fase seguita da un periodo influenzato dai Toltechi (800-1000), cui corrisponde la piramide intermedia di 20 metri, e da uno conclusivo durante il quale fu eretta l’attuale struttura in stile messicano, alta 24 metri. La scoperta di questa costruzione, di stile considerato “puro”, potrà fare luce sul primo periodo della cultura maya nella penisola dello Yucatán, ancora poco noto, e su questo grande centro cerimoniale, tra i più ampi d’America. • Giuliana Lomazzi
I block notes di Gesù
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otremmo definirlo la Moleskine di Gesù, il prezioso codice composto da tavolette di piombo, rilegate come un piccolo block notes ad anelli e pieno di informazioni su Cristo (inclusa la sua più antica raffigurazione). Scoperto da un beduino in una grotta della Giordania 8 anni fa, quando venne mostrato alla stampa, molti accademici lo
giudicarono un falso. Ma ora due scienziati dello Ion Beam Centre della Surrey University (Inghilterra) ne hanno confermato l’autenticità. Rivelazioni. Analizzando la struttura del piombo e confrontandola con un campione di epoca romana, Roger Webb e Chris Jeynes hanno datato il reperto a circa 1.800-2.000 anni fa. Analisi
linguistiche hanno poi confermato che il codice è scritto in ebraico antico: secondo l’archeologo David Elkington, che guida le indagini, il testo rivelerebbe che Gesù non voleva fondare una nuova religione. Voleva soltanto ripristinare l’antico culto ebraico dei tempi del re Davide (X secolo a.C.), che nel frattempo si era perduto. (m. l. l.)
agenda A cura di Irene Merli
MOSTRA
URBIN0
Giocattoli d’altri tempi
U
n viaggio a ritroso nel tempo in un mondo poco frequentato dalle mostre: quello dei “balocchi” e dei passatempi. Giochiamo!, esposizione allestita nel Palazzo Ducale di Urbino, racconta in particolare due periodi storici, il Rinascimento e il Barocco, attraverso una serie di scacchiere, libri, mazzi di carte, giocattoli che si diffusero in Europa dal Quattrocento al Seicento, tra bambini e nobili. Risultato? Il visitatore scopre un mondo ludico che stupisce, anzitutto per la ricercatezza. Dalle trottole al calcio. Nel percorso espositivo si alternano pezzi del gioco degli scacchi in oro e argento, tavole da gioco in marmo, corno, co-
Pezzo di scacchiera tedesca, del XVI secolo. A lato, bambini che giocano in un dipinto del ’700.
rallo e rarità come una piccola scatola intarsiata in avorio contenente giocattoli in miniatura. La mostra presenta poi i giochi dei bambini: palli-
ne, birilli e trottole cinquecentesche, bambole di stoffa e figurine in legno. Una sezione, attraverso dipinti e incisioni, introduce infine ai giochi di
movimento, che nel Rinascimento si svolgevano prevalentemente all’aperto: pallacorda, pallone con il bracciale e calcio fiorentino. •
Fino al 5/2. Galleria nazionale delle Marche. Info e prenotazioni: 0722 322625; www.gallerianazionalemarche.it
MOSTRA
NAPOLI
Carlo III e l’archeologia Sessanta opere tra dipinti, disegni, incisioni, sculture, matrici in rame testimoniano la passione di Carlo III per le antichità e per la diffusione in Europa degli inestimabili tesori di Napoli. Fino al 16/3. M.A.N.N., Info e prenotazioni: 848 800 288
Due immagini del coro intarsiato della Basilica di Santa Maria Maggiore, disegnato da Lorenzo Lotto.
BERGAMO
EVENTI
Una città per Lorenzo Lotto Lorenzo Lotto - Attraverso Bergamo è un percorso che parte dall’Accademia Carrara, dove sono esposte 12 opere del grande pittore veneto, tra cui due inedite e una tarsia di recente scoperta. Poi continua in una serie di chiese in cui sono conservate splendide
pale lottesche (non sempre accessibili). E culmina nella visita del Coro ligneo di Santa Maria Maggiore, con 70 tarsie in gran parte di suo disegno. Fino al 26/2. Info e prenot. (obbligatorie per il Coro del Duomo e per il Lotto tour) www.lacarrara.it/attivita/ll8/
IL LIBRO
Indagine su un mito medioevale Questo libro dimostra che Riccardo I non fu soltanto il mistico re inglese che partì per le Crociate. La sua vera natura era quella di un sovrano violento, crudele, volubile e avido. Roberto Romano, Riccardo Cuor di Leone (Graphe), 15 euro. 9
microstoria
DEA/GETTY IMAGES
A cura di Marta Erba, Paola Panigas e Daniele Venturoli
PAROLE DIMENTICATE
Q U E R E L O S 0 Dal latino querelosus, derivato da “querela” (nel senso antico di lamentela). Si utilizzava per indicare una persona che si lamenta frequentemente, come il più diffuso querulo.
La bellissima DAFNE era una delle Naiadi, le divinità dei corsi d’acqua, e aveva suscitato l’amore di Apollo. Ma poiché non ricambiava la passione del dio, cercò di sfuggirgli, correndo tra le sterpaglie, graffiandosi e strappandosi le vesti. Raggiunta da Apollo, chiese aiuto agli dèi. In pochi istanti si irrigidì, i suoi piedi divennero radici e il corpo si ricoprì di una ruvida scorza: era stata trasformata in una pianta, l’alloro (che in greco si dice proprio daphne). Il mito è stato raffigurato da molti artisti (tra cui Pollaiolo, Giorgione, Tiepolo, Bernini). Sopra, la fuga della ninfa secondo Francesco Albani, pittore del Seicento. Castità. Che cosa si cela dietro a questo racconto? Per alcuni, la trasformazione della fanciulla in alloro potrebbe simboleggiare la castità eterna (il sacrificio del corpo per sfuggire alla lussuria), ma anche la corazza che ci si costruisce intorno quando si è vittime non consenzienti del desiderio sessuale altrui. 10
FOTOTECA GILARDI
IL MITO
LA VIGNETTA
SOTTO TIRO Melchiorre De Filippis Delfico (1825-1895), intellettuale di nobili origini e maestro della satira partenopea, non era certo uno che le mandava a dire. Sul foglio satirico napoletano Arlecchino - Giornale caos di tutti i colori prese in giro i protagonisti del XIX secolo, da Cavour a Napoleone III, da Francesco II di Borbone a Federico Guglielmo di Prussia, dall’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe al pontefice Pio IX. E a nessuno risparmiò le critiche. Nel suo Album di caricature del 1860, compare invece questa illustrazione autoironica, intitolata Fine di un caricaturista, in cui De Filippis Delfico, consapevole di aver arrecato parecchio fastidio agli uomini più potenti dell’epoca con le sue
provocazioni, si rappresentò davanti a un plotone di esecuzione, con Cavour in prima fila tra i suoi giustizieri. Rapporto ambiguo. Il celebre caricaturista sapeva di essere nel mirino della censura e nel mirino, non solo metaforico, delle sue “vittime”. Aveva però espresso apertamente stima per Cavour. Rappresentò lo statista piemontese con ammirazione per aver contribuito alla nascita dell’Italia, ma anche con scetticismo per la politica antimeridionalista di Cavour. Considerava invece un eroe intoccabile Garibaldi. Anche se lo raffigurò accanto a Cavour in un improbabile matrimonio, osservato con stupore da un’allegoria dell’Italia.
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CHI L’HA DETTO?
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LIRE
“La miglior difesa è l’attacco” La frase è attribuita all’allenatore di calcio brasiliano Gentil Cardoso (1906-1970), ma richiama (non si sa se intenzionalmente) lo slogan nazista: “La forza non sta nella difesa ma nell’attacco”. Nazista. Così scrisse Adolf Hitler nel Mein Kampf – il saggio
IL NUMERO
Era il costo di una tazzina di caffè al bar negli anni Trenta, in Italia, pari a 2,14 euro di oggi.
TOP TEN
I PIÙ CELEBRI TRUFFATORI del 1925 in cui esponeva il suo pensiero politico – per criticare il valore dei patti militari basati sulla difesa (come la Triplice Alleanza, tra Germania, Austria e Italia), esaltando invece quelli siglati a scopi espansionistici.
L’OGGETTO MISTERIOSO Un piccolo oggetto, ma dal peso di un chilogrammo, perché realizzato interamente in legno. Il suo nome fa pensare a un gioco per bambini, ma era usato da chi lavorava con l’acqua. Di che cosa si tratta? Aspettiamo le vostre risposte, indicando anche la località, a: Focus Storia, via Battistotti Sassi, 11/a - 20133 Milano oppure a
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VOCABOLARIO: FEUDO Composto da due termini che derivano dal tedesco antico: foehu, ovvero bestiame, che rappresentava il bene più prezioso per le popolazioni germaniche non stanziali e non dedite all’agricoltura, e la parola od che indica il possesso. Il feudo, un istituto caratteristico del Medioevo germanico cristiano, indicava la concessione da parte del sovrano a un vassallo di un diritto su un determinato territorio.
MONDADORI PORTFOLIO/LEEMAGE
È stata Iris Breviglieri da Trieste la lettrice più veloce nell’indovinare l’oggetto misterioso del numero scorso: era un antico attrezzo da materassaio che serviva per spingere in profondità le imbottiture. Le matasse di lana venivano pressate per raggiungere i punti più reconditi di materassi e cuscini.
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Mary Wilcocks (1791-1864) Figlia di un ciabattino, nel 1817 riuscì a farsi passare per la principessa Caraboo, rapita dai pirati dall’inesistente isola di Javasu.
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Henri Louis Grin (1847-1921) Preso il nome di Louis de Rougemont, finse di avere avuto incredibili avventure in Australia e in Asia che pubblicò su un periodico inglese.
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Wilhelm Voigt (1849-1922) Nel 1906, travestito da ufficiale prussiano, fece imprigionare il sindaco e il tesoriere di Köpenick e rubò il tesoro della città.
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Cassie Chadwick (1857-1907) Fingendosi l’erede di Andrew Carnegie, uno degli uomini più ricchi di tutti i tempi, riuscì a farsi prestare milioni di dollari dalle banche.
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Oscar Hartzell (1876-1943) Nel 1919 convinse decine di migliaia di abitanti dello Iowa con cognome Drake che avevano diritto all’eredità di Sir Francis Drake.
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Charles Ponzi (1882-1949) Lo “schema Ponzi” prometteva interessi altissimi in breve tempo pagandoli con i denari raccolti dai nuovi clienti che via via convinceva.
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Han Van Meegeren (1889-1947) Artista mancato, divenne uno dei più abili falsari d’arte del XX secolo. Riuscì a vendere falsi fiamminghi persino al nazista Himmler.
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Victor Lustig (1890-1947) Poliglotta, portò a termine numerose truffe sui transatlantici, ma è ricordato per essere riuscito a vendere ben due volte la Torre Eiffel.
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Frank W. Abagnale Jr (1948) Negli Anni ’60 incassò 2,5 milioni di dollari in 26 Paesi usando otto diverse identità. A lui è ispirato il film Prendimi se puoi, con DiCaprio. Carlos Henrique Raposo (1963) Nome d’arte Carlos Kaiser: per 20 anni si fece passare per calciatore, ma una volta ingaggiato fingeva infortuni al momento di giocare.
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(C)OLD case TRATTO DAL LIBRO “L’ESTRO DEL MALE” (3)
A cura di M. Picozzi e F. Ceccherini
Il primo serial killer italiano
La ricostruzione di due dei delitti commessi tra il 1849 e il 1859 dal serial killer di Milano Antonio Boggia.
Soprannominato “il mostro di Stretta Bagnera”, dal vicolo dove si trovava il suo covo, Antonio Boggia nel XIX secolo terrorizzò Milano.
?
IL CASO
L’insospettabile Antonio Boggia fu uno spietato serial killer italiano del XIX secolo. All’epoca fu definito “il mostro della Stretta Bagnera”, dal vicolo milanese dove si trovavano alcuni locali di sua proprietà e oggi scomparso. Nato a Urio, nel Comasco, il 23 dicembre 1799, Antonio si trasferì a Milano nel 1818, dove la sua attività di piccolo imprenditore presto fallì. Allora si adattò a fare quel che capitava: muratore, carpentiere. All’apparenza tranquillo e riservato, si rivelò presto diverso da come sembrava.
Una madre scomparsa. Il 26 febbraio 1860 Giovanni Maurier si presentò negli uffici del Tribunale per denunciare la scomparsa dell’anziana madre, Ester Maria Perrocchio. Di lei non si avevano più notizie da un anno: circolava voce che si fosse trasferita sul Lago di Como, dopo aver lasciato l’amministrazione dei suoi immobili proprio a Boggia, suo uomo di fiducia. Proprio su di lui si concentrarono le indagini. Si scoprì che a suo carico esisteva già un fascicolo per tentato omicidio. Aveva cercato di uccidere
infatti un contabile, un certo Comi, nei locali della Stretta Bagnera. L’uomo dopo essere stato colpito alla testa con un fendente, era fuggito sanguinante e aveva denunciato Boggia che era finito per qualche anno in manicomio. A questo punto i timori sulla Perrocchio si fecero più pressanti, fino a quando saltò fuori un testimone. Prima di sparire l’anziana signora era stata vista discutere con Boggia, il quale in seguito aveva chiesto alla portinaia dello stabile due secchi d’acqua.
LE INDAGINI Messo alle strette, grazie ai modi spicci della polizia di fine Ottocento, Antonio Boggia confessò l’omicidio e fece ritrovare il cadavere della Perrocchio: era stato murato nel sottoscala. Ma non era tutto. La perquisizione nei locali di proprietà dell’assassino riservò terribili sorprese: documenti e procure di gente scomparsa negli anni precedenti, il tutto senza che nessuno avesse mai sospettato nulla. Quante persone aveva ucciso? Tante. Al punto che Boggia oggi sarebbe classificabile come serial killer. Il 18 novembre 1861 si aprì il processo. Gli vennero contestati quattro omicidi a scopo
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di rapina e un tentato omicidio, commessi tra il 1849 e il 1859. Bastarono cinque giorni per stabilire la sua colpevolezza. Raptus assassino. Boggia allora tentò la carta dell’infermità mentale. E per sostenerla cominciò a lamentare spesso mal di testa. In cella si spogliò nudo e si mise a cantare di notte. Ai giudici disse di non sapere che cosa gli fosse preso durante gli omicidi e che si era trattato di un raptus. Ma nessuno gli credette. Fu condannato a morte e il 9 aprile 1862 Antonio Boggia venne giustiziato per impiccagione. Il suo corpo fu sepolto nel cimitero del Gentilino e la sua
testa donata alla scienza, per la precisione a Cesare Lombroso, il padre della fisiognomica criminale. Antonio Boggia il “mostro” per anni ha rappresentato per i milanesi l’incarnazione del Male, al punto da ispirare persino un’ingiuria: te set propri un Boggia (“sei proprio un Boggia”), in voga fino ai primi del ’900. Cioè fino a quando un serial killer di donne, il francese Henri Landru, soprannominato Barbablù (dalla fiaba sull’uxoricida scritta da Charles Perrault nel ’600), lo scalzerà dalla scena. E il detto milanese si trasformò in te set propri un Landrù, “sei proprio un Landrù”.
* Prezzo rivista esclusa
Castro © 2010 by Carlsen Verlag GmbH, Hamburg. All rights reserved. Edizione realizzata su licenza Edizioni BD srl.
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RIVELAZIONI
Le preoccupazioni del Führer sulla guerra catturate da un microfono rimasto acceso in un incontro del 1942 A cura di Federica Ceccherini
HITLER FUORI ONDA
E
ra il 4 giugno 1942, in piena Seconda guerra mondiale, quando Hitler decise di recarsi in Finlandia dal colonnello Carl Gustav Mannerheim, comandante in capo dell’esercito finlandese. Il barone Mannerheim non volle ricevere il Führer nel suo quartier generale. Decise invece di accoglierlo in una piccola cittadina nel Sud del Paese, Imatra, a bordo del suo treno personale. Durante il pranzo organizzato per il compleanno del colonnello, il fonico Thor Damen aveva l’incarico di registrare il discorso di auguri. Quando i festeggiamenti finirono Hitler e Mannerheim rimasero 14
soli. Ma Damen non spense, come avrebbe dovuto, il registratore. Così sono arrivati fino a noi 11 minuti di una conversazione privatissima di Hitler sullo stato della guerra in corso. Scopo dell’incontro era assicurarsi l’appoggio della Finlandia, che nel 1941 si era alleata con l’Asse contro l’Unione Sovietica. Il conflitto infatti non stava andando come previsto: lo dice Hitler stesso, ricostruendo i primi anni di guerra. Il nastro rItrovato. A un certo punto la registrazione fu interrotta bruscamente. Alcuni ufficiali tedeschi si erano accorti che Damen stava ancora registrando, lo costrinsero a spegnere il microfono e
a cancellare tutto. Il nastro però non venne cancellato, fu ritrovato dopo la guerra e in seguito reso pubblico. In molti hanno contestato l’autenticità della registrazione e qualcuno ha sostenuto che non si trattasse della voce di Hitler. L’ultima e definitiva parola sulla questione è arrivata dalla polizia tedesca che, dopo un attento esame, nel 2014 ne ha accertato l’autenticità. Ecco dunque le parole di Hitler, con alcune note esplicative. È evidente ormai. [I sovietici] hanno l’armamento più mostruoso umanamente concepibile. Se qualcuno mi
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Tra i boschi avesse detto che uno Stato può armarsi di 35.000 carri armati avrei detto “sei matto” [...] Abbiamo localizzato alcuni impianti industriali. Uno di questi era in costruzione due anni fa e oggi è un impianto di produzione di carri armati che a pieno regime impiegherà più di 60mila lavoratori. Non ho mai sospettato tutto questo [...]. Nell’inverno del ’3940 ho avuto molti problemi sul fronte occidentale e aprire due fronti allora sareb-
be finita male per noi. [...] Saremmo stati schiacciati. Completamente. Inizialmente, nell’autunno 1939 pensavo di chiudere in breve la campagna occidentale, ma il cattivo tempo ci ha ostacolato. Tutto il nostro equipaggiamento era per il bel tempo. [...] Ero convinto che avremmo concluso la guerra in Francia in sei settimane(1), ma pioveva e c’era il problema di muoversi; siccome conosco bene il territorio fran-
(1) Hitler attaccò la Francia il 10 maggio 1940, convinto di affermarsi con una guerra-lampo che invece non fu tale. Al momento dell’invasione della Francia si era conclusa da due mesi la guerra russo-finlandese, combattuta
La stretta di mano fra Hitler e Mannerheim, capo delle forze di difesa della Finlandia: l’incontro (nella pagina a sinistra) avvenne a Imatra, nel Sud del Paese.
cese ero d’accordo con i miei generali sul fatto che, probabilmente, non avremmo avuto la giusta condizione per sfruttare appieno le potenzialità dei nostri Panzer e dell’aviazione, a causa delle condizioni meteo.
dal 30 novembre 1939 al 12 marzo 1940. La Finlandia, che voleva riconquistare i territori persi, era alleata della Germania e nel 1942 c’erano circa 200mila soldati tedeschi di stanza nel Paese. 15
Hitler definisce “una disgrazia” la campagna italiana nei Balcani, che costrinse i tedeschi ad aiutare le forze armate italiane, impreparate Se mi fossi mosso in Francia prima, nel corso del 1939, la storia del mondo sarebbe stata diversa. Ma ho dovuto aspettare fino al 1940 e non era possibile fare niente prima di maggio. Il 10 maggio era il primo giorno buono. E così quel giorno ho attaccato. [...] Poi c’era ancora la Norvegia(2). E nello stesso tempo si è abbattuta su di noi quella che oggi posso definire una vera e propria disgrazia: la situazione creatasi per l’Italia nell’Africa del Nord e in Albania e Grecia(3). Abbiamo dovuto aiutarli e questo ha significato distribuire la nostra aeronautica e i nostri carri armati su vari fronti, proprio mentre ci stavamo preparando per l’Oriente [...]. Nelle sanguinose battaglie nel deserto abbiamo subìto grandi perdite e tutte queste risorse sono andate perdute; non erano più disponibili per il Fronte Orientale. Comunque non era immaginabile alcuna altra strada, se non questa inevitabile decisione(4). Ebbi allora un colloquio con Molotov(5). Era assolutamente evidente che l’Urss avrebbe preso la decisione di iniziare una guerra. Mi congedai da lui con la decisione di vincere, se possibile, poiché le richieste che stava facendo avevano chiaramente per obiettivo, in ultima analisi, quello di governare l’Europa. Già nell’autunno del 1940 [...] ho consigliato al governo finlandese di negoziare e guadagnare tempo perché [...] se la Russia, con le sue 60 divisioni, avesse preso possesso delle risorse petrolifere della Romania(6), la Germania sarebbe stata distrutta. In Romania allora non avevamo ancora nessuna forza, il governo rumeno si era rivolto a
Sorpresa russa Una fabbrica sovietica di carri armati nella Seconda guerra mondiale. Hitler fu sorpreso dalla capacità produttiva dell’industria bellica russa.
Delusione Italia Italiani sul fronte dei Balcani: l’invasione della Grecia costrinse i tedeschi a intervenire in aiuto dell’alleato. Si temeva un’avanzata russa in Romania.
noi molto tardi e quello che avevamo lì era davvero ridicolo. I russi volevano appropriarsi delle risorse petrolifere [in Romania], ma io non potevo iniziare la guerra in settembre o ottobre. Con i nostri armamenti sarebbe stato impossibile. Il dispiegamento delle truppe
(2) La Germania aveva attaccato Danimarca e Norvegia il 9 aprile 1940: la prima si arrese il giorno stesso, mentre la Norvegia combatté fino a giugno. (3) Il 13 settembre 1940 l’Italia aveva invaso l’Egitto dalla Libia e nell’ottobre dello stesso anno la Grecia, passando per l’Albania annessa nel 1939. (4) Il 22 giugno 1941 la Germania attaccò l’Urss (Operazione Barbarossa). 16
in Oriente non era ancora stato preparato in alcun modo e le unità militari avrebbero dovuto essere consolidate prima in Occidente. Gli armamenti dovevano essere rimessi in ordine dal momento che abbiamo fatto i nostri sacrifici durante la campagna occidentale.
(5) Il 23 agosto 1939 Germania e Urss avevano firmato un patto di non aggressione, chiamato patto Molotov-Ribbentrop (dai nomi dei ministri degli Esteri sovietico e tedesco), poi violato da Hitler. Con una clausola segreta i due Stati si erano spartiti le zone d’influenza in Europa Orientale. (6) Nel novembre 1940 la Romania aveva aderito all’Asse.
Triste Africa Italiani catturati dagli inglesi in Nord Africa: nonostante gli sforzi, le forze dell’Asse non riuscirono a tenere il controllo di quei territori.
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Auf wiedersehen
Sarebbe stato impossibile attaccare [l’Urss] prima della primavera del 1941 e se la Russia nell’autunno del 1940 avesse occupato la Romania, annettendosi i pozzi di petrolio, allora saremmo stati impotenti. Nel 1941 abbiamo avuto una grande produzione [di petrolio] tedesca, ma la quantità che l’aeronautica da sola sta consumando è qualcosa di mostruoso. Si tratta di un consumo che supera ogni immaginazione. Senza l’afflusso di 4 o 5 milioni di tonnellate di petro-
lio dalla Romania non saremmo stati in grado di condurre la guerra. Questo mi ha preoccupato molto e da qui il mio tentativo di superare questa fase attraverso i negoziati, almeno fino a quando siamo stati abbastanza forti da opporci a delle esorbitanti richieste. Richieste che erano in realtà vere estorsioni: i russi sapevano che eravamo impotenti e che sul fronte occidentale siamo fermi: ci potevano chiedere qualsiasi cosa. [...] A questo punto i negoziati sono stati bruscamente in-
Hitler lascia il treno accompagnato dal presidente finlandese Risto Ryti (alla sua sinistra) e da Mannerheim.
terrotti, ma uno dei punti concerneva la Finlandia: [i sovietici] volevano la libertà di difendersi dalla minaccia finlandese. [...] Io ho risposto: non starete dicendo che la vostra esistenza è minacciata dalla Finlandia?! E loro: c’è anche una minaccia morale all’esistenza di un grande Stato e quello che la Finlandia sta facendo è portare una minaccia alla nostra esistenza morale. Al che io risposi: “Non accetteremo un’altra guerra nel Baltico come spettatori passivi”. [...] • 17
TECNOLOGIA
In azione Nello sfondo, la mappa sottomarina della società Atlantic Telegraph fondata da Cyrus Field (a destra) con l’obiettivo di collegare America ed Europa con un cavo di comunicazioni telegrafiche (sotto, la nave che lo posò). A lato, un telegrafo del 1860.
Nel 1866 riuscì un’impresa tentata per anni: la posa di un
3.600 KM L’
“
Europa e l’America sono unite dal telegrafo. Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà”: fu questo, il 16 agosto 1858, il primo messaggio che attraversò l’Atlantico sfruttando un cavo elettrico sottomarino. Per quanto incerto e lentissimo per gli standard odierni, fu l’inizio di una rivoluzione epocale. Che ci mise un po’ a prendere piede.
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Quando il presidente degli Stati Uniti Lincoln fu assassinato, nell’aprile del 1865, la notizia telegrafata, riportata a mano e sigillata in un pacchetto di pelle, fu portata da una nave a vapore e consegnata all’ufficio postale per poi essere spedita oltreoceano. Tempo necessario per divulgarla? 12 giorni. “Bastò” un cavo e si passò a una manciata di ore, quelle necessarie alla trasmissione tramite un telegrafo Morse. Questo strumento di
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cavo telegrafico sottomarino tra Europa e America. Che azzerò le distanze
SOTTO I MARI comunicazione esisteva da oltre vent’anni. E già nel 1850 era stato posato il primo filo sottomarino tra la Francia e l’Inghilterra. Ma creare un collegamento attraverso l’Atlantico fu un’impresa straordinaria, al limite delle capacità tecniche dell’epoca. Un’impresa visionaria, che anticipava Internet: oggi, infatti, sotto l’oceano corrono le fibre ottiche del Web. Ecco come ci si arrivò.
Primo ostacolo: trasportare le tonnellate di cavo
L’idea di un collegamento che unisse America ed Europa era dunque nell’aria, ma fu il magnate americano Cyrus Field a fare il passo decisivo. Field riprese un’intuizione dell’ingegnere telegrafico Frederick Newton Gisborne e nel 1856 fondò la Atlantic Telegraph Company per realizzare il progetto. Riuscì anche a convincere il
ministero del Tesoro britannico a garantire un sussidio di 14mila sterline l’anno e le marine britannica e americana a fornire le navi per l’operazione. Il progetto sembrava semplice, ma c’era un primo ostacolo: nessun vascello poteva trasportare da solo tutto il cavo necessario, quindi erano necessarie due navi. Si scelsero la britannica Agamennon e la nave degli Stati Uniti Niagara. Quando 19
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Confronti impietosi
La sfida era tecnica ma ci fu bisogno anche di fortuna: uno dei primi tentativi naufragò per una tempesta non prevista
La fregata Agamennon affiancata al transatlantico Great Eastern, grazie al quale fu alla fine posato il cavo.
I record della Great Eastern La nave a propulsione mista (a elica, pale e vele) che posò il cavo sottomarino era la più gradne costruita fino a quel momento (sopra, dopo la riconversione a posacavi). Ecco i suoi numeri.
32.000
TONNELLATE DI STAZZA
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211
METRI DI LUNGHEZZA
25
METRI DI LARGHEZZA
4
CALDAIE PER LE PALE
6
ALBERI PER LE VELE
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NODI DI VELOCITÀ MASSIMA
la prima avesse finito si srotolare e posare sul fondale la sua quota di cavo, sarebbe andata avanti l’altra, dopo aver collegato le estremità. Il primo tentativo, nel 1857, fallì dopo appena 270 km perché il cavo, troppo teso, si spezzò. Il 10 giugno 1858 le navi lasciarono una seconda volta Plymouth, in Inghilterra: dovevano incontrarsi in mezzo all’Atlantico, collegare i cavi e poi fare dietrofront. Per qualche ora tutto sembrò filare liscio, ma prima di mezzanotte scoppiò una tempesta fuori stagione.
Secondo ostacolo: le condizioni meteorologiche Per sette giorni e sette notti il vento soffiò violentissimo e l’Agamennon si trovò presto in difficoltà. Le 2.840 tonnellate di cavo che trasportava nella stiva erano un
peso morto e la nave, con i ponti inclinati a 45°, rischiò di capovolgersi e affondare. Solo il 25 giugno raggiunse il punto di incontro con la Niagara, che invece aveva fatto un viaggio molto più tranquillo. I due cavi vennero collegati tra loro e le navi si mossero come previsto in direzioni opposte. Subito però il cavo della Niagara si incastrò spezzandosi. Altro tentativo: le due navi riuscirono a navigare per una quarantina di miglia quando il segnale elettrico di controllo scomparve. Si dovette tornare indietro e ripetere per la terza volta la congiunzione tra i cavi. Il giorno dopo sulla Agamennon il cavo si spezzò ancora una volta. Si dovette attendere fino al 29 luglio perché le due navi ci riprovassero: fu la volta buona. Il primo giorno vennero posati 480 km di cavo; il secondo giorno, 275; il terzo, ben 340. Al
sesto giorno si arrivò all’ultimo dei 3.600 km necessari ad attraversare l’Atlantico.
L’ennesimo contrattempo: il messaggio è troppo lento Dalla baia irlandese di White Strand a Valentia Isle, la più occidentale isoletta dell’Irlanda meridionale, fino a Heart’s Content, una piccola e ben protetta baia a Terranova in Canada, il primissimo messaggio tecnico fu questo: “L’estremità del cavo è saldamente sulla terraferma, vicino a un molo a Knight’t Town [una città a meno di due km dal punto di arrivo del cavo], trasportatovi dal battello a ruote Valorous. Ci aspettiamo di aprire il collegamento pubblico fra tre settimane”. Ma qualcosa non andava: la trasmissione era lentissima. Quel 16 agosto, per trasmettere il comunicato inaugurale uf-
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Il peso del progresso Il macchinario posacavi della Great Eastern: un tutto, il cavo del 1866 pesava 3mila tonnellate.
Con la forza delle braccia Sempre a bordo della Great Eastern: operai al lavoro nella stiva per srotolare il cavo.
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UOMINI DI EQUIPAGGIO
4.000
PASSEGGERI
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Anche Lord Kelvin, “papà” dei gradi Kelvin, fu chiamato a contribuire all’impresa ficiale che vi abbiamo riportato all’inizio ci vollero 35 minuti. Dopo lo scambio un po’ frivolo di saluti tra la regina Vittoria e il presidente Usa Buchanan (16 ore per 98 parole!), il primo messaggio “vero” riguardò una collisione tra due navi. Da quel momento il flusso di informazioni fu continuo, nonostante il prezzo esorbitante di 10 dollari per ogni parola di cinque lettere. Il vantaggio per i mercati finanziari fu evidente. Un messaggio che bloccò all’ultimo momento lo spostamento di un reggimento britannico in Canada fece risparmiare 50mila sterline alla Corona. Ma durò poco. Per errore furono fatti passare per il cavo impulsi da duemila volt che ne accelerarono il decadimento. Quindici giorni dopo la posa i segnali divennero incomprensibili fino a interrompersi: andarono in fumo 100mila sterline dell’epoca. Sembrava finita.
Scienziati e tecnici in campo per migliorare il cavo E invece gli inglesi non si persero d’animo, confortati da sempre più avanzate conoscenze tecniche. Si misero insie-
E alla fine fu “reclutato” persino un transatlantico
me 7 fili di rame purissimo tenuti attaccati da un collante speciale; il tutto fu ricoperto da quattro strati di guttaperca (una sorta di caucciù) alternati a isolante; 18 strati di sottili cavi d’acciaio a loro volta avvolti nella canapa proteggevano il cavo telegrafico. Diametro finale: 28 millimetri. Vi sembrano pochi? Non è così: il peso complessivo era di 3mila tonnellate, distribuite su 4.300 km di lunghezza. Venne scomodato anche Lord Kelvin (quello dei gradi Kelvin), uno dei maggiori scienziati dell’epoca: fu lui a fornire il contributo scientifico decisivo, studiando le equazioni per sfruttare in modo finalmente efficace i segnali elettrici attraverso i cavi sottomarini.
Mancava ancora il mezzo adatto. Era disponibile la Great Eastern, la più grande nave del mondo: era nata come transatlantico, ma la compagnia armatrice aveva fatto fallimento e voleva demolirla. Fu invece riciclata visto che era l’unica che potesse caricare le tre grandi vasche di ferro con il cavo. Il primo tentativo del 1865 fallì: dopo aver posato quasi 2mila km di cavo, il capo di uno dei segmenti scivolò in mare e andò perso. Il 13 giugno 1866 iniziò il secondo tentativo, che giunse a buon fine il 27 luglio. Grazie alle indicazioni di Kelvin, questa volta si usarono segnali a bassa tensione raggiungendo le 8 parole al minuto: il mondo era diventato più piccolo. • Achille Prudenzi
Ricordi del primo cavo Sopra, una copia del primo messaggio mandato oltreoceano usando il telegrafo Atlantic nel 1858. A destra, campioni del cavo originario diventati souvenir dell’impresa.
L’
idea di posare cavi telegrafici sottomarini non era una novità assoluta: ce n’erano fra Inghilterra e Francia dal 1850, come pure tra Scozia e Irlanda. Ma attraversare l’Atlantico era un altro paio di maniche. Da poco si era scoperta l’esistenza della
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Dorsale medio atlantica, che i geologi del tempo immaginavano come un altopiano pianeggiante: in realtà è una catena montuosa sottomarina, con picchi e canyon, e i primi tentativi fallirono proprio per questo. Passi avanti. Alcuni immaginarono di
sospendere i cavi del telegrafo al di sopra dell’oceano, fissati a palloni aerostatici. O di appenderli appena sotto il pelo dell’acqua, ancorati a una interminabile fila di boe. Il principe Albert (marito della regina Vittoria) sosteneva l’idea di un tubo di
vetro sotto il mare. Alla fine, la soluzione adottata dagli ingegneri dell’americano Cyrus Field fu la migliore: sott’acqua, i pesanti cavi di rame risultarono alleggeriti e si poterono posare sul fondale, seguendo la complessa morfologia della dorsale.
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Gli altri tentativi: palloni aerostatici, boe e tubi di vetro
SETTECENTO
Le Tre Grazie del pittore Jean-Baptiste Van Loo (1705-1765) sono state a lungo identificate come tre delle sorelle Nesle. In realtà il dipinto fu realizzato quando le amanti di Luigi XV (a destra) erano già uscite di scena.
SCALA
La danza delle amanti
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Luigi XV di Francia, detto il Beneamato, fu “vittima” del fascino delle sorelle Nesle. Che per lui si fecero la guerra
TUTTE A
LETTO COL A
RE
Versailles, nel Settecento, la virtù non era di casa. La corte più lussuosa e pettegola d’Europa era infatti popolata da libertini, adulteri e nobildonne compiacenti. E non era certo da meno il loro re, Luigi XV, che nella sua carriera di dongiovanni ebbe tra le sue molte amanti ben quattro sorelle. Un po’ di ragioni forse Luigi le aveva. Nel 1725, a soli 15 anni, era stato costretto dalla ragion di Stato a sposare una principessa polacca più vecchia di lui, Maria Leszczynska: da quel matrimonio d’interesse nacquero dieci figli. Ben presto, tuttavia, il re si stancò di quella moglie sempre incinta e iniziò a guardarsi attorno. Timidone. Luigi, malgrado fosse, si dice, piuttosto attraente, era timido e impacciato con le donne: bisognava dargli una svegliata. Alcuni cortigiani presero l’iniziativa e lo spinsero tra le braccia di Louise de Nesle, marchesa di Mailly. Louise era la maggiore delle “famigerate” sorelle Nesle, che per 11 anni (tra il 1733 e 1744) incatenarono il cuore del sovrano. Del resto, che un re di Francia avesse relazioni extraconiugali era cosa assai comune. E per molte donne poter diventare “amiche intime” del sovrano era un privilegio. Ma che cosa voleva dire es-
sere l’amante di un monarca? La favorita di turno godeva di una posizione di prestigio: il re le regalava gioielli, un alloggio a corte e, talvolta, anche terre, rendite e titoli nobiliari. Non era poi raro che le amanti partorissero figli illegittimi, a volte riconosciuti dallo stesso sovrano. Non solo. L’amante in carica poteva avere una certa influenza su decisioni anche importanti. marchese decaduTe. Discendenti da un’antica e nobile famiglia ormai in rovina, le sorelle de Nesle erano cinque: oltre a Louise, Pauline, Diane, Hortense e Marie-Anne. Tutte passarono dal letto del sovrano. Tutte tranne Hortense, che resistette alle avances del re e non divenne mai sua amante. Louise, infelicemente sposata a un cugino, era una delle dame di corte al servizio della regina Maria. Non bella, ma con un carattere gentile, era innamorata di Luigi alla follia. Si accontentò a lungo di vivere la sua passione nell’ombra, incontrando l’amante segretamente. Ma la verità venne a galla e arrivò alle orecchie della regina. Non ci fu nessuna scenata. Remissiva e molto devota a Dio, Maria fu costretta dalle regole del tempo a rassegnarsi. Con-
tinuò a “sfornare” figli fino a quando, nel 1738, preoccupata per la sua salute, interruppe ogni relazione fisica con il re. Oltre al disprezzo della regina, a Versailles Louise doveva sopportare quello delle molte rivali. Ma certo non poteva immaginare che a decretare la sua rovina sarebbero state proprio le sue sorelle minori. La più deTerminaTa. Nel 1738 Louise invitò Pauline a raggiungerla a corte. Di statura imponente, sgraziata e, anche per gli standard del tempo, maleodorante, la giovane Nesle aveva una certezza: avrebbe conquistato il re. E in effetti ci riuscì, sfruttando vivacità e simpatia, le sue armi seduttive migliori. Louise, comunque, era disposta a tutto per non perdere i suoi privilegi. Anche ad accettare di condividere il baldacchino del sovrano con la sorella. La cosa non passò inosservata. Versailles era come un grande paese, aperto al sesso disinvolto, ma fino a un certo punto. Si gridò allo scandalo, perché quel triangolo amoroso aveva il sapore dell’incesto. 25
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Vivace, simpatica e determinatissima, diede un figlio a Luigi. Morì poco dopo, per un’infezione o avvelenata.
17-1744) Marie-Anne (17 Vedova, bella e senza scrupoli, si sbarazzò di Louise ma si intromise troppo nelle vicende politiche.
710-1751) 1 ( e s i u Lo Fu la prima a finire nel letto del re. Innamorata e discreta, fu soppiantata da Pauline, ma accettò il ménage à trois.
L’ultima cocotte Il re-dongiovanni in un dipinto settecentesco con un’altra grande favorita, Madame du Barry, l’ultima che ebbe al fianco. Bellissima ma di umili origini, di padre ignoto, fu presentata al re quando era ormai vedovo. Lei lo sedusse con le arti amatorie: era infatti una prostituta d’alto bordo.
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-1 Pauline (1712
L’unica che non cedette a Luigi fu Hortense: oltre che onesta, era sposata con un uomo geloso. Divenne invece amica, oltre che dama, della regina del tempo, era una consigliera ascoltata. Prima convinse Luigi XV a schierarsi nella Guerra di successione austriaca contro Inghilterra e Austria. Poi, nel 1744, raggiunse il suo amante al fronte. Non fu una decisione saggia. infLessibiLe. I generali cercarono di allontanarla in ogni modo, ma il re non ne voleva sapere. La situazione si sbloccò in modo tragico in agosto, durante la sosta dell’esercito a Metz, quando Luigi si ammalò gravemente. Temendo di essere vicino alla morte, il re si confessò e, sotto la pressione dei suoi consiglieri, decise di rinunciare alla sua relazione con la donna: Marie-Anne fu pubblicamente ripudiata. Umiliata, la duchessa rientrò a Parigi in tutta fretta, ma la partita non era finita. Recuperate le forze e scampato il pericolo di morte, Luigi XV la richiamò a Versailles. Già pronta ad assaporare il trionfale rientro a corte, Marie-Anne stava preparandosi al viaggio quando si ammalò per una febbre improvvisa. La più giovane delle Nesle morì la vigilia del viaggio verso Versailles. E subito ci fu chi parlò di una morte provvidenziale, e persino di un avvelenamento. Non furono in molti a piangerla. Visto come si era comportata con loro, probabilmente neppure le sue sorelle. Dopo la scomparsa di Marie-Anne, delle Nesle non si parlò più. Diane e Hortense continuarono a vivere con discrezione a corte, al servizio della famiglia reale. Louise, che per prima era finita nel letto del re, invece volle riscattarsi agli occhi del mondo: non fece mai più ritorno a Versailles e terminò i suoi giorni dimenticata, dedicandosi ai poveri. • Simone Zimbardi
La Pompadour “reginetta” di Luigi
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el febbraio 1745, qualche mese dopo la morte di Marie-Anne de Nesle, una nuova favorita conquistava il cuore di Luigi XV: si chiamava Jeanne Poisson e avrebbe dominato Versailles per 19 anni (sotto, un suo ritratto). Colta, affascinante e intelligente, Jeanne, borghese legata agli ambienti dell’alta finanza, sedusse il re durante una battuta di caccia. Malgrado non fosse di sangue blu e avesse un marito, riuscì a installarsi a Versailles e a ottenere il titolo di marchesa di Pompadour. Tra lo sconcerto dell’aristocrazia, che subito la odiò. Salottiera. Appassionata di teatro (era un’ottima attrice), arte e scienza, fu amica dei filosofi illuministi Voltaire, Diderot e D’Alembert, dei quali favorì le pubblicazioni. Anche se già nel 1750 smise di visitare l’alcova di Luigi, rimase potentissima: continuò a vivere a corte come amica e consigliera del re. E partecipò attivamente alla vita politica tanto da trattare in prima persona con principi, ministri e ambasciatori. Rimase la “reginetta” di Versailles fino alla morte, che arrivò a soli 43 anni, nel 1764.
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Morte sospetta. Per salvare almeno le apparenze si cercò in tutta fretta un marito compiacente alla nuova favorita. Ma gli eventi precipitarono quando Pauline rimase incinta del suo amante regale. Nel 1741 diede alla luce un figlio maschio che, per la sua somiglianza con il re, venne soprannominato “il mezzo Luigi”. Qualche giorno dopo aver partorito, tuttavia, la giovane morì tra atroci dolori. Complicazioni seguite al parto? C’è chi parlò di veleno, chi di punizione divina, sta di fatto che Luigi versò lacrime, pare, sincere per quella morte. A consolarlo restava la fedele Louise. Ma l’epopea delle sorelle Nesle non era finita. Dopo la morte di Pauline, Louise invitò a Versailles anche le altre sorelle. A una di esse, Hortense, cedette la sua carica di dama della regina. Sposata a un uomo molto geloso, la bella Hortense non tardò a catturare catturare le attenzioni del re, ma non volle cedere alle sue avances. La regina la ricompensò, accogliendola nella cerchia dei suoi amici più stretti. L’intrigante. Ben diverso era invece il temperamento della più piccola delle Nesle, Marie-Anne. Già vedova, era molto affascinante ma priva di scrupoli e ambiziosa: il suo obiettivo era rimpiazzare Louise come favorita del sovrano. Iniziò le sue “grandi manovre”, aiutata da alcuni cortigiani e da un’altra sorella, Diane, moglie di un militare donnaiolo e alcolizzato. Anche Diane finì nell’alcova di Luigi XV, ma solo per qualche scappatella. A Versailles fu subito chiaro a tutti che l’intrigante Marie-Anne voleva la piazza libera con il re. Louise, che aveva aperto la strada di corte alle sorelle, aveva commesso un errore e ben presto, messa in cattiva luce agli occhi del sovrano, fu costretta ad arrendersi. Lasciò Versailles in lacrime, nel 1742. Allontanata Louise, il re decise di ufficializzare la sua nuova liaison: rese pubblica la relazione con Marie-Anne e concesse all’amante il prestigioso titolo di duchessa di Châteauroux. L’ultima delle Nesle sembrava aver trionfato. C’era solo un problema: Marie-Anne era detestata da tutti a corte, anche perché aveva cominciato a ficcare il naso nelle questioni politiche. E Marie-Anne, come altre favorite
ECONOMIA
COME IL
COTONE HA CAMBIATO IL MONDO Ha anticipato la globalizzazione ed è stato la dannazione di generazioni di schiavi. Cinque millenni di storia dell’oro bianco
Schiavi di fatto Afroamericani al lavoro nei campi di cotone degli Stati Uniti a inizio Novecento: la schiavitù era formalmente abolita, ma di fatto esisteva ancora. 28
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inque millenni: da tanto dura la storia del cotone. Cominciata nella Valle dell’Indo, in America Latina e in Africa Orientale, nel corso dei secoli è diventata una “cartina di tornasole” delle trasformazioni sociali del nostro pianeta. E soprattutto della sua economia. La parabola dei batuffoli bianchi e dei suoi filamenti di cotone è infatti la storia di piccoli centri artigianali, sparsi per il mondo. Racconta di imprenditori intrapren-
America Centrale e in Africa Orientale», spiega nel libro L’impero del cotone (Einaudi) Sven Beckert, docente di Storia americana all’Università di Harvard. «Le conoscenze sulla sua coltivazione e lavorazione si propagarono rapidamente lungo le rotte commerciali e migratorie del tempo», continua Beckert, «arrivando a ramificarsi in diversi territori: uno snodo cruciale di questa trasmissione dei saperi fu l’India e, successivamente, grazie anche al contributo dell’islam, il Medio Oriente.
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denti e di scienziati più o meno mattoidi capaci di grandi invenzioni. Ma evoca anche il sudore degli schiavi costretti a lavorare nelle piantagioni in condizioni disumane o degli operai sfruttati nell’industria tessile. Il cotone, insomma, più di ogni altro prodotto è figlio di un fenomeno che ci riguarda anche oggi: il capitalismo globale. Dall’Oriente. «La domesticazione, la filatura e la tessitura del cotone sorsero indipendentemente in Asia Meridionale, in
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Primo documento che attesta l’importazione in Europa di cotone grezzo destinato alla lavorazione.
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I Fugger, da ricchi tessitori a banchieri degli imperi
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ans Fugger, capostipite della celebre famiglia di banchieri tedeschi, fu uno dei più grandi tessitori del Medioevo. La sua base era ad Augusta, in Baviera. Quando morì, grazie al cotone aveva gettato le basi per l’ascesa di una delle dinastie di mercanti più ricche d’Europa: tra il 1363 e il 1383 la produzione di tessuti tedeschi surclassò infatti quella italiana.
Banchieri. Grazie al denaro accumulato dal padre, Jacob il Vecchio (1398-1469) diede poi vita al ramo della casata che divenne celebre nel Rinascimento. E cioè ai cosiddetti “Fugger del giglio”, padroni della banca che dalla fine del Quattrocento fece credito a papi, re e imperatori e persino ai Medici di Firenze, anche loro nel business dei tessuti.
Filatrice di cotone, in un manoscritto francese del 1505 sulla vita delle donne.
Gli antichi, in Europa, si vestivano solo di lino e lana. Il cotone arrivò con i Mori, in Sicilia e in Terra Santa Non a caso nel IX e nel X secolo in Iran si assistette al primo boom del cotone per rifornire i mercati di Baghdad». Le tecniche di lavorazione allora erano artigianali, per lo più familiari. Di fatto il cotone per secoli fu lavorato in casa. Del resto se ne servivano i familiari e soltanto il cotone in eccesso era venduto ai mercanti, che lo barattavano volentieri con il sale e che poi lo portavano lungo le vie carovaniere fino ai mercati lungo le coste. Da dove, solcati i mari, poteva poi raggiungere le corti di tutto il mondo. O quasi. L’Europa, infatti, fino alla fine dell’Impero romano e oltre, rimase poco interessata alle “vie del cotone”. Pianta o animale? Gli euroNel Messico precolombiano ogni anno pei preferivano vestirsi con erano prodotti abiti di lino e lana. Il cotone era conosciuto, ma era conmilioni siderato un materiale di lusdi libbre so, un po’ esotico. E sicudi cotone (equivalente ramente molto buffo. «Molti al raccolto di cotone europei immaginavano il cotoregistrato negli Usa nel 1816). ne come un ibrido tra una pianta e un animale: un “agnello ve-
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L’oro “bianco” Gossypium, la pianta del cotone originaria dell’India e delle zone tropicali di Africa e America in una tavola botanica. 30
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getale”», racconta Beckert. «Nell’Europa medioevale circolavano storie di pecore che crescevano sulle piante e scendevano nottetempo per abbeverarsi; altre leggende parlavano invece di pecore attaccate al suolo per mezzo di bassi steli». La lavorazione del cotone in Europa iniziò solo nell’VIII secolo grazie agli Arabi (che dominavano la Sicilia) e grazie ai contatti instaurati dai crociati nel mondo islamico. Fu allora che a Milano, Arezzo, Bologna, Venezia e Verona sorsero le prime industrie cotoniere, che sfruttavano le competenze già maturate Nel Medioevo nella lavorazione della lana, in un’ora si aggiungendovi nuove tecproducevano niche “rubate” ai Saraceni. Venezia divenne il primo porto franco europeo di cometri tone. E fu in Europa che si di filo escogitarono tecniche innovative: una tra tutte, la ruota per fisorse uno dei complessi tessilare, che triplicò la produttività dei fili più importanti: lo mise in piedi latori italiani. Se prima si ottenevano 120 un Fugger, padre del più celebre banchiemetri di filo in un’ora, nello stesso tempo re (v. riquadro a sinistra). ora se ne producevano 360 metri. La proNuovi mercati. Nel Cinquecento qualcoduzione fece gola anche ad altri Stati, tra sa cambiò. Non solo per il cotone, ma per cui la Germania. Ad Augusta (in Baviera) l’economia del Pianeta. I confini del mon-
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Prodotto sartoriale Il negozio di un sarto di Arles (1760). La moda degli abiti sartoriali esplose nel ’700 grazie alla varietà di tessuti di cotone a disposizione sul mercato.
do “esplosero”: la scoperta delle Americhe e i viaggi di esplorazione aprirono nuovi orizzonti. Gli imperi mercantili europei non ci misero molto a capire che quei batuffoli bianchi potevano rivelarsi una fonte di ricchezza. Tanto da essere soprannominati ben presto “oro bianco”: un oro quan-
“Home made” Due donne giapponesi filano il cotone in casa con un telaio, intorno al 1880. Per secoli i tessuti si sono prodotti in casa.
Nel Settecento lo scambio tra schiavi africani e cotone indiano, gestito dagli inglesi, fu il primo grande fenomeno di globalizzazione economica
Economia truccata Un cotton office a New Orleans nel 1873: l’economia americana degli Stati del Sud prosperava sulla coltivazione e la vendita del cotone raccolto quasi a costo zero grazie agli afroamericani.
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to mai necessario, in anni di guerre e carestie, per finanziare le casse sempre vuote degli imperi coloniali. Motore della società. «Espansione imperialistica, espropriazioni e schiavismo acquisirono un ruolo chiave nell’emergere di un nuovo ordine economico globale e nella successiva comparsa del capitalismo», spiega infatti Beckert. Di quel “nuovo ordine” il cotone fu uno dei motori più potenti. Che cosa avvenne in sostanza? La gestione dell’economia, traffici del cotone inclusi, passò nelle mani delle compagnie commerciali. Anzitutto di quelle inglesi, che in breve tempo vampirizzarono il primo produttore mondiale di cotone, che era allora l’India.
e il 1780 da un mercante inglese in cambio di 2.218 schiavi della Costa d’Avorio: le stoffe costituivano oltre la metà del valore di tutte le merci commerciate», dice Beckert. Per comprare schiavi africani da rivendere in America occorreva dunque il cotone, più che armi o alcol, come molSfruttando la sua posizione di forza po- ti pensano. Quattro continenti (Asia, Africa, Eurolitica ed economica, l’Inghilterra trattava prima con agenzie locali, poi direttamen- pa e Americhe) finirono per essere inesote con i produttori, da cui acquistava tes- rabilmente legati tra di loro da una rete di suti e cotone grezzo. Una parte veniva ce- scambi gestita dagli inglesi. Mai nei preduta in cambio di spezie, il resto si impor- cedenti 4 millenni di storia del cotone, la tava in Europa. Qui il cotone era immesso globalizzazione economica era stata conel mercato interno o nuovamente imbar- sì evidente. cato, questa volta verso l’Africa. In Afriinghilterra infelix. Le innovazioni tecca il cotone era merce di scambio usata nologiche dei secoli successivi fecero il reper acquistare schiavi destinati a lavorare sto. «Così come la Silicon Valley ha agito nelle piantagioni di cotone del Nuoda incubatore della rivoluzione vo Mondo. informatica», riprende BeI sovrani africani erano ckert, «allo stesso moNel 2013 grandi amanti dei tessudo le colline intorno a sono state prodotte ti di cotone. «Uno studio Manchester, in Inghilha analizzato i 1.308 baterra, si trasformaromilioni ratti effettuati tra il 1772 no nel tardo Settedi balle di cotone, da 400 libbre. Equivalenti a 20 magliette per ogni abitante della Terra.
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cento nel focolaio dell’industria all’avanguardia di quell’epoca: l’industria tessile». Le campagne inglesi brulicavano di stabilimenti. I paesi diventarono città e migliaia di persone lasciarono le fattorie per mettersi al servizio di un nuovo tipo d’uomo: l’industriale, ben diverso dal mercante. Fu cercando di organizzare in modo più efficiente la filaNel 1450 tura del cotone che i pioniel’industria cotoniera ri dell’industria moderna impiegava ben fecero i loro primi passi. Non serviva più acqui. operai addetti alla fabbricazione stare tessuti in India, badel fustagno, un tessuto che stava procurarsi il cotone prevedeva l’uso grezzo. Il tessuto si produsia del cotone ceva in patria, dove le innosia del lino. vazioni si susseguivano e acceleravano i tempi di lavorazione. La lista delle conquiste tecnologiche è serrata: la spoletta volante (1733) che raddoppiò la produttività dei tessitori; il filatoio meccanizzato (1769); le prime macchine a vapore (1789) che permettevano di azionare i telai. La produzione domestica fu sostituita da fabbriche e filande: ba- monda sgorga oro puro. È qui che lo spiristava avere a disposizione un corso d’ac- to umano si perfeziona e si abbrutisce, la qua di cui sfruttare l’energia idrica per civiltà produce le sue meraviglie e l’uomo civilizzato torna a essere quasi un selvagmettere il turbo alla produzione. Nel giro di un secolo, l’Inghilterra cam- gio”. Un “girone dantesco” che per molbiò faccia grazie al cotone. Nel 1835 Ale- ti decenni inghiottì generazioni di operai, xis de Tocqueville, dopo aver visitato spesso donne. ArrivA lo StAto. La storia del cotone Manchester, scrisse queste parole: “Una spessa e nera coltre di fumo copre la cit- si intrecciò ancora una volta con quella tà. In questa semioscurità 300.000 creatu- dell’economia nell’Ottocento. Cioè quanre umane si agitano in continuazione. È do lo Stato cominciò a imporre al mercain questa cloaca infetta che il più grande to dell’“oro bianco” tariffe per l’esportafiume dell’industria umana si origina per zione, dazi e (con molto ritardo) regole fecondare l’universo. Da questa fogna im- per chi lavorava nelle fabbriche. Mercanti
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L’inferno delle piantagioni di cotone americane
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a storia del cotone non sarebbe stata la stessa senza il sacrificio di generazioni di schiavi. Quelli arrivati dall’Africa in America per lavorare prima nelle piantagioni di tabacco, poi in quelle, appunto, di cotone. Lavoravano fino a 18 ore al giorno, 7 giorni su 7. Non sopravvivevano, nei campi, più di 9 anni e quasi tutti rimanevano senza affetti famigliari: padri, madri e figli venivano venduti separatamente.
Abusi. Se l’uomo era costretto a lavorare per il padrone e dipendeva in tutto da lui, le donne se la passavano pure peggio: abusi e violenze sessuali erano la regola. Non solo. Per preservare la “purezza” della razza bianca erano vietati rapporti sessuali tra donne bianche e uomini neri, ma curiosamente lo stesso divieto non era previsto per i rapporti tra uomini bianchi e donne di colore.
Louisiana Express Una nave a vapore sul Mississippi, con balle di cotone in ogni spazio disponibile.
Piccole mani Un bambino lavora in una fabbrica di lavorazione del cotone in Georgia, 1919.
e produttori dovevano fare i conti con una realtà sempre più complessa. Gli operai cominciarono a contare di più e nel Novecento la nascita di sindacati e partiti politici di massa fece il resto. Risultato? I lavoratori del cotone furono più tutelati ma il costo di produzione dei tessuti e dei filati schizzò alle stelle. Tanto che i produttori sono andati a cercare manodopera là dove il costo del lavoro è più basso: in Bangladesh, Pakistan, India, Cina. Così, in un certo senso, il cotone è tornato a casa, nelle regioni dove è nato. • Giuliana Rotondi
PRIMO PIANO
L’aristocrazia di ROMA Nell’Urbe la famiglia “allargata” era uno strumento di potere: dagli Emili ai Severi, dai Flavi agli Scipioni, le casate più antiche e i nuovi ricchi. IL PESO DEL “CLAN”
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LA GLORIA LA PARABOLA I SEVERI: DEGLI SCIPIONI DEGLI URGULANI ODIO FRATERNO
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I TRIONFI DEGLI EMILI
MATRONE DI POTERE
VESPASIANO E I FLAVI
LE GENTES CHE CONTAVANO
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Interno nobile Scena di vita in una domus di Roma secondo una ricostruzione ottocentesca: la famiglia era allargata ai clientes, legati al padrone.
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PRIMO PIANO
C’era uno stretto legame tra politica, ricchezza e famiglia nell’antichità romana.
GENS
il potere di Roma
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anno accompagnato la storia di Roma per tutta la sua fase repubblicana e anche gli im peratori si sono fatti belli gra zie a loro. Sono le gentes, le famiglie più antiche e aristocratiche dell’Urbe, quel le che facevano risalire le loro origini, in qualche caso, alle tribù semileggenda rie che si riunirono intorno ai Sette Colli, sulle rive del Tevere.
Dalla gens alla familia Il latino gens (“persone, gente”, o an che “stirpe”) è associato al termine di patres, i “padri” delle tribù che contribuiro no alla fondazione dell’Urbe. Per questo le famiglie aristocratiche romane erano dette patricii, “patrizi”. Ma che cos’era la gens? Era costituita da uomini e don ne discendenti da un personaggio mitico o leggendario. Schematizzando, le gentes più antiche discendevano dal centinaio di senatori scelti da Romolo, ai quali se ne aggiunsero altri, tra cui plebei con grandi risorse economiche. Non tutte le gentes erano “romane doc”: la originaria divisione in tre tribù (Ramnes, Tities e Luceres) della popola zione arcaica fa pensare che almeno due terzi dei Romani fosse di origine sabina ed etrusca: i Ramnes erano latini, i Tities sabini e i Luceres etruschi. Dalle gentes sarebbero derivate le familiae che in qualche caso contarono più 36
del ceppo originario: val ga per tutti l’esempio de gli Scipioni, appartenenti alla gens Cornelia ma pas sati alla Storia, appunto, co me Scipioni.
Il sistema famigliare La familia, che discendeva da un capo stipite, vivo o defunto, era più facilmente identificabile rispetto alla gens, che com prendeva diverse famiglie. Complicato, ma non troppo: i rapporti tra i membri della gens si possono ricostruire con il si stema di nomi usato dai Latini: praenomen: era il nome proprio del l’individuo, che non si trasmetteva ai discendenti; nomen: indicava la gens di appartenen za, che si trasmetteva ai discendenti; cognomen: caratteristico dell’individuo, si trasmetteva ai discendenti; signum: era il soprannome facoltativo. Così, per esempio, all’interno della gens Cornelia, il nome completo di Sci pione l’Africano (vincitore in Africa con tro i Cartaginesi) era Publio Cornelio Sci pione Africano, mentre suo fratello (vin citore in Asia contro i Parti) si chiamava Lucio Cornelio Scipione Asiatico. Nel sistema aristocratico tutto ruotava attorno al pater familias, che aveva pote re di vita e di morte su tutti i componenti, maschi e femmine, liberi e schiavi. E non
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Cariche pubbliche e beni, infatti, erano spesso riservati ai “nomi” più in vista Una familia allargata La famiglia romana era di tipo “allargato”: comprendeva il pater familias e i suoi parenti, ma anche servitori e clientes. Ogni gens comprendeva diverse familiae.
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1 Pater familias
Era il capofamiglia, autorità indiscussa del patriarcato romano alla quale tutti dovevano ubbidire. Era lui, nelle famiglie patrizie, a tramandare l’appartenenza alla gens.
2 Donne e matrone
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La matrona era la moglie, a volte molto influente, del pater familias. Le spose avevano beni propri ma, come le figlie e le sorelle, dovevano sottostare al volere del pater familias.
3 Servi e ancelle
Potevano essere consanguinei, ma più spesso si trattava di servitori legati alla famiglia anche da generazioni, oppure di liberti (schiavi liberati). Erano totalmente dipendenti dal pater familias.
4 Clientes
Non avevano vincoli di sangue con la famiglia. Erano cittadini legati al patronus (che coincideva con il capofamiglia) da un vincolo di obbligo, in virtù di favori ricevuti. La loro fortuna (e spesso anche la loro vita) dipendeva da quanto il pater familias li tenesse in considerazione. Chi aveva più clientes era più importante.
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5 Figli
I maschi venivano istruiti ai valori aristocratici dal padre o da precettori; le bambine erano introdotte al governo della casa dalla madre. 37
INTERVISTA Come funzionava il “potere famigliare” romano?
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epoltura in comune, diritti ereditari, proprietà fondiarie condivise: sono solo alcuni esempi della complessa rete che stava dietro a relazioni e doveri di chi vantava una nobile appartenenza gentilizia. Anche per questo, nella Roma repubblicana, l’intera gestione del potere ruotava attorno ai concetti di gens e di familia. Abbiamo chiesto come funzionava il complesso rapporto tra politica romana e famiglie (aristocratiche e non) a Sandro Schipani, docente di Diritto romano alla Sapienza di Roma. Perché era così importante la gens e quali erano le sue peculiarità rispetto alla familia? Gens e familia erano forme di aggregazione sociale che precedettero la fondazione di Roma. Le gentes svolgevano il loro ruolo nei villaggi che preesistevano alla città, sui diversi colli. Continuarono a esistere durante il periodo monarchico e furono alla base delle prime assemblee cittadine: i comizi curiati. Non avevano un vero capo, se non eccezionalmente. Inoltre, pur avendo le famiglie della stessa gens un vincolo che le univa, le relazioni interne non avevano diversi gradi, come invece nelle relazioni tra consanguinei.
Pontefice
schieramento compatto esprimeva anche, simbolicamente, la reciproca solidarietà e uguaglianza fra cittadini-soldati. Le terre comuni proprie delle gentes, che ne determinavano la ricchezza e che potevano essere occupate o distribuite per assegnazione ai suoi appartenenti, passarono alla città. Ciò nonostante, le gentes del nucleo di abitanti più antico tentarono ancora a lungo di monopolizzare il governo della città. L’importanza della gens per chi voleva conquistare il potere rimase evidente nell’adozione, che permetteva di entrare in una famiglia gentilizia anche senza vincoli di parentela. Come funzionava?
L’adozione era relativa alla famiglia e solo indirettamente si rifletteva sulla gens alla quale la famiglia apparteneva. Detto questo, il figlio adottato era nella stessa posizione di quello nato dal matrimonio. L’adozione era quindi un potente strumento di potere e un segno dell’apertura della famiglia romana (e di conseguenza della gens e della cittadinanza). Lo storico greco Dionigi di Alicarnasso, cercando di spiegare le ragioni per cui Roma si è progressivamente allargata a tanti popoli diversamente da come hanno fatto le città greche, indicò proprio in questa apertura una delle ragioni del successo. L’aristocrazia, con le sue prerogative (proprietà terriere, legami familiari, controllo sulle cariche civili e religiose) era il “motore immobile” dell’età repubblicana. Quali forze si imposero come contrappeso al suo potere, determinandone in qualche modo la crisi? Certamente il Senato (al quale ebbero accesso anche i plebei) fu un potente organo costituzionale di iniziativa, di orientamento e di equilibrio. Il suo ruolo fece crescere l’aspirazione, nata dal popolo e non dai patrizi, verso l’obiettivo dell’aequare libertatem (“rendere uguale la libertà”): un’idea trasmessa fino ai nostri tempi. Il merito fu proprio della compresenza di patrizi e plebei nelle magistrature (gli incarichi pubblici più importanti, ndr), frutto di dure lotte. Furono queste lotte a modificare la composizione stessa del Senato, aperto agli ex magistrati, anche non patrizi.
Adriano Monti Buzzetti Colella
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Ottaviano Augusto con la veste da pontefice massimo, carica religiosa e politica che assunse nel 12 a.C. Era della gens Ottavia, ma fu adottato da Giulio Cesare.
Che effetto ebbero i mutamenti politici sul ruolo della gens? Già nel periodo dei re di Roma l’organizzazione delle gentes iniziò in parte a perdere di significato. Il passaggio dal regno alla repubblica fu infatti accompaganto dall’affermazione del popolo. La res publica mise in movimento dinamiche sociali diverse da quelle gentilizie. Con la centralità del popolo, crebbe infatti il ruolo del cittadino. Si istituirono i comizi centuriati nei quali, pur con le diversità di classi, contava il cittadino che votava, eleggeva, decideva. Anche in ambito militare si cambiò: ai più antichi eserciti gentilizi si sostituì l’esercito costituito da legioni, nelle quali lo
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Fin dagli albori Guerrieri latini dell’età romana arcaica (VII-VI secolo a.C.). Le gentes facevano risalire le loro origini e la loro nobiltà a questa fase della storia della città.
Ogni gens comprendeva diverse familiae, unite tra loro da riti, regole e vincoli di solidarietà. In nome di un antenato comune spesso leggendario a caso la parola familia deriva da famulus, “servo” e si applicava anche a chi non aveva vincoli di sangue con il pater familias: inclusi i clientes e chi veniva formalmente adottato. Tutti dovevano attenersi agli stessi vincoli, culti famigliari e regole. La gens, inoltre, era tenuta a pagare una multa comminata a un suo membro, se questi non era in condizione di pagarla, o a indossare abiti neri durante un processo nel quale era coinvolto un parente accusato di qualche reato. Comuni a una stessa gens erano anche i mores gentium, cioè i costumi e le abitudini tipici di ogni stirpe, e una serie di norme che assumevano valore di legge, vincolanti nelle famiglie patrizie. Comuni erano infine i sepolcri, il culto degli antenati e quello del nume tutelare della gens.
Quanto contavano le matrone La politica dell’antica Roma non era certamente appannaggio delle donne, neppure di quelle appartenenti alle gentes più prestigiose e di antica data. Eppu-
re le matrone rivestivano il ruolo di “poteri occulti” attraverso il gioco delle alleanze matrimoniali per sancire accordi politici: basti ricordare Ottavia, sorella di Ottaviano data in moglie a Marco Antonio. Oppure Giulia, figlia di Cesare andata in sposa a Pompeo Magno. O ancora un’altra Giulia, figlia di Augusto, maritata dapprima ad Agrippa, poi a Tiberio. Le matrone in genere limitavano la loro influenza alla sfera domestica, dove spesso erano delle vere sovrane, e a relazioni clandestine dai risvolti politici, come amanti di personaggi di spicco.
Come si entrava in una gens La discendenza diretta da membri di sesso maschile assicurava l’appartenenza a una gens. Ma anche uno schiavo poteva entrare a farne parte: dopo essere stato liberato, prendeva lo stesso nome gentilizio del padrone. Non solo. L’ingresso era possibile anche per i componenti di altre gentes mediante l’adozione, che poteva riguardare anche un’intera familia: se
un pater familias si metteva sotto la protezione di un pari grado, portava con sé tutti i membri del suo nucleo famigliare. Più frequenti i casi di adozione di un singolo figlio, che veniva così sottoposto a una potestas altrui. Chi adottava faceva entrare l’adottato nella propria gens come figlio oppure come nipote. In questo secondo caso l’adottato manteneva tra i cognomina quello della gens d’origine con il suffisso –anus. Valga per tutti l’esempio del conquistatore di Cartagine, Publio Cornelio Scipione Emiliano, figlio di Lucio Emilio Paolo Macedonico e adottato dal figlio di Scipione l’Africano. Altre adozioni celebri sono quelle di Giulio Cesare con Ottaviano, di Augusto con Tiberio e di Tiberio con Germanico. Fu così che questi grandi personaggi della storia romana si tramandarono, oltre al nome, il potere, legittimando agli occhi dei rivali la loro ascesa al trono. E questo dimostra quanto politica e famiglia, nell’antica Roma, fossero strettamente connesse. • Andrea Frediani 39
PRIMO PIANO MET/SCALA
EMILI Hanno dato il loro nome alla Via Emilia e all’Emilia-Romagna. Ma per i
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er alcuni discenderebbero dal filosofo greco Pitagora; per altri da Numa Pompilio, il secondo re di Roma; oppure dal leggendario Enea, scampato alla guerra di Troia. Queste le ipotesi, tra storia e mito, sull’origine della gens Emilia (Aemilia in latino), antichissima famiglia patrizia che ha dato tra l’altro il nome alla via che attraversa l’Emilia-Romagna, nonché alla regione stessa. Geografia e miti a parte, quel che sappiamo è che la vicenda degli Emili affonda le radici in un passato remotissimo. Lo storico Tito Livio li inserisce infatti tra le gentes originarie, quelle già esistenti ai tempi della fondazione di Roma, tradizionalmente fissata al 21 aprile 753 a.C. 40
Ramificati. Il capostipite sarebbe stato un certo Mamerco, detto Aemilius (cioè “affabile”, “gentile”) per i modi garbati. Era probabilmente di origine sabina: il nome deriva infatti da Mamers, versione in lingua osca, parlata appunto dai Sabini, del latino Marte, dio della guerra. Quando visse Mamerco nessuno lo sa, mentre il più vecchio rappresentante degli Aemilii di cui si abbiano notizie dettagliate è Lucio Emilio Mamercino: non a caso, un generale, che tra il 484 e il 473 a.C. ricoprì per tre volte la carica di console. «Quello dei Mamercini, o Mamerci, era uno dei molti rami della gens Emilia, che includeva i Barbuli, i Bucae, i Lepidi, i Papi, i Pauli, i Regilli e gli Scauri», spiega l’archeologo e storico dell’antichità An-
tonio Montesanti. «Ad accomunarli era il nomen Emilio e molti tra coloro che lo portarono assunsero importanti cariche pubbliche e militari in momenti cruciali dell’età repubblicana e non solo». contRo annibale. Dei primissimi esponenti, dunque, si sa poco o nulla. Bisogna aspettare la fine del IV secolo a.C. per trovare informazioni un po’ più consistenti. Marco Emilio Paolo, di uno dei rami più importanti della gens, quello dei Pauli, fu nominato console nel 302 a.C. Il suo merito principale fu quello di aver sconfitto i Greci, per la precisione lo spartano Cleonimo, che con la sua flotta stava minacciando le coste del Golfo di Taranto. Sempre nel segno di Marte (o di Mamers) fece carriera suo nipote Lucio Emilio Paolo,
Romani erano un’antichissima stirpe di guerrieri
che fu console nel 219 e nel 216 a.C., anno in cui morì sul campo di battaglia di Canne, cercando di fermare (inutilmente) i Cartaginesi di Annibale. All’epoca Lucio Emilio Paolo condivideva il consolato con Gaio Terenzio Varrone, che decise di combattere in campo aperto Annibale nonostante l’esponente degli Emili lo avesse sconsigliato. Con il suo fiuto tattico Lucio Emilio Paolo aveva capito che sarebbe stato più saggio occupare le alture attorno alla località di Canne. «Così non fu. Ma lui affrontò comunque il nemico, morendo al fianco dei suoi uomini, a differenza dei molti Romani che cercarono riparo quando la situazione volse al peggio, come fece lo stesso Varrone», racconta Montesanti.
In MacedonIa. Non meno valoroso fu il figlio Lucio Emilio Paolo Macedonico. Plutarco, nelle Vite parallele, ne parla come di un eroe senza macchia. Dopo una serie di vittorie in Spagna contro i Lusitani, diventò console nel 182 a.C. e poi nel 168 a.C., l’anno in cui ebbe la meglio sulle forze macedoni del sovrano Perseo. A Pidna, presso il monte Olimpo, Lucio Emilio Paolo junior portò a casa la vittoria e il suo nuovo appellativo: Macedonico. Quando tornò nell’Urbe aveva con sé decine di migliaia di schiavi e un ricchissimo bottino di guerra: fu uno dei primi esempi dell’imperialismo romano. Il Macedonico aveva una sorella, Emilia Paola. E anche lei, in qualche modo, ebbe a che fare con la guerra: verso la fi-
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GUERRA Trionfi In alto, il trionfo di Emilio Paolo Macedonico dopo la vittoria a Pidna, in Grecia (168 a.C.), in un quadro di Carl Vernet (1789): il generale riportò a Roma schiavi e bottino. Qui sopra, moneta coniata mentre Macedonico era in carica come console. 41
Conciliazione Marco Emilio Lepido, console nel 126 a.C., si riconcilia con l’altro console, Marco Fulvio Flacco, in un affresco cinquecentesco.
Oltre alle glorie militari, gli Emili ricoprirono importanti cariche pubbliche in Fine eroica
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La morte di Lucio Emilio Paolo a Canne (216 a.C.): fu tra i pochi comandanti a non ripiegare davanti ai Cartaginesi vittoriosi.
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ne del III secolo a.C. sposò Publio Cornelio Scipione, alias Scipione l’Africano, segnando una storica unione tra la gens Emilia e la gens Cornelia (vedi nelle pagine successive). Gli Scipioni adottarono nel 160 a.C. uno dei figli del Macedonico, Publio Cornelio Scipione Emiliano. Educato dallo storico Polibio, entrò pure lui nella Storia militare: nel 146 a.C. guidò la distruzione di Cartagine nella Terza guerra punica. E si guadagnò il soprannome di Africano Minore. Strade, ponti e baSiliche. Nel ramo dei Lepidi, invece, prevalsero abili amministratori e costruttori di strade. Come Marco Emilio Lepido. «Fu console nel 187 e nel 175 a.C. ed è ricordato per aver fatto costruire la Via Emilia, una strada nata per collegare Rimini e Piacenza e che ancora oggi si chiama così», ricorda Montesanti. «Era una strada strategica, che in-
LE MOLTE VITE DI PONTE MILVIO
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er gli appassionati di storia antica il suo nome rievoca la battaglia che oppose nel 312 Costantino I e Massenzio. Per molti altri rimanda ai “lucchetti dell’amore” che per anni i giovani innamorati, romani e non, hanno attaccato sui suoi lampioni, gettandone le chiavi nel Tevere. Stiamo naturalmente parlando di Ponte Milvio, a Roma. Dagli Emili alla movida. La prima struttura, voluta da un tal Molvius, risale probabil-
mente al III secolo a.C. ed era in legno. Fu un esponente della gens Emilia, Marco Emilio Scauro, a farne un ponte in pietra (109 a.C.), a poca distanza dal quale, a Saxa Rubra, si svolse quattro secoli dopo la cosiddetta “battaglia di Ponte Milvio”. La leggenda narra che l’imperatore Costantino trionfò dopo aver visto una croce in cielo. Ma la Storia dice che, prevalendo su Massenzio, Costantino spianò la strada al cristianesimo (già affermato).
Medioevale. Nel Medioevo la struttura conobbe un graduale degrado, ma a ridargli vitalità nel XV secolo fu la Chiesa. Nel 1805, infine, spuntò una torretta neoclassica all’inizio del ponte. Semidistrutto nel 1849 dai garibaldini che difendevano la Repubblica Romana dai francesi, Ponte Milvio fu ricostruito. E dal 2012 è stato inoltre “liberato” dalle migliaia di lucchetti che ne incatenavano i lampioni. Ma qualcuno, ad appenderli, ci prova ancora.
CoNtRASto
LUISA RICCIARINI/LEEMAGE
Ponte Milvio oggi: la battaglia che ne porta il nome si svolse in realtà poco lontano da qui.
epoca repubblicana. La loro stella tramontò soltanto con l’inizio dell’impero sieme alla Via Flaminia e alla Via Postumia collegava i porti di Aquileia e Genova». Insomma, oltre alla vocazione per la guerra, tra gli Emili abbondava il fiuto per gli affari. Emilio Lepido è infatti noto anche per la costruzione dell’Emporium, il porto fluviale vicino al colle Aventino, che fece realizzare nel 193 a.C., e per aver contribuito alla costruzione della cosiddetta Basilica Emilia presso il Foro Romano: proprio questo edificio è oggi l’unico superstite architettonico del periodo repubblicano. Tra giochi e impero. Dal ramo degli Scauri veniva invece Marco Emilio, tra il 120 e il 109 a.C. pretore, console, censore e princeps senatus (la massima carica senatoria). Fu lui a volere la Via Emilia Scauri, che collegò meglio Roma e la Liguria. E fu lui a “firmare” la riedificazione di Ponte Milvio (v. riquadro in alto). Come ogni grande famiglia dell’Ur-
be, anche gli Emili finanziavano, a caccia di consensi e clientele, grandi giochi pubblici. Un altro Emilio degli Scauri, nel 58 a.C., anno in cui era edile, fece portare a Roma coccodrilli, ippopotami, rinoceronti e pantere, facendo costruire un gigantesco teatro provvisorio da 80mila spettatori. Verso l’impero. «In età repubblicana, Marco Emilio Lepido, nel 49 a.C., con la carica di pretore, favorì l’ascesa di Giulio Cesare come dittatore», spiega Montesanti. «Ma soprattutto, tra il 43 e il 33 a.C., fu uno dei triumviri, insieme a Marco Antonio e al futuro imperatore Ottaviano Augusto», ricorda Montesanti. Da questo momento la galleria di volti celebri della gens (nella quale scarseggiano le donne, snobbate dagli storici antichi) si dirada vistosamente. In epoca imperiale, con la inesorabile crisi del Senato e la centralizzazione del potere avviata
da Cesare e da Augusto, gli Emili sempre più di rado furono al centro delle vicende politico-militari. Soltanto nel III secolo d.C. uno di loro giocò un ruolo nella corte imperiale, mentre un altro diventò egli stesso imperatore. Il primo era un giurista, si chiamava Emilio Papiniano e fu consigliere dell’imperatore Settimio Severo. Il secondo si chiamava Marco Emilio Emiliano. Con lui, parente “alla lontanissima” dei primi Emili, lo scudo di Marte-Mamers tornò a brillare per l’ultima volta, seppure senza troppa convinzione. L’intraprendente comandante Marco Emilio Emiliano, dopo aver vinto i Goti, nel 253 fu acclamato imperatore dalle legioni. Fu però detronizzato da un rivale e l’ultima gloria degli Emili durò davvero poco: imperatore a luglio, Marco Emilio Emiliano uscì di scena a settembre. • Matteo Liberti 43
CORNELI
L’ONORE DEGLI SCIPIONI Erano una delle famiglie della gens Cornelia e i loro nomi sono per sempre legati allo scontro tra Roma e Cartagine. Ma non solo.
Africano A sinistra, testa in marmo di Publio Cornelio Scipione Africano, vincitore nel 202 a.C. a Zama. La battaglia (a lato, in un dipinto del ’500) segnò la sconfitta, nella Seconda guerra punica, di Cartagine. A destra, Marco Cornelio Stazio sulla sedia da magistrato, da un rilievo del suo sarcofago (150 d.C.).
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u una delle più antiche, delle più longeve (attraversò ben otto secoli di storia romana) e una delle più “innovatrici”. Questi i segni particolari della potente gens Cornelia. Tra le sue molte famiglie, i più celebri furono gli Scipioni. Tombe e basToni. Il cognomen Scipio (“bastone”) risale al IV secolo a.C., epoca in cui il tribuno Publio Cornelio fu chiamato così poiché era solito passeggiare sostenendo il padre cieco. Ma il primo “portavoce” illustre del ramo fu Lucio Cornelio Scipione Barbato: più un “bastone del potere” che un “bastone della vecchiaia”: era infatti noto per le sue doti militari. Fu lui, nel III secolo a.C., a far costruire la monumentale tomba di famiglia che oggi si trova sull’Appia Antica. Il Sepolcro degli Scipioni
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lo a.C. e pagarono con la morte le loro posizioni riformiste. Dalla Dittatura al papato. Altra “star” della gens fu Lucio Cornelio Silla, uomo coltissimo nonché assetato di potere e ricchezze. Nel corso della carriera accumulò numerose cariche, ma il suo nome è legato soprattutto alla guerra civile che tra l’83 e l’82 a.C. lo vide scontrarsi con il generale Gaio Mario. Ad avere la meglio fu Silla, che assunse il ruolo di dittatore. Tre secoli dopo, a rinverdire il nome della gens fu un nuovo Cornelio, che le cronache elencano come ventunesimo papa della Chiesa cattolica, in carica tra 251 e 253 e poi proclamato santo. • Matteo Liberti
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segnò una delle innovazioni di questa famiglia dei Corneli: quella di seppellire i defunti anziché cremarli, com’era invece in uso all’epoca. E gli Scipioni innovarono anche nella cultura: nel II secolo a.C. fondarono a Roma un circolo di “amici degli Elleni” che ebbe contatti con importanti storici e filosofi greci. Vittoriosi. L’esponente più noto della famiglia resta però Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano. Fu lui lo stratega dei successi sui Cartaginesi di Annibale, culminati nel 202 a.C. nella battaglia di Zama. Sposato con Emilia Paola, della gens Emilia, l’Africano ebbe come figlia Cornelia, matrona dalla forte personalità e madre dei Gracchi: Tiberio e Gaio Sempronio. I due Corneli furono protagonisti della scena romana nel II seco-
PRIMO PIANO
Da Cornelia ad Agrippina, passando per Livia Drusilla: le donne dietro le quinte del potere nell’Urbe, tra veleni e maldicenze
Potenti
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MATRONE
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ice il proverbio: “La donna è come l’onda, se non ti sostiene ti affonda”. Prova ne sono le matrone appartenenti alle più ricche e influenti famiglie di Roma che segnarono i destini dei propri congiunti, a volte a scapito del loro buon nome, muovendosi dietro le quinte del potere con sagacia e lungimiranza. IspIratrIce. Tra le più celebrate c’è Cornelia (189-110 a.C.), madre “da manuale” che di fronte allo sfoggio d’ori di una vanitosa romana rispose mostrando orgo46
gliosamente i suoi figli: “Ecco i miei gioielli!”. Colta e di animo forte, apparteneva alla gens dei Corneli: era infatti la seconda figlia di Scipione l’Africano, vincitore della Seconda guerra punica (218-202 a.C.). Suo marito, il tribuno della plebe Tiberio Sempronio Gracco, la lasciò vedova a 35 anni. Ma lei fu talmente virtuosa da rifiutare, secondo lo storico Plutarco, la proposta di matrimonio del re d’Egitto Tolomeo, per dedicarsi anima e corpo ai suoi figli. Soprattutto a Tiberio e Gaio, che consigliò nei momenti cruciali delle loro carriere po-
litiche, partecipando agli importanti cambiamenti sociali che i due ragazzi, eletti tribuni della plebe come il loro padre, promossero contro le oligarchie latifondiste. Figlia, moglie e madre di personaggi tanto degni di ammirazione, Cornelia diventò un esempio per le sue contemporanee. Obbediente, affettuosa e virtuosa, dedita solo alla famiglia e alla casa, sessualmente irreprensibile anche da vedova, Cornelia incarnava esattamente le doti che per convenzione venivano attribuite all’optima matrona romana.
NATIONAL GALLERY/SCALA
Al centro della scena In un quadro del Padovanino (1588-1649) Cornelia (II secolo a.C.) esibisce come gioielli i figli Tiberio e Gaio Gracco. A sinistra, la corte dell’imperatrice Livia (58 a.C.-29 d.C.), moglie di Augusto, in un quadro dell’Ottocento.
Il sesso davvero debole dell’antica Roma
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Roma, pur non passandosela male come in Grecia, le donne vivevano in condizione di inferiorità rispetto agli uomini. In epoca regia, le bambine appena nate venivano spesso abbandonate dal pater familias (protetto dalla legge) e solo nelle famiglie agiate le ragazze ricevevano un’educazione. Ovviamente adeguata al ruolo di spose e madri. Ma il matrimonio non portava loro libertà: cresciute sotto l’autorità paterna, sposan-
dosi finivano direttamente sotto quella del marito. Emancipate, si fa per dire. Solo alla fine del I secolo a.C. le cose cominciarono a cambiare: alle mogli fu permesso amministrare le proprie sostanze, risposarsi se diventavano vedove o divorziare. E curare gli interessi del marito quando questi era lontano. Furono i primi passi di una emancipazione che tardò ad arrivare anche in epoca imperiale. Per i Romani,
le donne dovevano essere sottomesse: persino lo storico Tito Livio consigliava di essere molto parchi nel concedere loro dei diritti, perché “quando saranno uguali, saranno superiori”. Strano a dirsi, almeno in fatto di libertà personale le donne del popolo se la cavavano meglio delle grandi matrone e delle principesse imperiali: la necessità di guadagnarsi da vivere, infatti, consentiva loro di lavorare e avere una professione.
NEL LORO “REGNO”
Nella domus le matrone romane crescevano i figli, ricevevano gli ospiti e, a volte, tessevano i loro intrighi.
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1 Benvenuti A Roma le grandi case patrizie sorgevano a fianco di quartieri di insulae, i “condomini” del tempo. La città era percorsa da stradine strette e affollatissime di giorno, ma semideserte e pericolose di notte.
2 Per gli ospiti Alcune stanze erano riservate agli ospiti, per esempio parenti giunti da altre città, ma anche soci di affari. 48
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2 3 Senza tetto La prima vera zona della casa comprendeva l’atrium, una sala d’ingresso con un’apertura sul tetto per far entrare luce e acqua.
4 Zona sacra
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C’era un posto riservato al culto domestico (lararium): solitamente si trattava di un sacrario per le offerte ai lari (divinità del focolare).
Bambini e bambine dormivano in camere separate, molto spaziose ma spartane per i primi, più arredate e decorate per le seconde.
Nel I secolo a.C. le decisioni politiche si prendevano anche a cena, a casa delle donne d’alto rango che ne approfittavano per influenzarle
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8 Open air 6 Lo studio Il tablinum ospitava una biblioteca dove i tutori formavano i bambini della famiglia e si ricevevano gli ospiti.
7 In cucina Era uno spazio ventilato dove si conservava e preparava il cibo: a occuparsene erano gli schiavi. Una famiglia patrizia poteva averne centinaia.
La seconda porzione della casa si sviluppava intorno a un cortile porticato con un ampio giardino centrale (peristylium). A renderlo rigoglioso l’acqua piovana raccolta grazie ai tetti spioventi.
9 In intimità Intorno al cortile si apriva il triclinium ovvero la sala da pranzo per la famiglia e gli eventuali ospiti.
«Tra il VI e il II secolo a.C., le donne d’alto rango a Roma erano più che altro strumenti nelle mani degli uomini, che se ne avvalevano, attraverso matrimonio e figli, come mezzo per raggiungere accordi politici ed economici. O per esigenze di legittimazione sociale: accrescevano il prestigio della famiglia acquisita attraverso l’autorevolezza di quella di provenienza», conferma Francesca Rohr, docente di Storia delle Donne nel mondo romano all’Università Ca’ Foscari di Venezia. In vIsta. La svolta arrivò nel I secolo a.C.: dato che gli uomini, impegnati nelle guerre civili o in fuga per le proscrizioni, erano lontani, la donna romana poté mettere a frutto le proprie abilità diplomatiche. «La politica non si svolgeva più esclusivamente nelle sedi istituzionali, ma anche nelle sedi private: per esempio, nelle case durante i banchetti. E nella casa, il luogo che la tradizione identificava come adatto a loro, le donne agivano legitti-
mamente, intervenendo nella vita politica, o come esecutrici delle volontà dei mariti lontani o in proprio, decidendo per i figli e il coniuge anche su questioni di primaria importanza», prosegue Rohr. In questo complicato periodo persino un tipo “che non doveva chiedere mai” come Cicerone venne salvato da sua moglie, la nobile Terenzia (96 a.C.-8 d.C.), che si diede molto da fare per il rientro del marito dall’esilio, nel 57 a.C. L’eccezionalità delle condizioni storiche giustificò agli occhi degli scrittori antichi la sua incursione al di fuori delle competenze donnesche. Infame fulvIa. Sorte ben diversa, invece, toccò alla ricchissima Fulvia (84-40 a.C.). La sua fama, o meglio la sua infamia, è legata al terzo marito: Marco Antonio, il generale di Cesare. Forse Fulvia osò più di quanto fosse concesso alle rappresentanti del suo sesso; forse colpendo lei, gli storici antichi vollero colpire anche suo marito, l’avversario (sconfitto) del futuro imperatore Augusto. Fatto sta che venne additata, dopo la morte di Cesare, come avida e crudele ispiratrice delle peggiori azioni del coniuge. E il massimo che lo storico Plutarco seppe dire di questa donna intelligente e audace, capace di sollevare i partigiani di Antonio contro Ottaviano, per difendere la posizione del marito a Roma, fu che 49
SCALA
Tragica fine
BRITISH MUSEUM/SCALA
Agrippina assassinata dal figlio Nerone in un quadro di fine ’800. Sotto a sinistra, ancora Agrippina in una moneta (di fronte a Nerone). Mogli e madri degli imperatori furono onorate (se influenti) anche con busti in luoghi pubblici.
Cleopatra le doveva un favore: “aver insegnato a Marco Antonio a subire la signoria di una femmina”. Nell’ombra. Che Plutarco lo volesse o meno, però, le cose stavano cambiando. «Durante l’epoca imperiale, Augusto operò per ripristinare i mores maiorum, gli “antichi costumi”», continua Rohr. Ma i bei tempi andati erano, appunto, andati. «Per le donne la libertà era maggiore. Anche se non potevano partecipare alla vita militare o accedere alle magistrature, le matrone mantennero spazi di azione pubblica, agendo attraverso i loro uomini», spiega la studiosa. Se però non volevano attirare critiche, la regola era non farsi notare: dovevano essere pie Cornelie fuori e spregiudicate Fulvie dentro. In questo modo sembra si sia comportata la nobile Livia Drusilla (58 a.C.-29 d.C.), moglie di Ottaviano Augusto. Per oltre 50 anni fu la sua consigliera, e infat50
ti alla sua astuzia gli storici attribuiscono molte delle decisioni del princeps; ma dietro la maschera di matrona parsimoniosa e remissiva, pare che ordì intrighi e, secondo le malelingue, accelerò col veleno la morte del longevo consorte, per fargli succedere suo figlio Tiberio. Altrettanto avveduta, influente e risoluta fu Salonina Matidia (68-119 d.C.), “la mia indulgente suocera”, come la definì l’imperatore Adriano, con un affetto che la donna si era guadagnata sul campo. Per anni si era sforzata di farlo diventare imperatore. Il gioco le era riuscito grazie alla parentela con l’imperatore Traiano (suo zio materno), all’amicizia con la moglie di lui, Plotina (secondo voci di palazzo amante dello stesso Adriano) e sacrificando alla ragion di Stato la sua prima figlia, Vibia Sabina, per rinsaldare il legame di parentela tra suo genero e Traiano e poterlo far adottare dall’imperatore morente. leggeNde Nere. Forse troppo timorosi per dare addosso a una suocera, gli storici antichi non la fecero passare liscia, invece, ad Agrippina Minore (15–59 d.C.).
Figlia dell’amatissimo politico e militare romano Germanico, pronipote di Augusto, sorella dell’imperatore Caligola e moglie dello zio Claudio, imperatore pure lui, ricevette il titolo di augusta nel 50 d.C., tra le acclamazioni dei Romani sul Campidoglio. Sapendo che come donna non avrebbe mai potuto aspirare al trono e consapevole dell’importanza della propria stirpe, trasferì sul figlio Lucio Domizio Enobarbo, alias Nerone, le proprie ambizioni. Passò così alla Storia, forse per assimilazione al quadro che le fonti fecero di suo figlio, come una delle donne più crudeli dell’impero: pluriomicida, incestuosa e manipolatrice disposta a tutto pur di dare l’impero a Nerone. Anche se fu Claudio a scegliere il ragazzo come successore, in virtù della sua parentela con Augusto. «Le matrone che cercavano libertà d’azione sono di frequente contestate nei racconti degli storici proprio per la portata innovativa, e quindi destabilizzante, delle loro iniziative. La loro delegittimazione si produsse non attraverso la condanna delle loro azioni reali, ma con il ricorso prete-
stuoso alle accuse di licenziosità, avidità, poca riservatezza e scarsa avvenenza. Clichés intesi a sottolineare il loro allontanamento dal modello femminile ideale, costituitosi fin dall’età arcaica e ancora in auge durante l’impero», spiega Rohr. Manovre. Eppure, benché gli uomini remassero contro, il culmine del potere femminile dietro le grandi famiglie dell’impero venne toccato nel II-III secolo d.C., quando un gruppo di donne appartenenti a una nobile famiglia di Emesa (Siria) sancì la fortuna della dinastia dei Severi. Si chiamavano tutte Giulia, ma il titolo di burattinaia imperiale spetta certamente alla seconda delle quattro: Giulia Mesa (170-226 d.C.), sorella della moglie dell’imperatore Settimio Severo, Giulia Domna. Quando suo nipote, l’imperatore Caracalla, venne ucciso (217), per non far estinguere la dinastia dei Severi Mesa mise infatti in giro la voce che i suoi due nipotini, Bassiano e Alessiano, erano nati da altrettante relazioni di Caracalla con le cugine Giulia Soemia e Giulia Mamea. Uno dopo l’altro, i due ragazzi furono acclamati imperatori, ma, vuoi per la loro incapacità vuoi per la loro debolezza, il potere restò in mano all’augusta nonna. Santa. Per certi versi Flavia Giulia Elena (248-329 d.C.), la locandiera madre dell’imperatore Costantino, le assomigliò. «Forse moglie, ma più probabilmente concubina, dell’imperatore Costanzo Cloro, sappiamo che esercitò a corte una notevole influenza, accentuatasi con l’insediamento di Costantino, che le conferì il titolo di augusta», sottolinea Rohr. Paziente come un cinese seduto sulla sponda del fiume, Elena mise il suo zampino nella condanna all’esilio dei figli che Costanzo aveva avuto da Teodora, la moglie ufficiale che l’aveva scalzata dal cuore del suo uomo. «In alcune iscrizioni è menzionata come madre di Costantino e nonna dei Cesari: questa circostanza accredita l’interpretazione secondo cui le si volle riconoscere il ruolo di capostipite di quella discendenza», conclude la docente. Oscar Wilde aveva ragione: “Date alle donne occasioni adeguate ed esse potranno fare tutto”. • Maria Leonarda Leone
Augusta Il busto dell’imperatrice Giulia Domna (170 ca-217): era la moglie di Settimio Severo.
SCALA
Tra il II e il III secolo d.C. le matrone divennero potentissime: alcune furono “burattinaie imperiali”
PRIMO PIANO
URGULANI
SANGUE ETRUSCO Come una famiglia venuta dall’Etruria diventò potentissima grazie a una principessa di Cerveteri amica della moglie dell’imperatore Augusto e sposa di un alto funzionario romano.
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Roma, in età imperiale, entrare nelle grazie dei sovrani voleva dire fama e potere assicurati. E ogni mezzo era lecito per arrivare all’obiettivo. Ma mantenere la posizione non era facile: i rovesci di fortuna erano all’ordine del giorno. Lo dimostra la storia, poco conosciuta, della nobildonna Urgulania, appartenente a una dinastia che nel giro di qualche decennio, all’inizio del I secolo d.C., passò dalle stelle alle stalle. La famiglia degli Urgulani proveniva dall’antica Etruria, oggi corrispondente a Toscana e parte di Umbria e Lazio. Quando Urgulania nacque, verso la metà del I secolo a.C., la sua terra d’origine era del tutto romanizzata. Ma lei non era un’etrusca qualunque: discendeva da una famiglia principesca di Cerveteri (Lazio). Orgogliosa di quelle radici, per tutta la vita si comportò da donna abituata a comandare. A Roma sposò un magistrato da cui ebbe un figlio, Marco Plauzio Silvano. E per Silvano fu scelta una sposa etrusca. In carrIera. Quando fu ammessa alla corte dell’imperatore Augusto, Urgulania conquistò l’amicizia di Livia Drusilla, potente moglie del sovrano: le due divennero inseparabili. Fu anche grazie a questo legame che Silvano fece carriera: nel 2 a.C. fu nominato console (un titolo onorifico di grande rilievo in età imperiale), poi fu inviato in Asia come governatore; infine si coprì di gloria combattendo in Pannonia e nell’Illirico (gli odierni Balcani) con Tiberio, figlio di primo letto di Livia, adottato da Augusto e futuro imperatore. Poteva anche bastare, ma le ambizioni della nobildonna etrusca si spinsero oltre. Attorno al 10 d.C., Urgulania combinò un matrimonio vantaggioso per la famiglia: sua nipote Plauzia Urgulanilla sposò il nipote di Livia Drusilla, Claudio, che divenne imperatore trent’anni dopo. Non fu un’unione felice. Claudio era timido, malaticcio, sempre con la testa sui libri: la sposina, annoiata, non tardò a farsi degli amanti. Intanto, nonna Urgulania diventava sempre più ambiziosa e tentava di scalare il potere a suon di sesterzi. Come racconta lo storico latino Tacito, nel 16 d.C., quando Livia era diventata Augusta e suo figlio Ti52
berio era sul trono, Urgulania finì al centro di uno scandalo. Aveva contratto un debito con un certo Lucio Pisone, che la denunciò. Ma Urgulania, “che l’amicizia con l’Augusta aveva posto al di sopra della legge”, dice Tacito, rifiutò di presentarsi in tribunale e andò invece al palazzo imperiale, sicura di trovare protezione. Pisone la seguì fin sotto la residenza di Tiberio e solo l’intervento dell’imperatore in persona riuscì a placare gli animi. Chi ci rimise fu Livia, che per salvare la faccia all’amica pagò il debito. L’incidente segnò l’inizio della fine per il casato degli Urgulani: “il potere di cui Urgulania godeva a Roma era effettivamente eccessivo”, sentenzia Tacito, laconico. SuIcIdIo. Nel 24 d.C. un caso di cronaca nera travolse definitivamente la famiglia. È ancora Tacito a narrare la vicenda: un nipote di Urgulania, Plauzio Silvano, “per motivi oscuri, gettò dalla finestra sua moglie”. L’uomo fu accusato di omicidio dal suocero. Bisognava intervenire, e in fretta. Urgulania si riunì con Livia per decidere il da farsi. Si giunse a una scelta estrema: “Urgulania, nonna di Silvano, mise un pugnale in mano al nipote […]. L’accusato, toccato a lungo il ferro, decise di tagliarsi le vene”. La scelta di Urgulania può oggi sembrare crudele, ma 2mila anni fa, tra i Romani, era una cosa quasi normale. Silvano aveva messo a rischio non solo l’onore, ma anche i beni della famiglia, che in caso di condanna sarebbero stati confiscati. Suicidarsi prima di andare in tribunale era l’unica soluzione per evitare la rovina di tutti gli Urgulani. Ma ormai la valanga era partita. Plauzia Urgulanilla fu accusata di adulterio e qualche mese dopo diede alla luce una bimba che l’ex marito Claudio non volle riconoscere: si diceva che fosse figlia di uno schiavo. oblIo. Il nome di Urgulania, a questo punto, scompare dalle fonti e non si sa che fine fece la “principessa etrusca”. Forse, anziana e ormai senza potere, non tardò a seguire nella tomba la sua protettrice Livia, morta nel 29 d.C. Sappiamo però che fu sepolta nella tomba di famiglia a Tivoli, eretta dal figlio quando il suo casato era all’apice del potere. • Simone Zimbardi
Radici in Etruria
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Il Sarcofago degli sposi, del VI secolo a.C., da una tomba di Cerveteri (Lazio), città etrusca di cui era originaria la famiglia degli Urgulani.
Il trono di Urgulania
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el 1732, durante gli scavi nell’area della Basilica Lateranense a Roma, dove un tempo sorgeva la grande domus di Urgulania, emersero alcune opere d’arte antica. Tra queste, un trono in marmo, oggi noto come Trono Corsini (a sinistra). L’archeologo Mario Torelli ha fatto risalire quel prezioso reperto del I secolo a.C. proprio all’ambiziosa etru-
sca Urgulania. Secondo lo studioso si tratta della copia di un trono principesco della fine del V secolo a.C. ed è la prova del sangue reale, nonché etrusco doc, della sua proprietaria. Casa di famiglia. Torelli ha anche ricostruito le peripezie del trono. Era collocato in origine nella domus di Urgulania, abitata dai suoi discendenti fino al 59 d.C. Quell’anno l’ul-
timo membro della famiglia, Plauzio, fu fatto assassinare da Nerone. La proprietà e il mobilio passarono a un parente, Plauzio Laterano, che fece pure lui una brutta fine: coinvolto in una congiura contro Nerone, fu condannato a morte. La domus fu confiscata e molti oggetti, trono incluso, finirono in una discarica.
PRIMO PIANO
FLAVI Vespasiano, Tito e Domiziano: ascesa, guerre e caduta di una famiglia
Gli IMPERATORI Di padre in figlio L’anfiteatro Flavio (è questo il vero nome del Colosseo) fu inaugurato nell’80 d.C. da Tito. La costruzione era iniziata nel 72 con il padre, Vespasiano, il primo imperatore della gens.
che segnò uno dei momenti di massimo splendore per la Roma imperiale
venuti dal nulla vile a decidere il nuovo imperatore. E così fu: nell’ottobre del 70 d.C. faceva il suo ingresso a Roma l’uomo che si era dimostrato più forte, il generale Tito Flavio Vespasiano. Dalla sua vittoria nasceva una nuova dinastia: la dinastia flavia, destinata a scrivere con i suoi tre imperatori consecutivi e con le sue opere (il Colosseo, per dirne una) non poche pagine della storia romana. Radici solide. Ma da dove venivano questi Flavi? A detta di Svetonio, biografo dei Cesari, la loro era una famiglia “oscura e priva di memorie di antenati illustri”. Lo scrittore, però, non va frainteso. «La famiglia di Vespasiano non era assolutamente di umili origini», spiega Gio-
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ra le famiglie che fecero grande Roma non c’erano solo quelle di antica nobiltà. Una classe dirigente al tramonto, un immenso potere vacante e un uomo ambizioso pronto a prenderselo fecero emergere una dinastia venuta dal nulla (o quasi): quella dei Flavi. Era il 68 d.C. quando morì l’imperatore Nerone, ultimo esponente dei Giulio-Claudi, la dinastia imperiale che aveva ereditato la romanità dopo Augusto. Tra uno spettacolo e una sbronza, Nerone non si era curato troppo della successione e l’Impero romano precipitò nel caos. I pretendenti al trono spuntarono come funghi, ma di compromessi nessuno aveva voglia: sarebbe stata la guerra ci-
Vittorie impresse Il sacco di Gerusalemme durante la guerra giudaica combattuta in Galilea (70 d.C.) sull’Arco di Tito a Roma.
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vanni Salmeri, docente di Storia romana all’Università di Pisa. «Il primo Flavio che conosciamo, Flavio Petrone, vissuto nel I secolo a.C. a Rieti, non era un uomo da nulla, considerato che fu un centurione dell’esercito repubblicano di Pompeo, sconfitto a Farsalo nel 48 a.C. In seguito Flavio Petrone chiese e ottenne il perdono di Cesare: se fosse stato un “signor nessuno” non sarebbe stato nemmeno preso in considerazione». Ma come scalarono il potere a Roma, i Flavi? Con il solito sistema delle parentele. Il capostipite dei Flavi combinò il matrimonio del figlio, Flavio Sabino, esattore delle tasse, con Vespasia Polla, sorella di un senatore. Nacquero due fratelli: Flavio Sabino, divenuto poi prefetto di Roma, e, nel 9 d.C., Flavio Vespasiano, futuro imperatore. L’ascesa. Vespasiano aveva dunque alle spalle una famiglia laziale, di rango equestre, piena di agganci. Una carriera politica di tutto rispetto era un traguardo raggiungibile. Più che i mezzi, al giovane Vespasiano mancava però la voglia di servire lo Stato. La madre sudò sette camicie per convincerlo a intraprendere il cursus honorum, la serie di cariche pubbliche che facevano salire nella scala sociale romana. Eppure Vespasia fu sorpresa dal figlio che, nel giro di qualche anno divenne prima questore, poi edile e infine pretore. E il meglio doveva ancora venire. Come ogni “uomo nuovo” del tempo doveva guadagnarsi qualche merito militare. Vespasiano ci riuscì in Britannia, dove si rivelò un ottimo comandante: si meritò così il consolato (era il 51 d.C.) e, già che c’era, divenne pure proconsole in Africa. Soltanto un colpo di sonno sembrò rallentare la sua marcia verso il potere: mentre accompagnava Nerone in Grecia, si addormentò durante uno degli interminabili spettacoli in cui l’imperatore era la star. Grave errore: Nerone lo allontanò immediatamente dalla corte. Lenta svoLta. Fine della storia? Nient’affatto. Nel 66 d.C. era scoppiata una pericolosa rivolta in Giudea, contro il domi56
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VESPASIANO, IL PRIMO
a sua impresa, dal punto di vista di Roma, fu la repressione della rivolta in Giudea, nel 66 d.C. Grazie a quella vittoria partecipò da protagonista alla guerra civile scoppiata a seguito della morte di Nerone (68) nell’“anno dei quattro imperatori”: oltre a Vespasiano (sotto) furono acclamati sovrani dalle rispettive truppe Galba, Otone e Vitellio. Ma fu lui a vincere. Lacrime e sangue. Il principato di Vespasiano è ricordato in primis per il
consolidamento del potere imperiale. Significativi in tal senso furono la Lex de imperio Vespasiani, in cui per la prima volta si elencavano le prerogative dell’imperatore, e il risanamento del bilancio dello Stato, ottenuto ricorrendo anche a tasse impopolari (come quella sugli orinatoi). In certi casi Vespasiano dovette garantire la stabilità dell’impero con le armi: basti pensare alla definitiva sottomissione della Giudea con la conquista di Gerusalemme da parte del figlio Tito nel 70 d.C. o alla vittoria sui ribelli di Giulio Civile in Gallia. Quando Vespasiano morì, nel 79, lasciò un impero solido, pacificato ed economicamente stabile. Del resto fu lui a dire al figlio, a proposito delle tasse imposte ai fullones che raccoglievano l’urina per conciare le pelli, “pecunia non olet”: il denaro non ha odore.
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I Flavi non erano di origini aristocratiche ma il capostipite era un centurione di una certa fama, che combatté a fianco di Pompeo
nio romano. L’imperativo era reagire. A chi poteva rivolgersi Nerone? Ci voleva un generale capace, ma allo stesso tempo di mediocre reputazione (le legioni potevano dare alla testa e trasformare un generale qualsiasi in un rivale). La scelta di richiamare Vespasiano fu azzeccatissima se si pensa che, arrivato in Giudea, il futuro imperatore espugnò le principali roccaforti della resistenza locale e cinse d’assedio Gerusalemme. Poi, come un fulmine a ciel sereno, nell’estate del 68 giunse la notizia del suicidio di Nerone, che non lasciava eredi. Ma non era ancora l’ora dei Flavi. Senato e pretoriani parevano d’accordo: sarebbe stato Sulpicio Galba, discendente dell’antica gens Sulpicia, a colmare il vuoto di potere. Ma non era più il Se-
nato a decidere e c’erano dei concorrenti: nel gennaio dell’anno successivo le legioni del Reno acclamarono imperatore il loro comandante Aulo Vitellio e Galba, odiato per la politica di austerity, fu assassinato e sostituito dal governatore della Lusitania (il Portogallo), Otone. Anche lui ebbe vita breve: si suicidò in aprile, sconfitto dalle truppe di Vitellio. aLLa riscossa. Che ne fu, intanto, di Vespasiano? Fino a quel momento era rimasto a guardare dall’Oriente. Le ultime notizie da Roma, parecchio confuse, su un punto erano inequivocabili: avere legioni fedeli era l’unico modo per raggiungere il potere. E Vespasiano, di legioni, ne aveva quattro (nove, se si aggiungono quelle di due suoi potenti alleati, Licinio Muciano e Giulio Alessandro). Tanto bastava.
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DOMIZIANO, L’ODIATISSIMO personaggio con la lungimiranza di molte delle sue scelte. Fiori all’occhiello. Domiziano (sotto), se si guardano i fatti, si impegnò a reprimere gli abusi dei governatori provinciali, riformò l’amministrazione centrale e inaugurò un sistema organizzato di difesa dei confini dell’impero. Inoltre tenne a bada le ambizioni di Decebalo, re della Dacia (attuale Romania), assai temuto a Roma. Nel 96, tuttavia, cadde vittima di una congiura organizzata, secondo alcuni, dalla moglie. Ci si sbarazzò così dell’ultimo esponente della dinastia flavia.
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TITO, L’AMATISSIMO
iglio maggiore di Vespasiano, anche lui si fece le ossa a spese della Giudea: nel 70 d.C. espugnò Gerusalemme e ne distrusse il Tempio, mettendo fine alla rivolta ebraica. Già sotto il regno del padre ricoprì cariche prestigiose, come quella di console e di prefetto del pretorio. Succeduto a Vespasiano nel 79, il suo regno fu breve, ma denso di calamità e avvenimenti. Popolare. Tito dovette fronteggiare l’eruzione del Vesuvio che rase al suolo Pompei e altri centri cittadini circostanti (79), un devastante incendio scoppiato a Roma (80) e una tra le più tragiche epidemie di peste della storia romana. L’impegno che
mise nel reagire a tali sciagure gli valse un vastissimo consenso, accresciuto dall’aver portato a termine i lavori intrapresi da Vespasiano per la realizzazione dell’anfiteatro Flavio, meglio noto come Colosseo. Morì nell’81 al culmine del successo. Se ne andava così l’imperatore che gli antichi chiamavano “amore e delizia del genere umano”.
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SCALA
u l’unico imperatore dei Flavi a essere davvero detestato dai suoi contemporanei. Durante il suo lungo regno (81-96 d.C.), mantenne uno stile di governo autocratico e ostile al ceto senatorio, in evidente contrasto con la moderazione del padre Vespasiano e del fratello maggiore Tito. Le sue persecuzioni verso chiunque fosse sospettato di tramare contro l’imperatore ricordavano tanto i tempi di Caligola o di Nerone. Ma oggi gli storici non accettano più come un tempo simili accostamenti, bilanciando le stravaganze del
Nelle province orientali le truppe lo proclamarono imperatore e poco dopo fecero lo stesso anche le legioni danubiane. Mentre Vespasiano si trasferì in Egitto, Antonio Primo, fedelissimo dei Flavi, irruppe in Italia e travolse a Bedriacum (vicino a Cremona) le legioni di Vitellio, ucciso un paio di mesi dopo. Al Senato non restava che riconoscere il nuovo imperatore, il quarto in un solo anno. Clan vinCente. Con l’inizio della pace, Roma accolse la nuova dinastia, simbolo di un’epoca di trasformazioni. «Vespasiano era il rappresentante di quelle nuove famiglie italiche che, dopo le guerre civili, contribuirono all’amministrazione dell’impero e acquistarono un ruolo fondamentale», spiega Salmeri. Furono queste nuove dinastie a “rottamare” le antiche gentes
dell’élite senatoria. C’era una precisa evoluzione storica dietro all’ascesa dei Flavi, che diedero la bellezza di tre imperatori (v. riquadri). Certo, non furono sempre rose e fiori. Domiziano, il terzo, è rimasto celebre per la sua crudeltà. Ma furono anche gli anni del Colosseo e dell’Arco di Tito, di filosofi come Quintiliano e di sapienti come Plinio il Vecchio: l’età flavia è più bello ricordarla così. • Giulio Talini
Amore e delizia Una statua dell’imperatore Tito che rimase al potere dal 79 all’81 d.C.: nonostante il breve regno, fu molto apprezzato dai Romani.
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PRIMO PIANO
SEVERI Le trame di potere di un’importante dinastia imperiale. Funestata da un fratricidio che coinvolse i fgili del capostipite
FRATERNI INTRIGHI
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Ritratto di famiglia L’Arco di Settimio Severo a Leptis Magna (oggi in Libia). Nel tondo, l’imperatore Settimio Severo (146-211) con la moglie Giulia Domna e i figli Geta (a sinistra, cancellato dalla damnatio memoriae) e Caracalla.
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iulia Domna era al settimo cielo: poteva essere l’occasione giusta per vedere riappacificati i suoi figli, ora che Bassiano, da buon fratello maggiore, le aveva chiesto di convocare Geta per tentare un riavvicinamento. Ed eccolo il suo secondogenito, accorso appena lo aveva chiamato: si stava affrettando verso di lei, che lo aspettava sorridente, ma si fermò quando vide con la coda dell’occhio suo fratello, in piedi accanto alla porta della stanza di sua madre. Fu allora che fecero irruzione i centurioni: istintivamente Geta si gettò fra le braccia di Giulia Domna. Uno dei soldati gli si avventò alle spalle, colpendolo con la spada: lo fece con tale foga che ferì persino la donna, in lacrime. “Smettila di piangere!”, le intimò Bassiano, minaccioso. Lo storico Cassio Dione, vissuto all’epoca dei fatti, descrive più o meno così l’omicidio del co-imperatore Publio Settimio Geta, organizzato alla fine di dicembre del 211 d.C. da suo fratello, l’imperatore Lucio Settimio Bassiano, detto Caracalla. Profilo sfuocato. Com’erano arrivati a tanto, questi Caino e Abele d’epoca classica? Quali motivazioni si nascondevano dietro il tetro omicidio, reso peggiore dalla consanguineità? Le risposte sono tutt’altro che facili da trovare. «La scarsa documentazione non ci permette analisi approfondite: difficile penetrare a fondo le dinami61
che politiche, e ancor meno psicologiche, che motivarono i comportamenti di Caracalla e Geta, o tracciare esaurienti profili personali», spiega lo storico Sergio Roda, docente di Storia romana all’Università di Torino. Se vogliamo credere alle fonti antiche, i due avevano ben poco in comune, a parte il padre, l’imperatore Lucio Settimio Severo: l’irascibile, megalomane e sanguinario Caracalla e il mite, sensibile e raffinato Geta erano nati rispettivamente nel 188 e nel 189 d.C., il primo a Lugdunum (l’odierna Lione), il secondo a Mediolanum (oggi Milano). Ma in realtà quello che gli storici antichi descrivono come un Caino potrebbe non essere stato poi tanto peggiore del rispettivo Abele. «Il mito di Geta fratello buono e Caracalla fratello cattivo è una mera illazione storica, avvalorata dalla propaganda del Senato, che aveva visto limitato il proprio potere da Caracalla. La sua immagine di principe crudele e prevaricatore si consolidò nel tempo, fino a essere ripetuta due secoli dopo nell’Historia Augusta,
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Odio viscerale I resti del tempio dedicato alla gens Septimia (la famiglia imperiale divinizzata) nell’antica città romana di Djemila (Algeria). Sopra, Caracalla e, in alto a destra, Geta da bambino.
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fonte biografica nettamente filosenatoria in cui compare anche un Geta mite e fragile, umanamente pietoso», sostiene il docente. Di certo, invece, c’è solo l’odio che li contrapponeva. AllA pAri. Che cosa aveva innescato la scintilla? Non una disparità di trattamento. Settimio Severo fu equo nella distribuzione di cariche, poteri e titoli: a pochi anni di differenza, attribuì a entrambi i fratelli l’appellativo imperiale di Caesar e poi quello di Augustus. Sperando infine che la vita sul campo di battaglia li unisse, nel 209, quando diede inizio alle operazioni militari contro i Caledoni, nel Nord della Britannia (odierna Scozia), l’imperatore portò con sé tutta la famiglia. A Geta affidò incarichi amministrativi, volle Caracalla al suo fianco come vicecomandante dell’esercito e Giulia Domna fu come sempre il suo consigliere di fiducia. La propaganda imperiale pubblicizzò una famiglia piena di concordia, capace di condividere il potere e le responsabilità, ma gli storici moderni suppongono che in Britannia la naturale rivalità fraterna fi-
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La famiglia dei Severi non era romana d’origine, ma africana nì persino per acuirsi. E la situazione peggiorò ancora, quando Settimio Severo, malato da tempo, morì a Eburacum (l’odierna York). Era il 4 febbraio 211 e, secondo le volontà del defunto, l’esercito acclamò entrambi i suoi figli imperatores. In questo modo il vecchio genitore aveva spera-
to di dare maggiore stabilità all’impero e basi più solide alla dinastia da lui inaugurata: dato che era nato nella provincia romana d’Africa, infatti, i Severi non potevano vantare un’antica origine romana, come la maggior parte delle famiglie che erano state al potere fino ad allora. “Non siate in disaccordo tra voi, arricchite i soldati e disprezzate tutti gli altri”, aveva raccomandato ai suoi figli sul letto di morte. E se n’era andato sereno. Scelte premature. Non aveva previsto che i ragazzi avrebbero ignorato proprio il primo dei suoi consigli. I due cominciarono a discutere sulla divisione dei compiti già durante il viaggio di ritorno a Roma. «La disputa vera e propria tra i fratelli esplose verosimilmente per la scelta improvvida di Settimio Severo, che lasciò Caracalla e Geta eredi dell’impero a pari titolo, forse progettando, ma non sappiamo se formalizzando, una divisione di sfere di influenza fra Oriente e Occidente», afferma Roda. «Fu una scelta prematura, in anticipo sui tempi, sgradita al Senato e forse anche all’esercito e ai pretoriani. Di
Tutto iniziò da Settimio Severo
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riginario dell’Africa proconsolare, una provincia romana estesa all’incirca lungo le coste del Maghreb, Lucio Settimio Severo, il fondatore della dinastia dei Severi, nacque nel 146 d.C. a Leptis Magna (nell’odierna Libia): suo padre apparteneva a una ricca famiglia locale di rango equestre, sua madre Fulvia Pia, invece, era un membro della gens Fulvia, un’illustre famiglia romana originaria di Tusculum. Questa parentela gli tornò utile quando, ormai diciottenne, giunse a Roma: grazie all’aiuto di suo zio Gaio, fu ammesso nell’ordine senatorio e, in meno di 30 anni, toccò l’apice della carriera amministrativa, diventando console nel 190 e governatore della Pannonia Superiore per conto dell’imperatore Commodo l’anno dopo. Con l’esercito. Furono le truppe a proclamarlo imperatore nel 193 (sotto): Commodo era morto e il successore scelto dai senatori, Pertinace, era stato ucciso dai pretoriani. Aver ricevuto il potere grazie all’acclamazione e al successivo aiuto dei soldati segnò molto il suo governo. Al primo posto nei suoi pensieri ci fu sempre l’esercito: tra le altre cose, aumentò la paga dei legionari e concesse loro nuovi diritti, mentre a generali e ufficiali in congedo assicurò ricchi doni e titoli onorifici.
La lotta tra i due figli di Settimio Severo fu spietata: facevano assaggiare il loro cibo e vivevano con la scorta
In trionfo
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L’Arco di Caracalla a Volubilis, in Marocco, e, a sinistra, un dettaglio di quello di Settimio a Roma. Eretto tra il 202 e il 203, fu dedicato all’imperatore e ai figli per celebrare la vittoria sui Parti.
qui la facilità con cui Caracalla riuscì probabilmente a trovare dei consensi trasversali che favorirono la sua azione, in vista di una presa personale e totale del potere». Una volta sul Palatino, gli imperatori si stabilirono in appartamenti separati (secondo alcuni addirittura in dimore separate: una sull’Esquilino, l’altra sul Gianicolo). Entrambi giravano accompagnati da una scorta e prima di ogni pasto pretendevano che gli assaggiatori testassero i loro piatti, tanto era il timore di venire avvelenati. Al confronto Romolo e Remo (il secondo ucciso dal primo per aver varcato il confine sacro dell’Urbe, appena tracciato) erano stati due boy-scout. Tra i due liTiganTi. L’antico storico greco Erodiano ricorda che a questo punto i fratelli decisero di dividersi l’impero: a Caracalla l’Europa, a Geta l’Asia. Ma non avevano fatto i conti con la loro mamma: donna di potere, conscia della pericolosità di questa decisione, li convinse ad abbandonare l’idea, buttandola sul melodrammatico. “Avete diviso ogni cosa dell’impero, tranne me”, apostrofò i figli. “E da64
to che voglio essere vicina a entrambi, l’unica soluzione sarà uccidermi e seppellire metà del mio corpo a Roma e metà nella capitale dell’Asia”. «Giulia Domna agì probabilmente da spettatrice interessata, ma non coinvolta, nella lotta per il potere dei due fratelli: nella convinzione che chiunque fosse prevalso non avrebbe potuto accusarla di sostenere l’avversario», precisa l’esperto. «Non è escluso che, una volta compreso chi dei due avesse capacità politiche superiori, abbia deciso di non ostacolarlo. È noto del resto che, morto Geta, approfittando anche della scarsa propensione di Caracalla a seguire con continuità le questioni di Stato, la donna acquisì un potere politico che fino ad allora mai nessuna consorte o madre di principi aveva ottenuto». Insomma, la sorte di Geta era segnata. E preannunciata da tempo da una serie di segni e presagi registrati dalle fonti: come quell’uovo color porpora, il colore simbolo della regalità, scodellato a corte da una gallina a pochi giorni dalla nascita del secondogenito e gettato a terra dal piccolo
Caracalla. Naturale che, con queste premesse, pochi credettero all’imperatore sopravvissuto quando giustificò l’omicidio invocando la legittima difesa. CanCellaTo. «In realtà non è detto che le congiure denunciate da Caracalla fossero tutte inventate: Geta potrebbe aver tentato di prendere il potere, specie quando conservava ancora l’appoggio della maggior parte dei pretoriani. Ma ovviamente non abbiamo elementi probanti in tal senso», nota Roda. In ogni caso le guardie del corpo dell’imperatore si lasciarono convincere da 2.500 denari a testa, permettendo a Caracalla di ripetere la stessa versione dei fatti di fronte al Senato, di eliminare tutti i sostenitori di Geta e di cancellare qualsiasi iscrizione, statua o immagine del fratello. Eppure, racconta Cassio Dione, per tener buoni i Romani il fratricida lasciò che il defunto co-imperatore venisse divinizzato. “Che possa essere divino, dal momento che non è più vivo!”, aveva concesso ironico Caracalla. Senza sapere che di lì a sei anni lo avrebbe colpito la stessa sorte. • Maria Leonarda Leone
Le donne dei Severi: dalla Siria con amore (per il potere)
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Ingegneri nati
a dinastia dei Severi era anche un po’ siriaca. Merito di Giulia Domna (sotto), della sorella Giulia Mesa e delle figlie di questa, Soemia e Mamea: ambiziose e manipolatrici, segnarono un’epoca nell’epopea delle grandi famiglie romane. Destinate. Domna e Mesa erano nate in Siria verso il 150. Erano figlie di un sacerdote del dio orientale Eliogabalo e, secondo la versione romanzata della Storia Augusta (IV secolo d.C.), fu un oroscopo a segnare il loro destino. Nel 187 Settimio Severo, da poco vedovo, “era desideroso di risposarsi e consultò allo scopo l’oroscopo di parecchie giovani donne che venivano a lui proposte […]. Avendo sentito che in Siria c’era una ragazza, cui la sorte aveva predestinato un marito re, la chiese in moglie. Questa fu Giulia”. La nuova imperatrice chiamò a Roma la sorella Mesa, che arrivò con le figlie, Soemia e Mamea. Per oltre vent’anni le principesse si mossero all’ombra dell’imperatrice, imparando astuzie e giochi di potere. L’astro di Giulia Domna tramontò con la morte di Caracalla, assassinato nel 217: la donna che era stata l’eminenza grigia dei Severi si lasciò morire d’inedia. Lasciando il campo alle altre principesse siriache.
Piani segreti. Il piano di Mesa era mettere sul trono il figlio di Soemia, il giovanissimo Eliogabalo. Per avere l’appoggio dei soldati presentò il ragazzino alle truppe come erede di Caracalla e continuatore della dinastia dei Severi. Nel 218 Mesa vinse ed Eliogabalo fu nominato imperatore. Il corteo delle siriache si trasferì in trionfo a Roma e il neo imperatore impose che mamma e nonna fossero presenti alle riunioni in Senato: un affronto alle più antiche famiglie aristocratiche. La fine. Nel 222, la resa dei conti. L’11 marzo, in visita al campo dei pretoriani, Eliogabalo e Soemia vennero massacrati dai soldati e i loro cadaveri gettati nelle fogne di Roma. Sul trono arrivò il quattordicenne figlio di Mamea, Alessandro. Roma, ormai in crisi, aveva bisogno di un guerriero e Alessandro non lo era. Così, nel 235 le legioni di Massimino il Trace lo liquidarono e la dinastia dei Severi arrivò al capolinea. Simone Zimbardi
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Sopra, la famiglia di Settimio Severo. Sotto, un frammento della Forma Urbis Severiana, pianta della città di Roma all’epoca di Settimio.
PRIMO PIANO
Molte gentes segnarono la storia di Roma antica. Eccone alcune, con le loro origini (a volte leggendarie) e con gli esponenti più famosi
Gente dell’Urbe A cura di Piero Pasini
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ORIGINI Stirpi più antiche e prestigiose della gens Giulia si potrebbe dire non ve ne siano state nella storia di Roma: i Giuli del resto si dicevano discendenti diretti di Enea e di Venere. Il capostipite Ascanio Iulio avrebbe raggiunto le coste del Lazio con il padre Enea direttamente da Troia e uno dei suoi discendenti, Proculo Iulio, assistette dal vivo, come suo stretto collaboratore, all’ascensione fra gli dèi di Romolo, dandone successivamente notizia. La gens era costituita inoltre da due delle famiglie più importanti di tutta la romanità. PROTAGONISTI I Giuli furono protagonisti assoluti del periodo iniziale e
repubblicano, mentre i Cesari (una famiglia della gens) segnarono il periodo tardo-repubblicano e fondarono l’impero. L’importanza delle due famiglie è data anche dal fatto che Giulio e Cesare diventarono con il tempo titoli onorifici per gli imperatori e sopravvissero anche all’estinzione della gens. Persino i sovrani stranieri, per dimostrare sottomissione, assumevano nel proprio nome l’appellativo di Giulio e successivamente di Cesare. Il perché è subito detto: Gaio Giulio Cesare (100-44 a.C., a lato) fu il più noto membro della stirpe, tanto che il suo nome divenne sinonimo di imperatore.
ORIGINI La tradizione attribuiva ai membri della gens Valeria proprietà curative eccezionali. Nella notte dei tempi della storia romana, in un’età leggendaria, Valeria Luperca era stata scelta per essere sacrificata, in quanto vergine, sull’altare di Giunone nella città di Faleri. Imperversava una pestilenza e questo era stato il rimedio indicato dall’oracolo. Nel momento in cui Valeria alzò il coltello per trafiggersi, un’aquila giunse dal cielo e la disarmò andando a posare il coltello nei pressi di una giovenca. Valeria ebbe salva la vita e, guardata come una semi-divinità, uccise l’animale. Iniziò poi a guarire gli appestati posando sulle loro membra una mantellina. Aciscolo, “piccolo mantello”, era non 66
a caso il cognomen di una delle famiglie che componevano la gens Valeria. PROTAGONISTI Altre leggendarie capacità vengono attribuite a membri di questa gens che, passando ai fatti storici, si distinse nel periodo di fondazione della repubblica, partecipando alla cacciata della dinastia dei Tarquini e assurse alla condizione di “eroi del popolo”. Il primo console di questa stirpe ricoprì la carica 4 volte fra il 509 e il 504 a.C., distinguendosi per l’equità che guidò il suo operato: lo paragonarono a Solone, il grande legislatore greco. Il credito che egli ottenne presso il popolo fu tale da influenzare persino il suo nome. Publio Valerio (a destra, su una moneta) fu soprannominato infatti Publicola, “amante del popolo”.
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GENS VALERIA
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GENS LICINIA violare proprio quella regola e passare alla Storia come il primo a venire condannato per aver infranto una legge scritta da lui stesso. I Licini del resto non furono sempre individui dal comportamento irreprensibile. Anzi, molti di loro, soprattutto appartenenti alla famiglia dei Luculli, ebbero condotte poco rispettose degli ordini del Senato, conducendo guerre individuali e usurpando risorse pubbliche, facendo il doppiogioco e alimentando inutili spargimenti di sangue. Qualche esempio? Lucio Licinio Lucullo, che sedò le rivolte degli schiavi in Lucania e in Sicilia nel II secolo a.C. per poi finire accusato di peculato. E Marco Licinio Crasso (foto), arricchitosi a spese dei rivali sconfitti.
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sCaLa
ORIGINI Lecne era il nome etrusco dal quale probabilmente deriva il nome della gens Licinia, una stirpe che, pur non avendo dato molti consoli a Roma, ha avuto un ruolo determinante nella storia repubblicana. Era una gens plebea alla quale appartennero numerose famiglie che proprio per la loro origine si distinsero in alcuni casi per provvedimenti che puntavano all’equità sociale. PROTAGONISTI Gaio Licinio Stolone, per esempio, s’impegnò fino a ottenere che anche i plebei potessero accedere alla carica di console. Divenuto egli stesso console, introdusse un limite al possesso di terreni, salvo
GENS AURELIA
GENS CALPURNIA ORIGINI Numa Pompilio (sopra), il secondo re di Roma, sarebbe per la leggenda il padre di Calpo, il capostipite di questa gens le cui radici affonderebbero nei recessi dell’epoca arcaica. Come Numa, i Calpurni provenivano dalla Sabina ed erano di origini plebee, ma la gens Calpurnia già dal II secolo cominciò ad avere un ruolo nella storia politica di Roma, iniziando a esprimere diversi consoli: 27 fra il II secolo a.C. e il III d.C. PROTAGONISTI Fra i Calpurni si contano anche numerosi senatori e tribuni della plebe che nella loro attività po-
litica si distinsero certo per le vittorie militari e i trionfi, come quello tributato a Gaio Calpurnio Pisone nel 180 a.C. per le vittorie riportate sui Lusitani e sui Celtiberi, ma soprattutto per essere stati una stirpe di congiurati. Le congiure romane più celebri videro spesso coinvolti membri dei Calpurni, come Lucio Calpurnio Bestia e Gneo Calpurnio Pisone, che parteciparono alla congiura di Catilina nel 63 a.C. Fu Lucio a impedire fisicamente a Cicerone di prendere la parola nei momenti più concitati di quel sommovimento politico.
ORIGINI I suoi membri furono talmente numerosi che quasi sempre nei documenti e nei reperti romani si incrocia il nome abbreviato in Aur.: tutti sapevano che cosa volesse dire. Si trattava di una gens di origini plebee e il loro nome derivava probabilmente da Aureus, “dorato”, ossia “biondo”, come forse era il loro capostipite. In età imperiale il nome Aurelio aumentò la propria diffusione perché venne adottato anche come praenomen, tanto che in alcuni casi divenne difficile distinguere chi apparteneva alla gens e chi no. PROTAGONISTI Marco Aurelio imperatore (sopra), per esempio, non apparteneva alla gens Aurelia: aveva adottato questo nome come sovrano in sostituzione del suo, che era Marco Annio Catilio Severo. Ma gli Aureli, quelli “veri”, hanno percorso la storia di Roma dall’inizio alla fine, proseguendo, sempre in posizioni di prestigio, anche dopo la divisione dell’Impero in occidentale e orientale. Fra i più importanti c’è stato senza dubbio Gaio Aurelio Cotta, primo console della famiglia, che nel 252 a.C. fece costruire la via consolare Aurelia (oggi statale omonima) che collegava Roma alle colonie etrusche conquistate in quel periodo. 67
GENS DOMIZIA ORIGINI La gens Domizia si affacciò 17 volte alle alte cariche dello Stato con altrettanti consoli, dal IV secolo a.C. al III d.C. La ragione era, banalmente, la poca prolificità della gens, nella quale prevalevano i figli unici. Ma molto fortunati. Tutti i Domizi, o quasi, arrivarono infatti al consolato, alle cariche religiose (che a Roma erano anche politiche) e all’onore del trionfo conseguente alle vittorie in guerra. PROTAGONISTI Tra le famiglie che costituirono la gens, la più importante fu quella chiamata Enobarbo, letteralmente “dalla barba rossa”. Una caratteristica alquanto singolare nel Sud dell’Europa,
talmente singolare che le fu attribuita un’origine leggendaria. Svetonio racconta infatti che all’inizio del V secolo a.C. un certo Lucio Domizio, di ritorno dal lavoro nei campi, avrebbe incontrato due gemelli di grande bellezza che gli ordinarono di recarsi al Senato per portare la notizia di una vittoria in battaglia. Per convincere Lucio, alquanto incredulo, i gemelli gli accarezzarono la barba, mutandone il colore da nero a rosso. I due personaggi erano i Dioscuri (figli di Zeus) Castore e Polluce (sotto, su un sarcofago). Un Lucio Domizio Enobarbo fu anche l’ultimo esponente della famiglia: è meglio noto come Nerone, l’imperatore “incendiario”.
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Ritratto attribuito a Livia, potente moglie di Ottaviano, nonché madre di Tiberio.
GENS LIVIA ORIGINI La gens Livia ebbe soltanto 8 consoli fra le sue file, ma fu lo stesso una delle più influenti di Roma. Era una stirpe di origini plebee, ma fra i suoi membri si trovavano gli antenati persino dell’imperatore Tiberio. PROTAGONISTI Livia Drusilla fu la madre di Tiberio e terza moglie di Augusto e fu probabilmente la mente dietro alla lunga lista di omicidi che spianarono la strada del trono al figlio. Ma non è l’attività politica, sebbene sia stata decisiva, ciò che maggiormente la gens Livia ha lasciato in eredità a Roma e al mondo, quanto innanzitutto il lavoro di uno degli storici più importanti dell’antichità: Tito Livio. Padovano, questo scrittore visse fra il I secolo a.C. e il I d.C. Scrisse una monumentale storia di Roma intitolata Ab Urbe condita libri che ancora oggi viene usata come fonte per i fatti storici antichi. 68
Alcune gentes sono definite “plebee”, ma in realtà erano chiamate così soltanto perché arrivarono al potere in un secondo tempo Fabio Massimo, console del IV-III secolo a.C.
GENS FABIA ORIGINI Il capostipite di questa gens, che avrebbe dato il proprio nome a una delle tribù che addirittura precedettero la fondazione di Roma, era Fabio il quale sarebbe nato dal rapporto fra una donna mortale ed Ercole, concepito in una delle fosse per la caccia agli orsi e ai lupi (dette fovi) a cui era dedita la famiglia della madre. I suoi figli divennero fedeli al culto della morte (il cui frutto sacro era la fava) e parteciparono senza dubbio alla fondazione della città. Quando Romolo istituì la prima festività romana, i Lupercalia, i Fabi avevano una storia familiare antica, tanto che già dopo tre secoli dalla fondazione dell’Urbe si avviavano all’estinzione. PROTAGONISTI Tra le file dei Fabi furono eletti numerosi consoli, e in più di un caso
GENS SEMPRONIA
ORIGINI Grazie alle notizie che riporta Svetonio, sappiamo che i Claudi furono protagonisti della storia romana fin dal V secolo a.C. e oltre a moltissimi consoli fornirono allo Stato più di un imperatore. Svetonio ci tramanda come fossero due i rami di questa gens, uno plebeo e l’altro patrizio, entrambi originari della Sabina. PROTAGONISTI Uno dei membri più noti e celebri di questa gens fu Appio Claudio Cieco, che visse a cavallo tra il IV e il III secolo a.C. La cecità alla quale doveva il soprannome fu causata, secondo la leggenda, dall’ira degli dèi per la sua idea di unificare il pantheon greco-romano con quello celtico e quello germanico. Era infatti convinto che la fusione tra le varie culture potesse rappresentare un grande arricchimento per la cultura romana. Ricoprì praticamente tutte le cariche del cursus honorum romano. Riformò l’istituto della censura (cioè la magistratura che si occupava dei censimenti romani), da console sottomise l’Etruria, inaugurò il primo acquedotto e diede il nome alla via Appia che facilitava il collegamento con la Magna Grecia, la cui cultura tanto lo affascinava, e aprì le porte del Senato anche ai cittadini di più bassa estrazione.
Roma, divenendo i paladini della plebe quando nel 133 a.C. Tiberio firmò la lex agraria che, degna di un Robin Hood, redistribuiva le terre sottraendole ai patrizi per darle alla plebe. Il caso di Tiberio e Gaio è particolare poiché entrambi avrebbero potuto vantare, da parte di madre, una discendenza patrizia, ma preferirono accedere al tribunato della plebe sfruttando l’origine plebea della famiglia paterna.
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ORIGINE La figlia di Scipione l’Africano fu la madre dei Gracchi, Cornelia (sotto, con i suoi “gioielli” Tiberio e Gaio, unici sopravvissuti dei 12 che mise al mondo). PROTAGONISTI Proprio i due Gracchi sono gli esponenti di spicco della gens Sempronia, antica e prestigiosa stirpe sulla breccia della politica fin dal V secolo a.C. Tiberio prima e Gaio poi, nel II secolo a.C. intrapresero una serie di riforme sociali senza precedenti a
GENS CLAUDIA
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interi periodi della storia romana furono caratterizzati da successioni di consoli tutti appartenenti alla gens Fabia e spesso strettamente imparentati tra loro, come delle specie di dinastie. Sul piano militare va ricordata la parabola di Quinto Fabio Massimo Verrucoso, noto come il Temporeggiatore. Egli tenne testa ad Annibale per vent’anni, stabilì la strategia difensiva di Roma per tutto il periodo in cui il condottiero cartaginese rimase in Italia, si fregiò di “celebri sconfitte” come quella sul Lago Trasimeno del 217 a.C., ma in sostanza mantenne la posizione. Il suo merito fu totalmente offuscato da Scipione l’Africano, che capitalizzò la strategia di Quinto e, sconfitto Annibale, si prese tutta la gloria.
L’imperatore Tiberio (42 a.C.-37 d.C.): in lui si “fusero” due dinastie, quella dei Giuli e quella dei Claudi. I Giulio-Claudi dominarono la prima fase dell’Impero romano.
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ROMA E LE GENTES Uno sguardo sulla società romana, sul diritto, sul ruolo delle donne e sulle lotte per il potere tra le famiglie più in vista. Le grandi famiglie di Roma antica. Storia e segreti A. Frediani, S. Prossomariti (Newton Compton) Dagli Scipioni ai Giulio-Claudi, fino alla dinastia di Costantino, le origini e le imprese delle gentes che hanno fatto grande Roma, fra intrighi, successioni burrascose, vittorie e clamorose sconfitte. Il libro spiega anche come funzionava la società famigliare romana ed è arricchito dagli alberi genealogici delle gentes, per districarsi nella “foresta” di nomi celebri e non. La società romana Paul Veyne (Laterza) Un classico che serve a dare un’immagine complessiva di Roma nelle diverse fasi storiche: monarchia, repubblica e impero. Attraverso la descrizione di personaggi e ambienti emerge il ritratto di una società meno rigida di quanto si possa pensare
e per questo capace di adattarsi, pur mantenendo i legami con la tradizione delle gentes originarie, ai grandi cambiamenti di una Storia millenaria. La famiglia romana. Società e diritto Gennaro Franciosi (Giappichelli editore) La famiglia, con la sua struttura basata sul potere del pater familias, rappresentava le fondamenta della società romana. Il diritto, le norme sui passaggi di proprietà, i vincoli e le regole del matrimonio formavano un’architettura che, attraverso leggi tramandate per secoli, ha tenuto in piedi il mondo romano. La vita privata nell’Impero romano Paul Veyne (Laterza) Infanzia, istruzione, famiglia e morte nell’Impero romano. Grazie alla sua capacità di ricostruire ambienti e personaggi, Paul Veyne, grande archeologo e storico
Dettaglio dell’Ara Pacis di Roma che raffigura la dea Tellus con Romolo e Remo. Il tempio, voluto da Augusto, è un tributo alle origini semileggendarie della sua famiglia.
francese, fa rivivere gli abitanti dell’antica Roma.Restituendo un affresco che spiega che cosa significasse sentirsi romani. Dive e donne Francesca Cenerini (Il Mulino) Mogli, madri, figlie e sorelle hanno spesso segnato le sorti, nel bene e nel male, dei grandi imperatori. Questo libro ricostruisce le figure storiche femminili più importanti, cercando di far luce sull’immagine idealizzata, ma anche “maledetta”
di matrone come Livia, Poppea, Messalina, Agrippina. Diritto romano Eva Cantarella (Laterza) Può sembrare strano, ma per scoprire perché nell’antica Roma la famiglia era così importante bisogna cercare tra leggi e consuetudini della romanità. Eva Cantarella, studiosa di diritto antico ma anche grande divulgatrice, spiega come funzionava il diritto romano.
La Storia raccontata in queste pagine rivive anche in tv
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nche questo mese History, il canale di Sky dedicato alla Storia, disponibile anche in Hd, approfondisce il tema del Primo piano di Focus Storia: le grandi famiglie romane. TI PRESENTO CALIGOLA La storica Mary Beard indaga sulla figura di Gaio Cesare (12-41 d.C.), terzo imperatore romano della dinastia giulioclaudia, meglio conosciuto con il soprannome di Caligola (nella foto a destra). Noto come uno dei più capricciosi ed eccentrici tiranni della Storia,
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ma anche per il suo breve regno che durò fino al 41 d.C. Caligola venne ucciso, a soli 28 anni, da un gruppo di soldati della guardia pretoriana che misero così fine alle sue stravaganze. Venerdì 20 gennaio, ore 7:00
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PRIMO PIANO
saperne di più
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una foto un fatto
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BERLINO DICEMBRE 1963
Cinquantatré anni fa fu aperto, in occasione delle festività natalizie, un apposito check point su un ponte della città tedesca. Tra il 20 dicembre 1963 e il 5 gennaio 1964 circa 700mila berlinesi dell’Ovest poterono visitare i parenti rimasti nella parte est della città con la costruzione del Muro.
I giorni in cui il Muro si aprì Molte famiglie poterono riunirsi dopo più di due anni. Ma per meno di 24 ore. E ci riuscì solo chi ottenne un visto.
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a domenica del 13 agosto 1961 i berlinesi si sveglia rono con 45 km di filo spi nato che attraversavano la città. Era iniziata la costru zione del Muro, che in po chi giorni avrebbe tagliato in due la ex capitale tedesca. E diviso i suoi abitanti fino al 9 novembre 1989, quando fu abbattuto. Riunione. Famiglie separa te all’improvviso, case e atti vità abbandonate, centinaia di morti nel tentativo di fug gire verso l’Occidente: questa la realtà storica che conoscia mo. Ma il Muro di Berlino, strettamente sorvegliato dai militari della Ddr, si aprì ina spettatamente dal 20 dicem bre 1963 al 5 gennaio 1964. I berlinesi dell’Ovest, o al meno quelli che ottennero un visto dalle autorità della Repubblica democratica te desca, poterono raggiungere
Berlino Est e rimanerci per un giorno, dalle 7 della matti na fino a mezzanotte, in occa sione delle feste natalizie, an dandoci a piedi, in treno o in automobile. Circa 700mila persone riu scirono a ottenere il visto e passarono da un check point aperto appositamente sul ponte Oberbaum. Tra i fortu nati, anche i due fratelli che vediamo corrersi incontro nella foto scattata da Ian Ber ry. Ai berlinesi dell’Est non fu concesso di passare il Mu ro, ma soltanto di accogliere i parenti. Furono rilasciati visti per unicamente per genitori, figli, fratelli, zii e nonni. Si trattò di un’apertura di pochi giorni, ma i testimoni raccontano che si respirava un’aria di speranza. Destina ta purtroppo a restare disillu sa per altri 25 anni. • Irene Merli
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domande & risposte
È vero che Churchill vinse il Nobel per la letteratura?
Queste pagine sono aperte a soddisfare le curiosità dei lettori, purché i quesiti siano di interesse generale. Non si forniscono risposte private. Scrivete a Focus Storia, via Battistotti Sassi 11/a, 20133 Milano o all’e-mail [email protected]
Come facevano gli antichi a tramandare le poesie a memoria? Domanda posta da Tania Urbini.
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Domanda posta da Arnaldo Cerioli.
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ungo i secoli, poeti itineranti, menestrelli, rapsodi e cantastorie, in tutti i continenti, si sono specializzati nel conoscere e recitare lunghe storie che servivano non solo per intrattenere, ma anche per tramandare gran parte del patrimonio culturale di una civiltà, in un’epoca in cui le popolazioni erano poco alfabetizzate. Il caso più illustre e studiato è quello della poesia omerica. Quando furono messi per iscritto, verso il VII secolo a.C., Iliade e Odissea, i due poemi epici greci fondamentali avevano alle spalle secoli di tradizioni orali. Trucchetti. I cantori che li diffusero ricordavano le vicende più lunghe usando trucchetti mnemonici e improvvisando. Se anche la trama era la stessa, le performance non erano mai una uguale all’altra, perché la narrazione era arricchita da epiteti, frasi fatte e interi blocchi di versi usati come “ponti narrativi”.
Ma erano il ritmo accentato dei versi (accompagnati dalla musica) e l’uso della rima i principali aiuti alla memoria: perciò i poemi erano in poesia e non in prosa. (a. b.)
Cantastorie Apollo citaredo (cioè “con la cetra”) dipinto su un vaso greco del IV secolo a.C.
Quando è nata l’abitudine di usare il rosa per i vestiti delle bambine? Domanda posta da Erica Cherini.
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Fanciullo in rosa, di Jacques-Emile Blanche (1861-1942).
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associazione del rosa al mondo femminile risale agli Anni ’60 del secolo scorso. In precedenza, fino ai 6 anni maschi e femmine portavano tutti lunghe vestine bianche. Poi, a metà ’800, debuttarono per l’infanzia i colori pastello, ma senza una connotazione di genere. A inizio ’900, anzi, i colori da maschio e femmina erano invertiti. Nel 1918 il catalogo Earnshaw’s Infants’ Department affermava infatti che “la regola comunemente accettata è che il rosa (variante del rosso,
considerato il colore della guerra, ndr), colore forte e deciso, sia adatto ai maschi e il blu (associato al velo della Vergine, ndr), più delicato e grazioso, alle femmine”. Di tendenza. Negli Anni ’40 le tonalità per i bambini ricalcavano quelle degli adulti: scure per gli uomini e chiare per le donne. Tuttavia, fino a dopo il secondo Dopoguerra, rosa e azzurro erano intercambiabili. Finché, nel 1959, con la bambola Barbie il rosa divenne il colore “da femmina”. (p. p.)
Multitasking Churchill nel 1937 alla Fiera nazionale del libro di Londra. Oltre che politico e statista, fu anche scrittore e per questo vinse il Nobel per la letteratura nel 1953, grazie alla ricostruzione storica di un tema che conosceva bene: la Seconda guerra mondiale.
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u leader del partito conservatore per 15 anni (1940-1955), due volte primo ministro (19401945 e 1950-1955), ufficiale dell’esercito britannico e giornalista (oltre che pittore dilet-
tante). Ma lo statista inglese Winston Churchill (1874– 1965) fu anche premio Nobel, per la sua attività di memorialista e storico. Il 16 ottobre 1953, all’età di 79 anni, poco prima di ritirarsi
a vita privata, ricevette infatti il Nobel per la letteratura. Il riconoscimento avvenne proprio nel periodo in cui dovette rallentare il suo lavoro da premier, poiché un malore lo aveva debilitato. In prima persona. Il premio gli fu assegnato per La Seconda guerra mondiale, un’opera in 6 volumi scritta tra il 1948 e il 1954, nella quale è lui stesso il protagonista degli avvenimenti del conflitto. La motivazione per il Nobel fu: “Per la sua padronanza nella descrizione storica e biografica, nonché per la brillante oratoria nella difesa degli elevati valori umani”. •
Diavoli affrescati da Andrea di Bonaiuto in Santa Maria Novella, a Firenze (1367).
Benedetta Moro
Perché il 666 è detto “numero del demonio”? Domanda posta da Elisa Saro.
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el Nuovo Testamento, nel libro dell’Apocalisse di Giovanni, si legge: “Chi ha intendimento conti il numero della bestia, poiché è numero d’uomo: e il suo numero è seicentosessantasei”. La “bestia” in questione è il diavolo,. ma perché quel numero? Secondo la numerologia ebraica, il 666, scritto in lettere, si riferirebbe al nome dell’imperatore Nerone, persecutore di cristiani: sarebbe il risultato della somma dei numeri che nella cabala corrispondono alle consonanti delle parole ebraiche “Nerone Cesare”. Numerologia. Altre ipotesi fanno invece riferimento alla simbologia religiosa, nella quale il 6 è segno di imperfezione, essendo il numero che più si avvicina al 7, simbolo di completezza. Oppure si tratta del capovolgimento del numero 999, la triplice ripetizione del 3, il numero perfetto della Trinità, a cui il 666 si contrapporrebbe. (m. g.) 75
scienza & scienziati
La “nuvologia” di Luke Howard
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oche cose ci sembrano Arte e scienza effimere e mutevoli coNubi temporalesche me le nuvole. Eppure, in un’illustrazione anche le loro forme sono state dell’inglese Luke descritte, studiate e classificaHoward (nel tondo): te dagli scienziati. Tra i primi fu lui, nell’800, a a farlo fu, all’inizio dell’800, classificare i diversi l’inglese Luke Howard (1772tipi di nuvole. 1864), un chimico-farmacista con una passione per la botanica e per la meteorologia. Figlio di un fabbricante di lampade a olio, Howard aveva studiato nelle campagne inglesi in una severa scuola gestita dai quaccheri, dove molte delle ore erano dedicate allo studio e all’osservazione della natura, oltre che all’apprendimento del latino. Affascinato fin dall’infanzia dalle forme cangianti delle nuvole, Howard consentì a una giovane scienza come la me- aveva proprietà fisiche diverse teorologia di fare passi da gi- e segnalava determinati eventi gante. Grazie a lui il “linguag- atmosferici: il nembo (o cumugio del cielo” trovò una formu- lo-cirro-stratus), per esempio, lazione rigorosa. significava pioggia. Schematico. L’occasione per Lingua universale. La varieesporre pubblicamente le sue tà del cielo diventò così deciidee arrivò nel frabile grazie a dicembre 1802, La terminologia una terminoloa una conferenza gia semplice, bainventata da dell’Askesian Sosata sul linguagciety di Londra, Howard si usa gio universale di una sorta di club ancora oggi quel latino che scientifico dei Howard aveva quaccheri. Secondo Howard le dovuto studiare con tanta fatiinnumerevoli sagome delle nu- ca a scuola. vole potevano essere ridotte a Ispirandosi alla classificaun numero limitato di tre for- zione basata su genere e speme base, che chiamò in latino cie introdotta qualche decencirrus, cumulus e stratus. Tutte nio prima dal medico e botanile forme possibili delle nuvo- co svedese Linneo, la “nuvolole non erano altro che il risul- gia” di Howard aprì una nuova tato di una serie di varianti di stagione per lo studio dei fenoqueste strutture-base. Ognuna meni dell’atmosfera.
Successone. Del resto, Howard ebbe un certo successo. Tra il pubblico della conferenza del 1802 c’era infatti Alexander Tilloch, editore del Philosophical Magazine, una delle più prestigiose riviste inglesi dell’epoca. Colpito dalle ricerche di Howard, gli chiese di pubblicare il suo intervento. Il Saggio sulla modificazione delle nuvole uscì nel 1803, arricchito da illustrazioni di paesaggi e cieli nuvolosi, in gran parte opera della mano esperta di Howard, e da una simbologia che permetteva di classifcare sul campo le formazioni nuvolose. Anche le nuvole, ora, avevano un nome. Le ricerche di Howard alimentarono le fantasie di artisti e poeti del Romanticismo. Pittori come William Turner e
John Constable fecero del cielo e delle sue sfumature uno dei loro soggetti preferiti, mentre il poeta Percy B. Shelley celebrò in versi la mutevolezza delle nuvole. E il poeta tedesco Goethe dedicò una serie di scritti a Howard e al suo tentativo di “afferrare l’inafferrabile”. Insomma, Howard (oggi assai meno noto) divenne uno degli studiosi della natura più conosciuti. Altri scienziati contribuirono ad affinare la conoscenza delle formazioni nuvolose. Ciononostante, la semplice ed efficace terminologia inventata da Howard più di due secoli fa, tra cumuli, cirri, strati e nembi, continua ancora oggi a essere utilizzata dai meteorologi di tutto il mondo. • Elena Canadelli
In altre parole A cura di Giuliana Rotondi
I discorsi dei grandi spiegati in parole semplici
Vincere! E vinceremo.
Benito Mussolini Discorso per l’entrata in guerra, a Roma, il 10 giugno 1940.
L’espressione fu usata nei regimi totalitari fascisti e nazionalsocialisti per criticare il sistema, a loro dire solo apparentemente democratico, delle potenze capitaliste più avanzate (Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia). Mussolini riteneva che le grandi potenze europee fossero manovrate da gruppi ristretti detentori di ingenti ricchezze, in grado di controllare partiti politici e lobby economiche. Al contrario, Mussolini si proponeva di dar vita a un sistema autoritario in grado di compiere la volontà del popolo.
“C
ombattenti di terra, di mare e dell’aria, camicie nere della ri-
voluzione e delle legioni, uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del Regno d’Albania, ascoltate! Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria (...). La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche dell’Occidente (...).
La notizia era già nell’aria: il ministro della Cultura popolare, Alessandro Pavolini, il 5 giugno aveva parlato in un articolo, ripreso da diversi quotidiani, di “Una guerra dinamica, rapida, qualitativa”, una guerra lampo. Molti italiani gli credettero. Secondo lo storico Renzo De Felice, furono essenzialmente due i motivi dell’entrata in guerra: la Francia ormai in ginocchio, sopraffatta dall’invasione tedesca. E la paura che i tedeschi, dopo aver occupato la Francia, avanzassero verso il territorio italiano.
Impugniamo le armi per risolvere (...) il problema delle nostre frontiere marittime. Nella memorabile adunata di Berlino, dissi che, secondo le leggi della morale fascista, quando si ha un amico si marcia con lui fino in fondo. V. SIRIANNI
Questo abbiamo fatto e faremo con la Germania (...). La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti (...): vincere! E vinceremo.
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Allude a generiche urgenze espansionistiche dell’Italia. Visto che Hitler stava vincendo, Mussolini sperava di poter avere dei benefici territoriali. Magari approfittando in particolare della debolezza francese: ambiva infatti a occupare tra gli altri territori, Malta, la Tunisia, la Somalia francese e la Corsica.
GUERRE
Un percorso nella memoria dalle Dolomiti al Carso, tra forti e trincee del primo conflitto mondiale
I SENTIERI DELLA 78
VALPAROLA (BL, BZ) TRINCEA DELLE FRASCHE (GO)
GRANDE GUERRA A cura di Irene Merli 79
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Scavata dagli austriaci, deve il nome all’astuzia dei soldati ungheresi, che usavano i rami degli alberi per nasconderla dai palloni aerostatici da ricognizione.
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Questo passo delle Dolomiti fu strategico durante il conflitto perché da qui passava il confine tra Italia e Impero austro-ungarico.
COL DEI BOS (BL) OSPEDALETTI (BL) I ruderi degli ospedali da campo, edificati e attrezzati per la cura dei soldati italiani feriti sul fronte della Val Travenanzes.
FRANCESCO FLAMINI/REALY EASY STAR
FRANCESCO FLAMINI/REALY EASY STAR
Fu teatro di durissimi scontri: questa casamatta contesa porta ancora le tracce dei colpi di granata ricevuti allora.
FORTE TRE SASSI (BL) CAPORETTO (SLOVENIA) Fu eretto dagli austriaci sul Passo di Valparola, per sbarrare l’avanzata del nostro esercito. Oggi è sede di un Museo della Grande guerra. 80
Il fiume Isonzo nella valle che fu teatro della sconfitta e della ritirata italiana. Ora Caporetto si trova in territorio sloveno e si chiama Kobarid.
MONTE LAGAZUOI (BL)
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FRANCESCO FLAMINI/REALY EASY STAR
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Al suo interno, ad alta quota, furono scavati tunnel e gallerie che i due eserciti tentarono di far saltare: era la “guerra delle mine”.
Nel settembre del 1918 si combatté la battaglia alla quota più alta: i 3.678 metri di Punta San Matteo, nel gruppo dell’Ortles-Cevedale 81
MONTE PIANA (BL, BZ)
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Rovine di stazioni e ripari dell’esercito italiano. Per arrivare quassù fu costruita una strada militare, per lunghi tratti scavata nella roccia.
Nella “guerra bianca” del fronte alpino morirono circa 150mila italiani e austriaci: di questi, oltre due terzi per il freddo, le frane e le valanghe 82
CINQUE TORRI (BL) SASS DE STRIA (BL)
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Trincee degli austriaci, che si trasferirono qui dopo gli attacchi della nostra artiglieria, trincerata sul Lagazuoi.
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Postazioni al Passo Falzarego, oggi parte del Museo all’aria aperta della Grande guerra, con trincee e rifugi militari restaurati.
MONTE SAN MICHELE (GO) OSPEDALETTO (TN) Gallerie e ricoveri fortificati in una delle aree più cariche di memorie della Prima guerra mondiale, quella tra San Michele e San Martino del Carso.
La Fortezza dell’Alto Tagliamento doveva impedire la penetrazione degli austro-ungarici attraverso le valli del Tagliamento e del Fella. 83
NOVECENTO
DISASTRI SPAZIALI
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La corsa alla conquista dello Spazio è stata costellata da drammatici fallimenti. Dal primo volo di Gagarin nel 1961, 4 russi, 16 americani e un israeliano sono morti in missione.
Le missioni portate a termine con uomini a bordo (esclusi i lanci suborbitali)
A cura di Antonio Lo Campo
USA
27 gennaio 1967
Apollo 1
uel pomeriggio sulla rampa 34 del Centro Spaziale Q di Cape Canaveral (allora chiamato Cape Kennedy) l’equipaggio era impegnato nella prova generale di
conteggio alla rovescia. Doveva essere la prima missione di collaudo in orbita terrestre, con equipaggio a bordo, dell’astronave destinata ai voli verso la Luna. Il comandante dell’Apollo 1, Virgil Grissom, aveva denunciato che c’erano diversi problemi e che la capsula non era affidabile. Aveva ragione: quel giorno un corto circuito innescò un devastante incendio. Grissom, con Ed White e Roger Chaffee, non fecero in tempo a sbloccare il portellone, che si apriva in 90 secondi, e rimasero intrappolati tra le fiamme. Alle squadre di soccorso non restò che estrarre i corpi carbonizzati (a destra, i resti della capsula). Dopo la tragedia, il tempo di apertura del portellone fu accorciato a nove secondi.
URSS
24 aprile 1967
Sojuz 1
opo che gli Usa fallirono il lancio dell’Apollo 1, l’Unione Sovietica D lanciò la prima Sojuz, la navicella russa. A bordo c’era un solo cosmonauta, Vladimir Komarov, per un volo di collaudo in orbita.
LAIKA E LE ALTRE CAVIE
Il lancio fu perfetto, ma a causa del mancato dispiegamento di uno dei pannelli solari, la Sojuz cominciò a comportarsi in modo anomalo e Komarov fu costretto a correggerne assetto e traiettoria. Dopo 26 ore in orbita, durante la discesa nell’atmosfera il paracadute principale della Sojuz 1 si aggrovigliò e la capsula si schiantò al suolo. Komarov fu così il primo uomo a morire nel corso di una missione spaziale, visto che l’incendio dell’Apollo 1 si era verificato sulla rampa di lancio.
USA
13 aprile 1970
la disavventura raccontata nel film Apollo 13 di Ron Howard (1995). Ècancellata La missione, la terza del Programma Apollo diretta verso la Luna, fu il 13 aprile 1970, quando la navicella Apollo 13, con il modulo lunare agganciato, era a più di due terzi della traiettoria TerraLuna. L’esplosione di un serbatoio di ossigeno nel modulo di servizio lasciò senza energia e propulsione il veicolo spaziale. Gli astronauti James Lovell, Fred Haise e Jack Swigert si rifugiarono nel Lem (il modulo che avrebbe dovuto allunare), usato come una sorta di scialuppa di salvataggio. Lì avevano un’autonomia di 44 ore, ma il viaggio ne avrebbe richieste 72. Gli astronauti risparmiarono tutta l’energia elettrica possibile e dopo un dramma di quattro giorni, anche grazie all’enorme lavoro dei tecnici a terra, ammararono sani e salvi nel Pacifico. 84
L Apollo 13
a più famosa è la cagnetta passata alla Storia come Laika (anche se il suo vero nome era Kudrjavka, “Ricciolina”), primo essere vivente nello Spazio (foto). Era una meticcia e il 3 novembre 1957 fu infilata nella capsula sovietica Sputnik 2 e lanciata a scopo sperimentale. All’epoca si disse che era sopravvissuta quattro giorni, ma le registrazioni dei dati vitali fanno pensare che soffrì per 5-7 ore prima di morire. Dopo di lei, almeno altri otto cani sono stati mandati in orbita dai russi. Il 28 maggio 1959 fu invece il turno di Miss Baker, una scimmia-scoiatttolo sudamericana messa in orbita dagli americani e primo animale sopravvissuto a un volo spaziale. Il suo compagno, il macaco Able, invece, non superò il trauma del lancio.
Sojuz 11
29 giugno 1971
URSS
el giugno del 1971, per la prima volta nella storia dell’astronautica, N un equipaggio raggiunse una stazione orbitante, dove visse per 23 giorni. Erano i tre cosmonauti della Sojuz 11: Georgij Dobrovolskij,
Viktor Patsaijev e Vladislav Volkov. Il laboratorio orbitante è il Saljut 1. Si decise il rientro con 48 ore di anticipo a causa delle insostenibili condizioni nella capsula. I tre cosmonauti rientrarono regolarmente con un atterraggio perfetto. Ma al momento dell’apertura del portello della Sojuz 11, le squadre di recupero trovarono i loro corpi senza vita. Che cos’era successo? Erano morti per asfissia perché si era deciso, per quei voli, di non far indossare all’equipaggio tuta-scafandro e casco pressurizzati. Una scelta fatale.
Sojuz T-10-1
26 settembre 1983
URSS
pochi secondi dal “via”, sensori e spie indicarono ai cosmonauti A una grave perdita di combustibile da uno dei propulsori alla base del razzo. Così, dal centro di controllo del lancio attivarono la “torretta
di salvataggio”, il piccolo missile in cima alla Sojuz (ne avevano uno simile anche le missioni Apollo). Il missile strappò la Sojuz dal resto del razzo, lanciando a quattro chilometri di distanza i due membri dell’equipaggio. Pochi secondi dopo, il razzo esplose sulla piattaforma di lancio, distruggendola, ma i cosmonauti erano salvi.
Challenger STS 51 L
28 gennaio 1986
USA
uel lancio era stato rinviato già molte volte, per piccole noie tecniQ che. Lo shuttle Challenger, partito la mattina di quel 28 gennaio, non decollava sotto i migliori auspici. E infatti un’esplosione, 73 se-
condi dopo il distacco da terra, mandò in frantumi la navetta spaziale, uccidendo i 7 componenti dell’equipaggio, compreso il primo “cittadino dello Spazio”: Christa McAuliffe, un’insegnante dell’Ohio. La causa del più grave disastro spaziale americano? Alcuni giunti, realizzati con una gomma speciale, che avrebbero dovuto garantire la tenuta tra due segmenti (dei cinque, in totale) di uno dei propulsori a combustibile solido si erano danneggiati a causa delle bassissime temperature della notte precedente. Il fuoco penetrò nella struttura tra i due segmenti e causò il distacco del razzo, che a sua volta colpì il grande serbatoio centrale a idrogeno e ossigeno liquidi, che esplose (a sinistra, una delle foto scattate pochi istanti dopo la tragedia).
Columbia STS 107
1 febbraio 2003
USA
u la seconda tragedia del Programma Shuttle e ne provocò uno Fshuttle stop lungo due anni. La navetta Columbia, la più anziana degli (aveva debuttato nel 1981), esplose al rientro in atmosfera,
ad appena 14 minuti all’atterraggio. Anche in questo caso la colpa fu del freddo: grossi frammenti di materiale isolante del serbatoio centrale, probabilmente misti a ghiaccio, durante il lancio colpirono la parte tra fusoliera e ala sinistra. Lo dimostrò subito un video, ma il danno venne giudicato non serio e il volo proseguì. Al rientro il plasma incandescente creato dall’attrito con l’atmosfera penetrò nella struttura facendo esplodere la navetta (a lato, i frammenti). Morirono i sette membri dell’equipaggio: sei americani e il primo astronauta israeliano.
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Gli uomini e le donne che sono stati nello Spazio: 336 americani, 120 russi e 93 di altre nazioni (7 italiani). 85
CULTURA
Alla ricerca del sapere occulto: i manoscritti proibiti sono esistiti. Ecco quali sono e che fine hanno fatto i testi censurati e banditi
ALEDETTI
uando non c’erano i social network, erano i libri ad avere il potere di manipolare e influenzare l’opinione pubblica. Per questo ogni nazione, nel corso dei secoli, ha stilato una “lista nera” di testi proibiti: la più nota è l’Indice della Chiesa cattolica (v. nelle pagine successive). Oltre ai testi proibiti per ragioni ideologiche o politiche (in Unione Sovietica, per esempio, romanzi come Il Maestro e Margherita di Bulgakov, Il Dottor Zivago di Pasternak, o quelli sui gulag di Aleksandr Solzenicyn), ci sono quelli “maledetti”, avvolti dal mistero o considerati opere sataniche. Spesso di grande successo, perché il male ha da sempre il suo fascino. Letteratura cuLt. Dietro ai libri maledetti c’erano spesso autori altrettanto “dannati”. Biografie e opere si sono fuse in una miscela esplosiva, contribuendo alla cattiva fama di questi titoli. Per non parlare poi degli “pseudo-libri”: testi dei quali si è favoleggiato, ma della cui esistenza non si hanno prove, o che sono in realtà clamorosi falsi storici. L’invenzione di libri maledetti era in voga nella narrativa britannica tra fine ’800 e ’900. Alcuni di questi, spesso introvabili e pubblicati clandestinamente, sono diventati oggetti di culto: si diceva che possederli avrebbe aperto le porte del male. Altri testi, forse, avrebbero potuto cambiare le sorti del mondo. Altri ancora, banalmente, hanno ispirato fumetti e videogiochi. 86
Il libro di Thot: un evergreen del mistero
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LIBRI
Si tratta di una serie di testi esoterici e iniziatici che la leggenda attribuisce al dio egizio Thot, rappresentato con testa di ibis. Al loro interno si troverebbero profezie e pratiche magiche capaci di trasformare l’uomo in un semidio. Possederli e saperli interpretare permetterebbe quindi di manipolare menti e coscienze e persino di vincere la morte. Questi scritti, custoditi in biblioteche segrete in Egitto, nel tempo sarebbero andati dispersi, ma la loro fama è rimasta intatta. Li menziona il papiro egizio di Turis, decifrato a Parigi nel 1868, che mise in relazione la distruzione di quei testi con il tentativo di rovesciare un faraone da parte di un gruppo di dignitari. In tanti sono andati a caccia di quest’opera, Inquisizione compresa. Senza successo. Lo scrittore Jacques Bergier, nel suo saggio Libri maledetti (edizioni Età dell’Acquario), ipotizza l’esistenza di una setta che li custodirebbe per impedire che il sapere in essi contenuto si diffonda. Nel Rinascimento ci fu chi sostenne che i tarocchi ne sarebbero una versione illustrata e popolare. In tempi più recenti sull’argomento è tornato Aleister Crowley (1875-1947), personaggio eclettico e controverso, considerato il fondatore del moderno occultismo e ispiratore del satanismo: fu lui a dare alle stampe, nel 1944, un mazzo di tarocchi chiamato Il libro di Thot.
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Nel segno dell’occultismo Un affresco che raffigura i dannati nella cattedrale gotica di Santa Cecilia ad Albi, in Francia. A sinistra, Crowley a 25 anni nelle vesti di membro della Golden Dawn, società segreta iniziatica che influenzò l’occultismo in Gran Bretagna.
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La Bibbia di Satana È un vero “libro del male”, osteggiato ma anche idolatrato. È stato pubblicato per la prima volta in America, nel 1969. Del libro non c’è molto da dire: è un mix di teorie sataniste di varia provenienza. Ma del suo autore, lo statunitense Anton LaVey (1930-1997), sì. Il suo vero nome era Howard Stanton Levey, un esoterista, scrittore e musicista attivo negli Anni ’60 e ’70. Mantello da vampiro, cranio rasato e barbetta demoniaca, appassionato di occultismo, LaVey è noto come fondatore della Chiesa di Satana, movimento religioso nato nel 1966 a San Francisco. I suoi seguaci lo chiamavano il papa nero e in quegli anni i mass media diedero visibilità alla sua “chiesa”, anche perché era seguita da personaggi dello showbiz (LaVey fu consulente di Roman Polansky per il film Rosemary’s baby e nominò “reverendo” la rockstar Marilyn Manson). Dopo la strage compiuta da Charles Manson, la sua fama di “maledetto” fu offuscata e la Chiesa di Satana fu dilaniata da conflitti e scissioni. Nel libro l’autore chiarisce la sua visione moderna del satanismo, in cui Sata88
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Nella versione moderna del satanismo il diavolo non rappresenta più una divinità, ma incarna lo spirito di ribellione
Sotto i riflettori Sopra, LaVey, la star dell’esoterismo davanti al “cerchio magico”. A destra, Azazel, che capeggiò la rivolta degli angeli nel Libro di Enoch.
na è inteso non come divinità, ma come individuo che incarna la ribellione, l’antimorale, la ricerca del piacere personale e carnale ed è guida esemplare dell’io padrone di se stesso e “vero dio”. Il libro è anche un manuale che dà istruzioni su rituali e pratiche liturgiche, come la messa nera.
Il libro di Enoch: la prima fantascienza? Da secoli l’ebraismo affascina con i testi sacri e i personaggi biblici, alcuni dotati di eccezionale longevità. Tra questi il patriarca Enoch, padre di Matusalemme e bisnonno di Noè, che, secondo la tradizione, a 365 anni non morì ma fu condotto in cielo (forse da esseri extraterrestri?). Là sarebbe venuto a conoscenza delle cause del diluvio universale e altri segreti sull’u-
manità. A Enoch la tradizione giudaicocristiana ha riferito tre testi che non rientrano nei canoni biblici ebraico e cristiano, a eccezione di Enoch 1, accreditato dalla chiesa copta. Comprende una serie di scritti apocalittici, la cui redazione definitiva, in un’antica lingua etiope, risale al I secolo a.C. Per i primi secoli del cristianesimo il testo fu considerato autentico. Poi, con san Gerolamo e sant’Agostino, sparì dalla circolazione e rimase avvolto nel mistero. Solo nel XVIII secolo l’esploratore inglese James Bruce ne ritrovò tre copie che permisero di ricostruirne una versione completa che sconcertò per la descrizione dei viaggi di Enoch (visioni?) su carri volanti (astronavi?), durante i quali incontrò personaggi chiamati Angeli e Spiriti, che si unirono con donne terrestri e generarono figli.
Sapere è potere
ARCHIVI ALINARI
A destra, Mosè riceve le tavole della Legge, arazzo donato da san Carlo Borromeo al Duomo di Milano. Sotto, il Manoscritto Voynich.
È un codice illustrato e un grande rompicapo, passato di mano per secoli. Prende il nome dal libraio Wilfred Voynich che lo acquistò nel 1912 da un collegio di Gesuiti presso Frascati. Il mistero sta nel fatto che è composto con un alfabeto unico, non ancora decifrato, neppure dai più esperti crittografi. Tratta di astronomia, astrologia, farmacologia, botanica e contiene immagini di piante e costellazioni ancor oggi sconosciute. È stato un tempo attribuito al francescano inglese Roger Bacon, noto come Doctor Mirabilis, filosofo, teologo, scienziato e alchimista, e messo in relazione con vari personaggi storici (Leonardo da Vinci compreso), ma un’ipotesi suggestiva lo vorrebbe una versione cifrata del Libro di Salomone, re d’Israele, salvatosi dall’Inquisizione proprio perché indecifrabile. Il manoscritto, del quale non esistono altre copie, è attualmente conservato nella biblioteca dell’Università di Yale. Molti crittografi lo hanno esaminato, ipotizzando datazioni: per qualcuno sarebbe del XV secolo o più antico, per altri è un falso del XVI o XVII secolo. Il codice è stato fonte di altre opere letterarie e persino ispiratore di fumetti.
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Manoscritto Voynich: un enigma mai del tutto risolto
Uno e trino: il “trattato dei tre impostori” Con questo titolo sono note tre opere diverse, mentre gli impostori sarebbero niente meno che i fondatori di tre importanti religioni monoteiste: Mosè, Gesù e Maometto. Pare che già nel XIII secolo si parlasse di un trattato latino, De Tribus Impostoribus, la cui esistenza però non è mai stata accertata. Come autori dell’opera, considerata empia e blasfema, si ipotizzarono Averroè, filosofo arabo, l’imperatore Federico II (entrambi bollati come eretici), Erasmo da Rotterdam, il filosofo Baruch Spinoza (cacciato dalla comunità ebraica di Amsterdam) e tanti altri personaggi famosi: Giovanni Boccaccio, Niccolò Machiavelli, Giordano Bruno, Pier delle Vigne. Si parla poi di un secondo manoscritto in latino: De imposturis religionum breve compendium, anonimo, di cui si ha traccia intorno al 1688. Di questo manoscritto verrà fatta qualche copia che poi finirà
nella Biblioteca Nazionale di Vienna. La storia però qui si complica, perché si sospetta che l’autore del testo si sia rifatto a più antichi fogli. Per farla breve, l’opera viene pubblicata a Vienna nel 1753, ma con la data del 1598: come mai? Il terzo trattato, che conosciamo, è La vie et l’esprit de Mr Benoît de Spinoza, stampato all’Aia, anonimo e in francese, nel 1712 e poi nel 1721. Sarebbe attribuito a Spinoza (o forse a un suo allievo) e sembra ne circolassero versioni manoscritte anche precedentemente, ma non si è riusciti a stabilire esattamente a quando risalga la stesura originale. Questo testo ebbe grande successo presso le menti e gli spiriti liberi dell’epoca, molti lo ricercavano febbrilmente e leggevano in segreto. Ma fu soprattutto un grande scandalo per il suo contenuto: i tre impostori erano “politici” che, in cerca di successo e gloria personale, avevano asservito intere popolazioni dominandole, un tema molto attuale. 89
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Necronomicon: il mito oscuro della morte
L’amante di Lady Chatterley: il libro più scandaloso Il romanzo dell’inglese David Herbert Lawrence, scritto tra il 1925 e il 1928, è maledetto non per il suo contenuto magico, né per i meriti letterari relativamente modesti. L’amante di Lady Chatterley è maledetto perché pochi libri hanno suscitato uno scandalo paragonabile, per via di una trama trasgressiva quanto la vita del suo autore. Gli amori di lady Constance Chatterley, la protagonista del romanzo, furono ispirati dai tradimenti della moglie di Lawrence, l’aristocratica tedesca Frieda Von Richthofen, che abbandonò marito e figli per viaggiare con lui. Il libro fu oggetto di rifiuti, sequestri, tagli, traduzioni improprie, vendite clandestine, denunce e processi. Fu pubblicato in Italia, in Francia e negli Stati Uniti e solo nel 1960, trent’anni dopo la morte dell’autore, in edizione integrale in In90
Visionari e irriverenti Sopra, lo scrittore horror H. P. Lovecraft attorniato dai suoi mostri. Sotto, un ritratto dell’irriverente D.H. Lawrence.
Stranamente non sono mai finiti all’Indice dei libri proibiti Marx, Lenin, Stalin, Hitler e Mussolini. E nemmeno Darwin, il padre dell’evoluzionismo
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ghilterra, assolto dall’accusa di oscenità. Ma perché finì sotto processo? Il libro narra, in fondo, di una Libri maledetti. giovane nobile che tradisce il Storie di pagine marito paralizzato con un uoche bruciano Luca Scarlini (Cairo Editore). mo di classe inferiore, un guarDal Libro di Thot alla diacaccia. Troppo, per una soBibbia di Satana. cietà ancora bacchettona e intrisa di spirito vittoriano: la ricerca del piacere femminile, l’autoerotismo e la descrizione di rapporti sessuali con un linguaggio talvolta crudo e con termini espliciti fu la ragione della condanna per oscenità, anche se il vero “scandalo” era lo spirito sovversivo del libro. Nel tempo, però, la protagonista divenne un’eroina dell’emancipazione sessuale della donna, anche grazie allo scandalo. • APERNE DI PIÙ
LEEMAGE/MONDADORI PORTFOLIO
Per i fan dell’occulto è il libro delle leggi che governano il mondo dei morti. Il titolo originale dell’opera sarebbe Al Azif, termine arabo che indica insoliti rumori notturni, interpretati come gemiti di demoni. Lo sosteneva lo scrittore americano di racconti fantastici e horror Howard Phillips Lovecraft (1890-1937), secondo il quale il libro era un testo di magia nera scritto da uno stregone arabo di nome Abdul Alhazred, vissuto nello Yemen nell’VIII secolo. Si trattava di un eremita pazzo, che adorava entità misteriose dai nomi altrettanto oscuri. Sembra che il testo, a quei tempi, fosse molto diffuso, tradotto clandestinamente in greco e in seguito anche in latino. L’originale arabo sarebbe scomparso, mentre la traduzione greca fu in seguito distrutta. Secondo Lovecraft sarebbero esistiti frammenti e versioni latine, di cui una del XV secolo e un’altra del XVII secolo. In realtà si tratta di uno pseudobiblium, cioè di un libro mai scritto. O di un espediente letterario dello stesso Lovecraft inventato per rendere verosimili i suoi racconti. Lo scrittore fu quasi costretto a confessare che il Necronomicon era una sua invenzione quando si accorse che troppi suoi ammiratori lo avevano preso sul serio. Del resto, anche oggi molti continuano a credere all’esistenza di questo testo.
Antonella Donzelli
Idee maledette: l’Indice dei libri proibiti
ltre a streghe ed eretici, in passato finivano al rogo anche i libri. Anzi, finivano nell’Indice dei libri proibiti: un elenco di tutte le pubblicazioni “maledette”, giudicate contrarie alla fede, eretiche o semplicemente considerate immorali. L’Indice però non nacque nei “secoli bui” del Medioevo, bensì nel pieno del Rinascimento, cioè quando la Chiesa cattolica era alle prese con i “ribelli” protestanti e gli umanisti. Visto, non si stampi. L’esigenza di controllare e, se necessario, proibire la diffusione di testi fu in un certo senso “colpa” di Gutenberg. Il tedesco, perfezionando intorno al 1450 la stampa a caratteri mobili, rese infatti più facile la circolazione dei libri, che prima, essendo manoscritti, erano pochi e costosi. In precedenza era sì vietato leggere o possedere opere giudicate eretiche o immorali, ma l’invenzione della stampa favoriva la diffusione delle idee umaniste che mettevano in discussione il primato della Chiesa: bisognava correre ai ripari. Alla prima bolla papale sulla censura dei testi del 1515, seguì, nel 1558, a opera di Paolo IV, l’istituzione dell’Index Librorum Prohibitorum: una “lista nera” di libri che, secondo la Santa Sede, non si dovevano “scrivere, pubblicare, stampare o far stampare, vendere, comprare, dare in prestito, in dono o, con qualsiasi altro pretesto, ricevere, tenere con sé conservare o far conservare”. Il delicato compito di redigere l’Indice fu affidato all’Inquisizione romana. Censura. Gli scrittori non cattolici furono tutti oscurati, anche per i libri non di argomento religioso; inoltre il primo Index Librorum Prohibitorum condannava altri 126 titoli di 117 autori, 332 opere anonime e 45 edizioni non approvate del Vecchio e del Nuovo Testamento. Tra i libri che vennero indicati come proibiti spiccavano il De Monarchia di Dante Alighieri e l’opera omnia di Niccolò Machiavelli (troppo critico verso il papato), Giovanni Boccaccio (troppo “sexy”) ed
ALINARI (2)
O
Letteratura all’Indice Oltre ai testi chiave dei razionalisti scientifici e quasi tutta l’opera degli illuministi (Voltaire e Rousseau in cima alla lista dei “cattivi maestri”, ma anche Cesare Beccaria, con Dei delitti e delle pene), all’Indice (sopra) sono finiti anche autori che oggi ci sembrano davvero “insospettabili”.
Rogo di libri degli eretici albigesi, supervisionato da san Domenico, in una stampa del Quattrocento.
Erasmo da Rotterdam (troppo umanista e “razionalista”). Ma anche Lorenzo Valla, il letterato che aveva dimostrato, con gli strumenti della filologia, che la Donazione di Costantino su cui si basava il potere temporale della Chiesa era un falso. Le successive edizioni si concentrarono sui grandi testi della rivoluzione scientifica, che stava svelando una visione del mondo e dell’universo in contraddizione con quanto dicevano le Scritture e alcuni testi antichi. In testa alla classifica, naturalmente, Niccolò Copernico e Galileo Galilei, che avevano smontato la teoria (sostenuta dalla Chiesa), secondo cui il Sole gira attorno alla Terra, dimostrando che è il contrario.
La fine dell’Index. L’ultima edizione dell’Indice vide la luce nel 1948 e l’ultimo titolo condannato fu, nel 1961, La vita di Gesù, dell’abate di Notre-Dame di Parigi Jean Steinmann (il biblista francese scriveva che i racconti sull’infanzia di Gesù nei Vangeli non avevano valore storico). Ad abolire l’Indice fu papa Paolo VI nel 1966: un pontefice di nome Paolo lo aveva inventato, un suo omonimo lo mandò in pensione. Anche se, sottolinea la Congregazione per la Dottrina della Fede, “l’Indice rimane moralmente impegnativo, in quanto ammonisce la coscienza dei cristiani a guardarsi […] da quegli scritti che possono mettere in pericolo la fede e i costumi”. Fabio Dalmasso
Giovanni Della Casa, autore tra l’altro del celebre Galateo: compilò il primo Indice nel 1549 a Venezia, ma poi i suoi scritti finirono negli Indici seguenti. Le Satire di Ludovico Ariosto, dal 1590. Critica della ragione pura di Immanuel Kant, pubblicato nel 1781, tradotto in italiano solo nel 1827, e da allora messo all’Indice. Notre-Dame de Paris (dal 1834) e I miserabili (dal 1864) di Victor Hugo. Operette Morali di Giacomo Leopardi, dal 1850 (il poeta era morto da 13 anni). Tutti i romanzi d’amore (dal 1863) e La questione del divorzio (dal 1880) di Alexandre Dumas figlio. Lezioni di letteratura italiana di Luigi Settembrini, dal 1867. Fatalità di Ada Negri, poetessa e insegnante, messo al bando dal 1893. Il santo (dal 1906) e Leila (dal 1911) di Antonio Fogazzaro. Tutte le opere di Alberto Moravia dal 1952. Religione aperta di Aldo Capitini, dal 1956. La Vita di Gesù di Jean Steinmann fu l’ultimo libro a finire all’Indice, nel 1961.
NOVECENTO
MAZZETTA
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NERA
È vero che il Ventennio fu un’epoca immune dalla corruzione, come molti pensano? Pare proprio di no
Favori
ISTITUTO LUCE/SCALA )2)
Benito Mussolini pronuncia un discorso di fronte agli industriali italiani, nel 1927. Industriali e magnati finanziarono generosamente il Partito fascista, anche in modi nascosti. A destra, i lavori di costruzione di un ponte italiano in Eritrea, nel 1937. Le grandi opere furono accompagnate da casi di corruzione.
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uanto fu corrotto il fascismo? Una persistente leggenda tende ancora oggi ad accreditare la classe politica del Ventennio come estranea al malcostume. E, a dimostrazione apparente dell’onestà dei gerarchi, si presentano le imponenti realizzazioni del regime, nel campo delle opere pubbliche, come la prova del fatto che ai polpastrelli dei ras di Mussolini fosse rimasto attaccato poco o nulla. Ma le cose non andarono esattamente così. Finanziamenti oscuri. Fin dall’origine del movimento fascista, Mussolini ideò sistemi per il finanziamento del suo quotidiano, Il Popolo d’Italia, che beneficiò, fin dalla nascita nel 1914, di fondi neri provenienti da Francia e Inghilterra. Era solo l’inizio. Per tutti i vent’anni in cui Mussolini guidò l’Italia, i magnati dell’industria e i grandi banchieri fecero piovere denaro nelle casse del Partito nazionale fascista (Pnf). Era denaro spesso di oscura provenienza, gestito dal fratello di Benito, Arnaldo, che diventò il collettore dei fondi neri. Ma era l’intera organizzazione dello Stato fascista, fondata
sul monopolio di un solo partito, a poggiare su un diffuso sistema di arbitrio e di illegalità. È noto, per esempio, che molte federazioni fasciste usavano un doppio sistema di contabilità: uno ufficiale, alla luce del sole, e uno occulto che permetteva di gestire fondi a disposizione del federale per i più diversi scopi, spesso illeciti. Molti grandi protagonisti della vita pubblica nazionale si arricchirono così. Gerarchi corrotti. La lista dei gerarchi chiacchierati per la loro disinvoltura negli affari è lunga. Tra i ras più spregiudicati da questo punto di vista c’era Roberto Farinacci. Si diceva che, come avvocato, avesse fatto fortuna grazie alle istanze per l’“arianizzazione”, le procedure legali con le quali gli ebrei convertiti potevano ottenere il riconoscimento della “razza ariana”. E Mussolini, che diffidava di Farinacci, sospettava che il gerarca fosse anche un grosso evasore del fisco. Non si sbagliava. La commissione speciale per il sequestro degli illeciti profitti del regime (istituita nel 1944, dopo la caduta del fascismo) 93
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Il Partito fascista fin dall’inizio poté contare su fondi neri e finanziamenti illeciti. E l’avventura coloniale fu un’ occasione di corruzione
accertò che Farinacci, a fronte di un reddito di 90mila lire annue, fosse in debito con l’erario per 3 milioni di lire. Anche i “pesci piccoli” avevano le loro occasioni affaristiche. Un caso esemplare fu quello di Rino Parenti, morfinomane e giocatore incallito, federale di Milano dal 1933 al 1939 e in seguito presidente del Coni. Era odiato al punto che all’indomani della caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943, la sua casa fu saccheggiata dalla furia popolare. Lui si dileguò, lasciando in deposito presso alcuni spedizionieri una settantina di casse di valori: un tesoro che fu poi sequestrato dalla polizia tributaria. SiStema rodato. C’era poi la leva della corruzione, che il governo fascista non esitò a usare fin dall’inizio. Quando, nell’autunno del 1925, il ministro delle Finanze, Giuseppe Volpi, conte di Misurata, attraversò l’Atlantico siglando un accordo per saldare il debito di guerra con gli Stati Uniti, ottenne al contempo un prestito di 100 milioni di dollari dalla Banca Morgan. Per accedere al finanziamento pagò una tangente da 4,5 milioni di dollari. Mussolini, nei primi anni, seguiva una politica liberista e monetarista. Ma poi, con la nascita dell’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale) e con la seminazionalizzazione delle banche, a partire dal 1933 il regime favorì un’economia mista pubblico-privata. La presenza della mano pubblica nella vita economica aumentò il numero dei grandi privilegiati, generando da un lato nuovi finanziamenti per il partito e dall’altro incrementando le fortune personali dei gerarchi. L’intervento statale nei grandi setto-
In alto, la presentazione a Mussolini del nuovo impianto industriale dell’Alfa Romeo a Pomigliano d’Arco. A lato, Piazza Duomo a Milano, negli Anni ’30.
Milano: una Tangentopoli degli Anni ’30
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el 1928 scoppiò a Milano la cosiddetta “Tangentopoli nera”. All’origine dello scandalo c’era la discutibile amministrazione del Comune da parte del podestà Ernesto Belloni. Quest’ultimo aveva ottenuto un prestito di 30 milioni di dollari da una 94
banca d’affari americana, esponendosi personalmente nella trattativa. Ciò bastò a far circolare la voce che Belloni avesse intascato una maxitangente da cinque milioni sulla transazione. Cadde la testa del federale di Milano, Mario Giampaoli e, almeno in questo
caso, si cercò di fare chiarezza sui fatti. Irregolarità. Mussolini nominò una Commissione d’inchiesta che portò allo scoperto il malaffare che dominava nella metropoli. Emersero ulteriori prove della disonestà di Belloni, che aveva effettuato un “ir-
regolare prelevamento” di circa 150mila lire (circa 130mila euro di oggi) dalla definizione di una vertenza sindacale e aveva fatto eseguire numerose opere pubbliche senza contratti né appalti. L’ex podestà venne espulso dal partito e condannato a cinque anni di confino.
Sopra, Roberto Farinacci (1892-1945), che fu processato per evasione fiscale. Sotto, Giacomo Matteotti: sospettò i coinvolgimenti di Mussolini nel caso Sinclair Oil, ma fu assassinato nel 1924.
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ISTITUTO LUCE/SCALA (2)
Spregiudicato
ri dell’economia nazionale dirottò verso il partito fiumi di denaro liquido che alimentarono una quasi fisiologica corruzione: le tangenti diventarono il lubrificante naturale con il quale le imprese private poterono aggiudicarsi appalti, commesse, concessioni, licenze nei più vari settori. I contI del partIto. Il cuore di questo sistema era il Partito nazionale fascista. Con i suoi 25 milioni di iscritti, nel 1940 incassava una montagna di soldi in quote associative. L’importo variava in base alla categoria socio-economica dell’iscritto. Ma le quote non erano l’unica fonte di entrate. Il Pnf rastrellava, attraverso lo Stato, altro denaro per sostenere le sue attività. I conti parlano di 25 milioni in quote nel solo 1940-41 e di ben 333 milioni genericamente classificati come “contributi volontari”. Sempre nello stesso periodo, considerando anche il patrimonio immobiliare e altre voci, il partito unico raggiunse un giro d’affari annuale di 700 milioni di lire (circa 500 milioni di euro di oggi). colonIe e malaffare. La corruzione del fascismo, infine, divenne endemica quando la imprese belliche e coloniali di Mussolini sconquassarono la finanza pubblica. La sola spesa per organizzare il nuovo impero in Africa Orientale, nei quattro esercizi finanziari successivi alla conquista dell’Etiopia (1936), si aggirò attorno ai 46 miliardi di lire, ingoiando il 20-25% degli stanziamenti del bilancio statale. A fronte di tutto ciò, le riserve auree e in valuta pregiata della Banca d’Italia si assottigliarono rapidamente: dai 5,8 miliardi di fine 1934 si passò ai 4 miliardi del febbra-
io 1937, dopo la conclusione della campagna coloniale. A dissanguare le casse dello Stato contribuirono le grandi opere. Nel giugno del 1937, il Consiglio dei ministri approvò un piano di sei anni per la realizzazione delle arterie stradali sul suolo africano, destinando al progetto una cifra iperbolica: 7 miliardi e 730 milioni di lire. Le opere pubbliche in Abissinia si trasformarono però anche in una sorta di bancomat per i “predoni” del regime. C’era per esempio chi lucrava sulle tariffe per i trasporti dei materiali: spostare con un camion un quintale di cemento in Italia costava 15 lire, in Africa 50 volte di più. La costruzione delle strade, che in Italia costava in media 350mila lire per ogni chilometro, nelle colonie superava il milione di lire al chilometro. Le imprese che si aggiudicavano gli appalti, poi, per aumentare i profitti costruivano utilizzando materiali scadenti. Persino Roberto Farinacci notò che le “vie imperiali”, appena inaugurate, erano già impraticabili. InarrestabIle. C’è da dire che nell’idea di Mussolini l’unica realtà che poteva essere foraggiata con mazzette e fondi neri era il partito: il duce non ammetteva che imprese e privati si arricchissero troppo grazie alla politica. Questo spiega alcune commissioni d’inchiesta su casi di corruzione. Inoltre Mussolini fece raccogliere dossier per ognuno dei gerarchi più vicini a lui, per verificarne le attività e la condotta morale. Ma più che a fermare l’ondata di malaffare, questa azione di dossieraggio serviva a tenere sulla corda, con la minaccia di ritorsioni, gli uomini di potere che lo circondavano. • Roberto Festorazzi
Uno scandalo petrolifero e il delitto Matteotti
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ei primi anni del suo governo, Mussolini rischiò di essere travolto da uno scandalo petrolifero. Era la primavera del 1924 e alla società americana Sinclair Oil fu concesso in esclusiva lo sfruttamento dei giacimenti di greggio italiano. L’operazione Sinclair non fu trasparente: la società petrolifera si aggiudicò la commessa
pagando una tangente di un milione di lire che finì nelle casse di grandi gruppi finanziari (Rockefeller, Mellon, Morgan e Guggenheim). Morte “utile”. La vicenda potrebbe essere intrecciata con l’omicidio Matteotti, il deputato socialista rapito e ucciso il 10 giugno 1924 da sicari fascisti. Giacomo Matteotti (nel tondo) si
preparava infatti, pare, a denunciare l’intreccio affaristico-politico. La concessione fu annullata quando emerse il legame della Sinclair con la Standard Oil, accertato dalla Commissione d’inchiesta voluta da Mussolini. Il duce “salvò” una risorsa energetica nazionale da un colosso straniero ed evitò lo scandalo.
STORIE D’ITALIA FOSDINOVO (MS)
La nobildonna Bianca Maria Malaspina si innamorò di uno stalliere e per questo fu sepolta viva. Il suo spirito aleggia, si narra, in un maniero della Lunigiana
IL FANTASMA DEL CASTELLO MALASPINA
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ti e i rigidi codici religiosi che regolavano i rapporti fra i sessi. Nel Medioevo, tollerare una simile relazione significava mettere in pericolo l’onore dell’intero feudo. E quindi, sempre secondo il racconto popolare, la relazione fu osteggiata con ogni mezzo: prima con la persuasione, poi con la minaccia. Ma REALY EASY STAR
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gni racconto popolare ha qualcosa di vero e a quanto pare questo vale anche per la dama medioevale Bianca Maria Aloisa Malaspina. La leggenda su questa nobile fanciulla vissuta nel XII secolo si tramanda nelle case di pietra del borgo ai piedi del poderoso maniero di Fosdinovo (Massa Carrara). Senza aver mai trovato conferma nei documenti. Alcuni elementi biografici e un importante ritrovamento permettono però di collocarla in un ambito storico, sebbene ancora carico di misteri. Amore contrAstAto. Ci troviamo in Lunigiana, estremo Nord della Toscana, tra le Alpi Apuane e le scogliere di Lerici, a pochi chilometri in linea d’aria dalle spiagge più ambite. Ma a Fosdinovo si respira già il clima dell’Appennino: i profumi sono quelli intensi del sottobosco carico di acqua e funghi, dove il verde delle querce, dei castagni e dei faggi si alterna al grigio e al giallastro delle rocce calcaree. Secondo quanto si racconta a Fosdinovo, la giovane castellana si era invaghita perdutamente di uno stalliere al servizio dei feudatari. Un amore impossibile per i canoni dell’epoca. Lo impedivano la differente estrazione sociale degli innamora-
Leggendaria? A destra, Bianca Maria Malaspina in catene (e, sullo sfondo, con il suo amante): la nobildonna visse, secondo i racconti, nel Medioevo, ma non risulta che nessuna ragazza con questo nome abbia abitato lì prima del ’600. A sinistra, lo stemma dei Malaspina con lo “spino fiorito”.
A. MOLINO
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“Mala spina” per i cattivi La sala grande delle feste nel castello di Fosdinovo. Il motto dei Malaspina, famiglia nobile di origine longobarda che ebbe feudi in Toscana e Lombardia, era: “Sono una spina pungente per i cattivi, e una spina che non punge per i buoni”.
Il nome Bianca non è casuale: pare che Bianca Maria fosse albina, con capelli bianchi e occhi di ghiaccio, tratti somatici a lungo considerati demoniaci la passione continuava ad ardere nel cuore della fanciulla e gli echi dello scandalo rimbalzavano ormai dentro e fuori le mura della fortezza. Punizione bestiale. La famiglia decise di porre fine allo scandalo con un atto di forza, come si usava. Lo stalliere fu allontanato (secondo un’altra versione usciva di scena a questo punto, torturato e ucciso) e Bianca Maria rinchiusa in convento. Ma la ragazza era una testa dura e, segretamente, continuò a incontrarsi con il suo amante. E si narra anche che rimase incinta. Come nel più fosco copione gotico, quella passione ribelle portò alle estre98
me conseguenze: Bianca Maria fu ricondotta al castello e il suo ultimo scorcio di vita si trasformò in un’espiazione alla maniera medioevale. Bianca Maria fu murata viva in una stanza del castello insieme a un cane (emblema della fedeltà) e a un cinghiale (allegoria della ribellione all’autorità). In quella cella la nobile ben presto morì di stenti. Ma il suo spirito aleggerebbe ancora in quel castello, sotto forma di giovane e biondo spettro senza pace. O almeno, a Fosdinovo, in tanti sono pronti a giurarci. Realtà o leggenda? Fin qui la versione popolare della vicenda. Ma la storia di
Bianca Maria presenta almeno due vistose incongruenze. La prima è cronologica. La tradizione colloca infatti la love story di Bianca Maria nel XII secolo: all’epoca, però, il castello di Fosdinovo non apparteneva ancora ai Malaspina. Il capostipite della famiglia, Spinetta Malaspina (1282-1352), entrò infatti in possesso del feudo nel 1340. Anche ammesso che la storia si possa spostare all’epoca di Spinetta, resta la seconda incongruenza. Da nessun documento risulta che il capostipite avesse una figlia di nome Bianca Maria Aloisa. È esistita, nella famiglia, una donna con
Fortificato A sinistra, il castello di Fosdinovo, oggi in provincia di Massa Carrara e ancora proprietà dei discendenti dei Malaspina. Sopra, uno scorcio dell’interno della rocca, ancora con lo stemma di famiglia.
questo nome, ma era figlia di un discendente di Spinetta, Jacopo II Malaspina, vissuto nella prima metà del XVII secolo. Si tratta quindi di una leggenda, condita da qualche particolare storico? A complicare il quadro, piuttosto che ad aiutare a trovare una risposta, è intervenuto un ritrovamento avvenuto circa trent’anni fa. Ossa misteriOse. Durante alcuni lavori di ristrutturazione dei sotterranei del castello vennero alla luce, in un pozzetto murato, alcuni resti risalenti al XVII secolo. Si trattava, secondo le analisi, di ossa appartenute a una giovane donna e a due animali. Per i fan di Bianca Maria è la prova che la leggenda non è tale. Il ritrovamento di quei resti confermerebbe, anzi, che la nobile che ha ispirato la storia sarebbe la figlia di Jacopo, vissuta appunto nel Seicento. Non solo. Un’altra circostanza avvalorerebbe la storicità dei fatti: quella Bianca Maria, figlia di Jacopo II, era albina e quel nome, Bianca, probabilmente non le
fu dato a caso. La ragazza aveva infatti capelli, ciglia e sopracciglia candidi, una carnagione lattea e occhi trasparenti come l’acqua che rendevano il suo sguardo inquietante. Inoltre Bianca, come molti albini, soffriva forse di fotofobia e perciò preferiva la semioscurità. In un’epoca in cui era aperta la caccia alle streghe, l’albinismo era considerato un marchio del demonio e per salvarla dal rogo, oppure per nasconderla, la vera Bianca Maria Aloisa potrebbe essere stata tenuta nascosta nel castello. Le voci su quella fanciulla che nessuno vedeva mai si sarebbero poi trasformate nella storia d’amore proibita. echi mediOevali. Quanto all’ambientazione medioevale, e non seicentesca, della vicenda, non deve stupire. Ancora oggi a Fosdinovo si tramanda il ricordo del dominio feudale imposto dai Malaspina. Del resto, i diritti feudali, da queste parti, sopravvissero fino all’arrivo delle truppe napoleoniche, nel 1796-97. La stessa architettura del borgo testimonia quanto il potere del signore fos-
Spinetta Malaspina (1282-1352), capostipite della casata di Fosdinovo.
se opprimente: le case di pietra, addossate alle mura del castello, erano un tempo collegate da un camminamento continuo che permetteva ai castellani o ai loro soldati di introdursi nelle case senza farsi annunciare. A conferma che a Fosdinovo morte e sofferenze fossero normale amministrazione restano oggi le prigioni, i trabocchetti (botole nascoste sotto il pavimento in funzione difensiva) e le stanze della tortura. Nessuna meraviglia quindi che, in questa cornice, si sia sviluppata, su una base storica, la leggenda di una bella fanciulla che non volle rinnegare il suo amore neppure di fronte all’idea di una morte orribile. • Raffaele Laurenzi 99
I GRANDI TEMI
CUBA
DA COLOMBO A
Fatti e personaggi che hanno fatto la storia di un’isola da cinque secoli
Il vero padre della patria
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oeta e scrittore, giornalista di gran talento. José Martí (1853-1895) fu questo, ma soprattutto, con Simon Bolívar e José de San Martín, un eroe dell’indipendenza latinoamericana dalla Spagna. Martí nacque all’Avana il 28 gennaio 1853, a 16 anni scrisse il suo primo dramma in versi ma poco dopo fu arrestato per avere appoggiato l’indipendenza. Condannato ai lavori forzati, dopo alcuni mesi passati a spaccare pietre in una miniera-carcere, fu deportato in Spagna. Riuscì a laurearsi a Saragozza (in diritto) e a 21 anni iniziò a girare il mondo. In viaggio. Prima visse in Francia, poi in Messico (dove sposò Carmen Zayas Bazán, che gli diede il suo unico figlio) e infine in Guatemala, dove insegnò all’università. Ma il suo cuore era ancora a Cuba. Ci tornò nel 1878 e ancora una volta fu deportato in Spagna. Nel 1881 approdò a New York, dove collaborò per vari giornali tra cui La Nación di Buenos Aires. Nominato console di Uruguay, Argentina e Paraguay, dal 1882 organizzò meticolosamente l’indipendenza cubana. In azione. Martí fondò il Partido Revolucionario Cubano e il 25 marzo 1895 firmò con il Generalísimo Máximo Gómez il Manifesto di Montecristi, il programma della “Guerra necessaria”. L’11 aprile sbarcò a Cuba con un manipolo di uomini ma il 19 maggio, in uno scontro con gli spagnoli, fu ucciso.
Garibaldi cubano José Martí, l’eroe per eccellenza, venne ucciso quasi subito dopo aver dichiarato nel 1895 la “Guerra necessaria”. Sopra, una litografia dell’Avana del XIX secolo.
INTANTO NEL MONDO
CASTRO
CUBA
28 ottobre 1492 Cristoforo Colombo sbarca a Cuba e avviene il primo incontro con gli indigeni Taino che ben presto verranno sterminati dagli spagnoli.
protagonista della geopolitica.
1511 Il conquistador spagnolo Diego Velázquez de Cuéllar fonda il primo insediamento spagnolo a Baracoa.
1517 Sbarcano a Cuba i primi schiavi africani che sostituiranno gli indigeni nelle piantagioni di canna da zucchero.
MONDADORI PORTFOLIO/BRIDGEMAN (10)
1659-1668 Cuba viene flagellata dagli attacchi corsari.
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nche se può sembrare incredibile, dopo quasi 60 anni di dittatura che ha concentrato la sua ricerca storica sulla revolución, esiste anche una Cuba pre Fidel Castro che vale la pena raccontare. Ad avvistare per primo le coste dell’isola caraibica fu Cristoforo Colombo, nella notte del 27 ottobre 1492. Battezzò l’isola Juana in omaggio al principe Juan di Aragona, primogenito dei re di Spagna che aveva finanziato la spedizione ma, alla fine a imporsi è stato il nome Cuba, sulle cui radici etimologiche ci sono almeno quattro interpretazioni, tutte legate all’età precolombiana. Monti e sigari. La prima ipotesi si ricollega alla parola ciba, che tra i Taino – l’etnia predominante alla fine del XV secolo – significava “pietra” o “montagna”. La seconda è che Cuba derivi da Cohiba: nulla a che vedere con gli omonimi sigari resi celebri da Fidel Castro, visto che era il modo in cui gli stessi Taino chiamavano l’isola. Una terza ipotesi è che Cuba discenda dall’arabo coba, che indica la cupola della moschea, per la forma delle monta-
1762 Gli inglesi occupano L’Avana e Cuba verrà riassegnata agli spagnoli dopo 11 mesi.
ALTRI PAESI
31 luglio 1492 Ferdinando II d’Aragona e Isabella di Castiglia unificano la Spagna ed espellono dal regno tutti gli ebrei.
1516 La Svizzera riunita in una confederazione di 13 cantoni si dichiara ufficialmente terra neutrale. 31 ottobre 1517 Inizia la riforma protestante di Martin Lutero.
1663 Con lo Staple Act l’Inghilterra vieta a navi e merci di altri Paesi europei di accedere ai porti coloniali inglesi, riservandosi il monopolio di tutti i commerci delle proprie colonie. 1763 Con il Trattato di Parigi termina la Guerra dei Sette anni.
23 febbraio 1455 Johannes Gutenberg stampa la prima Bibbia.
31 ottobre 1512 Viene inaugurata la Cappella Sistina.
1518 Viene introdotto il tabacco in Europa.
1660 Nasce il Grand Tour, viaggio in Europa effettuato da ricche famiglie nobili per completare la propria istruzione.
1769 Watt inventa la macchina a vapore. 1837 Prima linea ferroviaria a Cuba. In Spagna e nel resto dell’America Latina la ferrovia non esiste ancora.
1858-1868 Si combatte la Guerra dei Dieci anni per l’indipendenza dal governo spagnolo. 1879 Inizia la Piccola guerra, un’insurrezione popolare armata contro la Spagna.
CULTURA
1885 Le truppe italiane impegnate in Africa occupano Massaua. È l’inizio della politica colonialista italiana. 101
I GRANDI TEMI
CUBA Le popolazioni indigene furono sterminate nel giro di cinquant’anni da epidemie di vaiolo, morbillo e altre malattie portate dagli spagnoli
gne che si vedono ancora oggi dalla baia di Bariay, dove Colombo quasi certamente sbarcò. Secondo l’Oxford Dictionary, tuttavia, il nome di Cuba trarrebbe la sua origine da cubanacan, che in lingua taino significa “luogo centrale”: è questa infatti la posizione dell’isola, nel bel mezzo dei Caraibi. Oltre al navigatore genovese che nei suoi diari la definì “la terra più bella mai vista prima da occhi umani”, le informazioni scritte su quella che sarebbe stata ribattezzata in seguito dagli spagnoli
Lavoro “nero”
Schiavi impegnati nella lavorazione di canna da zucchero. Dopo l’estinzione delle popolazioni autoctone, gli spagnoli, a corto di manodopera, importarono un gran numero di schiavi neri dal Portogallo.
INTANTO NEL MONDO Navigatori, santi ed eroi
1895 Muore José Martí.
Nella pagina a fianco, una mappa di Florida e Antille del 1555 e il domenicano Bartolomé de las Casas. che denunciò lo sfruttamento degli indios già all’inizio del XV secolo. Qui a lato, il capo dei Taino, Hautey, bruciato vivo dai conquistadores il 12 febbraio 1512.
1898 Con l’appoggio degli Stati Uniti, Cuba ottiene l’indipendenza dalla Spagna, ma diventa un protettorato Usa. 20 maggio 1902 Cuba ottiene piena indipendenza.
1900 Il re d’Italia Umberto I viene assassinato, gli succede al trono Vittorio Emanuele III.
28 luglio 1914 Inizia la Prima guerra mondiale.
28 ottobre 1922 Marcia su Roma.
la “perla dei Caraibi” cominciarono ad arrivare a partire dal XVI secolo. Tra le popolazioni indigene presenti a Cuba all’inizio della colonizzazione che, nei cinquant’anni seguenti, furono sterminate dalle epidemie di vaiolo, morbillo e altre malattie portate dagli spagnoli non c’erano solo i Taino, ma pure i Ciboney e i Guanajatabey. Erano tutti arrivati a Cuba, molti anni prima, dalle vicine coste del Nord America, del Centro e Sud America e da altre isole dei Caraibi. IndIgenI, schIavI e pIratI. Fino al 1450, spiegano gli antropologi, il gruppo più popoloso sull’isola era quello dei Ciboney. Secondo il domenicano Bartolomé de las Casas, che visse con loro all’inizio del XV secolo, dialetto e cultura erano simili a quelli degli indigeni delle Bahamas, ma l’unica certezza è che, quando nel 1510 Diego Velázquez de Cuéllar iniziò la conquista manu militari, morirono quasi subito circa 100mila indigeni. Un vero genocidio. Taino, Ciboney e Guanajatabey furono dichiarati estinti di lì a poco. Nel frattempo sotto il governo di de Cuéllar erano nate le prime sette città dell’isola, compresa l’attuale capitale, l’Avana. La scarsità di manodopera costrinse gli spagnoli ad avvalersi di un gran numero di schiavi neri, quasi tutti comprati dal Portogallo. Era l’inizio della tratta atlantica, che prosperò sino alla fine del XIX secolo e mantenne sempre Cuba come tappa cruciale. Nel Seicento l’isola divenne il centro anche di altri traffici: a inizio secolo si registrarono sull’isola le prime incursioni dei celeberrimi pirati di Antille e Caraibi. I nomi che lasciarono il segno a Cuba sono molti. Come il feroce bucaniere francese François l’Olonese, che dalla sua base nell’isola di Tortuga arrivò a comandare una flotta di 50 imbarcazioni e che a Villa Clara, sull’isola, trucidò un intero equipaggio spagnolo nel 1667. O il gallese Henry Morgan che, con 700 pirati, l’anno seguente mise a ferro e fuoco Camagüey, facendo morire di fame donne e bambini che aveva imprigionato nella chiesa locale. contesa aglI InglesI. Ma quali erano le ricchezze di Cuba, che tantao facevano gola? Esaurite rapidamente le miniere d’oro, sull’isola gli spagnoli puntarono su tabacco e allevamento. Ma perché Madrid comprendesse davvero l’importanza economica della colonia ci volle l’occupazione britannica dell’Avana. Durò
30 gennaio 1933 Hitler viene eletto Cancelliere. Il regime nazista porterà nel 1939 alla Seconda guerra mondiale. 10 marzo 1952 Fulgencio Batista instaura la dittatura. 2 dicembre 1956 Fidel Castro e Che Guevara sbarcano a Cuba, inizia così la rivoluzione dei barbudos.
2015 Il presidente Barack Obama riallaccia i rapporti diplomatici.
1906 A Milano nasce la prima organizzazione sindacale italiana dei lavoratori: la Confederazione Generale del Lavoro. 11 maggio 1916 Albert Einstein pubblica la teoria della relatività. 1929 Crollo della Borsa di Wall Street e crescita della disoccupazione.
1947 Dopo la fine della Seconda guerra mondiale (1945), inizia la Guerra fredda. 1956 Nasce la Comunità Europea.
2 gennaio 1959 Dopo una lunga guerriglia i leader rivoluzionari conquistano l’isola. 19 aprile 1961 Un gruppo di esuli cubani anticastristi sbarca alla Baia dei Porci con l’appoggio della Cia, ma viene respinto. Pochi giorni dopo John Kennedy decreta l’embargo a Cuba.
1895 In Francia viene proiettato dai fratelli Lumiére il primo film, intitolato L’uscita dalle officine.
4 ottobre 1957 Inizia la corsa allo spazio. Viene lanciato dall’Urss lo Sputnik 1, seguito dallo Sputnik 2, con a bordo il cane Laika.
20 gennaio 1961 J. F. Kennedy viene eletto presidente Usa.
1963 Martin Luther King marcia su Washington per l’integrazione razziale.
9 novembre 1989 Crolla il Muro di Berlino.
1990 Viene assegnato al presidente sovietico Mikhail Gorbaciov il premio Nobel per la Pace.
2001 Attentato terroristico dell’11 settembre.
25 novembre 2016 Muore Fidel Castro. 103
I GRANDI TEMI
CUBA
Conflitto d’interesse La flotta che sostenne l’indipendenza cubana dalla Spagna nel 1898, trasformando poi l’isola in un protettorato Usa. Nel tondo, il presidente statunitense James Monroe (1758-1831).
Cuba fu decisiva nel braccio di ferro tra Occidente e blocco sovietico: la fine di Batista diede il via alla Guerra fredda anche in America Latina 11 mesi, dall’agosto del 1762 al luglio seguente, durante la Guerra dei Sette anni. Soltanto dopo quello smacco, Carlo III di Spagna impose a Cuba una serie di innovazioni, dalla costruzione di nuove città strategiche per il commercio come Pinar del Río, alla fortificazione dell’Avana, dal miglioramento delle infrastrutture interne alla riforma amministrativa. Rivolta. Nel 1774 il primo censimento contò 171.620 cubani, destinati a crescere rapidamente tra il 1803 e il 1804, quando arrivarono migliaia di spagnoli in fuga dalla Louisiana, venduta agli Stati Uniti dalla Francia. La prima rivolta contro la corona spagnola per abolire la schiavitù dei neri sul modello haitiano fu repressa nel sangue nel 1812 e il suo leader, Antonio Aponte,
giustiziato. A differenza delle altre colonie dell’America Latina – che proprio in quegli anni conquistavano l’indipendenza – Cuba non diede molti grattacapi a Madrid, anche perché dal 1818 il governo dell’Avana ottenne il permesso di commerciare liberamente con tutti i Paesi del mondo. Inoltre allevamento, tabacco e canna da zucchero garantirono, dal 1823 in poi, una possibilità di arricchirsi. Proprio quello stesso anno però gli Stati Uniti lanciarono la “dottrina Monroe” con cui per la prima volta l’omonimo presidente Usa chiarì che per Washington “l’America doveva appartenere agli americani”, intendendo per “americani” gli statunitensi ed escludendo le potenze europee, che finora avevano do-
Batista, il dittatore che piaceva agli Usa
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ulgencio Batista (1901-1973) nacque da una famiglia di contadini il 16 gennaio 1901. Divenne celebre nel 1933, quando guidò la Rivolta dei sergenti che rovesciò il dittatore Gerardo Machado e poi il presidente Carlos Manuel de Céspedes. Pur succedendosi a Cuba sei presidenti nei successivi sette anni, chi comandava all’Avana era lui, che era il capo delle Forze Armate. Fase uno. Batista, che legalizzò il Partito comunista fino ad allora fuorilegge, riformò le leggi sul lavoro. «Per la prima volta i lavoratori delle industrie di zucchero e tabacco ottennero
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ferie pagate e assicurazioni», scrive lo storico Hugh Thomas. Batista si arricchì facendo affari con la mafia statunitense, che da Cuba importava illegalmente rum e riciclava il denaro nei casinò dell’isola. ma questo non bastò a intaccare la sua popolarità e nel 1940 venne eletto presidente. Finito il mandato, nel 1944 si trasferì in Florida. Rientrò a Cuba con un golpe il 10 marzo 1952, da vero dittatore, fece uccidere negli anni 20mila persone e saccheggiò le casse dello Stato. Fino a quando la rivoluzione lo costrinse a fuggire. Morì in esilio, nella Spagna di Franco.
Hasta siempre? L’entrata di Fidel Castro all’Avana l’8 gennaio 1959, dopo aver costretto alla fuga il dittatore Fulgencio Batista.
minato a quelle latitudini. Da allora gli Stati Uniti cercarono – più volte e inutilmente – di comprare dalla Spagna Cuba, la cui importanza geopolitica era dovuta soprattutto alla poca distanza che la separa dalla Florida, appena 90 miglia di mare (neanche 150 chilometri). Ma l’isola che per quattro secoli fu una colonia spagnola era destinata a cambiare padrone, seppure a sua insaputa, di lì a poco. Un vicino ingombrante. Nel 1868 scoppiò la Prima guerra d’indipendenza, detta dei “Dieci anni”, che si concluse nel 1878 con un bilancio di 150mila morti. Eppure sostanzialmente fu un nulla di fatto. Nel 1895, José Martí, il Garibaldi cubano dichiarò la “Guerra necessaria”. L’eroe venne ucciso quasi subito e, quando la lotta per l’indipendenza sembrava ormai vittoriosa, una nave statunitense esplose, il Maine, nel porto dell’Avana. Era il 1898 e Washington usò l’incidente per dichiarare guerra a una Madrid ormai quasi già sconfitta dagli indipendentisti. I marines ebbero vittoria facile, Cuba diventò formalmente indipendente nel 1902 ma, di fatto, si trasformò in un protettorato Usa. Soprattutto, quella guerra ebbe due conseguenze. La prima fu l’inizio dell’espansionismo statunitense in America Latina, destinata a diventare il “giardino di casa” di Washington. La seconda fu l’antiamericanismo che si diffuse sull’isola caraibica. Quel sentimento antiamericano fu uno degli ingredienti della rivoluzione castrista. L’obiettivo dei rivoluzionari guidati da Fidel Castro e Che Guevara era liberare l’isola dal dittatore Fulgencio Batista (vedi riquadro a sinistra), gradito alla Casa Bianca e alla mafia che gestiva casinò e prostituzione. Il 1° gennaio 1959 i rivoluzionari entrarono vittorioso all’Avana.
Era l’inizio della Guerra fredda e l’escalation della tensione attorno a Cuba fu immediata. Il culmine fu la “crisi dei missili”, i 13 giorni che fecero tremare il mondo, nell’ottobre del 1962: un braccio di ferro che rischiava di trasformarsi in conflitto nucleare tra le superpotenze, scongiurato per un soffio. base rivolUzionaria. Da allora, Cuba è rimasta una roccaforte delle rivoluzioni di ispirazione comunista: per cinquant’anni anni ha ospitato migliaia di guerriglieri latinoamericani per “allenarli a diffondere a livello globale la rivoluzione”. Oggi sia il presidente ecuadoriano Correa sia quello venezuelano Maduro, passando per il boliviano Morales e l’uruguayano Mujica, possono tutti considerarsi “figli di Fidel”, chi più chi meno. Ma gli ultimi anni hanno segnato una nuova svolta, dopo 60 anni di repressione interna e di embargo che hanno reso la vita dei cubani un percorso a ostacoli. Nel 2014 Cuba è stata riammessa nel 2014 nell’Organizzazione degli Stati americani, grazie alla storica apertura di Barack Obama. Il presidente statunitense ha concentrato i suoi sforzi proprio nel tentativo di attenuare quell’antiamericanismo iniziato con la guerra del 1898 e poi rafforzatosi negli anni Sessanta e Settanta. Cioè nei decenni in cui, per contrastare il socialismo in America Latina, Washington appoggiò dittature quasi ovunque. E adesso? Cuba tornerà certamente di attualità. Dopo la morte di Fidel Castro e, soprattutto, con la presidenza di Donald Trump che promette di rivedere i rapporti tra i due Stati: i destini di Cuba e Stati Uniti sono ancora destinati, nel bene e nel male, a rimanere legati a doppio filo. • Paolo Manzo 105
CRIMINALITÀ
Le parole della CAMORRA
SCALA
L’organizzazione criminale napoletana nacque a inizio Ottocento. Da allora ha sviluppato un gergo tutto suo, i cui significati sono cambiati nel tempo
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GETTY IMAGES/DEAGOSTINI
Tatuati Il tatuaggio di un camorrista in un dipinto del 1890. Sotto, un regolamento di conti tra membri della camorra, dal libro Costumi del Regno di Napoli (1858).
L
a camorra è una creatura dell’Ottocento: fu quella l’epoca in cui si affermò a Napoli come organizzazione criminale stabile, con regole precise e una struttura piramidale. Marco Monnier, il primo a pubblicare un libro (1863) su questa associazione per delinquere scrisse che faceva “uscire l’oro dai pidocchi”. Intendeva dire che i camorristi guadagnavano sui più poveri, imponendo tangenti sul gioco e prelevando percentuali sull’attività delle prostitute. I guadagni illeciti erano soprattutto le estorsioni imposte a facchini, cocchieri e tavernieri di Napoli. AffiliAti. Alla “camorra storica” si accedeva attraverso rigorose selezioni e prove basate su riti violenti. Ogni camorrista aveva un soprannome: lo riceveva a volte sin da bambino e lo identificava per un vezzo, l’origine familiare o una caratteristica fisica. Era possibile ignorare nome e cognome di un affiliato, ma il soprannome era noto a tutti. Altro segno distintivo erano i tatuaggi: un omaggio alle proprie donne, alla Madonna, alla famiglia. Queste iscrizioni sulla pelle avevano così tanta importanza che l’antropologo Abele De Blasio, a fine ’800, dedicò alla loro iconografia uno studio, catalogandoli e dandone un’interpretazione. Come ogni associazione, legale o illegale, anche la camorra aveva un proprio gergo. Serviva a definire usi, costumi, regole. Erano parole difficili da capire dall’esterno, create apposta per sviare i poliziotti, chiamati i “feroci”, e per innalzare una barriera di protezione attorno ai membri dell’organizzazione.
La lingua e i simboli, dunque, sono sempre stati elementi molto importanti per la criminalità organizzata. E si sono evoluti. I camorristi, dal secolo scorso a oggi, hanno coniato una serie di termini e definizioni che ai nostri giorni (e in genere quando non sono più così in uso) trovano spazio persino sui social network. In queste pagine vi presentiamo un piccolo dizionario storico delle parole e dei termini della camorra napoletana, partendo dall’800 fino ad arrivare a tempi più recenti. Un campionario di parole utilizzati anche dagli investigatori e dagli storici: seguendo i cambiamenti di questo gerco, infatti, si può ricostruire l’evoluzione della camorra a Napoli fin dalle origini.
CAMORRA
L’
origine della parola, come quella dell’organizzazione, è spagnola. In castigliano, infatti, camorra significa “rissa” e camorrear vuol dire “litigare”. In siciliano, ancora oggi, camorra indica una prepotenza, mentre “fare la camorra” in napoletano è un’espressione usata per indicare il ricavo di profitti in maniera illecita, in particolare con l’accezione di estorcere denaro a qualcuno. Non tutti gli storici però sono d’accordo su questa etimologia. Alcuni sostengono infatti che “camorra” sia una contrazione del vocabolo spagnolo gamurra, un vestito semplice usato in Spagna e indossato anche dai popolani durante la dominazione spagnola, nel Sei-Settecento. E c’è anche una terza ipotesi: la parola deriverebbe dal gioco della morra, che i malavitosi di Napoli controllavano attraverso il loro racket. 107
Già nella parola che definisce la delinquenAlla fine za organizzata napoletana si ricavano dunque le origini spagnole della camorra (v. riquadro a dell’Ottocento destra). Secondo molti, furono proprio i soldati di Madrid a importare a Napoli questa forma di la camorra di associazione che ha tracce, anche nelle regole nei nomi degli associati, nella Confraternita Caserta rivendicò edella Guarduna, organizzazione criminale diffusa nelle carceri e nelle città di Siviglia, Grala propria nada, Melilla. Ne parla anche Miguel de Cervantes in una delle sue 12 novelle del 1613. autonomia da quella originaria FRIENO il codice della camorra: un elenco di 26 reÈgole da osservare per entrare nell’organizdi Napoli zazione, goderne i guadagni, rispettarne le gerarchie. L’origine del termine è legata alla necessità di tenere a freno l’anarchia degli affiliati
e, secondo alcuni storici della camorra, il frieno venne elaborato a metà ’800. Non è mai stato trovato un frieno scritto ed è molto probabile che le regole conosciute fossero dettate a voce per evitare di lasciare prove. In più i camorristi dell’800 erano in gran parte analfabeti. A vigilare sull’osservanza delle regole e a tenere i conti del gruppo era il contaiuolo. E proprio al contaiuolo Francesco Scorticelli si fa risalire l’elaborazione del frieno nel 1841. Secondo questo codice non potevano far parte della camorra i ladri, gli scornacchiati (i cornuti) e gli omosessuali. Nessun affiliato poteva avere parenti tra carabinieri e poliziotti. Naturalmente veniva punito duramente chiunque facesse la spia, diventando automaticamente un infame, in napoletano ’o ’nfame. Già da allora, per indicare un gruppo di camorristi si usava il termine paranza, preso dal gergo dei pescatori. La paranza era infatti in origine una piccola flotta di barche da pesca.
CAPINTESTA
C
Carlo III (1716-1788), capostipite dei Borbone di Napoli, signori delle Due Sicilie fino all’Unità d’Italia.
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DE AGOSTINI/GETTY IMAGES
Capostipite
on questo termine si indicava il “capo dei capi” della camorra cittadina. Veniva eletto dai vertici delle paranze (le bande) dei 12 quartieri di Napoli, chiamati capintrito. Dietro questa regola, c’era il riconoscimento di una supremazia di fatto: tra i 12 capintriti, si imponeva naturalmente il più temibile, il più abile, quello con più affiliati nel suo gruppo. Il riconoscimento di supremazia nella camorra cittadina era quindi conseguenza diretta del predominio del più forte, al quale si sottomettevano gli altri capi. Nella camorra storica, che aveva una rigida struttura piramidale, il primo gradino di accesso alla gerarchia era quello del picciotto. Era il “giovane”, presentato nel gruppo da un camorrista già affermato. Il ragazzo doveva dimostrare coraggio con una zumpata, ossia con un duello con il coltello. Appena sgorgava il sangue, il duello si interrompeva e il giovane era affiliato. Seguiva subito una prima azione “sul campo”: un ferimento, un omicidio o un’estorsione. Nella camorra storica il primo capintesta famoso fu Salvatore De Crescenzo, che nel giugno del 1860 fu convocato dal ministro borbonico Liborio Romano (che faceva il doppiogioco a favore dei piemontesi): a De Crescenzo fu chiesto di mantenere calme le zone popolari all’arrivo di Garibaldi. In cambio sarebbe stata concessa un’amnistia ai camorristi. L’accordo fu accettato e funzionò.
PARANZA, CLAN E SISTEMA
Le radici spagnole della camorra
I
l termine paranza indica un gruppo criminale legato a una famiglia o a un quartiere. Si diffuse nell’Ottocento, ma è rimasto sempre in voga. Nel tempo si è aggiunta invece la parola clan, presa a prestito dalla storia scozzese, dove indica le famiglie legate da saldissimi vincoli di sangue. Paranze e clan sono definizioni intercambiabili. Allo stesso modo sono simili i significati dei termini “camorra” e “sistema”. Quest’ultimo si è diffuso una ventina di anni fa. Il sistema indica l’insieme della camorra con i suoi riti e le sue regole. Il clan, invece, indica in particolare i camorristi che si allontanano dal loro gruppo originario, per contrasti sulla gestione dei guadagni o per motivi generazionali. Molte guerre di camorra recenti sono scaturite proprio da scissioni di affiliati da un gruppo-madre. La vicenda più conosciuta, quella che ha fornito spunto alla spettacolare fiction televisiva Gomorra, è stata la guerra nel quartiere Scampia a nord di Napoli, esplosa nel 2004. Dal clan dominante controllato dalla famiglia Di Lauro, che aveva diviso le aree del quartiere tra diversi gruppi e sottogruppi di spaccio di droga, si allontanarono alcuni membri delle famiglie Amato e Pagano, definiti “scissionisti” (ma anche “spagnoli” perché i loro capi si erano trasferiti in Spagna per contrattare gli acquisti di grandi quantitativi di cocaina con i principali narcotrafficanti). Dopo gli “scissionisti” fu la volta, nella “seconda guerra di Scampia”, dei “girati”, gli scissionisti degli scissionisti che si voltarono (girarono appunto) dall’altra parte, tradendo i compagni originari.
N
ei due secoli di dominio spagnolo, fra Cinquecento e Settecento, quando Napoli era vicereame di Madrid, nella città partenopea proliferavano gruppi di criminali organizzati. Erano i progenitori della camorra storica, quella ottocentesca. In gruppo. Erano chiamati “compagnoni”, si muovevano sempre in quattro e vivevano sulle spalle delle prostitute, gestendo il gioco d’azzardo e facendo rapine. Ogni quartiere napoletano aveva un gruppo di “compagnoni” e ne faceva parte anche qualche nobile. Il loro luogo di incontro era una taverna chiamata “del Crispano”, nel borgo di Sant’Antonio Abate, oggi a ridosso della Stazione Centrale. Anche il canonico Giulio Genoino, il vero manovratore della rivolta antispagnola di Masaniello (1647), si faceva proteggere da gruppi di “compagnoni”. Sobillatori. Nelle sommosse contro i soldati spagnoli, molti “compagnoni” si confondevano con la gente in rivolta. Ma in quella Napoli insicura, dove le prostitute si concentravano nella
Capopopolo
LA GRANDE MAMMA
Tommaso Aniello d’Amalfi, detto Masaniello, leader della rivolta del 1647: il suo ispiratore, Giulio Genoino, si faceva proteggere dai “compagnoni”, antesignani dei camorristi.
E
ra il tribunale della camorra, costituito dai capi che si riunivano ogni volta che c’era da decidere come punire lo “sgarro” (cioè lo sbaglio, non necessariamente un’offesa, come nel significato comune). L’accusato poteva essere punito con la sospensione dalla divisione dello sbruffo, il ricavato delle estorsioni. Oppure poteva essere espulso dall’organizzazione. Nei casi più gravi, naturalmente, veniva assassinato.
ONORATA SOCIETÀ
a camorra dell’Ottocento si autodefiniva Onorata società, oppure Società dell’umiltà o Bella società riformata. Queste denominazioni identificavano i membri dell’organizzazione, suddivisi in chi stava “fuori” e chi “dentro”, cioè in carcere. L’Onorata società, dentro e fuori aveva capi differenti. In detenzione, i camorristi taglieggiavano i detenuti comuni, che ve-
DE AGOSTINI/GETTY IMAGES
L
zona delle caserme dei soldati (oggi Quartieri spagnoli), c’erano anche delinquenti comuni come i cappiatori, ladri di strada ed equivalente degli attuali scippatori. E i campeadores, specializzati nelle rapine con coltelli. Alla fine del Seicento i dati sulla criminalità ricavati dalle esecuzioni e dagli arresti raggiunsero cifre da brivido: 1.338 impiccati, 17 capi giustiziati, 57 con la testa mozzata, 913 condannati alla galera, 167 condannati ad andare in guerra. L’abate. Nel periodo del vicereame spagnolo il criminale più noto resta però Cesare Riccardi, detto “abate Cesare”, che divenne il nemico pubblico numero uno dopo avere ucciso, per difendere la cognata, il nobile Alessandro Mastrillo, duca di San Paolo di Nola. Ricercato, mise insieme un gruppo di uomini che vivevano di rapine, sequestri, omicidi. E solo dopo anni di latitanza fu catturato e giustiziato.
Dietro le sbarre BRIDGEMAN/MONDADORI PORTFOLIO
Un processo di camorra nel 1911 a Viterbo. Fin dalle origini è esistita un’organizzazione camorrista parallela all’interno delle carceri.
Nel gergo della camorra convivono termini antichi come “paranza” e neologismi come “sistema” o “stesa”
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nivano obbligati a pagare tangenti giustificate con la necessità di dover acquistare l’olio alla Madonna, ossia la fiamma da alimentare sotto le immagini sacre.
NCO
Q
uesta sigla apparentemente misteriosa sta per Nuova Camorra Organizzata. Fu questo il nome che Raffaele Cutolo diede al suo gruppo, costituito in carcere nel 1976. Cutolo si rifaceva alla camorra storica dell’800, di cui riprese regole e rituali dimenticati. La Nco ripropose una struttura organizzativa piramidale, rigidamente gerarchica, con un capo chiamato “il Vangelo”, i suoi luogotenenti chiamati “santisti”, termine preso a prestito dalla ’ndrangheta, la criminalità organizzata calabrese. Se nell’Ottocento c’era il frieno, la Nco introdusse un rituale di affiliazione denominato
“giuramento di Palillo”, dal cognome del camorrista che registrò su audiocassetta le parole che dovevano essere ripetute per entrare nell’organizzazione cutoliana. Le famiglie criminali di Napoli e provincia si opposero a Cutolo e fondarono la Nf, la Nuova famiglia o Nuova fratellanza. Anche nella Nf fu introdotto un rituale di affiliazione: la “copiata” o “giuramento del camorrista”. Fu la svolta organizzativa degli Anni ’70, da cui derivò una sanguinosa guerra che provocò centinaia di morti. Agguati e omicidi erano affidati a gruppi scelti chiamati “batterie di fuoco”.
PICCHIATA
È
un agguato omicida riuscito. A metà degli Anni ’90, ne parlò un killer pentito dei Quartieri spagnoli: Pasquale Frajese. Naturalmente, i killer venivano definiti “picchiatori”.
STESA
È
tra i termini nati più di recente e indica un’azione dimostrativa, un atto di forza eseguito in gruppo. Su moto e armati, giovani e giovanissimi irrompono in una strada o in un quartiere dove vivono o si riuniscono i gruppi nemici. Sparano in aria o mirano a finestre e porte delle case in cui vivono persone da mi-
nacciare. In questi casi si agisce rapidamente e a volto scoperto, pur essendo in una zona nemica, per dimostrare di non avere paura. Il termine stesa nasce dal terrore dei passanti che, per non rimanere feriti, si gettano a terra, cioè si “distendono”. Il termine è legato ai gruppi di giovanissimi, con velleità di dominio e prevalenza, che hanno costituito le cosiddette “paranze dei bambini” formate in genere da criminali poco più che ventenni. Anche in questi gruppi più recenti, chiusi nei loro quartieri, sono nati rituali e parole che hanno arricchito il linguaggio criminale della camorra. Persino i tatuaggi, il più antico segno di riconoscimento usato dai camorristi, si sono arricchiti di nuovi soggetti: oggi infatti accanto ai coltelli riproducono anche pistole e persino citazioni da film molto popolari tra i giovani criminali, come Scarface. E per i giovani camorristi la lingua napoletana si è arricchita di un nuovo aggettivo: “carnale”, cioè particolarmente attraente e fascinoso. • Gigi Di Fiore
Il gioco della morra Ragazzi che giocano alla morra nel porto di Napoli, a inizio Novecento: la camorra, per alcuni, si chiama così perché in passato si arricchiva con il gioco d’azzardo.
ALINARI
Dalle batterie di fuoco del periodo cutoliano si passò ai cosiddetti gruppi di fuoco, che erano di fatto la stessa cosa. Picchiatori, batterie e gruppi di fuoco rappresentavano la vera forza intimidatrice di un gruppo camorristico. A prevalere era infatti sempre il gruppo con più uomini in grado di sparare, di partecipare a un agguato, di intimorire. Tra i killer si usava anche il termine botta, per indicare un colpo di pistola, uno sparo. La stutata è invece l’uccisione di qualcuno, che viene appunto spento nella vita. Lo “specchietto” è invece la persona che segnala lo spostamento della vittima, che si apposta per dare il via libera all’azione dei killer.
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Hanno collaborato a questo numero: A. Bacci, E. Canadelli, E. Cattaneo, F. Dalmasso, G. Di Fiore, A. Donzelli, M. Erba, R. Festorazzi, A. Frediani, M. Giorgi, R. Laurenzi, M. L. Leone, M. Liberti, A. Lo Campo, G. Lomazzi, A. Monti Buzzetti Colella, B. Moro, P. Pasini, M. Picozzi, A. Prudenzi, G. Rotondi, R. Roveda, G. Talini, D. Venturoli, S. Zimbardi. 112
NEL PROSSIMO FOCUS STORIA WARS Protagonista del prossimo numero di Focus Storia Wars sarà un “primo piano” sulla Russia e sull’Unione Sovietica, per capire se davvero dobbiamo avere paura dell’“orso russo”. Dalle vittorie del generale zarista Bagration durante le guerre napoleoniche fino alle forze speciali ai
tempi di Putin, passando per le riforme di Pietro il Grande. Proporremo un confronto tra le tecnologie belliche che è anche un’indagine storica su un diverso modo di concepire la guerra. Ci sarà naturalmente spazio per la Guerra fredda e per il braccio di ferro con gli Stati Uniti, mettendo a confronto gli arsenali nucleari e le tecnologie schierate dalle superpotenze. Ma anche un’analisi del Piano Anaconda messo in atto dai nordisti durante la Guerra di Secessione americana. In più: le guerre del Peloponneso degli antichi Greci, l’evoluzione dei caccia, Caporetto, le tavole uniformologiche... In edicola dal 7 febbraio a € 6,90
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Periodico associato alla FIEG (Federaz. Ital. Editori Giornali)
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MEDIOEVO
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NOVECENTO
Giochi e passatempi medioevali
Il re dell’illusione
Dagli scacchi ai tornei cavallereschi, dagli antenati del tennis e del rugby ai giochi di strada, lo sport e il tempo libero “alla medioevale”.
Harry Houdini fu uno dei più grandi illusionisti di tutti i tempi: a chi si ispirò e come divenne un “mago”?
ANTICHITÀ
MONDADORI PORTFOLIO (4)
RINASCIMENTO
Lo Sforza maledetto
I segreti del Colosseo
Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano, fu assassinato nel 1476: inquieto e intemperante, morì come aveva vissuto.
Ciò che ne resta è solo l’ombra di quel luogo di spettacolo e di morte costruito 2mila anni fa. Vi sveliamo i lati nascosti del monumento più famoso di Roma.
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flashback
La sciatrice statunitense Andrea Mead Lawrence (1932-2009) durante gli allenamenti, con un abbigliamento che oggi ci appare tutt’altro che tecnico. La Lawrence, 19enne, vinse due ori alle Olimpiadi invernali di Oslo, in Norvegia, nel 1952: nello slalom gigante (specialità che debuttò ai Giochi quell’anno) e nello speciale. Negli Anni ’60, lasciato lo sci agonistico, Andrea Mead Lawrence fu tra i pionieri dell’ambientalismo e si dedicò in particolare alla difesa della Sierra Nevada dallo sfruttamento minerario. 114