Storia SCOPRIRE IL PASSATO, CAPIRE IL PRESENTE
n°135
MENSILE – Austria, Belgio, Francia, Lussemburgo, Portogallo, Spagna � 8 - MC, Côte d’Azur � 8,10 - Germania � 11,50 - Svizzera CHF 10,80 - Svizzera Canton Ticino CHF 10,40 - USA $ 11,50
gennaio
TRE GUERRE E 120 ANNI DI SFIDE TRA LE CAPITALI DEL MARE NOSTRUM
Roma contro Cartagine
16 DICEMBRE 2017 - MENSILE � 4,90 IN ITALIA
Sped. in A.P. - D.L. 353/03 art.1, comma 1, DCB Verona
SCANDALI REGALI LA SAGA DI DUE SORELLE ALLA CORTE DI FILIPPO IL BELLO DI FRANCIA
ESPLORATORI G. C. BELTRAMI, IL BERGAMASCO CHE PARLAVA AI SIOUX
L’ISOLA FANTASMA
UNO STATO INDIPENDENTE MEZZO SECOLO FA AL LARGO DI RIMINI
gennaio 2018
focusstoria.it
Storia
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urono due superpotenze dell’antichità, entrambe governate da un Senato e da una coppia di magistrati. Ma più diverse di così non potevano essere. La prima, città di mercanti e marinai, la seconda di agricoltori e soldati. Per tre secoli e mezzo si scambiarono merci e ambasciatori, trattati e ultimatum fino a quando i legionari di Scipione Emiliano rasero al suolo Cartagine e garantirono a Roma la supremazia sul Mediterraneo. Ma come si arrivò a una rivalità così feroce? La colonia fenicia, che divenne più potente della madrepatria Tiro, controllava i mari per arricchirsi. Roma, forgiata dalle guerre italiche, mirava soprattutto a espandere i propri territori per guadagnare potenza e sicurezza. Più terra che oro, insomma. Ciascuna sfidò l’altra sul terreno che le era meno familiare. Cartagine mise insieme eserciti formidabili, Roma costruì dal niente una flotta. E fu lì, sul campo dell’altra, che le istituzioni dell’Urbe si guadagnarono la vittoria. Jacopo Loredan direttore
RUBRICHE 4 FLASHBACK 6 LA PAGINA DEI LETTORI 8 NOVITÀ & SCOPERTE 10 TRAPASSATI ALLA STORIA 11 TECNOVINTAGE 12 MICROSTORIA 65 RACCONTI REALI 66 DOMANDE & RISPOSTE 68 PITTORACCONTI 110 AGENDA
LEEMAGE/MONDADORI PORTFOLIO
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La vittoria romana contro Annibale a Zama nel 202 a.C. “vista” nel Cinquecento.
CI TROVI ANCHE SU:
In copertina: un generale romano e, sullo sfondo, la città di Cartagine.
IN PIÙ...
14 IARTEmisteri
di Caravaggio
Perché è stato dimenticato per anni?
GEOPOLITICA 18 Piccole patrie
Le rivendicazioni indipendentiste in Europa.
QUOTIDIANA 20 VITA Come facevamo
la spesa
Gli acquisti nel passato.
SOCIETÀ 26 L’Isola delle Rose
LE GUERRE PUNICHE E LA NASCITA DI ROMA 32 E se avesse vinto Cartagine?
Ecco come sarebbe finita se Roma non avesse avuto la meglio.
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Tutto iniziò coi Fenici
Il popolo che nell’VIII secolo a.C. dominava il mare. E fondò Cartagine.
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Due mondi a confronto
Dalla politica alla religione, diversità e analogie tra Cartagine e Roma.
44 Duello in mare
Così Roma riuscì a battere la grande forza navale di Cartagine.
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Eterni rivali
Gli uomini che si sono sfidati nelle guerre puniche.
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Sardo ribelle
Nel 215 a.C. Ampsicora guidò la Sardegna contro Roma.
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Gli italiani alleati di Annibale
Capua, Siracusa e Taranto: le città che volevano smarcarsi da Roma.
La micronazione nata nel ’68, davanti a Rimini.
CULTURA 70 Fake news
La lunga storia delle “notizie contraffatte”.
76 LaMEDIOEVO Torre di Nesle Scandalo sessuale nella Francia del ’300.
SOCIETÀ 80 Mala milanese
La storia criminale della città lombarda.
SCIENZA 86 Scienziate
nonostante tutto
Geniali ma senza lode.
GRANDI TEMI 92 L’ultimo valzer
A Vienna il Congresso che ridisegnò l’Europa.
MISTERO 96 Movente oscuro Nel 1768 il delitto Winckelmann.
STORIE D’ITALIA 102 L’uomo che parlò
coi Sioux
I viaggi oltreoceano di G. C. Beltrami. 3
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FLASHBACK
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1934 PROFESSIONI
I custodi del tempo
A Reading, nel Berkshire (Gran Bretagna), venivano riparati gli orologi della Great Western Railway, la compagnia ferroviaria (fondata nel 1833 e chiusa nel 1947) che gestiva i collegamenti tra Londra e il Sud dell’Inghilterra. Era soprannominata Holiday Line (ovvero ferrovia delle vacanze), perché la maggior parte dei passeggeri era diretta alle località balneari che si trovano nel Sud del Paese.
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LA PAGINA DEI LETTORI
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Brasile. Un giovane emigrato italiano spara al padrone della piantagione di caffè. E scoppia un caso internazionale.
STORIE D’ITALIA TREVIGLIO
UN COLPO
DI PISTOLA ra i 510 mila italiani che emigrarono nelle terre brasiliane dal 1884 al 1893, c’erano anche i Longaretti, una famiglia di un paese bergamasco, che con le loro sventure rischiarono di far scoppiare un conflitto internazionale. La famigliola era arrivata oltreoceano nel 1890 da Treviglio e si era insediata nell’enorme piantagione di caffè di Analandia, nella regione di Araraquara, a nord-ovest di San Paolo. Quelle terre, però, non erano di un ricco qualunque: appartenevano a Diogo Eugenio de Campos Sales, uno degli undici fratelli di Manoel Ferraz de Campos Sales, presidente del Brasile dal 1898 al 1902. Angelo Longaretti, il protagonista della nostra storia, aveva solo 12 anni quando iniziò la misera vita dell’emigrante. Il lavoro nella piantagione era molto duro e poco pagato. Le meravigliose promesse dei reclutatori italiani apparvero ben presto per quello che erano: una truffa. Chi aveva sognato di rifarsi una vita in Brasile troppo spesso scopriva che non stava meglio che in patria: le condizioni dei lavoratori somigliavano a una moderna forma di schiavitù (vedi riquadro). Per favorire l’assorbimento dei nostri emigrati, il governo italiano esercitava un’inerzia diplomatica che, come scrisse nel 1902 il giornalista Luigi Barzini, “lascia i nostri connazionali esposti all’arbitrio, al sopruso e alla brutalità”. In effetti, i grandi latifondisti brasiliani erano praticamente dei sovrani assoluti e ritenevano di avere ogni diritto su centinaia di uomini, donne e bambini per il solo fatto che davano loro un salario. E talvolta neppure quello, ma solo un
Assassino!
Sopra, il manifesto di una compagnia di navigazione che faceva rotta dall’Italia al Sud America. A lato, Angelo Longaretti spara a Diogo Eugenio de Campos Sales, l’odiato padrone della piantagione di caffè in cui lavorava tutta la famiglia. 99
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Migranti di ieri e di oggi
Leggendo l’articolo “Un colpo di pistola” (Focus Storia n° 133), che narra la triste storia del giovane emigrante bergamasco Angelo Longaretti, ho pensato a quanti “Angelo Longaretti” originari dell’Africa subsahariana o dell’Asia meridionale ci siano oggi in Italia nelle piantagioni di pomodori della Puglia, di frutta della Sicilia, di patate della Campania, della vite in Piemonte e in Veneto o nelle fattorie industriali di Lombardia ed Emilia-Romagna. Le rivolte di migranti africani avvenute in questi ultimi anni a Vittoria, Castel Volturno, Aversa, Rosarno e nelle campagne astigiane, foggiane, pratesi e bresciane ripropongono le medesime motivazioni per le quali si ribellò Angelo Longaretti ovvero sfruttamento, violenza, discriminazioni e neo schiavismo. Le condizioni politiche sono identiche: i Paesi di origine dei migranti non muovono un dito a difesa dei loro cittadini. Basti pensare alla Nigeria o all’India di oggi che si comportano proprio come faceva l’Italia liberale di ieri. E le istituzioni locali, come avveniva in Brasile, fanno finta di non vedere. L’Italia negli anni Ottanta ha avuto il suo Angelo Longaretti, si chiamava Jarry Essan Maslo, un ragazzo di origine sudafricana giunto nel nostro Paese per chiedere asilo politico (fuggiva dal regime segregazionista dell’apartheid di Pretoria). Trovò lavoro come raccoglitore di ortaggi nelle campagne di Villa Literno (Ce) e si distinse perché reclamò diritti per i lavoratori migranti, contrastando ogni forma di sfruttamento. Jarry fu più sfortunato di Angelo. La sera del 24 agosto
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del 1989 fu ucciso nella sua baracca da un rapinatore sudanese armato da un caporale che non ammetteva le sue battaglie civili e sociali. Ai tempi di Angelo non ero ancora nato, nel 1989, quando Jarry morì, ero un bambino, oggi ho 35 anni ma purtroppo rivedo tanti Angelo e tanti Jarry [...].
Michele Merlin
Raffaele Scirocco, Messina
Ancora sui migranti
Ho letto con molto interesse l’articolo “Un colpo di pistola” (Focus Storia n° 133), sugli emigrati italiani in Brasile alla fine del XIX secolo. Ho effettuato delle ricerche sulla famiglia di mio nonno, Michelangelo Merlin, residente fino al 1888 a Cerea (Vr), per poi ritrovarla residente di nuovo in Italia, a Boara Polesine (Ro), solamente dalla fine del 1899.
Gli strumenti del potere
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olevo fare una precisazione in merito all’articolo sul cannibalismo “Un ospite a cena” (Focus Storia n° 132). A pagina 25, quella che viene descritta come una “forchetta per cannibali” (sotto), secondo me, è uno scettro da capo fijiano. Secondo studi storico-antropologici questi oggetti, che si pensa rappresentino fiocine in miniatura, erano posseduti dai capi tribù come simbolo di potere. Con l’arrivo del colonialismo europeo (inglese, nel caso delle Fiji) il significato di questi strumenti venne travisato per far passare come limitate e barbare queste popolazioni che mangiavano altri uomini. Le famose “forchette dei cannibali” divennero uno degli oggetti più ambiti per le Wunderkammer (“camere delle meraviglie”) dei nobili, tanto da venir poi prodotte dagli stessi europei e rivendute. Lorenzo Farč, Bareggio (Mi) GETTY IMAGES
A.MOLINO
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Nel frattempo la mia famiglia emigrò in Brasile dove mio nonno si sposò, a Tiete di San Paolo, il 14 ottobre 1893, con Amabile Tagliacollo come riporta il certificato (sotto). Verso la fine del 1899 tornarono in Italia, dove nacque mio padre. Osservando la carta geografica del Brasile, ho notato che le località citate nell’articolo: Araraquara e Campinas, non distano molto da Tiete e tutte e tre fanno parte dello Stato di San Paolo. Chissà se anche i miei nonni furono vittime degli infami reclutatori e magari sfruttati dal medesimo schiavista della famiglia Longaretti. Non ho mai conosciuto mio nonno Michelangelo e i miei genitori mi hanno raccontato la sua storia di migrante senza entrare nei particolari più duri, che ho scoperto grazie a Focus Storia.
UNIFORMI Gli eserciti imperiali di Carlo Magno
COMMANDOS DAI ROYAL MARINES AI SEAL, DAL COL MOSCHIN AL COMSUBIN, LA STORIA, GLI EQUIPAGGIAMENTI E LE AZIONI PIÙ ECLATANTI DELLE
FORZE SPECIALI
IL GENIO ROMANO Dietro il successo delle legioni c’erano anche gli ingegneri
Il padre dei commandos
A proposito del riquadro “I commandos dell’antichità” (Focus Storia Wars n° 27), vorrei considerare che forse anche il capo guerriero Gedeone, quinto giudice d’Israele, potrebbe essere ritenuto un comandante di forze speciali che utilizzò l’attacco notturno a sorpresa. Infatti, come viene narrato nei capitoli VI-VIII del Libro dei Giudici (scritto in Giudea nel VI-V secolo a.C., per raccogliere le precedenti tradizioni orali: si riferisce al
periodo 1150-1025 a.C.), Gedeone attaccò di notte con soli 300 uomini, scelti per volere di Jahvè tra i più coraggiosi e determinati dei suoi 32mila guerrieri, l’accampamento dei circa 135mila invasori madianiti nella valle di Izraeel. Dopo aver diviso i suoi soldati in tre schiere da 100, li dotò ognuno di un corno e di una grande giara con dentro una torcia. A mezzanotte al suo comando la quiete della notte fu interrotta dal suono dei corni, dal rumore delle giare infrante, dal rimbombo del grido di guerra “La spada di Jahvè e di Gedeone” e il cielo venne illuminato dalle torce. Il testo biblico racconta che il panico s’impossessò dei Madianiti e che “Jahvè fece rivolgere la spada di ciascuno contro il compagno per tutto l’accampamento. L’esercito madianita fuggì”. La triplice tattica dei moderni commandos del risveglio violento, del rumore assordante e delle luci accecanti per disorientare e spaventare il nemico avrebbe perciò questo illustre precedente. Fabio Lambertucci, Roma
I NOSTRI ERRORI Nell’uscita n° 26 di Focus Storia Wars, l’articolo intitolato“Il genio dei Romani”, a pag. 79, nella didascalia sul faber romano, riporta il termine fabrus. Forse è latino tardo, ma nel classico non è accettato. Nell’uscita n° 133 di Focus Storia, l’articolo intitolato “Gli ultimi romani”, a pag. 14, nella didascalia su Ezio riporta “di origine sciita” invece che “scita”. Nell’uscita n° 21 di Focus Storia Collection, l’articolo intitolato “Le Vittorie di Napoleone”, a pag. 116, all’interno riporta erroneamente la dicitura Rivoli (Torino), invece si tratta di Rivoli veronese presso Affi. Qui Napoleone si riunì coi suoi generali per valutare la strategia della battaglia del 14-15 gennaio 1797.
Statua di Amenofi II assiso in trono, dal Tempio di Karnak © The Egyptian Museum, Cairo
IL GENIO DEI ROMANI d GLI ESERCITI DI CARLO MAGNO d I COMMANDOS d IL GRAN CONDÉ
SOLDATI E BATTAGLIE NEI SECOLI
Sped. in A. P. - D.L. 353/03 art. 1, comma 1 NE/VR
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4 NOVEMBRE 2017 d TRIMESTRALE
N.27 GENNAIO 2018 d € 6,90
NOVITÀESCOPERTE Tre samurai posano in una foto dell’Ottocento.
ESPLORAZIONI GEOGRAFICHE
RIECCO L’ASTROLABIO
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È il più antico mai trovato e si trovava sull’Esmeralda,
GIAPPONE
Le 100 regole del buon samurai
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ome scegliere il cavallo giusto, che cosa mangiare in battaglia, come battezzare un neonato: usi e tattiche dei samurai sono raccontati in un libro giapponese del 1571, di recente tradotto in inglese (The Hundred Rules of War, “Le cento regole di guerra”). L’autore è probabilmente il leggendario spadaccino Tsukahara Bokuden, vissuto nel periodo Sengoku (1477-1576), epoca di grandi conflitti. Tramite filastrocche, il manuale insegna ai giovani l’arte della guerra e offre appunto 100 regole per il samurai che non è mai stato in battaglia. Pronti alla morte. Yumi, ossia “arco”, è il nome ideale per il bebè di un samurai. Ma anche l’arma che bisogna sapere usare, insieme alla lancia. Il cavallo poi è il bene più prezioso: è da codardi non impegnarsi nell’equitazione, ribadisce il testo. Il guerriero deve rispettare il proprio animale e sceglierlo bene, né troppo piccolo né troppo grande. Prima di andare in battaglia, poi, è necessario un po’ di alcol: “Il samurai che beve troppo rischia di fare errori, quello che non beve è un vigliacco”. Da mangiare, prugne secche e fagioli tostati, cibi non deperibili. Ma più di tutto, il guerriero deve coltivare il coraggio e imparare a morire. (g. l.)
FLASH ANTICA ROMA
FLASH SECONDA GUERRA MONDIALE
CORRETTO USO
CHI HA TRADITO ANNA?
Il Disco di Libarna, manufatto del I secolo d.C. finora catalogato come peso, è stato ora studiato e decifrato e risulta essere un orologio astronomico. 8
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esploratore portoghese Vasco da Gama – il primo a raggiungere l’India via mare doppiando il Capo di Buona Speranza – lo usò per guidare le sue navi: dal relitto dell’Esmeralda, al largo delle coste dell’Oman, è riemerso quello che ora è stato identificato come il suo astrolabio, il più antico mai pervenutoci, realizzato fra il 1495 e il 1500. L’astrolabio serviva ai marinai per calcolare la latitudine sulla base della posizione e l’altezza del Sole, e si diffuse nel corso del XVI secolo, quando il modello più diffuso era però più complesso e pesante di quello ritrovato, che infatti si dimostra essere il più vetusto tra l’appena un centinaio di strumenti simili conservati nel mondo. Incisioni. Sul disco di rame – dal diametro di 17,5 centimetri e lo spessore di 1,5 millimetri – è incisa la cotta d’armi portoghese e la sfera armillare, emblema personale di re Manuel I. Scanner laser utilizzati dall’Università di Warwick (Gran Bretagna) hanno evidenziato i segni di notazioni nautiche. L’Esmeralda salpò da Lisbona nel 1502, parte della flotta della seconda spedizione di Vasco da Gama verso l’India, e naufragò l’anno dopo nell’oceano Indiano. • Aldo Bacci
Un ex agente dell’Fbi ha deciso di usare le nuove tecnologie, compresa l’intelligenza artificiale, per scoprire chi rivelò ai nazisti il nascondiglio dei Frank in Olanda.
FLASH ANTICO EGITTO
CAMERE SEGRETE
Gli archeologi hanno scovato una galleria di circa 30 metri, finora sconosciuta, all’interno della piramide di Cheope. Come? Con uno strumento che utilizza i raggi cosmici.
UNIVERSITY OF CINCINNATI
DI VASCO
nave di Vasco da Gama. Rarità
Nel relitto dell’Esmeralda, fiore all’occhiello della flotta dell’esploratore portoghese Vasco da Gama, il più antico astrolabio marino mai ritrovato (sopra, i due lati).
GUERRA DI TROIA
Il raffinato gioiello che anticipa l’Iliade
LEEMAGE/MONDADORI PORTFOLIO
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FLASH ANTICA OCEANIA
VITTIMA DI UNO TSUNAMI In Papua Nuova Guinea scienziati che studiano i maremoti hanno ritrovato i resti della più antica vittima conosciuta di uno tsunami, risalente a 6mila anni fa.
FLASH ANTICA CINA
BAGNI DI LUSSO
In Cina gli archeologi hanno trovato tre lussuosi bagni di 2mila anni fa: adorni di preziose piastrelle e mattoni, sono dotati di impianti per il deflusso delle acque reflue.
embra di trovarsi di fronte a una scena dell’Iliade, ma stavolta non si tratta di una raffigurazione posteriore ispirata ai poemi omerici: quella che è emersa dalla tomba di un guerriero (sopra) nell’antica città di Pilo, nel Peloponneso, è la raffigurazione di un duello contemporaneo (o forse persino precedente) ai fatti di Troia e ai relativi racconti. Trovato due anni fa, quello che sembrava un medaglione incrostato si è rivelato un capolavoro. Si tratta di un sigillo da portare al polso (proprio come fa l’eroe raffigurato) con all’interno un’agata incisa con un disegno che, con dettagli raffinati, rappresenta due guerrieri in duello mentre un terzo giace a terra. Ricchissima dotazione. La tomba, risalente al 1450 a.C. ospitava un uomo di 30-35 anni, conosciuto come il Guerriero del Grifone. Del suo corredo facevano parte una spada di bronzo con elsa in avorio ricoperta d’oro, un pugnale con impugnatura in oro, uno specchio in bronzo con manici in avorio e una placca in avorio con la raffigurazione di un grifone, oltre a brocche, tazze e catini in argento e bronzo, manifestazione di incredibili ricchezze e potenza. Per gli esperti il sigillo è forse di origine cretese e per realizzarlo (forse copiando un affresco) dev’essere stata usata una lente di ingrandimento. (a. b.)
FLASH MEDIOEVO
CIMITERO DIMENTICATO
Ritrovato il cimitero ebraico medievale di Bologna. Distrutto nel 1569, se ne era persa ogni traccia: con le sue 408 sepolture è il più grande finora noto in Italia. 9
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NOVITÀESCOPERTE Il teatro greco di Taormina: nato nel III secolo a.C., fu ricostruito dai Romani.
ARABIA SAUDITA
I cancelli di pietra del deserto saudita
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ANTICA GRECIA
COME SI SENTIVA NEI TEATRI GRECI?
Uno studio recente ha messo alla prova l’acustica del Teatro di Epidauro costruito 2.300 anni fa.
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i è sempre pensato che i teatri degli antichi Greci avessero un’acustica perfetta. In realtà, secondo uno studio condotto da un team di ricercatori dell’Università tecnica di Eindhoven (Paesi Bassi), le cose non starebbero proprio così. Intuizione. Tutto è iniziato nel 1989, quando Constant Hak, assistente universitario a Eindhoven, durante una visita al teatro greco di Epidauro, oggi nella regione dell’Argolide, lesse su una guida che persino dai gradoni più alti si udivano con precisione i suoni prodotti sulla scena. Incuriosito, Hak ha effettuato con la sua squadra un esperimento proprio nel Teatro di Epidauro, realizzato nel 350 a.C. Dopo aver collocato 20 microfoni in 12 punti della struttura, sono state raccolte quasi 2.400 registrazioni per calcolare l’intensità del suono nei diversi settori. Risultato? L’acustica era buona, ma certo non perfetta. Non è vero, per esempio, che i suoni si distinguono da lontano: così il rumore di una moneta che cade è avvertito come tale solo nelle prime file e un attore, per farsi sentire, deve • parlare a voce alta. Simone Zimbardi
ncora una volta l’uso attento di Google Earth dà una mano agli archeologi. Sono state rilevate 400 strutture di roccia, ribattezzate “porte” o “cancelli” del deserto arabico. Si tratta di costruzioni angolari e a forma di ruota sparse nelle aree laviche dell’Arabia Centrale. Alcuni di questi recinti di pietra hanno muri alti tre metri, altri si estendono in lunghezza per misure che variano dai 13 ai 518 metri. Secondo David Kennedy, l’archeologo della University of Western Australia che le sta studiando, si tratta di strutture costruite dalle popolazioni nomadi tra i 2 e i 9mila anni fa. Uso oscuro. Nel Nord dell’Arabia opere simili in pietra, note come “aquiloni”, servivano per cacciare: gli antenati delle tribù beduine cercavano di convogliare verso queste aree le mandrie di gazzelle che, alla fine della fuga, si trovavano intrappolate. Più difficile sembra ora individuare la funzione delle nuove “porte”, che per gli esperti non era legata alla caccia, ma nemmeno di tipo abitativo o funerario. (a. b.)
TRAPASSATI ALLA STORIA Personaggi sconosciuti che sono stati, in vita, protagonisti. JOHN
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RICHARD
MOLLO
MOTCHANE
GORDON
Costumista
Politico
Astronauta
Morto a 86 anni l’autore dei costumi di Guerre stellari. Per l’abbigliamento dei protagonisti della saga (da Han Solo alla Principessa Leila, da Obi-Wan Kenobi a Darth Vader) si rifece alle divise della Seconda guerra mondiale. Costumi da Oscar. Agli inizi John Mollo fu consulente storico per I seicento di Balaklava (1968) e Barry Lyndon (1975), ma fu Star Wars che gli valse nel 1978 l’Oscar per i costumi. Un secondo lo vinse nel 1983 per Gandhi. 10
DIDIER
A cura di Giuliana Lomazzi
Scomparsa a 86 anni una delle figure storiche del partito socialista francese, sostenitore dell’unità delle sinistre, progetto che portò, tra l’altro, all’elezione di François Mitterrand alla presidenza della Repubblica (1981). Logo vincente. Fu Didier Motchane a ideare il simbolo della rose au poing (“rosa nel pugno”). Il pugno, simbolo di unità e forza usato dai militanti come saluto, stringe una rosa, eredità del rivoluzionario maggio del 1968.
Pilotò il modulo di comando della missione Apollo 12 e restò in orbita intorno alla Luna mentre i compagni scendevano sul satellite; avrebbe dovuto sbarcarvi con la missione Apollo 18, ma la Nasa annullò il programma dopo il disastro della missione n° 13. Spirito libero. Lasciata la Nasa nel 1973, Richard Gordon divenne a sorpresa presidente di una squadra di football americano, di cui era appassionato. È morto a 88 anni.
TECNOVINTAGE [1982] A cura di Eugenio Spagnuolo
Il Timex Sinclair 1000, il computer a basso prezzo prodotto negli Usa.
PERSONAL COMPUTER
IL PRIMO PC A PORTATA DI TUTTI Costava solo 100 dollari e fu un successo.
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orreva l’anno 1982, quando negli Usa si materializzò il primo personal computer low cost della Storia: il Timex Sinclair 1000. A dare l’annuncio, in pompa magna, fu la copertina della rivista Popular Science con un titolo emblematico: “Ecco il primo computer a 100 dollari”. Noto anche come ZX81, il pc collegato alla televisione permetteva di visualizzare testi, disegni e immagini e anche di programmare, usando il linguaggio BASIC. Non possedeva un hard disk e i programmi venivano caricati tramite un normale registratore a cassette, piuttosto lento. Insomma poco efficiente rispetto ai concorrenti, ma più che adeguato rispetto al prezzo. Chi voleva qualcosa di più poteva acquistare a parte un modulo di memoria da 64k (una quantità che oggi fa sorridere) e una stampante rudimentale. Conviene comprarlo? Dato il prezzo, la Timex riuscì a vendere in tutto il mondo 500mila computer di questo tipo solo nell’anno di uscita: non è dunque difficile trovarlo su eBay a prezzi • molto bassi come puro oggetto vintage, perché oggi non avrebbe più senso usarlo.
A sinistra, il modulo di memoria aggiuntivo e, sotto, la cassetta attraverso cui si caricavano i programmi.
E NELLO STESSO ANNO...
EUROPA La Groenlandia va alle urne per votare se restare o meno nella Comunità Europea. Vincono i no col 53% ed è “Groexit”. Ma l’Europa mantiene i diritti sulla pesca.
MONDO L’Argentina occupa militarmente le Isole Falkland, territorio d’oltremare del Regno Unito, che le riconquista dopo una guerra “lampo” di circa 70 giorni.
ITALIA Il banchiere Roberto Calvi viene trovato impiccato a Londra. Le circostanze poco chiare della sua morte saranno oggetto di diversi processi.
MUSICA Esce il disco capolavoro dell’artista americano Michael Jackson: Thriller. Con i suoi 100 milioni di copie, diventa l’album più venduto della Storia. 11
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MICROSTORIA A cura di Marta Erba, Paola Panigas e Daniele Venturoli
LA VIGNETTA
Medusa
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na delle tre Gorgoni, l’unica mortale, abitava con le sorelle in una caverna. Fu uccisa da Perseo mentre dormiva (sotto, una statua del 1903). Usando l’accortezza di guardarne il riflesso nello scudo (le Gorgoni avevano il potere di pietrificare chiunque incrociasse il loro sguardo), riuscì a decapitarla. Dalla ferita uscirono il cavallo alato Pegaso e il gigante Crisaore, i figli che aspettava da Poseidone. Perseo portò con sé la testa di Medusa per usarla come arma contro i nemici (tra cui il titano Atlante, trasformato nell’omonima catena montuosa in Nord Africa). Inquietante. La testa di Medusa, con il caratteristico groviglio di serpenti al posto dei capelli, è stata spesso rappresentata nell’arte, a partire dal VI secolo a.C. Tra i dipinti, i più noti sono quelli del Caravaggio e di Rubens.
LA REGINA DELL’AIA
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l 26 agosto 1789, l’Assemblea Nazionale francese approvò la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, uno dei frutti del pensiero illuminista. Al punto 11 si legge: “La libera manifestazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge”. E allora via libera a una sterminata produzione di libelli, i tabloid dell’epoca, riviste che usavano l’inchiostro come arma per deridere l’ancien régime. Prendendo di mira, in particolare, un bersaglio facile: Maria Antonietta, moglie di Luigi XVI (vedi articolo sulle fake news nelle pagine seguenti). Per la verità, la regina non era mai stata molto amata dai sudditi francesi, che per le sue origini le avevano anche affibbiato l’offensivo soprannome di gallina austriaca (in quanto figlia di Maria Teresa d’Austria). Indigesto. In questa caricatura del 1791, infatti, Maria Antonietta è ritratta con le sembianze di uno strano animale a metà tra gallina e struzzo (che secondo la cultura popolare mangiava di tutto). Il volatile ben agghindato (la regina prediligeva acconciature stravaganti arricchite da piume, fiocchi e perle) e ben vestito (Maria Antonietta, fashion victim ante litteram, non badava a spese pur di seguire la moda) tiene nel becco una costituzione che proprio non le va giù. Il disegno, già piuttosto esplicito, è completato da una frase ironica: “La poule d’Autriche. Je digere l’or, l’argent avec facilité. Mais la constitution, Je ne puis l’avaler”. (“La gallina/struzzo austriaca: mangio oro e argento senza problemi. Ma la costituzione proprio non la digerisco”).
PAROLE DIMENTICATE
-40° IL NUMERO
P A T A F F I O N E Di origine incerta, ma forse forma corrotta di epitaffio, indica un sapientone, una persona molto colta ma piena di boria, oppure una persona goffa e grassa. 12
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La temperatura registrata durante la battaglia di Suomussalmi tra l’esercito finlandese e l’Armata Rossa (1939-1940).
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IL MITO
10 TO P T E N
CHI L’HA DETTO?
LUOGHI COMUNI SUGLI INDIANI
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Filippo il Macedone
Divide et impera
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a frase, che significa letteralmente “dividi e comanda”, è attribuita a Filippo il Macedone (il padre di Alessandro Magno), ma fu utilizzata anche da Luigi XI di Francia e dagli Asburgo. Meglio divisi. Si tratta di un invito a favorire la discordia e la rivalità dei popoli assoggettati in modo che questi non possano fare fronte comune per ribellarsi contro il potere: in altre parole, i popoli divisi si dominano meglio.
L’OGGETTO MISTERIOSO
A che cosa serviva questo blocchetto di legno dotato di una cavità centrale contenente una matassa di filo? È stata Paola Angelici di Bergamo a indovinare l’oggetto del numero scorso. È un porta aghi da maglia da premere in vita nella parte curvilinea, mentre l’estremità opposta ha in punta un incavo per appoggiare un ago da maglia o un ferro da calza.
Aspettiamo le vostre risposte, indicando anche la località, a: Focus Storia, via Battistotti Sassi, 11/a – 20133 Milano oppure a
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VOCABOLARIO
IL TERMINE PELLEROSSA DERIVA DAGLI EUROPEI Secondo alcuni linguisti, invece, sono stati gli stessi nativi a coniare questo termine per indicare con una sola parola tutte le tribù. POTEVANO AVERE PIÙ MOGLI Sì, ma solo i capotribù o chi era in grado di accollarsi il mantenimento di tutti i parenti delle diverse mogli. CACCIAVANO I BISONTI Ma solo le tribù che vivevano nelle pianure, le tribù costiere e montane si nutrivano con altri alimenti e alcune coltivavano la terra. SEPPELLIVANO L’ASCIA DI GUERRA PER FARE PACE L’ascia era un simbolo importante. Si seppelliva per la pace ma anche per sancire la conclusione di un affare. SALUTAVANO DICENDO “AUGH!” Il termine, forse esistente in alcune tribù del Sud (ma non della prateria), deriva dall’inglese how o howgh, usato come esclamazione. QUELLA DI POCAHONTAS È UNA STORIA D’AMORE Presa in ostaggio quando aveva18 anni per obbligare il padre a liberare alcuni coloni, poi fu costretta a sposare il vedovo John Rolfe. FUMAVANO IL CALUMET PER SANCIRE LA PACE Fumare la pipa simboleggiava il rapporto tra terra, cielo e le energie dell’universo, per cui si fumava durante la preghiera e la meditazione. ACCERCHIAVANO GLI AVVERSARI CAVALCANDO Nel caso di nemici ben armati sarebbe stato un vero suicidio, preferivano invece una tattica del tipo “colpisci e fuggi”. FACEVANO MANGIARE I NEMICI DALLE FORMICHE Non c’è alcuna documentazione su questa pratica attribuita agli Apache, piuttosto erano in uso altre forme di tortura rituali. I NATIVI AMERICANI SONO QUASI ESTINTI Pur privati delle loro terre, i nativi sono il 2% della popolazione degli Stati Uniti, con 566 tribù che vivono in 325 riserve.
MERENDA Secondo alcuni ha origine dal latino merìdies (mezzogiorno), un frugale “pasto meridiano” che si è iniziato a consumare nelle zone industriali in cui non si poteva lasciare il lavoro per pranzo. Per altri deriva dal gerundivo latino di merere (meritare). Un tempo, infatti, la merenda per i bambini non era un pasto dovuto, ma un extra che andava meritato. 13
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ARTE Il genio della tavolozza ha avuto una vita violenta e una morte poco chiara. In più, come artista, è stato dimenticato per anni. Perché?
I MISTERI DI
CARAVAGGIO I
l primo mistero, e anche il più grande, è perché sia stato dimenticato per oltre due secoli. Oggi Caravaggio è l’artista italiano più studiato e seguito nel mondo, una “star” che ha spodestato persino Michelangelo: basta un suo quadro per decretare il successo di una mostra. Eppure è andata davvero così: Michelangelo Merisi, da Caravaggio, ha subìto un autentico oblìo dalla fine del Seicento al Novecento inoltrato. E a risuscitarlo negli anni Cinquanta del secolo scorso è stato un leggendario storico dell’arte italiano, Roberto Longhi, aprendogli la strada di un nuovo e indiscutibile trionfo.
STORIA DI UNA SFORTUNA. Forse il nostro eroe era nato sotto una cattiva stella. Perché ebbe la “ventura” di raggiungere il successo all’inizio del Seicento, un secolo mal giudicato dai posteri. Una sorta di buco nero tra la gloria del Rinascimento, il tempo dei Lumi e la lunga stagione del Neoclassicismo, che celebrava l’antichità greco-romana. «Secondo la storiografia dell’inizio del XX secolo, il Merisi è stato uno dei protagonisti esemplari di un periodo segnato dall’oppressione politica e dal 14
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Quanta tristezza
Il ritratto di Michelangelo Merisi (1571-1610), eseguito intorno al 1621 da Ottavio Leoni, un quotato ritrattista dell’epoca barocca. L’artista ci appare in questa immagine a carboncino come un uomo dallo sguardo molto triste. Milano celebra l’artista con una mostra di grande successo: Dentro Caravaggio. A Palazzo Reale, fino al 28 gennaio.
trionfo della Chiesa controriformata», spiega Francesca Cappelletti, docente di Storia dell’arte moderna all’Università di Ferrara e autrice di Caravaggio. Un ritratto somigliante (Electa). In effetti, nel Seicento, gran parte dell’Italia era scaduta a colonia spagnola, proprio quando Madrid era seconda solo alla Roma di Sisto V nella foga di correggere coscienze religiose ed esercitare il brutto vizio degli abusi di potere. Il rivoluzionario pittore lombardo, con i suoi quadri scuri, drammatici e la sua vita violenta, rappresentò così bene quel secolo di decadenza morale e storica da restare impigliato nel giudizio negativo su quell’epoca. E ne fu inevitabilmente danneggiato.
QUESTIONI DI GUSTO. A spingerlo nel dimenticatoio fino al Novecento ci si misero in molti, e ogni critica pungente contribuì a questa sorta di moderna damnatio memoriae. Già poco dopo la morte, avvenuta nel 1610, la sua fama era in ribasso: veniva considerato inferiore al coevo Annibale Carracci, artista bolognese all’epoca stimatissimo ma non certo un gigante come lui, e oggi poco conosciuto dal
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Son io!
Davide con la testa di Golia, una delle opere più celebri del Caravaggio (1605-1606). È universalmente riconosciuto dalla critica che la testa del temibile gigante filisteo sia un drammatico autoritratto dell’artista.
Bacchino malato (1592): anche in questa tela il volto è quello di Caravaggio, ancora ragazzo e per nulla affermato, che si era ritratto allo specchio.
Per i suoi detrattori, Caravaggio era venuto al mondo per distruggere la pittura. E sapeva solo ritrarre gli umili CORBIS VIA GETTY IMAGES
Giovinetto
grande pubblico. Ma era solo l’inizio. Nicolas Poussin (1594-1665), artista che ai tempi di Luigi XIII andava per la maggiore sia a Parigi sia nella Roma dei Barberini, si spinse a dire che Caravaggio era venuto al mondo per distruggere la pittura. Affermazione esagerata? Agli occhi dei suoi detrattori il Merisi era capace di ritrarre soltanto i suoi simili (e cioè la “vile, volgare umanità”), mentre i veri artisti dipingevano historia, ovvero scene sacre o gesta di grandi uomini ed eroi. Per di più, come scriveva Gian Pietro Bellori, storico dell’arte considerato quasi un Vasari del tardo Seicento, i suoi quadri erano “senza attione”: poco movimentati, diremmo noi, senza un’azione degna di nota. Eppure, quante Giuditta e Oloferne saranno state dipinte prima di quella del genio milanese? Decine e decine. Ma solo la sua sembra l’istantanea di un delitto. E una volta vista non la si scorda più. Nel Settecento, salvo rare eccezioni, si continuò sulla stessa linea. Un altro stimato biografo di artisti, Antonio Pellegrino Orlandi, definì il personalissimo uso del chiaroscuro dell’artista una “macchia furbesca”. Insinuava insomma che si trattasse di una tecnica “veloce” che dava risultati di potente impatto senza richiedere mesi o anni di esercizio nel disegno e nella prospettiva, né di faticare davanti alle statue antiche e ai maestri del Rinascimento, come invece doveva fare ogni bravo pittore che rispettava la tradizione. E per capire lo scarso interesse per Caravaggio anche nell’Ottocento, bastano due esempi: un noto spogliatore di tesori altrui, Napoleone Bonaparte, nel suo ricco bottino di arte italiana non prese nulla del Merisi; e Goethe, nel celebre viaggio in Italia, non lo citò nemmeno.
LA NUOVA GLORIA. Finalmente, nel XX secolo, a salvare Caravaggio dall’oblìo arrivarono gli studi di Roberto Longhi, storico dell’arte e vorace collezionista, che non solo nel 1920 scovò da un antiquario fiorentino un Fanciullo morso dal ramarro (1597): rilesse opere e vita del Merisi e fece piazza pulita dei pregiudizi. Individuò inoltre in lui il primo pittore dell’epoca moderna, umano, popolare. E, quando, nel 1951, riuscì a organizzare una memorabile mostra al Palazzo Reale di Milano, con un numero imponente di opere, giustizia fu fatta: Caravaggio e i caravaggeschi segnò l’inizio di un successo del rivoluzionario pittore, in Italia e fuori, che avrebbe stupito anche i suoi più grandi collezionisti del Seicento.
Irene Merli
Il riabilitatore
Roberto Longhi (18901970), grande storico dell’arte italiano, nel 1951 organizzò a Milano la mostra che fece riscoprire Caravaggio.
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I QUADRI CONTESI. A questo punto le uniche ragionevoli certezze sono che Caravaggio sia morto a Porto Ercole per malattia (ma anche qui le ipotesi antiche e moderne spaziano dalla malaria alla sifilide, dal tifo alla brucellosi, dall’infezione intestinale all’intossicazione da piombo...), e che sia stato seppellito nel cimitero di San Sebastiano, dove venivano inumati gli stranieri di pochi mezzi: la località grossetana faceva parte dei Presidi Spagnoli. Del resto neppure i suoi potenti protettori – il cardinale Borghese, che lo attendeva a Roma, e la marchesa Sforza Colonna, che l’aveva ospitato a Napoli – sapevano cosa gli fosse successo in quei concitati giorni tra Napoli e Roma. E forse più che alla sorte del povero artista, questi vip dell’epoca pensavano a recuperare i tre quadri che non erano riusciti a
salvargli la vita. E non solo loro. A contenderli ci si erano messi anche il viceré di Napoli e il Priore dei Cavalieri di Malta. A secoli di distanza, due dipinti mancano ancora all’appello (altro mistero) mentre uno, il San Giovanni Battista, fu recuperato dal cardinale, gran collezionista, e ancora oggi può essere ammirato nel palazzo di famiglia, la magnifica Galleria Borghese di Roma, di cui è una delle più grandi “hit”. A dimostrazione che, dovunque e comunque sia morto, Michelagelo Merisi da Caravaggio, immenso artista a lungo • incompreso, è ancora vivo. Vivissimo.
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LA MORTE SULLA SPIAGGIA. Ma un altro mistero avvolge la vita, o meglio la morte, dell’artista. Mistero ancora oggi in gran parte irrisolto. Siamo nell’estate del 1610. Caravaggio è reduce da un’aggressione a Napoli, davanti a un’osteria, in cui rimase gravemente ferito. Ma si riprese abbastanza da tentare il ritorno a Roma, città dalla quale era stato bandito perché nel 1606 aveva ucciso un uomo durante una rissa. Si imbarcò quindi su una feluca per Port’Ercole dalla riviera di Chiaia, con alcuni dipinti destinati al cardinale Scipione Borghese (due quadri su San Giovanni Battista e una Maddalena in estasi). Le opere sarebbero dovute servire a ottenere o ricompensare la grazia presso papa Paolo V, zio del nobile prelato. Ma è qui che accadde l’imponderabile. Secondo ricostruzioni di poco successive ai fatti, che si trovano sia nelle Vite de’ Pittori, Scultori e Architetti di Giovanni Baglione (1642) sia in una lettera del vescovo di Caserta al cardinale romano, la barca si sarebbe fermata a Palo, feudo dei principi Orsini a una cinquantina di chilometri da Roma. Qui l’artista sarebbe stato arrestato, non si sa esattamente per quale motivo (a riguardo esistono solo congetture). Una volta libero avrebbe tentato di raggiungere la feluca, che era però già ripartita per Porto Ercole con i preziosi quadri senza aspettarlo, andando a piedi sulla spiaggia da Palo sino alla località dell’Argentario. Ma, sfinito dal caldo e dal sole, sarebbe morto il 18 luglio a Porto Ercole. In effetti l’estate del 1610 fu una delle più torride di quel secolo. Per il resto, come spiega Francesca Cappelletti, «le lettere che abbiamo e questa ricostruzione sono in contraddizione. Tutte le prime narrazioni che riportano della sua morte parlano solo di Porto Ercole. Poi anche allora sarebbe stato impossibile andare a piedi, da Palo a Porto Ercole, seguendo la spiaggia. Non solo perché il tratto è lungo e lui era malato: la spiaggia era ed è ancora interrotta in più punti».
Un furto clamoroso
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alermo, 1969, sabato 18 ottobre. Alle tre del pomeriggio le due custodi dell’Oratorio di San Lorenzo, nel centro storico, entrano in chiesa: devono prepararla alla messa del giorno dopo. Pochi passi e restano basite: il grande dipinto sull’altare è sparito. Peccato che la tela trafugata fosse un capolavoro del Caravaggio, la Pala della Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi (sopra). Mafia fu? Era lì dal 1609, ma da quel momento del grande quadro (268x197centimetri) è sparita ogni traccia. E di sicuro si sa solo che non deve essere stato un furto difficile: per entrare nell’Oratorio era bastato forzare
una porticina difettosa. Per il resto, la pista più battuta diventò quella mafiosa: furono alcuni importanti pentiti di Cosa Nostra a parlarne. Ma a commettere il clamoroso furto potevano essere stati anche professionisti per il mercato clandestino quanto ladruncoli che si erano trovati in mano un quadro invendibile. Sta di fatto che, a 48 anni di distanza, il mistero è rimasto fitto, e il Caravaggio di Palermo compare ancora in cima alla classifica delle opere d’arte più ricercate del mondo. Un libro per approfondire? Il Caravaggio rubato. Mito e cronaca di un furto, di Luca Scarlini (Sellerio). 17
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francia
gran bretagna
GEOPOLITICA
Piccole PATRIE Da soli si sta meglio? Catalogna, Scozia e tanti altri grandi e piccoli conflitti locali hanno messo in evidenza il problema delle rivendicazioni indipendentiste in Europa. Ecco trenta regioni che hanno delle vertenze aperte nei confronti dello Stato a cui appartengono.
ISOLE FÆR ØER
SCOZIA
IRLANDA DEL NORD
Galles
Bretagna
Superficie: 20.779 km². Status: nazione costitutiva del Regno Unito. Cosa vogliono: indipendenza dalla Gran Bretagna. Con il referendum del 1998 la regione ha ottenuto la nascita di un governo e un’assemblea locali, ma il potere legislativo resta nelle mani di Londra.
Superficie: 27.208 km². Status: regione. Cosa vogliono: indipendenza dalla Francia. I bretoni persero l’indipendenza nel 1532, ma si sentono ancora oggi più celti che francesi. Dagli anni Settanta (fino a una decina di anni fa) la lotta indipendentista bretone è stata portata avanti anche con attentati terroristici.
gran bretagna
Cornovaglia
francia
Superficie: 3.563 km². Status: contea inglese dal 1888. Cosa vogliono: separarsi dall’Inghilterra. I kornish (abitanti della Cornovaglia) non si sentono inglesi, ma celti. belgio
Fiandre e Vallonia
Superficie: Fiandre (13.522 km²), Vallonia (16.844 km²). Status: regioni. Cosa vogliono: maggior riconoscimento delle minoranze linguistico-culturali. Il Belgio nacque dall’unione tra valloni di lingua e cultura francesi e fiamminghi “cugini” degli olandesi. I due gruppi si dividono il Paese ma i rapporti sono tesi.
Occitania Superficie: 72.724 km². Status: regione. Cosa vogliono: autonomia culturale. Nel Medioevo la Francia era divisa tra la lingua d’oil al nord (da cui il francese) e la lingua d’oc al sud. Il Pays d’oc (Occitania) va dal Piemonte alla Catalogna. La popolazione non ha mai chiesto la costituzione di uno Stato indipendente. spagna
Galizia Superficie: 29.574 km². Status: comunità autonoma. Cosa vogliono: difesa dell’autonomia culturale. spagna
A cura di Aldo Bacci
Aragona
GALLES LUSAZIA
FIANDRE E VALLONIA
SLESIA
CORNOVAGLIA
Superficie: 47.719 km². Status: comunità autonoma. Cosa vogliono: una più ampia autonomia culturale e fiscale. Il nazionalismo locale si batte per ottenere maggiori finanziamenti che consentano di valorizzare il patrimonio linguistico e culturale.
BAVIERA
BRETAGNA SÜDTIROLALTO ADIGE LOMBARDIA E VENETO OCCITANIA GALIZIA
PAESI BASCHI
CORSICA CATALOGNA
ARAGONA SARDEGNA
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TRANSILVANIA
REPUBBLICA SRPSKA
KOSOVO
spagna
italia
germania
Lusazia
Isole Fær Øer
danimarca
gran bretagna
Scozia
Paesi Baschi
Superficie: 42.270 km² (23.863 km² e 18.407 km²). Status: regioni. Cosa vogliono: il referendum per l’autonomia amministrativa (22 ottobre 2017) ha spinto il Veneto a chiedere il riconoscimento di regione a statuto speciale.
Superficie: 1.340 km². Status: fa parte degli Stati federali tedeschi (Länder) della Sassonia e del Brandeburgo per il 70% e per il 30% della Polonia. Cosa vogliono: diventare uno Stato autonomo (Libero Stato Lusaziano). Tra Brandeburgo, Sassonia, Polonia e Repubblica Ceca abitano i Sorbi, di origine slava. Nel 1950 ottennero l’autonomia linguistica e culturale, ma nel 1990 fallì il tentativo di fondare un Land lusaziano.
Superficie: 1.396 km². Status: nazione costitutiva del regno di Danimarca. Cosa vogliono: un referendum (che si terrà in aprile) per una nuova costituzione locale e l’adozione del faroerese come lingua nazionale.
Superficie: 80.077 km². Status: nazione costitutiva del Regno Unito. Cosa vogliono: indipendenza dalla Gran Bretagna. Negli ultimi anni ha ottenuto larga autonomia, ma allo Scottish National Party non basta (nonostante il fallimento del referendum del 2014).
Superficie: 7.234 km². Status: comunità autonoma. Cosa vogliono: da fine ’800 chiedono una nazione indipendente a cavallo tra Spagna e Francia. A partire dalla seconda metà del ’900, la guerra indipendentista dell’Eta (Euskadi Ta Askatasuna) ha fatto moltissime vittime anche tra i civili. Solo dal 2003 l’Eta ha rinunciato ufficialmente alla lotta armata.
Lombardia e Veneto
italia
südtirol-Alto Adige
Superficie: 7.400 km². Status: provincia autonoma dal 1927. Cosa vogliono: indipendenza o annessione all’Austria. La situazione dell’Alto Adige è esemplare per la tutela delle minoranze, tuttavia il Sud-tiroler Freiheit, partito che rappresenta la linea oltranzista, propugna la nascita di un unico Tirolo federale. italia
Sardegna
Superficie: 24.090 km². Status: regione a statuto speciale. Cosa vogliono: indipendenza dall’Italia. Sull’onda del referendum catalano è stato presentato un disegno di legge per consentire un referendum sull’indipendenza. germania
Baviera
Superficie: 70.550 km². Status: Stato federale tedesco (Länder). Cosa vogliono: indipendenza. La Germania è uno Stato federale in cui le regioni godono di ampia autonomia. Esistono però spinte indipendentiste, rappresentate fin dal 1946 dal Bayernpartei.
polonia
Slesia
Superficie: 12.333 km². Status: regione. Appartiene in gran parte alla Polonia, e in parte minore alla Repubblica Ceca e alla Germania. Cosa vogliono: autonomia dalla Polonia. La regione ha una propria lingua e una cultura legata alla Germania fin dal Medioevo. romania
Transilvania
Superficie: 102.834 km². Status: regione. Cosa vogliono: autonomia. Gli ungheresi in Romania rappresentano la più grande minoranza nazionale d’Europa. Abitano in Transilvania, regione di cultura ungherese che fu principato indipendente, assegnata, nel ’900, alla Romania. Rivendicano anche l’uso della lingua ungherese.
DONBASS
gran bretagna
Irlanda del Nord
Corsica
moldavia
ucraina
Donbass
Nagorno Karabakh
Superficie: 4.163 km². Status: indipendente de facto (non riconosciuta dalla comunità internazionale) dal 1990. Forti tensioni in seguito alla Guerra di Transnistria (1992) e conflitto politico in corso. Cosa vogliono: autonomia dalla Moldavia.
Superficie: 25.000 km2. Status: Repubblica Popolare di Donetsk e Repubblica
ucraina
Abcasia
Superficie: 4.400 km². Status: indipendente de facto dal 1994. Cosa vogliono: la popolazione a maggioranza armena vuole mantenere l’indipendenza. È in corso un conflitto cronico tra Azerbaijan (che combatte per la perdita del territorio) e Armenia (che lotta per l’autodeterminazione dei popoli).
Transnistria
Crimea
CRIMEA CAUCASO ABCASIA OSSEZIA
NAGORNO KARABAKH
Rivendicazioni pacifiche
Superficie: 8.680 km². Status: collettività territoriale dal 2001. Cosa vogliono: autonomia dalla Francia (Partito della Nazione Corsa) o indipendenza (Fronte di Liberazione Nazionale della Corsica).
Popolare di Lugansk (2014). Cosa vogliono: indipendenza dall’Ucraina per entrare nell’orbita russa. Conflitto armato in corso
Superficie: 8.660 km² Status: indipendente de facto dal 1992. Cosa vogliono: l’indipendenza dalla Georgia per restare nell’orbita russa. georgia
Ossezia Superficie: 3.900 km². Status: gli osseti del Sud si sono autoproclamati indipendenti da Tibilisi nel 1991. Cosa vogliono: mantenere l’indipendenza dalla Georgia. russia
Repubbliche caucasiche Superficie: Cecenia (16.600 km2) dal 1991, Daghestan (50.300 km2) dal 1921 e Inguscezia (2.700 km2) dal 1992. Status: repubbliche della Federazione russa. Cosa vogliono: portano avanti la lotta per l’indipendenza e per il riconoscimento della legge islamica appoggiati anche da un terrorismo di matrice jihadista.
Conflitto solo politico
bosnia
Repubblica Srpska Superficie: 24.857 km². Status: è una delle due entità che compongono la Bosnia, con propri organi di governo e struttura istituzionale. Cosa vogliono: l’indipendenza e/o l’annessione alla Serbia.
azerbaijan
georgia
Superficie: 26.100 km². Status: autoproclamatasi indipendente nel 2014. Con un referendum è diventata una repubblica della Russia. Cosa vogliono: mantenere l’annessione alla Russia, non riconosciuta dalla comunità internazionale e contestata dai non russi che abitano in Crimea.
TRANSNISTRIA
CIPRO NORD
francia
Superficie: 14.130 km². Status: nazione costitutiva del Regno Unito. Cosa vogliono: indipendenza dalla Gran Bretagna. L’Ira (Esercito repubblicano irlandese) è attivo dal 1919. Solo nel 2005 ha rinunciato alla lotta armata. Nel 1998, con l’Accordo del Venerdì Santo, è stato costituito il parlamento nordirlandese.
spagna
Catalogna Superficie: 32.108 km². Status: comunità autonoma. Cosa vogliono: l’indipendenza dalla Spagna. Dopo il referendum del 1° ottobre 2017, Madrid ha sospeso l’autonomia catalana. cipro
Cipro del Nord
Superficie: 3.355 km². Status: Repubblica turca di Cipro Nord (1983), riconosciuta solo dalla Turchia. Cosa vogliono: trattative per la riunificazione in corso. L’isola di Cipro è divisa in due dal 1974, quando la Turchia inviò le sue truppe per uno scontro etnico fra greco-ciprioti e turco-ciprioti. serbia
Kosovo
Superficie: 10.908 km². Status: indipendendenza autoproclamata nel 2008. Cosa vogliono: l’approvazione della comunità internazionale al completo. Lo Stato è riconosciuto dall’Ue, ma non da tutti i Paesi europei (per esempio Spagna, Grecia, Romania, Slovacchia).
Situazione critica 19
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VITA QUOTIDIANA
Prima dei supermercati e degli acquisti online, per fare compere si andava nei fori romani, nelle agorà greche e nei mercati rinascimentali. Ecco come...
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LA SPESA
Shopping
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Un mercato rinascimentale in un quadro di Pieter Aertsen (XVI secolo). A destra, illustrazione del 1954 che ritrae due casalinghe con le buste della spesa.
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ell’ottobre del 1957, mentre era in visita ufficiale negli Stati Uniti, la regina d’Inghilterra, Elisabetta II, restò colpita dall’insegna di un supermarket nel Maryland e chiese di potersi fermare a visitarlo. Tra gli sguardi curiosi dei clienti, la sovrana ascoltò attenta il titolare che illustrava i vari tagli della carne preconfezionata. Quando lo sguardo le cadde sui piccoli sedili pieghevoli montati sui carrelli della spesa esclamò: «Dev’essere proprio carino portare qui i bambini!». La sorpresa di Elisabetta era comprensibile: i grandi negozi di alimentari “self-service” infatti, diffusi negli Stati Uniti già da qualche anno, non avevano ancora cambiato le abitudini degli inglesi e degli europei in genere. In Gran Bretagna i supermercati erano poche decine, mentre in Germania e Italia avevano appena aperto i battenti (v. riquadro pag. seguenti).
AL FORO E ALL’AGORÀ. Prima che si trasformasse in una parentesi necessaria, inserita nelle nostre frenetiche giornate, fare la spesa era soprattutto un’occasione di incontro e scambio. Fin dall’età antica, infatti, il bisogno di reperire beni – anche quelli necessari a nutrirsi – è andato di pari passo con il desiderio di confrontarsi, avere notizie della propria comunità e socializzare. Le agorà greche e i fori romani erano il luogo non solo delle attività politiche ma anche di quelle commerciali. Nei territori dell’antica Roma fare compere era un’esperienza che coinvolgeva uomini e donne di ogni estrazione sociale: i contadini 21
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Sopra, una ricostruzione di una rivendita di vini di epoca romana. Sotto, a Pompei, un thermopolium, specie di tavola calda dove veniva servito cibo caldo in grossi recipienti di terracotta, inseriti nel bancone.
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Fast food
potevano vendere e scambiare i loro prodotti e i cittadini, anche quelli più poveri, potevano trovare qualcosa per sfamarsi. Vi si incontravano anche le matrone, che pur affidando agli schiavi la spesa dei beni di prima necessità si recavano di persona nei mercati per acquistare stoffe, suppellettili, gioielli, o per commissionare un’opera a pittori e scultori. La città, grande o piccola che fosse, offriva possibilità per tutte le tasche: mercati periodici e permanenti, negozi, banchine, ambulanti e persino vendite all’asta.
UN BOCCONE E VIA. Se in origine le attività commerciali si trovavano nel foro, dopo il III secolo a.C. si spostarono in edifici appositi come i macella, progenitori degli odierni mercati coperti. Nelle strade brulicanti della capitale, che alla fine dell’età repubblicana raggiunse il milione di abitanti, nobili, schiavi e gente del popolo si incontravano ogni giorno nelle tabernae, le botteghe che artigiani e commercianti avevano sotto i portici dei fori o al piano terra delle insulae, i palazzi condominiali dell’epoca. La taberna era un locale di piccole dimensioni con una grande porta, dotato di un soppalco, che fungeva da magazzino o da abitazione del venditore, e di un bancone che dava, per comodità, sulla strada. Per rendersi visibili, i commercianti affiggevano sopra l’ingresso scritte o simboli per “promuovere” la merce che vendevano, qualcosa di molto simile alle insegne moderne. Vi erano tabernae che offrivano generi alimentari come frutta, pesce e carne (taberna fructuaria, taberna piscaria e taberne lanienae), quelle per la vendita di stoffe (taberna vestiaria) e di prodotti artigianali. Alcuni negozi si dedicarono a bevande e cibi pronti, anticipando di secoli i fast food: i thermopolia vendevano pasti caldi in grossi recipienti di terracotta o bronzo, che si consumavano sul bancone. Quando Roma, nel suo splendore imperiale, arrivò ad avere enormi quantità di merci provenienti da ogni angolo del mondo, vennero istituiti più di 300 grandi magazzini (horrea), dove era possibile anche acquistare all’ingrosso. Fu un gigantesco sistema commerciale che sarebbe poi rinato, in altre forme, dopo la fine dell’impero e il periodo buio delle invasioni barbariche.
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Nel mondo antico fare la spesa era un compito strettamente connesso alla vita di comunità
IN DROGHERIA. La scomparsa di alcune grandi vie di comunicazione romane e il declino di molte città non impedì infatti, la rinascita dei mercati e la fioritura di nuovi centri urbani in tutta Europa, per esempio Venezia, Londra, Parigi. Ma con una differenza rispetto a prima: i centri erano più nettamente separati dai villaggi di campagna, che offrivano soprattutto prodotti locali. Nel Medioevo la combinazione mercatobotteghe divenne fondamentale per gli scambi con l’esterno e la vita delle comunità, in un sistema che fu riscontrabile in molti Paesi ancora nel XIX secolo e oltre. I venditori ambulanti giocavano un ruolo importante anche nella diffusione delle notizie.
Al dettaglio
Sopra, vendita di beni alimentari in un mercato, nel Medioevo. In alto, una delle botteghe dipinte nel castello di Isogne (Valle d’Aosta) nel tardo Medioevo.
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Freschi e confezionati
Una casalinga americana al supermercato (1957). A destra, alcune donne fanno acquisti al banco dei prodotti freschi, nel 1960. Nell’altra pagina, un supermercato degli Anni ’50 in un’illustrazione.
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Le drogherie, in cui si trovavano prodotti non deperibili (spezie, zucchero), erano carissime “La città del XII secolo vive di scambi, sulla piazza del mercato si incontrano artigiani e mercanti, il danaro e le idee sono in continua circolazione. La città è un luogo stretto, ricchi e mendicanti si incrociano per le vie”, scrisse lo storico Arno Borst in Forme di vita nel Medioevo (Guida Edizioni). Classi sociali diverse si mescolavano nei mercati, fiorenti nell’Italia del Trecento: «Nel regno del Sud, meno segnato dagli scambi, era in piedi un vero sistema di fiere e mercati stagionali, in particolare per la gente che arrivava dalle campagne per fare acquisti. Ma anche nei centri urbani, accanto alle botteghe, c’erano il mercato settimanale e quello giornaliero di frutta, verdura e cacciagione, come testimoniano le logge al coperto che possiamo ancora vedere in molte città italiane», afferma lo storico Govanni Cherubini, professore emerito all’Università di Firenze. A partire dal XVI secolo, in Europa botteghe e mercati si arricchirono di nuovi prodotti in arrivo dalle Americhe. Si diffusero anche le “drogherie”, negozi che vendevano spezie (droghe), zucchero e, di lì a poco, tè, cacao e caffè. Questi negozi
erano come le nostre gioiellerie perché le spezie erano molto costose. «A Roma i mercati più importanti erano quello settimanale di Piazza Navona e quello delle Erbe, i nobili avevano il permesso di far entrare i servi addirittura prima dell’apertura, per acquistare la merce migliore. Era il periodo delle corporazioni dei commercianti, assai potenti. I contadini che portavano i loro prodotti ai mercati, invece, li dovevano vendere in base ai prezzi fissati dal governo», spiega Marina Caffiero, docente di Storia Moderna all’Università La Sapienza di Roma.
AI GRANDI MAGAZZINI. Dopo la rivoluzione industriale e lo sviluppo del ceto medio, nell’Ottocento e nel Novecento in Europa il concetto di spesa e di tempo libero si fusero in un tutt’uno, traducendosi nella pratica nei grossi centri per l’acquisto: nacquero i grandi magazzini di Parigi, Londra e Milano, i general stores come si chiamavano negli Stati Uniti, o gli empori dedicati generalmente a prodotti non deperibili. Saranno proprio gli americani, agli inizi del Novecento, a guidare il cambiamento, a
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unire il fresco con il confezionato e a semplificare di colpo la vita delle famiglie, livellando in parte le differenze sociali.
CASSA E CARRELLO. Tuttavia per vedere la prima drogheria “self-service”, con cestini per la spesa e il personale in divisa, si dovette attendere il 1916: si chiamava Piggly Wiggly e nacque a Memphis, nel Tennessee, da un’idea dell’imprenditore Clarence Saunders, che ne aprì altre negli anni successivi. Il primo vero supermercato, organizzato con casse, reparti e parcheggio fu il King Kullen, aperto nel 1930 a New York. Una rivoluzione che investì nel secondo dopoguerra anche l’Europa: «La struttura artigianale e famigliare del negozio-bottega era destinata a cambiare in poco tempo, segnando l’avvio di una nuova epoca commerciale. Si diffuse in quegli anni una innovativa tipologia distributiva, non più individuale e sociale; il commercio iniziò ad organizzarsi come una vera e propria impresa industriale», scrive Franco A. Fava in C’era una volta il supermarket (Sperling&Kupfer). L’esperienza della spesa oggi sta evolvendo ancora, immergendosi in una nuova dimensione, quella virtuale dello shopping online e della consegna direttamente a domicilio, ma non per questo i mercati e i mercatini nei paesi e nelle città di tutto il
mondo hanno smesso di vivere e soprattutto di essere frequentati, a dimostrazione del fatto che quel rito antico della spesa come momento di incontro e luogo di svago è ancora presente • nella nostra società. Arianna Pescini
Così l’Italia scoprì il supermercato
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ra Ottocento e Novecento nel nostro Paese erano già nati, su modello di Londra e Parigi, i grandi magazzini capaci di offrire migliaia di metri quadri di moda, bellezza e accessori per la casa. Ma la svolta nel settore alimentare arrivò solo nel 1956, quando il Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti fece allestire a Roma l’esposizione di un supermarket-tipo americano, con commesse che spiegavano come fare la spesa “self-service”. La prima spesa. L’iniziativa ebbe un grande successo di pubblico, tanto che un gruppo di imprenditori decise di seguirla e, nel 1957, nacque a Milano il primo supermercato Esselunga (foto). Fu proprio in quegli anni che cambiarono infatti per sempre le abitudini di spesa degli italiani, con il boom economico e l’influenza dell’american way of life (il modo di vivere all’americana). Le donne erano entrate nel mondo del lavoro,
si sviluppò una maggiore attenzione al tempo libero e la diffusione degli elettrodomestici, inoltre, influenzò per sempre la vita delle famiglie. Il frigorifero, presente in molte case, rappresentò la vera rivoluzione nell’alimentazione e nel modo di fare la spesa: finalmente si potevano conservare cibi freschi per qualche tempo e non era più necessario comprarli quotidianamente. Il cambiamento, comunque, avvenne piuttosto gradualmente: nel 1971 i supermercati in Italia erano ancora solo 607, due terzi dei quali situati nelle regioni del Nord.
SOCIETÀ ISTRIA POLA
ISOLA DELLE ROSE RIMINI
Mentre nel mondo scoppiava il 1968, al largo di Rimini, in mezzo al mare, spuntava l’Isola delle Rose.
In acque libere
CASA EDITRICE PERSIANI (2)
Una veduta esterna dell’Isola delle Rose, nel 1968: misurava 400 m². Sopra, nella cartina la posizione della micronazione, posta intenzionalmente in acque internazionali.
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L’ISOLA CHE NON C’È
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n sogno di emancipazione, un’utopia in salsa romagnola? Di sicuro l’Isola delle Rose fu un curioso esperimento politico, sociale, culturale. Nell’estate del 1968 Giorgio Rosa, un eccentrico ingegnere bolognese, inaugurò una struttura in cemento e lamiere in acque internazionali, a poco più di 11 chilometri dalle coste romagnole. Nelle sue intenzioni la piattaforma doveva essere una micronazione con tanto di presidente, ministeri, lingua autonoma (l’esperanto) e inno nazionale (L’olandese volante di Richard Wagner). Le dimensioni erano limitate, circa 400 metri quadrati. In superficie un albergo, una banca, un bar e attracchi per le barche. Eppure la Insulo de la rozoj, come fu chiamata in esperanto, per un’estate tenne sotto scacco il mondo intero.
Vita breve
In alto, Giorgio Rosa (a destra senza cappello) torna sull’isola scortato dalle forze dell’ordine: è il 1969 e la piattaforma è stata occupata militarmente; Giovanni Leone, all’epoca presidente del consiglio; il francobollo dell’isola (per la moneta non si fece a tempo).
MOMENTO INCANDESCENTE. Le piazze occidentali erano occupate da studenti in rivolta. L’America era impantanata in Vietnam e l’Urss aveva appena mandato i carri armati a Praga per reprimere il “socialismo dal volto umano” di Dubcek. In Italia, intanto, si sperimentavano le gioie del benessere e della libertà. Se a Rimini apriva il Lady Godiva, primo night dove si potevano vedere bellezze locali a seno nudo, il parlamento nazionale se la 27
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Non sottostava a nessuna legge nazionale. La lingua ufficiale era l’esperanto e l’inno L’olandese volante di Richard Wagner vedeva con un “governo balneare”, un monocolore Dc durato una stagione e guidato da Giovanni Leone, il futuro presidente della Repubblica.
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un porto franco, svincolato da ogni ostacolo amministrativo, burocratico ed economico. L’Isola delle Rose era una “città del sole”, il sogno di ogni imprenditore: qui si poteva vivere in libertà, senza leggi restrittive e con negozi, banche e alberghi capaci di essere attrattivi per i turisti e di far guadagnare. Anni dopo Rosa disse in un’intervista: “A essere sinceri, il mio progetto iniziale era questo: costruire qualcosa che fosse libero da lacci e lacciuoli e non costasse molto. Sulla terraferma la burocrazia era soffocante. Così mi venne un’idea, durante la villeggiatura a Rimini”. E spiegò: “Volevamo aprire un bar e una trattoria. Mangiare, bere e guardare le navi da Trieste che passano vicine, a volte anche troppo. Il ricordo più bello è la prima
Demolitela! Febbraio 1969: dopo un primo tentativo fallito, l’isola viene minata dagli artificieri della Marina militare italiana.
notte sull’isola in costruzione. Venne un temporale che sembrava portasse via tutto. Ma al mattino tornò il sole, ogni cosa pareva bella e realizzabile. Poi cominciarono i problemi”.
TUTTI CONTRO. L’isola in effetti ebbe vita breve. Il nuovo Stato fece in tempo a stampare i suoi francobolli e provò a battere moneta, ma il governo italiano avanzò subito le sue richieste. In Parlamento da destra, da sinistra e dal centro fu un fuoco incrociato che infiammò l’estate del 1968: il Movimento sociale accusò Giorgio Rosa di aver violato il suolo italiano, il ministro dell’Interno denunciò senza mezzi termini il “grave pericolo” rappresentato da questa nazione al di fuori del controllo del diritto CASA EDITRICE PERSIANI
SENZA VINCOLI. In questo scenario si mosse Giorgio Rosa, per sua stessa ammissione lontano da posizioni politiche. L’impresa cominciò alla fine degli Anni ’50. Chiesto il permesso alla capitaneria di porto di Rimini di edificare una piattaforma in mare, organizzò il cantiere. Il progetto prevedeva la costruzione sulla terraferma di un telaio di tubi in acciaio da trasportare in galleggiamento in mare aperto, dove poi sarebbe avvenuto il collaudo. Il primo tentativo fu un disastro, e quella che doveva essere l’embrione dell’Isola delle Rose venne travolta da una mareggiata. L’ingegnere però non si perse d’animo. Ne costruì un’altra e per il 20 agosto 1967 la sua isola fu aperta al pubblico. L’anno successivo, il 1° maggio, ci fu invece l’inaugurazione ufficiale. Frotte di turisti approdarono sulla piattaforma attratti da quello spazio nell’Adriatico che non era più Italia, e nemmeno Iugoslavia, ma una zona libera da ogni giurisdizione nazionale esistente. I giornali a questo punto iniziarono a interessarsene, seminando dubbi sulle reali intenzioni di Giorgio Rosa. C’era chi giurava che l’isola fosse una casa di prostituzione mascherata, chi la sospettava di essere un avamposto della Iugoslavia titina. Altri ancora immaginarono che potesse ospitare una radio privata sul modello dell’inglese Radio Caroline (v. riquadro nell’altra pagina). La realtà era molto più prosaica: Giorgio Rosa voleva creare
Un contesto turbolento
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Due eventi del 1968. Da sinistra: un elicottero americano si prepara a caricare forniture con l’aiuto delle truppe di terra, nel Sud del Vietnam, durante la guerra contro i Vietcong; a Praga gruppi di giovani circondano uno dei carri armati sovietici entrati in città per occuparla, durante il breve governo di Alexander Dubcek.
Radio Caroline
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ualche anno prima che Giorgio Rosa inaugurasse la sua isola sull’Adriatico, al largo delle coste dell’Essex, a sud-est dell’Inghilterra, un gruppo di “pirati” inaugurava a bordo di una vecchia nave danese (la MV Ross Revenge) una delle prime radio libere del mondo: Radio Caroline (sotto, la nave). Quando fu lanciata era il marzo del 1964 e anch’essa si trovava in acque internazionali, dove la legge da osservare era quella del Paese in cui era stata registrata l’imbarcazione. Musica libera. Radio Caroline, che ha ispirato anche il film I Love Radio Rock
(2009), mandava in onda musica 24 ore su 24, contrapponendosi ai seriosi canali della Bbc, a monopolio statale. Il successo fu immediato: a pochi mesi dall’inizio delle trasmissioni raggiunse ben quattro milioni di ascoltatori, perlopiù giovani. Successivamente gli esperimenti di radio pirata si moltiplicarono. In Italia ci furono prima Radio Montecarlo e Radio Capodistria, che trasmettevano all’estero per un pubblico italiano. Ma negli Anni ’70 comparvero molte radio libere, tra cui Radio popolare a Milano, Radio Alice a Bologna e Radio Città futura a Roma. ALAMY STOCK PHOTO
internazionale. E se il Servizio segreto militare sospettò che l’isola potesse essere una base per l’attracco dei sommergibili sovietici, a sinistra, il Partito comunista ventilò l’ipotesi che fosse una manovra destabilizzante di Enver Hoxha, dittatore dell’Albania. Risultato: l’utopia dell’Isola delle Rose aveva le ore contate. Il 24 giugno, a meno di due mesi dall’inaugurazione, la piattaforma fu circondata da polizia e carabinieri: i negozi vennero chiusi e i pochi residenti, tre in tutto, abbandonarono l’isola. Rosa si rivolse direttamente a Saragat per chiederne la restituzione, ma non ebbe alcuna risposta. “Non avevamo risorse, eravamo soli. Quando il Consiglio di Stato diede parere favorevole alla demolizione, non feci ricorso”, affermò tempo dopo la fine dell’avventura. Il 13 febbraio 1969 gli artificieri della Marina militare minarono i piloni con la dinamite e l’isola piano piano si inabissò. E con lei il sogno di Giorgio Rosa che pragmaticamente archiviò il progetto, preferendo lavorare come ingegnere e progettista nel suo studio di Bologna. “Capii definitivamente che in Italia è impossibile essere liberi, far le cose da solo”, dirà qualche anno prima della morte avvenuta a marzo 2017. Il suo esperimento però non è stato dimenticato. E oggi alla Insulo de la rozoj sono dedicati numerosi libri e documentari. • Giuliana Rotondi
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© 2017 - Édition soleil/Peru/Leoni/Lorusso/Negrin/torrents
historica la granDE StorIa narrata DaI CapolavorI a fuMEttI
I MEDICI
Dall’oro alla CroCE chi sono i leggendari Medici di Firenze? tiranni o mecenati, papi o assassini? immergiamoci nella storia attraversando gli anni del rinascimento italiano, sulle orme della famiglia che più ha segnato i destini d’Europa. incontreremo cosimo il Vecchio, Lorenzo il Magnifico e altri straordinari personaggi che, grazie all’arguzia, il fiuto per gli affari e l’eccezionale visione strategica, diventarono i protagonisti di un’epoca.
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EDIzIonE Da CollEzIonE
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PRIMO PIANO Lo scontro tra le due superpotenze dell’antichità: Roma e Cartagine.
GUERRE PUNICHE Elefanti sui monti
Ritratto del cartaginese Annibale e, sullo sfondo, le sue truppe che attraversano le Alpi.
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E SE AVESSE VINTO CARTAGINE?
CHI ERANO I FENICI
ROMA VS CARTAGINE
LO SCONTRO ARMATO
SCIPIONE E ANNIBALE
SARDEGNA RIBELLE
GLI ALLEATI ITALIANI
pag. 32
pag. 34
pag. 38
pag. 44
pag. 52
pag. 56
pag. 60
PRIMO PIANO
264 a.C.
Prima guerra punica
241 a.C.
Perché Romani e Cartaginesi si scontrarono? E come
E SE AVESSE VINTO
CARTAGINE? L
o scontro tra Roma e Cartagine poteva essere evitato? E come sarebbe cambiata la Storia (non solo quella del Mediterraneo) se avessero trionfato i Cartaginesi? A queste e ad altre domande risponde lo storico Giovanni Brizzi, docente di Storia romana all’Università di Bologna e autore di numerosi saggi sui turbolenti rapporti tra Roma e Cartagine. Innanzitutto, che cosa differenziava il mondo romano da quello cartaginese?
A diversificare i due mondi, entrambi contraddistinti da governi oligarchici, era l’impostazione politica. Cartagine restava una polis – simile alle altre cittàStato del Mediterraneo, come Atene o Sparta – la cui cittadinanza era riservata solo a chi ne era originario, mentre la res publica romana guardava oltre, avviando un processo di osmosi destinato a unificare l’intera penisola. La capacità romana di assimilare popoli e Stati, riconosciuta anche dagli avversari, partiva dall’integrazione
politica delle loro classi dirigenti: l’elenco delle famiglie di origine latina, etrusca o campana ammesse in Senato è infatti lunghissimo, senza dimenticare la presenza delle genti italiche. Tale assimilazione, ragione stessa della forza dell’Urbe, era invece apparentemente sconosciuta nello Stato cartaginese, che risultava quindi più debole. Sul piano militare, peraltro, le armate cartaginesi erano composte da forze mercenarie, allontanando i Punici dalla pratica delle armi e rendendoli, secondo le fonti
218 a.C. 202 a.C. Seconda guerra punica
149 a.C. 146 a.C. Terza guerra punica
sarebbe finita se Roma non avesse avuto la meglio? classiche, imbelli e poco coraggiosi. Non bastasse, a Cartagine i comandanti dell’esercito erano guardati con sospetto dall’oligarchia locale, timorosa che diventassero così popolari da aspirare al sommo potere, e la causa prima di questo atteggiamento va forse cercata nella vocazione mercantile dei Cartaginesi. In che modo questo interesse verso il mare e i suoi commerci si riflesse sugli eventi bellici? Cartagine vedeva nella guerra un’attività antieconomica: la sua durata andava quindi ridotta al minimo per non impattare sullo sviluppo commerciale e l’apertura di nuovi mercati. D’altro canto, la vocazione mercantile diede grande impulso alla marina, vero vanto dell’apparato militare. Le flotte puniche erano superiori a tutte le altre per la qualità e l’agilità degli scafi nonché per la
Pace mai
In un quadro dell’800, il console romano Marco Attilio Regolo fatto prigioniero dai Cartaginesi: fu rispedito a Roma per convincerla alla pace, ma disobbedì.
destrezza e l’esperienza delle ciurme. Anche grazie a loro Cartagine diede vita a un autentico imperialismo mercantile, con condizioni di monopolio su molte parti del Mediterraneo Occidentale. Alla lunga, proprio l’abitudine a tenere sempre d’occhio gli affari ne frenò la capacità bellica. L’epocale scontro tra le due potenze poteva essere evitato? I rapporti tra Roma e Cartagine furono a lungo eccellenti, con tanto di accordi politici e commerciali. A rendere ineluttabile lo scontro fu la vicinanza delle reciproche sfere di influenza nel Mediterraneo, causa di inevitabili frizioni. Soprattutto in Sicilia, luogo del primo casus belli, anche se all’inizio c’era in gioco solo il controllo di Messana (Messina), non dell’intero Mediterraneo. Ma tutte le guerre sono evitabili. Sarebbe bastato che nel 264 a.C. l’Urbe avesse rinunciato a intervenire in Sicilia (come era nelle intenzioni del Senato) per evitare la Prima guerra punica, mentre se nel 219 a.C. Annibale avesse meglio compreso la forza romana avrebbe forse rinunciato alla sua impresa, evitando così il secondo conflitto. La Terza guerra punica fu invece dettata da un eccesso di metus, ovvero di “paura” da parte dell’Urbe. L’avanzata di Annibale aveva provocato perdite immani e una generale sfiducia nei confronti degli alleati meridionali, traditori, fino al verificarsi di una sindrome analoga a quella che seguì il tragico evento delle Twin Towers (degenerata nella “guerra preventiva” in Iraq, ndr). In tale contesto, la decisione presa da Cartagine di costruire un porto militare, destinato a ospitare centinaia di navi, fece temere ai Romani un suo riarmo e li indusse nel 149 a.C. a intraprendere un nuovo conflitto, evitabile se solo l’Urbe avesse tenuto a freno i propri timori. Questo duello tra superpotenze può ricordare eventi analoghi nella storia recente, come la sfida tra Usa e Urss all’epoca della Guerra fredda? La similitudine è forzata, ma utile a definire meglio il contesto globale delle
guerre puniche. Al tempo della Guerra fredda, Usa e Urss erano le uniche due vere “superpotenze” in gioco, dotate tra l’altro di armamenti in grado di distruggere il mondo intero. Al tempo di Roma e Cartagine, invece, esistevano almeno altre tre grandi forze teoricamente in grado di sfidare le due rivali d’Occidente: Macedonia, Siria ed Egitto. Per concludere, che corso avrebbe preso la Storia se avessero vinto i Cartaginesi? Innanzitutto va sottolineato che la sola fase storica in cui Cartagine fu vicina alla vittoria si aprì il 2 agosto 216 a.C., quando, presso Canne, si consumò la più spaventosa disfatta della storia romana. Un cataclisma di quella portata avrebbe piegato qualunque realtà che non fosse per l’appunto Roma, che era impossibile da espugnare sorgendo a cavalcioni del Tevere e potendo quindi essere sempre rifornita. Anche per questo Cartagine si mostrò conciliante, cercando dei negoziati. Ma i Romani non erano disposti a trattare. Se invece avessero aperto le porte al nemico e il Senato fosse venuto a patti? Escludendo l’ipotesi d’una distruzione della città, è lecito pensare che l’Urbe sarebbe stata relegata a potenza locale (mentre sarebbe cresciuto il ruolo di Capua, vicina ai Cartaginesi). Nel complesso però i mutamenti sarebbero stati meno traumatici di quanto si possa immaginare. Annibale avrebbe verosimilmente lasciato l’Italia per assumere il controllo della madrepatria, e Roma avrebbe così potuto recuperare i legami con le aristocrazie italiche, ricucendo magari i rapporti anche con la fedifraga Capua. Insomma, avrebbe dovuto sì ricominciare daccapo a tessere la trama che l’aveva portata a controllare l’intera penisola, ma aveva ottime possibilità di successo. Cartagine era invece priva delle strutture materiali e “mentali” di un grande impero, in fondo incapace per vocazione di superare i limiti della • polis. Matteo Liberti 33
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PRIMO PIANO Artigiani, navigatori e scrittori, così i Fenici nell’VIII secolo a.C. dominavano il mare. E fondarono Cartagine.
SCALA (2)
TUTTO INIZIÒ CON I
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FENICI
Le principali rotte commerciali dei Fenici. In marrone, i loro territori.
SCITI CELTI ILLIRI Marsiglia
TRACI
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Nora Mozia
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NUMIDI
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econdo le recenti rivelazioni di un ricercatore italiano, Francesco Tiboni, il tanto declamato cavallo di Troia non sarebbe stata una costruzione in legno dalla forma equina, ma un’imbarcazione di tipo fenicio con una polena a forma di testa di cavallo. Proprio il nome dato a queste imbarcazioni, Hyppos (“cavallo” in greco), fu la causa dell’equivoco che per secoli ci ha fatto pensare alla bizzarra macchina da guerra per espugnare Troia come a
Creta M editer ra neo Siracusa
lorem!
Rodi Cipro
FENICI Biblo Berito(Beirut) Tiro
Sabrath Lebdah (Leptis) Spie tedesche prima della fucilazione in Francia, durante la Prima guerra mondiale.. Nell’altra pagina: un volantino degli alleati che invita i cittadini a non parlare EGIZI perché la “tela” delle spie è ovunque. Il “ragno” è l’imperatore tedesco Guglielmo II.
un animale di legno. Vera o falsa che sia questa interpretazione, una cosa è certa: negli anni in cui i poemi omerici vennero messi per iscritto (VIII o VII secolo a.C.), i Fenici erano all’apice del loro splendore e svolgevano un ruolo strategico all’interno del Mar Mediterraneo. Smerciando beni, esplorando nuovi lidi e fondando città. Inclusa Cartagine, che tanto filo da torcere avrebbe dato sia ai Greci sia ai Romani. Ma quando ha avuto inizio la civiltà fenicia?
L’arte del commercio
In una ricostruzione moderna il trasporto di tronchi di cedro nell’antica città fenicia di Biblo (nell’attuale Libano). Questo legno molto resistente era usato per la costruzione di navi. A destra, una statua del VI secolo a.C. proveniente da Cipro, a lungo colonia fenicia.
MERCATO GLOBALE. L’VIII secolo a.C. fu il loro momento di gloria: mentre i Greci colonizzavano le coste del Sud Italia, i Fenici “puntellavano” le coste del Mediterraneo, istituendo ricchissimi avamposti commerciali. I Greci li chiamavano Phoinikes (“Purpurei”) per i pregiati tessuti, tinti con la porpora, che vendevano a caro prezzo. Navigavano a bordo di minuscole navi, i Fenici percorrevano distanze per quei tempi inimmaginabili: secondo Erodoto superarono addirittura le colonne d’Ercole circumnavigando l’Africa. Di sicuro raggiunsero le coste della Bretagna e della Cornovaglia. Ma anche le Canarie e le Azzorre. Potevano permettersi tratte tanto lunghe perché avevano sviluppato tecniche navali e di navigazione d’avanguardia: si servivano di piccoli e scattanti velieri dotati di equipaggi ridotti, capaci di percorrere in poco tempo grandi distanze, precluse alle pesanti imbarcazioni dell’Età del bronzo. Per orientarsi, siccome la 36
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Padrona del mondo
La ricostruzione di Tiro attorno al IX secolo a.C. Furono i suoi abitanti a fondare Cartagine.
SCALA
LE ORIGINI. Stanziati durante l’Età del ferro nella fascia costiera compresa tra l’odierna Siria, Libano e Israele, i Fenici svilupparono una propria cultura solo a partire dal 1200 a.C. Il loro successo andò di pari passo con la crisi dei grandi imperi – egizio e ittita – sotto i colpi dei cosiddetti Popoli del mare, una confederazione di predoni provenienti probabilmente dall’Europa Meridionale. Più i grandi imperi chinavano la testa, più le città fenicie, nonostante qualche distruzione, la alzavano, svincolandosi dai tributi onerosi che fino a quel momento avevano dovuto versare. Tanta libertà si trasformò in una progressiva fioritura di arti che durò oltre sette secoli: anni di commerci e di esplorazioni, di traffici e colonizzazioni. Dalle coste del Libano a Utica (Tunisia), da Cadice (Spagna) a Malta, dalla Sardegna alla Sicilia.
LEEMAGE/MONDADORI PORTFOLIO
Per i Greci erano i “Purpurei” per i preziosi tessuti color porpora che vendevano
bussola non era ancora stata inventata, i marinai guardavano la cosiddetta "Stella fenicia" (la Stella polare), veleggiando senza difficoltà anche in alto mare. Arrivati a destinazione trattavano, senza troppe remore, il prezzo delle loro mercanzie, potendo mettere nero su bianco i loro contratti commerciali. L’altra straordinaria invenzione, che fece grande la cultura fenicia, fu infatti la scrittura alfabetica: oltre a favorire gli scambi, democratizzò la scrittura, togliendola dalle mani di pochi scribi e rendendola
accessibile a cerchie molto più ampie di popolazione, mercanti in primis.
ALTA MODA. I beni da vendere erano di ogni genere: dai manufatti in avorio, agli abiti pregiati (e costosissimi) provenienti da atelier fenici, alle ceramiche raffinatissime, agli oggetti in vetro soffiato (i Fenici furono tra i primi a scoprire come lavorarlo). Il tutto era venduto per cifre astronomiche. Come spiega lo storico Michael Sommer, per una buona ragione: le stoffe tinte di porpora
L’abc fenicio
Non solo navigatori
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A sinistra, il bassorilievo di una nave commerciale fenicia del IV secolo a.C. Sotto, una figurina in pasta di vetro. I Fenici furono tra i primi a lavorare questo materiale.
ERICH LESSING/CONTRASTO
e oggi scriviamo usando qualche manciata di lettere e non un numero esorbitante di glifi o geroglifici è merito dei Fenici: furono loro a inventare intorno al 1050 a.C. l’alfabeto. Già intorno al 1300 a.C. dalle parti di Ugarit (sulla costa settentrionale della Siria), la scrittura cuneiforme mesopotamica, che comprendeva circa 600 segni, era stata soppiantata da una più snella, basata su 30 segni. Lingua per tutti. Dopo la fine dell’Età del bronzo, i Fenici però la elaborarono ulteriormente e ricavarono un alfabeto composto da 22 consonanti (più le loro varianti, v. schema a destra). Non solo: diffusero anche il nuovo sistema di scrittura ad ampi strati della popolazione per tutto il Mediterraneo. I primi ad adottarlo furono i Greci (che vi aggiunsero le vocali) e poi i Romani: furono questi ultimi a tramandarcelo attraverso la lingua latina.
si ottenevano infatti dal murice, un mollusco ben protetto dalla sua conchiglia, e richiedevano una lunga lavorazione. «Per realizzare 60 grammi di colorante era necessario un chilo di secrezione di murice, e per produrre quest’ultima si dovevano faticosamente prendere vivi con le nasse centinaia di esemplari che occorreva poi aprire a mano per asportarne le ghiandole; queste venivano poi pressate mediante torchi. Il liquido veniva portato a ebollizione in caldaie metalliche e cotto finché non si trasformava in una massa vischiosa (e decisamente puzzolente) che era il colorante vero e proprio. Con 60 grammi di colorante si tingevano 300 grammi di lana».
LUOGO DI PERDIZIONE. A partire dal IX secolo a.C. a farla da padrona era Tiro. Questo centro per tutto il I millennio a.C. fornì oro
all’intero bacino del Mediterraneo, mettendo anche a disposizione lavoratori qualificati. Da qui passavano merci di ogni tipo: partivano carichi del famoso legno dei cedri del Libano (il migliore per costruire imbarcazioni) ma anche carichi di lino e ricami d’Egitto, tappeti provenienti dalla Mesopotamia, selle di cuoio e pecore d’Arabia, avorio, scimmie e pavoni d’importazione africana. E ancora aromi e pietre preziose orientali, schiavi e bronzi provenienti dalle rive del Mar Nero, vino e lacca di Siria, cavalli e muli d’Armenia, grano, miele, olio e profumi della Giudea, ferro, piombo, stagno e argento della Spagna, argento e zinco dalla Sardegna e molto altro. «L’Antico Testamento nomina spesso Tiro», aggiunge Michael Sommer. «La città compare sempre nella stessa luce, come simbolo di ricchezze favolose, luogo di tentazione e di seduzione. Per gli Israeliti, Tiro era un modello ammirato e un simbolo avversato con la stessa ambivalenza incarnata per molti oggi dagli Stati Uniti, la maggiore potenza economica dei nostri giorni». Fu proprio Tiro a fondare la colonia che procurò più grattacapi ai Romani: Cartagine (nei pressi dell’odierna
Tunisi). In brevissimo tempo divenne una delle città più ricche e potenti del mondo antico. Trasformandosi in una spina nel fianco sia per i Romani, che volevano sconfiggerla per aprirsi ai traffici nel Mediterraneo, sia per i Greci che anni prima si erano scontrati con Cartagine per il controllo della Sicilia.
CATTIVA STAMPA. Non è difficile allora capire come mai i Fenici non godettero mai di “buona stampa”, né tra gli autori dell’Antico Testamento, né tra Greci e Romani: nessuno vedeva di buon occhio il loro piglio commerciale e la loro capacità di mantenere il controllo dei mari. Non a caso la guerra contro Cartagine diventò il prototipo di “guerra giusta” contro un popolo feroce, sleale e culturalmente inferiore. Negli anni in cui si gettava fango sui Cartaginesi, la cultura fenicia però era ormai in declino. La sua crisi era iniziata con l’occupazione di Tiro da parte di Alessandro Magno nel 332 a.C. I “Purpurei” dopo quell'invasione sopravvissero ancora per alcuni secoli nel costume e nella lingua, ma ormai la loro stella era sul viale del tramonto. • Giuliana Rotondi 37
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SCALA (2)
PRIMO PIANO
Una maschera di volto maschile del V secolo a.C. proveniente da Cartagine.
Colloquio intimo
L’incontro tra Enea e Didone in un quadro ottocentesco. Secondo la leggenda, la principessa fenicia, nell’814 a.C., fondò Cartagine, dove in seguito avrebbe trovato rifugio il troiano Enea, la cui stirpe gettò le fondamenta di Roma.
Le origini, la politica, la religione e, infine, le guerre: diversità e analogie tra Cartagine e Roma.
DUE MONDI A CONFRONTO
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e separava un braccio di mare e neppure mezzo secolo d’età: Cartagine e Roma, così vicine eppure così lontane. Due civiltà, la prima orientale, fondata dai Fenici e fortemente legata al mare; la seconda occidentale, composta da genti autoctone del Lazio antico e ancorata alla terra. Amiche prima, acerrime nemiche poi, entrambe estremamente ambiziose: inconciliabili nelle loro differenze o solo troppo simili per andare d’accordo? «Nascevano da storie diverse e avevano credenze differenti, ma in fondo Romani e Cartaginesi non erano così dissimili», sostiene Sandro Filippo Bondì, docente di Archeologia fenicio-punica all’Università di 39
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Per gli storici antichi quello tra Roma e Cartagine fu uno scontro di civiltà Viterbo. «Gli antichi autori classici amavano descrivere le guerre puniche come uno scontro fra due civiltà: quella romana, considerata superiore sotto ogni aspetto, e quella cartaginese, vista come propaggine occidentale delle civiltà d’Oriente, ritenute “barbare”. Ma è solo un luogo comune, tramandato spesso dai vincitori nella storia mediterranea del I millennio a.C.».
CITTÀ NUOVE. Alla fine del VI secolo a.C., all’epoca del loro primo trattato di alleanza (v. riquadro nelle pagine successive), Roma, ancora chiusa entro i confini della Penisola, cercava di difendere la propria posizione di maggior centro latino dagli agguerriti italici, mentre Cartagine si batteva contro i Greci che minacciavano il suo monopolio commerciale sul Mediterraneo. Regina dei mari: questo era il ruolo che la principessa fenicia Elissa immaginò per la propria città, quando, secondo la leggenda, la fondò nell’814 a.C., su un promontorio proteso nell’odierno Golfo di Tunisi. La chiamò Kart-Hadasht (Carthago per i Latini), cioè “città nuova”, mentre gli indigeni ribattezzarono lei Didone, “l’errante”: per arrivare fin lì, la donna aveva infatti navigato a lungo verso occidente, in fuga dalla città fenicia di Tiro (odierna Sur, sulla costa del Libano), dopo che il re Pigmalione, suo fratello, l’aveva resa vedova. Il suo destino si sarebbe incrociato con quello di Roma quando l’esule troiano Enea approdò a Cartagine. I due si piacquero parecchio, ma, racconta il poeta latino Virgilio, tra l’amore e il senso del dovere, Enea scelse il secondo: abbandonò Didone e compì il suo destino, dando origine nel Lazio a un’illustre discendenza, da suo figlio Ascanio fino ai due famosi gemelli allattati dalla lupa, Romolo e Remo. Merito del primo aver tracciato il solco sacro delle mura di Roma: quel villaggetto di capanne sorto nei pressi del Tevere il 21 aprile del 753 a.C. 40
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Fondazione mitica In un affresco del ’600, Romolo traccia con l’aratro i confini di Roma. Era il 21 aprile del 753 a.C. e iniziava il mito della Città eterna.
si sarebbe sviluppato rapidamente, proprio come Cartagine, grazie alla posizione favorevole e alla capacità di imporsi sui vicini.
RICCHI E POVERI. Entrambe, nel III secolo a.C., erano ormai due affollate metropoli dell’antichità: ma, mentre Roma era cresciuta sulla terra, puntando più che altro alle attività agricole, fu il feeling con il mare a rendere Cartagine potente e temibile. Grazie alla propria flotta, nonostante la concorrenza di Etruschi e Greci, la Città Nuova africana diventò la capitale di un vasto impero commerciale, formato da città alleate e colonie, molte di origine fenicia, sparse su buona parte delle coste e delle isole lambite dal Mar Mediterraneo oltre che dall’Atlantico. Quando un romano pensava a un tipico cartaginese, se lo immaginava su una nave rapida e leggera, con l’alito che sapeva dell’aglio di cui i suoi connazionali andavano ghiotti e
il piercing ad anello al naso. A detta degli antichi, navigando in lungo e in largo con l’aiuto delle stelle, questi abili mercanti, degni discendenti dei Fenici, avevano reso Cartagine una delle città più ricche del mondo. L’opulenza del grande centro mercantile africano strideva con la severità e i costumi frugali della futura nemica italica. Gli sfarzi degli imperatori erano ancora di là da venire e i Cartaginesi, di ritorno da un’ambasciata, si divertirono a raccontare della meravigliosa intesa che regnava tra i senatori romani: i nobili dell’Urbe condividevano infatti lo stesso vasellame d’argento e se l’erano passato, di casa in casa, ogni volta che li avevano invitati a pranzo. Quando si trattava di eserciti, però, i Cartaginesi avevano poco da ridere: cresciuti a pane e battaglie, dopo una gavetta di 400 anni di conflitti con le popolazioni circostanti, i Romani si erano specializzati nell’arte della guerra.
Tiro, “madrepatria” dei Cartaginesi
I
l profeta ebreo Ezechiele (VI secolo a.C.) la definì una “nave di perfetta bellezza, che estende i suoi domini nel cuore dei mari”. Sul mare e sulle sue navi, infatti, Tiro, uno dei centri fenici più antichi e importanti della costa libanese, fondò la sua ricchezza: costruita su due isolette prospicienti la costa, unite nel X secolo a.C., la città prosperò grazie al commercio su lunghe distanze, reso possibile dalla fondazione di scali e colonie (come Cartagine) lungo le rotte mediterranee, sia a Oriente sia a Occidente. Fu il centro
economico di un mercato compreso tra la Mesopotamia e l’Atlantico, ma, dopo l’apogeo dell’VIII secolo a.C., andò in crisi per discordie interne e per la minacciosa presenza degli Assiri. Assediata. Tiro fu in seguito costretta a fronteggiare il re babilonese Nabucodonosor (573 a.C.) e i Persiani (538 a.C.). Ma a farla capitolare fu Alessandro Magno: il conquistatore macedone espugnò l’isola nel 332 a.C., dopo mesi di assedio, collegandola alla terraferma con un terrapieno.
Com’era
ABBASSO LE ARMI. Il loro potere stava tutto nella forza delle legioni, composte, in epoca repubblicana, quasi esclusivamente da cittadini ben addestrati, oltre che dagli ausiliari forniti dalle popolazioni sottomesse. E i Cartaginesi? Alle battaglie preferivano la diplomazia. «L’attività militare tanto enfatizzata dalle fonti classiche fu un tratto tutt’altro che preminente nella civiltà cartaginese. La capitale punica controllava il Mediterraneo soprattutto con finalità commerciali e grazie alla sua flotta, ma non si era espansa grazie all’esercito», spiega Bondì. «L’esercizio bellico non era una sua priorità: per questo non si preoccupò mai troppo di organizzare una leva tra i suoi cittadini». A prendere le armi per loro, ci pensavano i mercenari e i soldati provenienti dai territori controllati. La richiesta di uomini per la guerra era uno dei must dell’amministrazione dell’impero punico. Insieme alle forti limitazioni nella libertà di commerciare
e alle tasse, esose al punto da permettere ai cittadini cartaginesi di esserne esonerati. Anche Roma pretendeva dalle confederate lealtà e truppe, ma in cambio concedeva loro parte dei frutti delle vittorie. Insomma: per quanto possibile, cercò di includere nel suo sistema di potere parte delle popolazioni sottomesse, mentre Cartagine trattò i popoli assoggettati come sudditi. «Questa fu una delle ragioni della sua disfatta, quando venne in conflitto con Roma: mancava al mondo punico il senso di una coesione interna, sicché, nel momento decisivo del confronto con i Romani, molte città passarono dalla parte della sua nemica», dice l’esperto. Nonostante ciò, gli antichi ammiravano la metropoli di Didone per la gestione della sua politica interna. La costituzione di Cartagine fu l’unica, tra le non greche, a rientrare nella raccolta di
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SCALA (3)
La città di Tiro “vista” nell’800. In basso, una statuetta (IV secolo a.C.) di Baal Hammon, divinità suprema di Cartagine.
Su sponde opposte
La città di Cartagine con il suo porto in una ricostruzione moderna. In basso, la Dama di Elche ritrovata in Spagna: risale al V secolo a.C. ed è forse di origine cartaginese.
Quella dei sacrifici di bambini vivi gettati nel fuoco dai Cartaginesi è solo una leggenda. Creata per screditarli Aristotele, insieme a quella di Creta, Sparta, Atene e Tebe. Il filosofo greco la catalogò come una “costituzione mista”: era cioè convinto che contenesse i migliori elementi delle costituzioni monarchiche, aristocratiche e democratiche. Ma, in realtà, all’epoca le costituzioni miste rappresentavano più che altro governi oligarchici, retti dall’aristocrazia. Era questo il caso sia di Cartagine sia di Roma: nella città punica c’erano due magistrati supremi (i sufeti), eletti tra i membri delle famiglie più ricche e potenti, e, tra gli altri organi di governo, un Senato composto da 300 membri dell’élite dei proprietari terrieri e dei mercanti; allo stesso modo a Roma governavano due consoli (dotati, però, anche di poteri militari) e il Senato, composto da aristocratici. Ma le corrispondenze finivano qui.
RICCHI E PII. «Nonostante le somiglianze, lo Stato punico era organizzato diversamente da Roma: il governo a Cartagine era l’espressione delle sole classi più abbienti.
Non c’erano, per esempio, tribuni e nessuna divisione della popolazione in tribù con alcuni poteri deliberanti, come avveniva invece nell’Urbe», precisa Bondì. Persino i sacerdoti venivano scelti fra i ricchi: costituivano un ordine potente e numeroso, regolato da una rigida gerarchia dominata dal sommo sacerdote, una specie di pontifex maximus romano, che controllava l’intera attività religiosa della città. «La religione cartaginese era di matrice fenicia. Il pantheon era assai simile a quello di Tiro e degli altri centri della madrepatria orientale, ma, al pari di quella romana, la religione punica si aprì anche all’accettazione di divinità “d’importazione”: come quando accolse il culto di Demetra e Kore», prosegue l’esperto. Cartagine abbracciò le due divinità venerate nella Sicilia greca per espiare il sacrilego saccheggio del loro santuario, compiuto nel 396 a.C. dalle truppe del generale Imilcone, durante l’assedio di Siracusa. Non c’era da stupirsi: i Cartaginesi erano noti nell’antichità per il loro intenso sentimento religioso. Nel V secolo a.C., le star del loro pantheon erano due: Baal Hammon, signore della
Quando ancora si facevano accordi
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ol cuore spezzato dalla partenza di Enea, si dice che prima di suicidarsi Didone gli scagliò addosso una maledizione: “Non vi sia mai fra i due popoli né amicizia né alleanza. […] Essi e i posteri abbiano guerra!”. In realtà l’anatema funzionò solo in parte: prima delle Guerre puniche, per più di due secoli Roma e Cartagine ebbero intensi rapporti diplomatici, sanciti da ben quattro trattati. Il motivo? Nessuna delle due aveva interesse a contrastare l’altra: Roma era impegnata a conquistare l’egemonia nella Penisola, Cartagine, invece, a combattere i Greci per mantenere il monopolio sul Mar Mediterraneo. La reciproca tolleranza si estinse con l’espansione di Roma: ignorarsi era diventato impossibile. Lo dimostrano i loro ultimi 4 accordi: labili tregue fra una guerra e l’altra.
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(509 a.C.) Siglato, pare, per volere di Cartagine, definì le rispettive aree di influenza: a Roma l’egemonia sul Lazio, a Cartagine quella sul Mediterraneo.
II
(348 a.C.) Stabilì l’intoccabilità delle rispettive alleate e accentuò i limiti alla navigazione per Roma. Che però ottenne l’appoggio navale di Cartagine.
III Vista mare
Si assiste a una parata di navi in un quadro dell’800. Roma cominciava a guardare allo sviluppo marittimo.
città, e la sua compagna Tanit, dea della fertilità. I Greci riconobbero in Baal il crudele titano Crono, una divinità molto antica, famosa per aver divorato i propri figli, che, cacciata dalla Grecia, si sarebbe rifugiata nel Lazio con il nome di Saturno. Ma perché una similitudine del genere? La spiegazione starebbe nella “leggenda nera”, ormai da molti storici considerata una fantasia, sui sacrifici di bambini.
VERSO LA FINE. Gli antichi ricordavano la crudeltà dei Cartaginesi che, durante particolari riti, avrebbero gettato nel fuoco giovanissime vittime strappate alle famiglie nobili come offerta agli dèi. Oggi, però, si è più propensi a credere che tra le braccia
di Tanit e Baal ci finissero i bambini morti alla nascita o per cause naturali. In quei casi, a nulla era servito pregare Eshmun: questo dio, che i Romani chiamavano Esculapio, si occupava della salute e della guarigione dei devoti. A lui, i Cartaginesi dedicarono il tempio più bello della città, sull’acropoli. E proprio lì, nel 146 a.C., si arroccarono per un’ultima inutile resistenza contro le truppe di Scipione Emiliano: dopo quasi sette secoli di vita, Cartagine, con la sua storia e le sue biblioteche, morì tra le fiamme. Narra Polibio che allora Scipione pianse: in quello spettacolo aveva visto, ultima analogia con la storica rivale, la • possibile fine di Roma. Maria Leonarda Leone
(306 a.C.) Roma accettò di non intervenire in Sicilia per aiutare Siracusa e Cartagine fece altrettanto nella penisola italica, con i nemici di Roma.
IV
(279-278 a.C.) Fu un’alleanza contro Pirro, il re dell’Epiro (tra le odierne Albania e Grecia), chiamato in Italia dalla colonia greca di Taranto.
V
(241 a.C.) Chiuse la Prima guerra punica: Cartagine, sconfitta, mantenne l’indipendenza, ma fu costretta a ritirarsi dalla Sicilia.
VI
(237 a.C.) Sancì l’annessione romana di Corsica e Sardegna, avvenuta senza colpo ferire, mentre Cartagine cercava di domare una rivolta dei mercenari.
VII
(226 a.C.) Stretto tra i Romani e il generale cartaginese Asdrubale, pose sul fiume Ebro il limite dell’espansione punica in Spagna.
VIII
(201 a.C.) Segnò la fine della Seconda guerra punica. Cartagine perse per sempre la Spagna e fu ridotta a cliente di Roma. 43
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PRIMO PIANO
DUELLO STANLEY MELTZOFF/NATIONAL GEOGRA
Come ha fatto una potenza di terra qual era Roma a
IN MARE
battere la più grande forza navale del Mediterraneo?
Asso nella manica
Una nave romana getta il suo “corvo” contro una nave cartaginese: con questo ponte girevole, inventato dai Romani durante la Prima guerra punica, si arpionavano le navi nemiche. 45
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Inarrestabili
RMN/ALINARI
In un quadro dell’800 l’assedio di Agrigento del 210 a.C.: la città diventa romana. In basso, corazza punica in bronzo del III secolo a.C.
Per ampliare la propria flotta, Roma copiò una quinqueremi cartaginese catturata e ne costruì cento
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LESSING/CONTRASTO
oma-Cartagine 3-0. Questo il risultato finale delle Guerre puniche, il più grande, epico conflitto che Roma abbia mai combattuto. E la lotta ultrasecolare tra Romani e Cartaginesi nell’arco di tre round è una delle sfide chiave della Storia, come quelle precedenti tra Grecia e Macedonia, Sparta e Atene, Macedonia e Persia. La posta in palio? Il dominio sul bacino mediterraneo. A guadagnarselo ci aveva provato anche Pirro, il re epirota che, nel 281 a.C., aveva tentato l’avventura nella Penisola solo per raccogliere sterili vittorie. Lui l’aveva detto, dopo aver terminato la sua inefficace campagna siciliana: “Quale campo di battaglia per Romani e Cartaginesi lascio dietro di me!”. E le ostilità, infatti, si sarebbero
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aperte appena un quindicennio dopo. Cartagine aveva sviluppato un potere essenzialmente marittimo e al contrario di Roma, la cui espansione era in ascesa, era una potenza consolidata. La Storia sarebbe potuta andare diversamente se l’Urbe avesse conservato la sua vocazione terrestre e Cartagine quella marittima ma, una volta entrata in contatto con la Magna Grecia, Roma non poté arrestarsi alla punta dello Stivale: c’era ancora la Sicilia, e l’isola era in gran parte nelle mani dei Punici. Qualcuno, nel 264 a.C., finì per chiamare i Romani: furono i Mamertini, mercenari campani che si erano impadroniti di Messina e che si sentivano minacciati dall’invadenza sia dei Cartaginesi sia del tiranno di Siracusa, Gerone.
TERRENO OSTICO. Roma non valutò alla leggera la proposta di quella soldataglia; in Senato sapevano bene che avrebbero pestato i piedi ai Punici e che il terreno di scontro era a favore degli avversari: l’Urbe era priva di marina e i suoi soldati si sarebbero trovati isolati, una volta sullo scacchiere siculo. Il Senato si mosse pertanto con circospezione, assicurandosi
Ticino 218 a.C. Trebbia 218 a.C. Passo di Perthus
Massilia Trasimeno 217 a.C. CORSICA Aleria
Siviglia
Abyla
Sexi Abdera
Cartagena
Rusaddir
Domini cartaginesi Perdite cartaginesi dopo la Prima guerra punica (241-237 a.C.) Conquiste cartaginesi in Spagna
Hippo Regius
Vittorie cartaginesi Vittorie romane Itinerario di Annibale
Hippo Diarrhytus Utica
Egadi 241 a.C. Mozia
CARTAGINE Clupea Zama 202 a.C.
Susa
Crotone Palermo SICILIA Siracusa
Cossyra
(Pantelleria)
Melita (Malta)
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Leptis Perva
Itinerario di Scipione l’Africano Primo sbarco romano (256 a.C.)
o itorn
di
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Piccola Sirte P. GHISALBERTI
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Malaga
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Tangeri
SARDEGNA
Ibiza
Canne 216 a.C.
Capua
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Cadice
Alicante
ROMA
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Toscanos
Pyrgi
Olbia
BALEARI
Sagunto
Leptis Magna
A.MOLINO
La spedizione di Annibale includeva 15mila cavalli e 37 elefanti.
SUCCESSI DI ROMA l’alleanza di Gerone e limitandosi alla conquista di Agrigento, sperando poi in una risoluzione diplomatica con la spartizione dell’isola. Ma nel 262 a.C. il comandante punico Amilcare Barca recuperò le posizioni perdute. Abbandonare la Sicilia non si poteva più, ma per mantenerla bisognava fare una solida “campagna acquisti”, per rinforzare soprattutto il reparto marittimo. In breve tempo l’Urbe, che disponeva di sole 20 triremi, si dotò di 100 quinqueremi, più veloci e potenti, mutuate da una nave cartaginese catturata. Furono inoltre addestrati 30mila vogatori secondo il metodo descritto da Polibio: “Fatti sedere sui banchi dei rematori disposti in terra gli uomini secondo lo stesso ordine dei sedili sulle navi stesse, e posto in mezzo a loro il capo-voga, li abituavano a inclinarsi all’indietro tutti insieme portando le mani verso di sé e poi a spingersi in
avanti allontanando le mani, e a iniziare e a cessare i movimenti secondo gli ordini del capo-voga”. E se ci sono ancora dubbi sul genio dei Romani, bisogna aggiungere che trovarono anche il modo di dotare le loro navi di un arnese per rendere gli scontri navali più simili a quelli terrestri, dove non avevano rivali: si chiamava “corvo”, ed era un ponte girevole di 11 metri terminante con un uncino, che veniva lanciato sulle tolde delle navi nemiche per arpionarle e favorire l’arrembaggio.
FUORI CASA. Il primo tentativo di affrontare i Cartaginesi sul loro stesso terreno fu però fallimentare. Il console Scipione, cui era stata affidata la flotta, si dovette arrendere a Lipari con 17 navi, meritandosi il soprannome di “Asina”. Ma in seguito il mare regalò a Roma quasi esclusivamente vittorie, da Milazzo nel 260 a.C. fino alle Isole Egadi nel 241 a.C., che pose fine al primo
Milazzo Isole Egadi Siracusa Cartagena Becula Metauro Ilipa Campi Magni Zama Cartagine
260 a.C. 241 213-12 209 209 207 206 203 202 149-46
SUCCESSI CARTAGINESI Bagradas Ticino Trebbia Trasimeno Canne
255 a.C. 218 218 217 216 47
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La battaglia di Zama fu la Waterloo di Annibale e ne sancì la sconfitta definitiva conflitto. Nel mezzo, l’atroce disfatta di Marco Attilio Regolo, che provò a portare la guerra in Africa ma finì sconfitto inaspettatamente proprio sul fronte terrestre, a Bagradas, mentre la flotta veniva distrutta da una tempesta dalla quale si salvarono solo 80 navi su 364. Le ostilità però si erano chiuse alla fine a netto vantaggio dei Romani. Un popolo che, fino ad allora, aveva combattuto solo contro contadini, montanari e pastori aveva vinto un confronto sul mare; e dopo aver perso oltre 700 navi in vent’anni, per giunta. Ma tra due potenze imperialiste confinanti la pace non è mai duratura. E non lo fu neppure per Roma e Cartagine, che nel 219 a.C. erano di nuovo ai ferri corti per le frizioni in Spagna, dove i Punici avevano investito per compensare la perdita delle isole seguita al primo conflitto. Iniziava il secondo match, ovvero la Seconda guerra punica. Tuttavia, forse non ci sarebbe stata battaglia, almeno lì e in quel momento, se non fosse stato per il nuovo “allenatore” cartaginese, il comandante Annibale Barca, il figlio di Amilcare. Fu lui a provocare i Romani, assediando una cittadina, Sagunto, che pur essendo in territorio cartaginese era sotto il protettorato capitolino; e fu ancora lui a rompere la tradizione della sua città, belligerante sul mare, sorprendendo il nemico con una rapida marcia terrestre e valicando dapprima i Pirenei e poi le Alpi, per aggredire l’Urbe direttamente in casa. Le parti si erano invertite.
BRACCIO DI FERRO. In due anni, Roma collezionò una serie di batoste sulla terraferma, dal Ticino alla Trebbia, dal Trasimeno a Canne: le sue peggiori di sempre. Quelle disfatte costarono all’Urbe e alla confederazione che guidava oltre 100mila uomini. Ma un altro dei segreti di Roma era la grande 48
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I Romani vincono alle Egadi... 10 marzo 241 a.C.
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a Prima guerra punica fu decisa da una battaglia navale al largo della Sicilia. Una flotta punica di 250 navi al comando di Annone aveva raggiunto Marettimo, nelle Isole Egadi, con scorte di grano destinate all’esercito di Amilcare Barca impegnato a Erice. Ma la flotta romana di Lutazio Catulo,
forte di 200 navi, anticipò l’avversario raggiungendo Favignana, la più orientale delle Egadi: si dispose su un’unica fila e sbarrò la strada al nemico, che fu costretto a combattere. La battaglia fu a senso unico: gli uomini migliori tra i Cartaginesi erano con Amilcare. Cartagine perse la metà delle navi, tra cui 70 catturate con tutti gli equipaggi, mentre i morti furono migliaia, i prigionieri da 10mila a 32mila. Annone si salvò fuggendo, ma poi fu crocifisso per incompetenza dai suoi connazionali. Era nato il potere della Repubblica sul mare.
La trappola di Annibale a Canne 10 marzo 241 a.C. A cura di Anita Rubini
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due consoli romani, Emilio Paolo e Terenzio Varrone, credono di avere vita facile contro un nemico numericamente inferiore (84mila contro 50mila) e attaccano. Annibale, allora, schiera il suo esercito mettendo la fanteria, schierata a mezzaluna, con la cavalleria ai lati. I tiratori punici e i numidi privano la fanteria avversaria della protezione della cavalleria sui fianchi: i legionari sono costretti ad avanzare
sempre più in profondità da un intenzionale arretramento della fanteria cartaginese, che poi si chiude progressivamente sui loro fianchi ormai scoperti. Attacco mortale. Convinti di aver sfondato, i Romani non si rendono conto, se non troppo tardi, di essere circondati e perdono, oltre al console Emilio Paolo, dai 45 ai 70mila uomini, oltre a 10mila prigionieri, contro i 6mila caduti cartaginesi.
Forze in campo
L’esercito di Annibale, in netta inferiorità numerica, era “multinazionale”: era composto da Celtiberi provenienti dalla Penisola iberica (1), Balearici dalle Baleari (2), Cartaginesi (3), Galli (4), Libici fenici (5) e Numidi (6).
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ltimo atto della Seconda guerra punica fu la resa dei conti tra Publio Cornelio Scipione, alla testa di 45mila uomini, e Annibale (50mila). Quest’ultimo poteva contare sugli elefanti (a destra), anche se la loro carica fu vanificata dai Romani, che schierarono i propri manipoli in colonna, in modo da creare dei corridoi nei quali finirono i pachidermi. Fu il caos. Contemporaneamente Scipione
Fischio d’inizio Esercito cartaginese Esercito romano
Avvolgente
L’idea di Annibale era di creare un blocco “elastico” di fanterie che flettesse assorbendo l’urto del nemico e arretrasse senza spezzarsi ma invischiando le legioni romane. L’avvolgimento del nemico doveva essere completato dalla cavalleria.
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Lo scontro tra l’esercito di Annibale e quello romano iniziò la mattina del 2 agosto del 216 a.C. in prossimità della città di Canne, in Puglia.
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Annibale schiera a mezzaluna i soldati celtici e iberici, coperti dalle truppe leggere puniche. La cavalleria è più indietro. All’inizio la fanteria pesante e le legioni romane fanno flettere la mezzaluna.
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Le legioni respingono la fanteria celtiberica finché la linea flette in senso opposto. Lungo il fiume, la cavalleria celtiberica si apre però un varco: le legioni si trovano la fanteria pesante libica sui fianchi e sono circondate.
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Canne fu la più grande sconfitta della storia di Roma e la più grande vittoria di Annibale.
Le legioni romane furono circondate dalle falangi nemiche e infine attaccate alle spalle dalla cavalleria.
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I Romani furono così compressi da non poter nemmeno usare le armi.
Annibale perse “solo” 6mila uomini, 10 volte meno dei Romani. Morì lo stesso console Emilio Paolo.
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travolse la cavalleria privando così di copertura i fianchi della fanteria nemica. Iniziò un logorante corpo a corpo tra le prime due schiere di fanteria dei due eserciti. Alla fine la terza schiera romana avanzò e ne seguì l’accerchiamento dell’ultimo baluardo punico, i veterani delle guerre italiche. Infine, la cavalleria romana e numida di Scipione completò l’accerchiamento attaccando i Cartaginesi. Per Annibale e i suoi fu un’ecatombe (oltre 20mila i morti) e l’inizio del declino di Cartagine, costretta a chiedere la pace.
LEEMAGE/MONDADORI PORTFOLIO
... e a Zama 18 ottobre 202 a.C.
A Zama nel 202 a.C. la carica degli elefanti cartaginesi fu respinta dai Romani che terrorizzarono gli animali con grida e trombe. Nella pagina accanto, in alto, la cavalleria romana parte all’assalto e, in basso, l’assedio finale di Cartagine nel 146 a.C. in un quadro ottocentesco.
G. RAVA (2)
All’ultimo sangue
LA QUARTA “PARTITELLA”
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i fu anche una quasi ignorata guerra-lampo, che ebbe come teatro i mari tra Sardegna e Corsica. Nel 241 a.C. Cartagine era padrona delle due isole, ma dovette
fronteggiare le rivolte dei suoi mercenari in Africa, fomentate dai Romani. Attacco a sorpresa. Roma, approfittandone, inviò nel 238 a.C. alcune legioni a
invadere Corsica e Sardegna. I Cartaginesi furono colti di sorpresa e cedettero quasi subito, perdendo il controllo delle isole, che nel 227 a.C. divennero province romane.
I riottosi isolani ottennero l’aiuto segreto di Cartagine, ma con la Seconda guerra punica (218-202 a.C.), e poi con la Terza, fu sancito il controllo romano. (a. r.)
Cartagine fu assediata per due anni: cedette nel 146 a.C. tolleranza con cui trattava i suoi alleati, i cosiddetti socii italici: Annibale, che contava di isolare Roma facendo passare dalla sua parte gli alleati dell’Urbe a suon di successi, dovette accorgersi che ben pochi si sognavano di cambiare casacca. La sua imbattibilità, quindi, servì solo a esaltare la tenacia dei Romani e dei loro condottieri. Fu la strategia di Scipione l’Africano a costringere Annibale, dopo 16 anni di sterili vittorie in Italia, a sgombrare il campo per tornare a difendere la propria patria, e a portare a una delle battaglie epocali della Storia. A Zama nel 202 a.C si misuravano due dei più grandi generali mai esistiti. La spuntò il più giovane, che batté il più anziano con la stessa tattica (la cavalleria attaccava la fanteria sui fianchi dopo averla privata della copertura dei cavalieri) con cui Annibale aveva inflitto tante sconfitte ai Romani.
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ASFALTATA. Era la fine? Niente affatto: c’era ancora spazio per un “tempo supplementare”, oltre mezzo secolo dopo. Nonostante Cartagine fosse stata ridotta a poco più di una cittàStato, faceva ancora paura e in Senato c’era chi, come Catone il Censore, iniziava ogni intervento, su qualunque questione, pronunciando la celebre frase: “Carthago delenda est”. Eppure, Roma impiegò un triennio, tra il 149 e il 146 a.C., per avere ragione delle sue difese; al drammatico assedio risolto da Scipione Emiliano seguì l’ordine del Senato di distruggere la città fino alle fondamenta e di spargere il sale sul terreno perché non crescesse più nulla. • Andrea Frediani 51
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PRIMO PIANO I due protagonisti delle Guerre puniche e gli altri uomini che si sono sfidati per oltre un secolo.
ETERNI RIVALI Publio Cornelio Scipione (236-183 a.C.)
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etto “Africano” per la vittoria su Annibale, Publio Cornelio Scipione era figlio e nipote di consoli che avevano combattuto ed erano stati sconfitti dal cartaginese. Tra i due quindi c’era un conto aperto. Giovane ufficiale, Scipione prese parte alla tragica disfatta di Canne (216 a.C.) e fu tra i pochissimi che riuscirono a “ricostruirsi una carriera”. Tre anni dopo, prima dell’età minima prevista, fu eletto magistrato edile a furor di popolo. Nel 211 il padre e lo zio di Scipione furono sconfitti e uccisi dai Cartaginesi in Spagna, dove avevano portato la guerra. Publio fu quindi nominato comandante generale per l’Iberia, dove non solo risollevò una situazione disperata, ma sottomise quasi l’intera penisola. Clemente. La sua prima impresa fu la più audace: conquistò Nova Carthago, capitale punica nella penisola iberica, e si impadronì dei suoi immensi magazzini. Nell’occasione Scipione manifestò anche quella clemenza che diventò il suo tratto distintivo. In Spagna Scipione perfezionò le manovre di aggiramento imparate proprio da Annibale. Conquistata la Spagna (206 a.C.), Scipione tornò a Roma dove fu eletto console e gli fu affidata la Sicilia. Da qui organizzò lo sbarco in Africa, contro il parere del Senato. L’operazione fu un successo e Annibale dovette rientrare dall’Italia. Il confronto fra i due giganti avvenne a Zama, dove l’allievo romano superò il maestro cartaginese e pose fine alla guerra. Scipione continuò però la sua carriera politica e morì a Literno, in Campania, dove si era rifugiato amareggiato dopo un’accusa riguardo a un bottino di guerra, ritenuta ingiusta.
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Scipione e Annibale, generali abilissimi e arditi strateghi, combatterono su fronti opposti, anche copiandosi le tattiche. Ecco chi erano e come si affrontarono. A cura di Aldo Bacci
Annibale Barca (247-183 a.C.)
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l generale Amilcare crebbe il figlio Annibale insegnandogli le arti militari e inculcandogli un feroce odio antiromano. Da giovane, Annibale partecipò alle conquiste cartaginesi in Spagna agli ordini prima del padre e poi del cognato, alla cui morte nel 221 a.C. fu acclamato comandante dall’esercito punico. Due anni dopo pose l’assedio alla città di Sagunto, alleata di Roma. Quando scoppiò il conflitto contro la nemica giurata, Annibale ideò l’ardito piano di raggiungere l’Italia via terra attraverso Pirenei e Alpi. Superando ostacoli logistici, politici e militari, portò in Italia un esercito di 50mila fanti e cavalieri e 37 elefanti. Il generale punico era convinto che le comunità italiche si sarebbero affiancate a lui insorgendo contro Roma: lo fecero i Galli del Nord Italia e alcune città del Meridione, ma nel complesso l’assetto statale romano resse. Roma era pronta a contrattaccare, persino dopo Canne (216 a.C.), capolavoro tattico. Senza vie d’uscita. Il cartaginese, incapace di sfruttare lo slancio di Canne, rimase impantanato in Italia Meridionale per più di 10 anni, in attesa di rinforzi che non arrivarono mai. Nel 203 a.C. fu richiamato a Cartagine per difenderla dall’attacco delle legioni di Scipione: a Zama , avvenne la sua sconfitta definitiva, che però non troncò la sua carriera politica. Annibale per un periodo amministrò la sua città con acume, poi nel 195 a.C. fu esiliato e si rifugiò dal re seleucide Antioco III, anche lui in guerra contro Roma. Quando i Romani ebbero la meglio contro Antioco (189 a.C.), Annibale chiese ospitalità al re di Bitinia, nell’attuale Turchia. Braccato dai Romani, scelse di suicidarsi nel 183 a.C.
GLI ALTRI PROTAGONISTI Hanno combattutto (e si sono distinti) dalla parte dei Romani (in rosso) o dei Cartaginesi (in verde). O sui due fronti...
Gaio Duilio
C
onsole nel 260 a.C., pur non essendo di famiglia aristocratica esercitò il comando all’inizio del conflitto fra Roma e Cartagine. Fu lui a far costruire la flotta romana e fu sempre lui ad avere l’idea di attrezzare le navi con i “corvi”, ponti mobili per arpionare e stabilizzare i vascelli nemici, annullando i vantaggi dei più abili marinai cartaginesi e favorendo i più forti fanti romani. A Milazzo fu il primo romano a vincere una battaglia navale.
Marco Attilio Regolo
D
urante la guerra con Cartagine fu eletto console per la seconda volta (256 a.C.) e guidò l’esercito romano: arrivò a un passo dal far capitolare la città nemica, ma i Cartaginesi si ripresero e sconfissero Regolo. Il romano fu fatto prigioniero e, secondo la leggenda, mandato a Roma per convincerla alla pace. Regolo consigliò invece al Senato di continuare la guerra. Compiuta la missione, tornò prigioniero a Cartagine, dove i Punici, stando alla versione romana della storia, lo uccisero facendolo rotolare in una botte imbottita di chiodi.
Archimede
M
atematico, fisico e inventore, Archimede fu protetto dal tiranno di Siracusa, Gerone II, che ricambiò costruendo per lui e per la città macchine per l’epoca rivoluzionarie: da una gigantesca nave regalata al faraone d’Egitto ai macchinari bellici che contribuirono a difendere Siracusa, specie durante l’assedio romano del 212 a.C. Fra questi, gli specchi ustori, uncini per afferrare le navi e gigantesche catapulte. Ma dopo la caduta della città fu ucciso da un soldato.
Massinissa
S
ovrano berbero di Numidia, si alleò prima con Cartagine contro Roma ma poi passò dall’altra parte, contribuendo alla sconfitta di Annibale a Zama. In seguito approfittò della debolezza di Cartagine per estendere il suo regno. Finì per provocare la Terza guerra punica, durante la quale morì, prima che Roma imponesse la propria presenza in Africa.
Amilcare Barca
I
Quinto Fabio Massimo
l padre di Annibale si era guadagnato il soprannome di Barak (“fulmine”) per la sua abilità militare. Nel 247 a.C., in un momento critico della Prima guerra punica, gli fu affidato il comando delle forze cartaginesi in Sicilia. Sull’isola Amilcare non subì mai sconfitte, tanto che i Romani gli concessero l’onore delle armi. Abile tattico, fu anche astuto stratega, e fu lui a propugnare l’espansione di Cartagine in Spagna in funzione anti-romana. Allevò i tre figli “per la rovina di Roma”, e fece giurare ad Annibale “odio eterno per Roma”.
C
onsole per 5 volte, fu nominato dittatore nel 217 a.C. e decise di contenere Annibale, logorandolo e temporeggiando, e guadagnandosi il poco onorevole soprannome di cunctator (“temporeggiatore”). La Storia però gli diede ragione: salvò da fine certa il troppo impetuoso collega Minucio Rufo, ma quando, scaduto il suo incarico, i consoli scelsero di attaccare Annibale, si arrivò alla débâcle di Canne. Contrario alla spedizione di Scipione in Africa, morì prima del trionfo di Zama.
Publio Cornelio Scipione Emiliano
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u lui a vincere la Terza guerra punica distruggendo Cartagine (146 a.C.). In seguito rafforzò il dominio romano sulla Spagna attaccando la città iberica di Numanzia (133 a.C.). Fu poi protagonista della politica romana ma si mise di traverso alle riforme popolari di Tiberio Gracco. Scomparve improvvisamente con una morte considerata misteriosa fin dall’antichità.
Gerone II
Gaio Terenzio Varrone
F
C
u tiranno di Siracusa dal 270 al 215 a.C. Quando i Romani occuparono Messina per difenderla dai Cartaginesi, Gerone intervenne contro Roma, e fu sconfitto. Si alleò allora con gli stessi Romani, e divenne il signore della Sicilia Sud-orientale. Fu solo dopo la sua morte che Siracusa ruppe il patto con i Romani, pagando la scelta con il sacco perpetrato da Marcello nel 212 a.C.
ontestò la tattica prudente di Quinto Fabio Massimo e nel 216 a.C. fu eletto console. Per gli storici antichi fu sua la responsabilità della sconfitta disastrosa di Canne. Sopravvissuto, a Roma si decise di non metterlo sotto accusa, ma di lodarlo per non aver abbandonato la speranza. 55
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PRIMO PIANO
SARDO Nel 215 a.C. Ampsicora guidò la Sardegna
Irriducibili
Il principe sardo Ampsicora che guidò la rivolta contro Roma: l’aumentata pressione fiscale aveva scatenato il malcontento degli isolani.
INTEGRATI. Provenienti dalle terre dell’odierno Libano, i primi mercanti fenici giunsero in Sardegna attorno al IX secolo a.C. e continuarono nei decenni a colonizzarne le coste attirati dalla posizione strategica dell’isola, nel cuore del Mediterraneo Occidentale.
INTROMISSIONE ROMANA. La secolare presenza fenicio-cartaginese in Sardegna terminò nel 238 a.C., dopo la fine della Prima guerra punica, quando l’isola fu conquistata dalle forze di Roma. L’anno successivo, dopo che l’Urbe ebbe strappato ai Cartaginesi
GIORGIO ALBERTINI
lla batosta subita a Canne (216 a.C.), seguirono per i Romani mesi di smarrimento e angoscia, durante i quali Annibale ne approfittò per dilagare nel Meridione, in cerca di alleanze con i locali popoli italici (v. articolo). Non bastasse, dalla Sardegna giunse per Roma una nuova gatta da pelare. Stavolta non a causa di Annibale, ma di un altro valoroso combattente del fronte cartaginese: Ampsicora, sardopunico che nel 215 a.C. capeggiò una rivolta antiromana sostenuto dalle genti locali. L’isola, d’altronde, era oggetto di contesa tra Romani e Cartaginesi da oltre un secolo, dopo essere stata a lungo approdo prediletto dei navigatori fenici.
A partire dai maggiori centri, come Tharros (a ovest) e Nora (a sud), iniziò quindi un processo di integrazione tra la civiltà fenicia e quella nuragica, preesistente sull’isola. Con il crescere dei commerci aumentò tra l’altro il numero delle famiglie fenicie che – in fuga dalle terre d’origine per via della pressione dell’Impero assiro – si trasferirono nella regione costruendo nuovi centri di cui vi è tuttora traccia (v. cartina). Lo stesso nome “Sardegna”, o meglio “Srdn”, appare per la prima volta su una stele sepolcrale di attribuzione fenicia, databile tra il IX e l’VIII secolo a.C. e rinvenuta a Nora. Insomma, Fenici e Sardi impararono alla fine a convivere, mescolando pacificamente le loro culture e le loro tradizioni artigianali. A mettere gli occhi sull’isola fu poi la potente Cartagine, città-Stato di fondazione fenicia sedotta dalle risorse minerarie e dalle fertili pianure della regione. Dalla costa meridionale i Punici penetrarono all’interno dell’isola scontrandosi con i Nuragici, pronti a mettere in atto vere operazioni di guerriglia. Solo a metà del IV secolo a.C. la situazione poté dirsi normalizzata, con la Sardegna che divenne a tutti gli effetti un possesso punico (riconosciuto dalla stessa Roma in un trattato del 348 a.C.) vedendo le sue città, prima autonome, trasformarsi in propaggini di Cartagine.
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anche la Corsica, nacque la provincia romana Sardinia et Corsica, con capoluogo Caralis, odierna Cagliari. La popolazione dell’isola, però, era ormai permeata dal Dna fenicio-punico: anche se Roma aveva il controllo formale del territorio sardo, non fu impresa facile assumerne il reale governo. Le rivolte erano sempre dietro l’angolo, e a peggiorare le cose fu lo scoppio della Seconda guerra punica, quando per far fronte alle spese belliche l’Urbe aumentò le imposizioni fiscali, scatenando nuovo astio nelle genti sarde. E così, appena digerito il disastro di Canne, i Romani dovettero fare i conti con la ribellione che consegnerà alle cronache il nome di Ampsicora, “di gran lunga il più importante tra i principes sardi” a detta dello storico Tito Livio.
RIBELLIONE VANA. Di origini numidiche (cioè del Nord Africa), Ampsicora era esponente della nobiltà di Cornus, roccaforte poco a nord dell’attuale Oristano. Da qui, prima che l’intrepido condottiero prendesse le redini dell’insurrezione, partì un’ambasceria per avvertire il Senato cartaginese che i Sardi, stanchi dei tributi dell’Urbe, erano appunto sul piede di guerra. I senatori, dopo aver saputo della vittoria di Annibale a Canne, decisero quindi di puntare alla riconquista della Sardegna attraverso un corpo di spedizione di oltre 10mila uomini, affidato al condottiero Asdrubale il Calvo. A Caralis giunse nel frattempo una flotta romana al comando di Tito Manlio Torquato, che aveva già combattuto in Sardegna e che disponeva di oltre 20mila soldati, incluso l’esercito di stanza nell’isola. La flotta cartaginese di Asdrubale il Calvo dovette fare rotta verso le Baleari per una tempesta, e così Torquato poté raggiungere agevolmente il territorio in mano ai rivoltosi, mentre Ampsicora, in cerca di nuovi alleati tra i Nuragici, si spingeva verso nord, affidando il
RIBELLE contro Roma. Che reagì ferocemente.
comando delle operazioni al figlio Osto. Osto fu però soverchiato dai Romani e Tito Livio lo archiviò così: “Fiero per giovinezza, non temendo la battaglia, la iniziò, fu sconfitto e messo in fuga”. I ribelli cercarono rifugio a Cornus, mentre Asdrubale sbarcava finalmente sulla costa occidentale dell’isola. Lo ALGHERO scontro decisivo avvenne nel territorio a nord di Cagliari, presso l’odierna Decimomannu, con le forze romane che, meglio addestrate e armate, si Città fenicia imposero senza troppi patemi. Seguì di Tharros una carneficina, con circa 12mila CABRAS vittime tra Cartaginesi e Sardi. Morì anche Osto, il figlio di Ampsicora: ORISTANO Città fenicio-punica quando questi lo scoprì si tolse di Neapolis la vita in preda al dolore, GUSPINI portando con sé l’ultima Tempio punico speranza di una Sardegna di Antas FLUMINIMAGGIORE libera dal giogo romano. • Tempio punico di Genna Cantoni (area archeologica di Matzanni)
Matteo Liberti
MARSALA CASTELVETRANO
Città feniciopunica di Lilibeo
AGRIGENTO
Aree sacre e dimore puniche di Selinunte Insediamento punico di Monte Adranone
PULA
CHIA
Insediamento fenicio-punico di Bithia
Abitato punico di Solunto
PALERMO
A
DOMUS DE MARIA
Mura puniche e necropoli
ERICE
... e in Sicilia
CARBONIA
Santuario e necropoli fenicia di Sulky
TRAPANI
rima i Fenici e poi i Cartaginesi si stanziarono in molte zone costiere d’Italia, concentrandosi in particolare in Sardegna e in Sicilia, dove si trovano numerose eredità archeologiche del loro passaggio. Nella cartina, i siti più rilevanti presenti nelle isole sarda (a sinistra) e siciliana (sotto).
CAGLIARI
Abitato feniciopunico di Monte Sirai
Mura puniche
P
IGLESIAS
SANT’ANTIOCO
Città fenicia di Mozia (Isola di San Pantaleo)
Insediamenti in Sardegna...
Necropoli punica di Tuvixeddu
Quartiere punico di Nora
nche la Sicilia vanta forti legami con la civiltà feniciopunica. Prima che nell’VIII secolo a.C. vi fiorissero le poleis greche, molti marinai fenici giunsero infatti sull’isola per i loro commerci, scambiandosi mercanzie in porti utilizzati anche dai Greci. Uno degli approdi più frequentati sorse sull’isoletta di San Pantaleo, dove ancora oggi sono ben evidenti i resti della città fenicia di Mozia. Fiore all’occhiello. I coloni fenici si stabilirono esclusivamente sulle coste occidentali dell’isola, fondandovi importanti centri come la stessa Palermo. La città sorse tra il VII e il VI secolo a.C. e il suo primo nome era Mabbonath (“alloggiamento”), poi divenuto Zyz o Sys (“fiore” in fenicio) e infine Panormos (unione di “tutto” e “porto” in greco). Qui, come nel resto dell’isola, le tracce dell’eredità fenicia e punica sono state distrutte o coperte dal passaggio di altri popoli (Greci, Romani, Bizantini, Arabi, Normanni). I primi rivali dei Cartaginesi furono proprio i Greci delle poleis orientali, a partire da Siracusa. Alla fine, a prendersi l’isola fu l’Urbe, che nel 241 a.C., al termine della Prima guerra punica, ne fece la sua prima provincia. 57
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IL PRESENTE, LO SPECCHIO DEL PASSATO
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PRIMO PIANO
ITALIANI ALLEATI DI
GLI
Sedotti
A. MOLINO
Uno schieramento di guerrieri italici alleati di Annibale in una ricostruzione. A sinistra, il cartaginese in un ritratto moderno.
U
MARCIA VERSO SUD. Valicate le Alpi nel 218 a.C., allo scoppio della Seconda guerra punica, Annibale era giunto trionfalmente fino in Puglia, dove il 2 agosto 216 a.C., presso Canne, aveva inflitto all’esercito di Roma la storica batosta. Dopodiché, anziché attaccare l’Urbe, cominciò a eroderne il potere 60
S
G. RAVA
n’ultima cena bagnata da vino avvelenato. Fu così che nel 211 a.C. alcuni senatori della città di Capua si tolsero la vita. Il motivo? La cittadina campana, già controllata dall’Urbe ma alleatasi di recente con Annibale, stava subendo l’assedio delle forze romane, e piuttosto che patirne la vendetta i senatori decisero di farla finita. L’alleanza con il condottiero cartaginese non deve stupire: furono parecchie le città e i popoli del Sud Italia che si legarono a lui, e ancora oggi in numerosi centri del Meridione ci si può imbattere in vie che ne portano il nome. Le ragioni di questo sodalizio risiedono, oltre che nella pressione militare esercitata da Annibale, nel fatto che alcuni popoli italici speravano, tramite il cartaginese, di affrancarsi dalle ingerenze di Roma.
Per Capua, Siracusa e Taranto, allearsi con Annibale era soprattutto un modo per smarcarsi da Roma. Ma non tutto andò come previsto.
ANNIBALE
sottraendole alleanze tra i popoli del Meridione, dove avrebbe scorrazzato per ben 13 anni, più di quanto avesse mai vissuto in Africa. «I trionfi di Annibale portarono molte genti a schierarsi con lui, anche se non per simpatia, bensì perché in quel momento, semplicemente, appariva come il più forte», spiega lo storico dell’antichità Giovanni Brizzi. «Ad appoggiare il cartaginese furono i Campani del territorio di Capua, gran parte degli Apuli in Puglia e dei Sanniti (stanziati tra Abruzzo, Molise e Campania), tutti i Bruzi (Calabria) e i Lucani (Basilicata)». Sulle maggiori città di questi territori, ex fiorenti centri della Magna Grecia, la mano di Roma si era allungata da decenni, ma dopo Canne il danno d’immagine per l’Urbe fu tale che le defezioni iniziarono a fioccare.
CAPUA, L’ACCOGLIENTE. «Il primo importante alleato a schierarsi con Annibale fu la ricca Capua, che ambiva a subentrare a Roma alla guida della “nuova Italia” che avrebbe teoricamente preso forma con il dominio cartaginese», racconta l’esperto. I Capuani accolsero festanti Annibale già nel 216 a.C., subito dopo Canne, dietro l’allettante promessa di una piena indipendenza e di un ruolo di primo piano nel futuro scacchiere della penisola. I Cartaginesi trascorsero a Capua tutto l’inverno, riscaldandosi col vino Falernum e beneficiando delle comodità del luogo (la sua pianura era per lo storico greco Polibio “la più rinomata d’Italia per la fertilità, la bellezza, i comodi porti”). Stando allo storico romano Tito Livio, furono addirittura “corrotti dall’eccessiva comodità e dai piaceri”, tra “sonno, vino, banchetti, prostitute”. Ozi a parte, Annibale fece della città il suo quartier generale: da lì poteva espandersi nel resto del Sud Italia, forte, a partire dal 215 a.C., di un nuovo alleato di prestigio, Siracusa. Il principale centro della Sicilia (dove Annibale non andò mai personalmente) era da tempo legato ai Romani, ma quando quell’anno morì il tiranno Gerone II – che di questa alleanza era il principale artefice – i suoi successori, smaniosi di svincolarsi da Roma, ritennero utile giocarsi il jolly cartaginese. SCAPPATELLA TARANTINA. Intanto, sul “continente”, il nuovo obiettivo di Annibale divenne Taranto, già potente polis magnogreca e terzo centro italiano più importante dopo Roma (da cui era stata conquistata nel 272 a.C.) e la stessa Capua. Il suo porto era ideale per accogliere rinforzi e approvvigionamenti dal mare, e così, giunto in terra salentina dopo aver tentato invano di conquistare i centri campani di Cuma, Napoli e Nola (ma riuscendo a prendere Locri Epizefiri, sulla Calabria ionica), il cartaginese si stabilì nel 213 a.C. vicino alla città, in attesa del momento propizio per attaccarla. L’occasione giunse quando da Annibale si presentarono alcuni nobili tarantini insofferenti 62
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La prima importante città ad allearsi con Annibale fu la campana Capua: diventò il suo quartier generale in Italia al giogo di Roma e pronti a tradirla. Furono loro, poco tempo dopo (212 a.C.), ad aprirgli le porte della città eludendo la guarnigione di controllo. Anche la “perla dello Ionio” era così conquistata, a eccezione della rocca che controllava il porto. In compenso Annibale espugnò altri tre centri della costa ionica: Eraclea, Metaponto e Turii. Nello stesso anno i Cartaginesi videro però oscurarsi il proprio avvenire in Italia: i Romani ripresero infatti Siracusa dopo un prolungato assedio (nel 210 a.C. la stessa sorte sarebbe toccata ad Agrigento, anch’essa schieratasi con i Cartaginesi) e, soprattutto, misero nel mirino Capua.
Tracce
In alto, guerrieri sanniti in un affresco del IV secolo a.C. proveniente da Paestum, in Campania. A destra, un loro elmo in bronzo, ritrovato in Molise.
scelsero di darsi la morte con calici avvelenati. Rivela ancora Livio che uno di loro esclamò: “Annibale saprà quali alleati valorosi egli abbia abbandonato”. Da parte sua, Fulvio Flacco si fece consegnare i senatori ribelli superstiti e li fece decapitare a colpi di scure, noncurante di una lettera ricevuta dal Senato romano in cui si chiedeva clemenza. Fece quindi incarcerare centinaia di nobili campani e deportare schiere di cittadini. Annibale, in situazione di stallo, aveva intanto lasciato la campagna romana per tornare a marciare verso sud, ma nulla lo avrebbe più risollevato dalla resa di Capua. Si narra che confessò: “Capua è la mia Canne”. «Quella della città campana fu una perdita importante sul piano psicologico», conferma Brizzi. «Pur senza grandi risvolti strategici, la sua caduta dimostrò a tutti che Annibale non era in grado di difendere i suoi alleati, mentre l’Urbe era pronta a riprendersi le città perdute e a castigare i fedifraghi».
“LA MIA CANNE”. Mentre Roma avviava le operazioni di assedio della cittadina campana, Annibale era ancora impegnato nella spedizione tarantina: quando nel 211 a.C. accorse per difenderla, ebbe la peggio. Ormai i Capuani erano alla fame, e a quel punto il condottiero tentò una mossa inaspettata: marciare verso l’Urbe per distogliere l’attenzione dell’esercito romano. Le cose non andarono però come sperato e Capua venne espugnata dal proconsole Quinto Fulvio Flacco. Fu allora che 27 senatori capuani, già sconfortati per la lontananza di Annibale,
PATTI EFFIMERI. Annibale dovette presto dire addio anche a Taranto, Roma se la riprese nel 209 a.C. dopo l’ennesimo tradimento, stavolta a danno dei Cartaginesi. Ad aprire le porte della città furono i Bruzi che avrebbero dovuto difenderla, i quali, annusata l’aria, si erano venduti ai Romani. Gli uomini di Annibale furono massacrati e Taranto subì un pesante saccheggio che risparmiò solo i templi. “Lasciate che questo popolo se la veda con i suoi irati dèi”, disse il console Quinto Fabio Massimo. Rispetto a Capua non si registrarono regolamenti di conti contro la nobiltà locale, anche se la popolazione fu in parte resa schiava. Annibale scoprì quindi come le alleanze con i popoli italici fossero effimere, vedendoli tornare uno dopo l’altro tra le braccia di Roma. Non bastasse, nel 204 a.C. l’esercito romano attaccò i Cartaginesi in Africa, trasferendo lì il teatro di guerra. A quel punto ad Annibale, accampatosi presso Crotone dopo altre scorrerie in Calabria, non restò che il ritorno a casa. E così, nel 203 a.C., fatte affiggere sul tempio di Hera Lacinia (Capo Colonna, in provincia di Crotone) delle tavole di bronzo riportanti le sue gesta, prese il mare salutando per sempre l’Italia, mentre i Romani recuperavano gli ultimi centri sfuggiti al loro controllo. «A detta dello stesso Annibale, furono circa 400 le città riconquistate dai Romani, molte delle quali vennero messe al sacco, conobbero deportazioni di massa e videro requisito parte del loro territorio, confluito nell’ager publicus, il demanio di Roma», conclude l’esperto. Si infransero così i sogni di gloria del cartaginese e di chi aveva visto nell’alleanza con lui • un’ultima occasione di riscatto. Matteo Liberti 63
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PRIMO PIANO
SCONTRO FRA TITANI
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SAPERNE DI PIÙ
Il console romano Marco Attilio Regolo (III secolo a.C.), in partenza per Cartagine, si congeda per l’ultima volta dalla sua famiglia.
Chi erano i Cartaginesi e come riuscirono a tenere testa ai potentissimi Romani? I Fenici Michael Sommer (il Mulino) Commercianti scaltri e abili navigatori, i Fenici stabilirono una serie di fiorenti città-Stato come Biblo, Sidone e Tiro in Asia Minore e arrivarono a espandersi fin sulle coste dell’Africa, della Sardegna e della Sicilia. Ma chi erano veramente questi indiscussi protagonisti del Mediterraneo del I millennio a.C.? Come vivevano? Qual era la loro religione? Risponde Sommer, docente di Storia antica all’Università di Liverpool.
Cartagine Werner Huss (Il Mulino) La grande rivale di Roma, Cartagine, aveva origini fenice. Tuttavia per noi rimane legata a una vicenda bellica particolare,
le guerre puniche, alla fine delle quali questa fiorente metropoli commerciale, con un’organizzazione statale efficiente e preparata e una vivace vita culturale, scomparve per sempre. Di quei fasti oggi sono rimaste solo le rovine, che si trovano a pochi chilometri da Tunisi, e quello che ci hanno tramandato gli storici antichi.
Annibale Giovanni Brizzi (Il Mulino) Ritratto del grande condottiero cartaginese che dette filo da torcere ai Romani, nella Seconda guerra punica (218-202 a.C.), e fu artefice della loro grande disfatta a Canne (in Puglia), nel 216 a.C. Dopo 14 anni però, Annibale fu sconfitto, su territorio africano a Zama, da Scipione, e così l’Urbe si avviò verso il predominio sul
La Storia raccontata in queste pagine rivive anche in tv. Ti presento l’Impero romano
Tra Spagna, Egitto, Scozia, Tunisia e Grecia, la storica Mary Beard ci accompagna in uno straordinario viaggio alla scoperta dell’antica Roma e dei suoi conflitti (il primo episodio è anche sulle guerre puniche). Si esploreranno le teorie più dibattute che riguardano la fine dell’Urbe, sfatando alcuni luoghi comuni e raccontando uno dei più grandi imperi 64
mai esistiti. Perché, anche se nel 476 d.C. è caduto, è stato così importante per il nostro Paese da segnarne non solo il passato, ma anche il futuro. Sabato 23 dicembre dalle 19:20
Mediterraneo. Ma il suo genio militare, e il suo valore di stratega rimane ancora oggi indiscusso.
La rivolta di Ampsicora Maurizio Corona (Akademeia) La cronaca della prima grande insurrezione sarda, passata alla Storia come la rivolta di Ampsicora e avvenuta nel 215 a.C., in piena Seconda guerra punica. Fu infatti proprio la guerra la causa del malcontento dei Sardi, perché Roma dovette incrementare le imposizioni fiscali nelle sue province e quindi anche in Sardegna. Il latifondista sardo Ampsicora si mise a capo dei rivoltosi che insorsero contro queste imposizioni e si schierarono con i nemici dei Romani, i Cartaginesi che mandarono Asdrubale in Sardegna.
Canne. La sconfitta che fece vincere Roma Giovanni Brizzi (Il Mulino) Il contesto storico in cui maturò la battaglia, la composizione delle forze in campo, lo svolgersi dello scontro e le conseguenze
sull’andamento della guerra: analisi di uno degli scontri più importanti della Storia, vero capolavoro tattico ancora oggi studiato nelle accademie militari. Tuttavia i Romani riuscirono a far tesoro di quella sconfitta e prepararono la vittoria di Zama, che avrebbe poi portato al declino di Cartagine.
Scipione l’Africano. L’invincibile che rese grande Roma Gastone Breccia (Salerno Editore) Chi era davvero Publio Cornelio Scipione, il grande rivale di Annibale, e come fece, così inesperto, a vincere i Cartaginesi? Merito forse della sua determinazione. Riuscì infatti prima a ottenere il comando nonostante la poca esperienza e la giovane età, e in seguito a sconfiggere un nemico molto insidioso, come il generale cartaginese, nella battaglia di Zama. Raccolse così l’eredità del padre ucciso in battaglia e si conquistò il titolo di ultor patriaeque domusque, “vendicatore e della patria e della famiglia”, come lo definisce il poeta Silio Italico.
RACCONTI REALI A cura di Francesco De Leo
Accerchiato
Riccardo III (al centro) fu l’ultimo sovrano inglese a perdere la vita in battaglia.
INGHILTERRA
NON C’È PACE PER RICCARDO
A sinistra il luogo in cui Riccardo III (a destra) morì durante la battaglia di
ALAMY/IPA
Bosworth Field.
CHI? DOVE? QUANDO? Riccardo III Fu l’ultimo re d’Inghilterra appartenente alla casa di York e regnò dal 1483 fino alla sua morte nel 1485. Faceva parte della casata medievale dei Plantageneti divenuta regale con Enrico II, figlio di Goffredo V d’Angiò.
Market Bosworth Piccolo borgo abitato da poche migliaia di persone nel Leicestershire (una contea nella regione delle Midland, proprio nel centro dell’Inghilterra), è passato alla Storia per essere stato il leggendario campo della battaglia di Bosworth Field.
La fine del Medioevo La morte di Riccardo III segnò il termine dell’era medievale e l’ascesa della dinastia gallese dei Tudor, che governò sul regno d’Inghilterra e sulla signoria d’Irlanda dal 1485 al 1603. Il simbolo fu la rosa Tudor, ricavata dall’unione delle due rose di Lancaster (rossa) e di York (bianca). GETTY IMAGES
In memoria
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I mattino del 22 agosto del 1485, da Ambion Hill, una collina a sud di Bosworth, Riccardo III partì all’attacco delle guarnigioni di Enrico Tudor, conte di Richmond, suo nemico giurato. Il piccolo borgo di Market Bosworth nel Leicestershire fu teatro della più importante battaglia della Guerra delle Due Rose (detta Bosworth Field) tra i Lancaster e gli York. Riccardo III, ultimo dei Plantageneti, morì in combattimento: dopo essere stato costretto ad abbandonare il suo cavallo impantanato, venne circondato e trafitto senza pietà da spade nemiche. Il suo corpo fu deturpato e sepolto senza onori funebri. La fine della guerra civile segnò l’ascesa al trono di Enrico VII, fondatore della dinastia Tudor, terzo incomodo nella lotta tra i due casati. “Le brame per la Corona, il suo possesso, la sua perdita e la sua riconquista, sono costate più del doppio del sangue inglese versato in occasione della vittoria dei francesi”, disse Henry Stafford (1455-1483), secondo Duca di Buckingham, confrontando la Guerra delle due rose con la Guerra dei cent’anni (1337-1453) . Bottino di guerra. Quello che fu il campo della battaglia di Bosworth Field oggi è minacciato da ladri di antichità. La polizia della vicina città di Leicester ha lanciato l’allarme: “Siamo preoccupati: ci sono individui che in piena notte scavano buche profanando un sito leggendario”. Quella radura, dove più di cinque secoli fa 20mila soldati si affrontarono duramente, oggi si presenta piena di fosse. Gli abitanti del luogo si sono organizzati per vigilare: “Arrivano al buio, con sofisticati rilevatori di metalli, alla ricerca di antichi cimeli”, raccontano. “Il terreno in passato”, dice il capo della polizia, “è stato già battuto dagli archeologi. Quello che è stato rinvenuto è al sicuro, nel vicino museo, ma se dovessero essere sottratti ulteriori reperti, sarebbe un grave danno dal punto di vista storico”. Riabilitazione post mortem. Intanto Riccardo III, dopo che i suoi resti, nel 2012, sono stati ritrovati proprio sotto un parcheggio di Leicester, riposa dal 2015 nella cattedrale della città, ma non senza un’infinità di polemiche. Dopo il rinvenimento del cadavere, i più estremisti arrivarono a sostenere che in quanto re d’Inghilterra, denominazione scaduta nel 1707 con la nascita della Gran Bretagna, non avrebbe avuto diritto ai funerali di Stato. Una volta appurato che il sovrano in effetti meritava un estremo saluto degno del suo rango, si è accesa una disputa sul luogo della nuova sepoltura. C’era chi sosteneva gli spettasse un posto a Westminster Abbey insieme ai suoi pari, e chi invece lo voleva riportare a York, sua città natale. Accanto alla tomba, oggi, a dispetto di William Shakespeare che lo disegnò come uno spietato assassino (nella tragedia che porta il suo nome il sovrano uccideva moglie, fratello e due nipoti per arrivare al trono), c’è scritto: “Riccardo III fu l’ultimo re inglese a morire da guerriero conducendo le sue truppe in battaglia”.•
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DOMANDE&RISPOSTE
Queste pagine sono aperte a soddisfare le curiosità dei lettori, purché i quesiti siano di interesse generale. Non si forniscono risposte private. Scrivete a Focus Storia, via Battistotti Sassi 11/a, 20133 Milano o all’e-mail
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Baia infernale
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La nave West Virginia brucia dopo l’attacco alla base di Pearl Harbor nel dicembre 1941. In basso, una scena del film Pearl Harbor di Michael Bay del 2001.
SECONDA GUERRA MONDIALE
I GIAPPONESI SI ISPIRARONO A UN ATTACCO INGLESE PER PREPARARE PEARL HARBOR? Domanda posta da Valerio Gallo.
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ì, l’attacco giapponese alla base navale americana nelle isole Hawaii del 7 dicembre 1941 fu influenzato da un’incursione inglese, compiuta un anno prima, a Taranto. Nella notte tra l’11 e il 12 novembre 1940 la Royal Navy attaccò infatti la flotta italiana, di stanza nella città pugliese, con aerosiluranti partiti dalle portaerei. Giocando sull’effetto sorpresa gli inglesi, in 90 minuti, misero fuori uso la metà delle navi italiane e causarono la morte di 58 persone. La cosiddetta “notte di Taranto” mise in evidenza l’importanza strategica dell’aviazione nelle operazioni belliche marine (prima si pensava che i fondali delle basi navali fossero troppo bassi per gli aerosiluranti). I giapponesi, che stavano già pensando a un attacco, mandarono sul posto un addetto militare dell’ambasciata e, grazie anche alle informazioni raccolte sull’accaduto, l’ammiraglio Isoroku Yamamoto riuscì a sferrare l’offensiva alla base Usa nell’oceano Pacifico. (e. v.)
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Senza Maria e Giuseppe
Rappresentazione a Greccio del primo presepe (vivente) del 1223, voluto da san Francesco (davanti al bambin Gesù) e autorizzato dal papa (Onorio III).
ECONOMIA
Perché fu introdotta la zigrinatura delle monete? Domanda posta da Christian Vitale.
L MEDIOEVO
Domanda posta da Serena Morelli.
Qual è il presepe più antico?
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quello che san Francesco d’Assisi realizzò nel 1223 a Greccio (Rieti), rifacendosi alle raffigurazioni sacre della Natività e di cui non rimangono tracce perché era un presepe vivente. Fu una rappresentazione particolare perché non c’erano Giuseppe e Maria. In prima fila c’era lui, san Francesco, che pregava davanti alla mangiatoia (in latino praesaepe), dove sulla paglia dormiva un neonato in carne e ossa “scaldato” da un bue e un asino reali. Per vedere il primo presepe inanimato invece si dovette aspettare il 1290, quando lo scultore Arnolfo di Cambio ne creò uno nella basilica di Santa Maria Maggiore a Roma su commissione di Niccolò IV, con lo scopo di celebrare le reliquie (i resti della mangiatoia e le fasce che avvolsero Gesù), conservate, secondo la tradizione, nella basilica. La cappella del presepe di Arnolfo, nel quale erano presenti Maria, Giuseppe, i re magi, il bue e l’asino, fu distrutta per fare spazio alla Cappella Sistina (XV secolo): le figure superstiti sono oggi nel museo della basilica. (a. b.) OTTOCENTO
Chi erano i globetrotter? Domanda posta da Domenico Ruggiero.
a zigrinatura sui bordi delle monete nacque per rendere difficile l’abitudine di appropriarsi del metallo prezioso con cui erano fatte. Ad introdurla fu il matematico, astronomo e fisico Isaac Newton (16421727), che ricoprì dal 1699 la carica di direttore della Zecca reale di Londra (vi era entrato come guardiano nel 1696). All’epoca le monete, il cui valore era determinato dal metallo prezioso (oro o argento) di cui erano costituite, venivano “tosate” o meglio limate lungo il bordo per ricavare la polvere di oro o argento. L’operazione truffaldina, che diminuiva il peso delle monete fino alla loro totale inspendibilità, fu contrastata con la zigrinatura che rese le monete “tosate” immediatamente riconoscibili, poiché ne veniva alterato il disegno sul bordo. (e. v.)
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urono viaggiatori-avventurieri che, tra ’800 e ’900, si cimentarono in imprese estreme, come il giro del mondo, a piedi o con mezzi di fortuna, per diventare famosi o per stabilire qualche record, finanziandosi spesso con la vendita di cartoline dei loro viaggi. Uno dei primi “giramondo” della Storia fu l’americano Edward Payson Weston (a sinistra) che si guadagnava da vivere con camminate transcontinentali: nel 1861 compì a piedi un percorso di 769 chilometri in soli 10 giorni e all’età di 74 anni percorse 2.500 chilometri in 51 giorni. Tra i globetrotter ci furono anche alcune donne: la giornalista Elizabeth Jane Cochran (Nellie Bly) che, nel 1889, dagli Stati Uniti arrivò in Giappone da sola, in 72 giorni. (s. z.)
Sterline inglesi
Oggi alcune monete hanno la zigrinatura per essere riconoscibili al tatto, per i non vedenti. 67
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PITTORACCONTI PIETER BRUEGHEL L’AVVOCAT0 DEL VILLAGGIO
IN CODA DA AZZECCA GARBUGLI Nel Seicento, per la gente semplice era difficile avere giustizia: serviva l’avvocato. Il suo onorario? Uova e polli.
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Sulla scrivania del segretario si vedono un grande calamaio e una ciotola, che conteneva probabilmente il polverino, composto di sabbia o segatura fine da spargere sui fogli per favorire l’asciugatura dell’inchiostro.
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Polli, uova e frutta servivano per pagare l’onorario. Il termine deriva dal latino honorarium, la donazione onorifica spontanea conferita nel mondo romano agli avvocati, le cui prestazioni erano formalmente gratuite.
SCALA
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difficile non pensare all’Azzecca garbugli manzoniano di fronte al dipinto di Pieter Brueghel il Giovane. Come nel celebre episodio dei Promessi sposi – il romanzo è ambientato nel XVII secolo, in anni prossimi a quelli del quadro – si assiste all’incontro di due mondi all’epoca molto distanti tra loro: quello popolare incolto e quello delle professioni intellettuali. E così come l’umile setaiolo lombardo Renzo entra nella casa dell’avvocato pieno di speranze, di soggezione e di quattro bei capponi per pagare la consulenza, allo stesso modo i contadini fiamminghi si accalcano di fronte alla scrivania dell’uomo di legge del villaggio, con reverente fiducia e con un ampio campionario di generi alimentari come onorario. Poca giustizia. Il soggetto dell’opera ebbe grande fortuna, tanto che il pittore ne eseguì una ventina di versioni. Probabilmente agli occhi dei contemporanei era solo una scena di genere trattata con vena ironica, ma la tela affronta quasi in presa diretta un tema cruciale, quello trattato due secoli più tardi anche dallo scrittore italiano: la grande difficoltà per la gente semplice di trovare giustizia in una società in cui il potere era ancora fortemente centralizzato, appannaggio di ristrette élite politiche ed economiche. In questo contesto, e soprattutto nelle aree rurali, l’avvocato rivestiva un importante ruolo di mediazione, anche se il pennello dell’artista non gli risparmia tratti grotteschi che sembrano mettere in dubbio la capacità di risolvere i problemi dei suoi assistiti. Edoardo Monti
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Le pratiche sono sparse ovunque nella stanza. Molte sono semplicemente piegate per la lunghezza e trattenute con lo spago, altre sono raccolte in sacchetti di canapa etichettati, un sistema di archiviazione in uso ancora alla fine del ’700.
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Gli abitanti del villaggio reggono semplici cappelli a calotta con tesa stretta, probabilmente fatti in feltro di lana per far fronte al clima autunnale.
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I prodotti portati come onorario rispecchiano quella che era considerata una dieta corretta per i delicati stomaci di nobili, borghesi e clero: carni bianche, uova, frutta.
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La scena potrebbe svolgersi tra settembre e ottobre, come indicherebbero i grappoli d’uva e l’abbigliamento dei personaggi: non leggero ma neppure pesante per il clima delle Fiandre.
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La clessidra posta sul tavolo permetteva all’avvocato di misurare il tempo che poteva mettere a disposizione per ogni cliente.
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Il nero berretto dottorale veniva conferito alla conclusione degli studi universitari. In questo contesto sottolinea la differenza di stato tra l’avvocato e i suoi clienti, che con deferenza si levano tutti il cappello.
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Alle spalle dell’uomo di legge è affisso un almanacco. Il termine, di derivazione araba, indicava i calendari dell’epoca, che oltre ai giorni dell’anno riportavano indicazioni astronomiche e meteorologiche utili per i lavori agricoli. .
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L’almanacco affisso è in francese, non in fiammingo. L’avvocato dimostra così la conoscenza di una lingua allora molto diffusa tra gli intellettuali e i ceti dirigenti.
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Anche se non veste in modo particolarmente curato, il personaggio dietro la scrivania non è un contadino. Da come osserva la scena sembrerebbe un uomo di fiducia dell’avvocato, chiamato a tenere sotto controllo il gruppo dei clienti.
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CULTURA Le “notizie contraffatte” vengono da molto lontano: già gli Spartani diffondevano informazioni false per manipolare l’opinione pubblica.
FAKE
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Imbrogli ad hoc
Una macchina per scrivere e, in alto, un’illustrazione del 1894 dove i giornali in copertina hanno notizie fake (“contraffatte”) o humbug (“disoneste”). Il sensazionalismo non è un fenomeno solo moderno.
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grazie a loro se, secondo molti analisti, Donald Trump è diventato presidente degli Stati Uniti. È grazie a loro se molti sono convinti che i richiedenti asilo facciano vita da nababbi in alberghi di lusso. Ed è ancora grazie a loro se c’è chi crede all’esistenza delle sirene, alla terra piatta o alla presunta morte (e relativa sostituzione con un sosia) di uno dei Beatles, Paul McCartney. A chi dobbiamo tutto questo? Gli amanti degli anglicismi le chiamano fake news ossia “notizie contraffatte”, inventate e diffuse ad arte per un profitto che, in genere, è di tipo economico o politico. Purtroppo il fatto di non essere vere non le rende meno capaci di manipolare l’opinione di milioni di persone, anzi: in genere rafforza il loro potere, perché spesso raccontano proprio ciò che una fetta di lettori vuole sentirsi dire. “Colpa dei social”, direte. Eppure questa piaga non è una prerogativa dei nostri giorni: prima di Facebook e delle “legioni di imbecilli” a cui,
secondo Umberto Eco, i social avrebbero dato voce, le cronache del passato sono piene di sensazionalismi a buon mercato, razzismo e morti illustri, usati per screditare potenti o trarre vantaggi personali.
LA CONDANNA DELL’EROE. Agli efori, i magistrati spartani, fu sufficiente una lettera per liberarsi dell’odiato generale Pausania nel 469 a.C. Nella missiva, mostrata al popolo dopo la sua morte, l’eroe della guerra ai Persiani chiedeva al suo acerrimo nemico, il Gran Re di Persia Serse, un’alleanza matrimoniale in funzione antigreca. Il testo segnò la sua condanna, anche se, dicono oggi gli storici, era inverosimile sotto vari aspetti: non ultimo il fatto, noto all’epoca, che le figlie del Gran Re di Persia sposavano solo notabili persiani. Imprecisioni e anacronismi permisero anche al filologo e umanista Lorenzo Valla di bollare come falsa, nel 1440, la cosiddetta Donazione di Costantino. Il documento, datato 30 marzo
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315 d.C., riproduceva l’ipotetico editto con cui l’imperatore romano Costantino I avrebbe sancito la giurisdizione civile del pontefice su Roma e sull’Impero romano d’Occidente. Un segno di gratitudine del sovrano nei confronti di papa Silvestro, che, dice la leggenda, lo aveva guarito dalla lebbra e spinto alla conversione. Il documento, che secondo Valla sarebbe stato redatto nell’VIII-IX secolo, probabilmente da un uomo di chiesa, ebbe ripercussioni enormi: legittimò infatti per secoli i possedimenti del pontefice in Italia e la superiorità del papa sull’imperatore. Ma, come dice il noto proverbio, chi la fa l’aspetti: nel 1522 toccò al clero subire, ma senza grandi contraccolpi, versi faziosi, inventati su commissione dal poeta Pietro Aretino per pilotare l’elezione del successore di papa Leone X. Il toscanaccio ne ebbe per tutti i candidati, a eccezione del vescovo Giulio de’ Medici, membro della famiglia dei suoi protettori fiorentini. In pieno conclave, sul busto del cosiddetto Pasquino, il torso mutilo di una statua di marmo cui i romani affidavano le loro invettive contro i potenti, comparvero rime infuocate: “Non ti maravigliar, Roma, se tanto / s’indugia a far del papa la elezione […] La cagion è che sempre ha moglie accanto / questo, e quel volentier tocca il garzone […] Uno è falsario, l’altro è adulatore […] Chi è di Spagna e chi di Francia spia / e chi ben mille volte a tutte l’ore / Dio venderebbe per far simonia”.
Il poeta anticlericale Pietro Aretino ritratto da Tiziano intorno al 1545. Sulla statua del Pasquino a Roma (sotto, in un’illustrazione dell’800) fece affiggere rime taglienti contro tutti i candidati al soglio pontificio. Tranne uno.
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Invettive mirate
Dalle crociate alle trincee
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sate per far breccia nella fragile psiche dei soldati, le fake news si diffusero spesso anche nelle trincee e sui campi di battaglia. E non solo durante le due guerre mondiali del secolo scorso, quando vennero usate come arma psicologica per demoralizzare gli avversari e convincerli ad arrendersi. Ingannati. Nel 1095, per motivare la partenza della prima crociata, papa Urbano II fomentò i “pellegrini armati” con una notizia contraffatta: le terribili persecuzioni patite dai cristiani in Siria. Avvenute, certo, ma quasi un secolo prima: nel
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1009, a opera del califfo egiziano musulmano al-Hakim. Più recentemente il neopresidente Usa Lyndon Johnson diede inizio al conflitto in Vietnam con una notizia inventata. “Il 5 agosto 1964 dei siluri vietcong hanno colpito una nave statunitense nel golfo di Tonchino”, dichiarò al Congresso. Solo allora i rappresentanti del popolo lo autorizzarono a cominciare quella lunga guerra. Sette anni dopo, il quotidiano New York Times sbugiardò l’ormai ex-presidente, pubblicando le carte segrete del Pentagono che svelavano l’inganno.
SCONTENTO POPOLARE. E anche se all’Aretino, costretto a lasciare Roma dopo l’elezione di papa Adriano VI, andò male, le notizie contraffatte furono sempre il mezzo migliore per colpire i sovrani. Complice, come accade ancora oggi, lo scontento popolare. Lo sapeva bene la povera regina di Francia, Maria Antonietta: nel XVIII secolo, le fake news furono per lei pane quotidiano. Protagonista di innumerevoli libelli scandalistici, le furono attribuiti amori lesbici con le dame di compagnia e la complicità in una famosa truffa milionaria (quella della collana di diamanti) di cui invece era stata vittima. Ma anche la celebre frase, “Se non hanno pane, che mangino brioche”, diretta al popolo affamato, pronunciata invece, pare un secolo prima, dalla moglie del re Luigi XIV, o da qualche altra non meglio precisata dama. Finì anche su un canard, un foglio che “starnazzava” (come l’anatra, canard in francese, da cui prendeva il nome) notizie sensazionali e fasulle. In prima pagina, una grande immagine acchiappalettori raffigurava
Maria Antonietta con il corpo a scaglie, ali di pipistrello e coda di drago.
furono spediti a Londra per dare la meravigliosa notizia: le guerre napoleoniche erano state lunghe e difficili e nella capitale gli investitori fecero sentire il proprio entusiasmo in Borsa. L’allegria scemò quando si venne a sapere che l’imperatore dei francesi godeva di ottima salute: si trattava di qualcosa di molto simile ai finti necrologi di personaggi famosi che ogni tanto spuntano sui social. Ma in questo caso era tutto inventato da uno speculatore (secondo alcuni il parlamentare britannico Thomas Cochrane), per manipolare il mercato finanziario. Dei politici c’era poco da fidarsi: trentadue anni prima, aveva tentato di approfittare della credulità britannica persino uno dei firmatari della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati
Pronto a tutto? Il generale spartano Pausania invoca gli dèi prima della battaglia con cui sconfisse i Persiani (Platea, 479 a.C.). Il nome dell’eroe greco fu infangato dopo la sua morte dagli stessi magistrati spartani. Come? Con una finta lettera in cui Pausania veniva a patti (matrimoniali) con il nemico.
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VIVI, ANZI NO. In mezzo a tanta dannosa creatività, capitava persino che qualcuno tentasse di far passare per false le notizie che non lo erano. Avete presente quelle news in cui si legge che Hitler, Elvis o Michael Jackson sono ancora vivi? Ecco: in passato le star da resuscitare erano i sovrani. Nel XVI secolo, in Russia, ben tre falsi Dimitri si presentarono a corte nei panni del figlio di Ivan il Terribile, negando il suo assassinio (1591). Uno di loro regnò persino: era il cosiddetto “zar impostore”, probabilmente un monaco di nome Grigorij Otrepev, che rimase in carica meno di un anno (1605-1606), prima di fare la stessa fine dell’uomo che diceva di essere. A volte, però, mandare qualcuno all’altro mondo era più proficuo che tirarcelo fuori. Il 21 febbraio 1814, un uomo con un’uniforme da ufficiale britannico si presentò in una locanda sulla costa inglese, annunciando che Napoleone era stato ucciso e che la guerra dell’Inghilterra contro la Francia era dunque finita. Due corrieri
Nel 1814 fu fatta circolare la voce che Napoleone era morto e le sue guerre finite. Non era vero ma la Borsa inglese volò
Burla lunare
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Sotto, nel tondo, il giornalista del New York Sun Richard Adams Locke: nel 1835 pubblicò una storia a puntate in cui raccontava la vita sulla Luna con tanto di illustrazioni (in basso, una di queste in cui si vedono le strane creature che la avrebbero abitata).
Uniti d’America (1776), il poliedrico Benjamin Franklin. “I nativi americani sono stati assoldati dalla Corona per raccogliere gli scalpi dei coloni”: più o meno era questo il succo di un lungo e cruento articolo creato e pubblicato dal diplomatico su una finta edizione del Boston Independent Chronicle. Il suo scopo, mentre la guerra con l’Inghilterra stava per concludersi, era mostrare la crudeltà della Corona e attirare le simpatie degli europei e del popolo britannico per i rivoluzionari americani. Ottenne, invece, l’unico effetto di amplificare l’odio degli statunitensi per i nativi.
C’È VITA LASSÙ. Franklin non era nuovo a invenzioni di questo tipo e neppure gli altri Padri fondatori. D’altra parte fu proprio in quell’ultimo scorcio del Settecento che, complice la circolazione più massiccia della carta stampata e il tentativo di attirare lettori con notizie clamorose, le fake news cominciarono a invadere i quotidiani. La funzione del moderno giornale “non è istruire, ma stupire e divertire”,
diceva l’editore James Gordon Bennett senior, che nel 1835 aveva fondato il New York Herald. La sua testata faceva parte della neonata penny press, la categoria di quotidiani da un penny, più economici ma molto meno rigorosi delle tradizionali pubblicazioni da 6 centesimi. Proprio su uno di questi giornali, il New York Sun, il 25 agosto 1835, comparve la prima di sei puntate sull’incredibile scoperta della vita sulla Luna. Grazie a un enorme e potente telescopio installato al Capo di Buona Speranza, vi si leggeva, il famoso astronomo britannico John Herschel era riuscito a vedere foreste e piramidi di quarzo lilla, fiumi, spiagge e creature anfibie, uomini pipistrello e un unicorno blu. Fu un boom di vendite. Ma, due mesi e mezzo dopo, il redattore Richard Adams Locke venne smascherato come l’autore della great moon hoax (“la grande burla della Luna”). Nessuno si indignò e le vendite non crollarono: era la filosofia del giornalismo sensazionalistico americano, il cosiddetto “giornalismo giallo”, dal nome sprezzante con cui la stampa concorrente
Creature anfibie e uomini pipistrello sulla Luna: secondo un giornalista sarebbero state viste nell’800 da un telescopio
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definì il The New York World di Joseph Pulitzer (proprio l’uomo che istituì l’omonimo, prestigioso premio giornalistico americano) e il New York Journal. I due quotidiani erano noti sia per la loro feroce rivalità a chi la sparava più grossa, sia perché pubblicavano entrambi le vignette del famoso Yellow Kid (da cui il loro nomignolo, v. Focus Storia n° 134), un ragazzino con i capelli rasati e la maglietta gialla nato nel 1895 dalla matita dell’illustratore Richard Felton Outcault.
Uno dei padri fondatori degli Usa Benjamin Franklin (a destra) mise in circolazione un finto articolo (sopra) dove sosteneva che i reali inglesi assoldavano i nativi americani per raccogliere scalpi di coloni. Voleva screditare la Corona ma non ci riuscì.
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Speculatore
Nel 1814 il parlamentare britannico Thomas Cochrane (a destra) fu sospettato di aver messo in giro la notizia (falsa) della morte di Napoleone Bonaparte. Lo scopo? Manipolare le speculazioni finanziarie della Borsa di Londra (sopra).
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Maria Leonarda Leone
Cattive reputazioni
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VOLGARE È MEGLIO. “Il male è cresciuto al punto che gli editori, in tutto il Paese, cominciano a pensare che forse il pubblico potrebbe davvero preferire la volgarità”, notò amareggiato, nel 1889, Lorettus Metcalf, l’editore del Florida Daily Citizen. Oggi molti giornali ne sembrano davvero convinti. E chi invece preferisce leggere la verità, come può salvarsi? Come il giornalista: dubitando sempre. • Ma non di questo articolo...
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MEDIOEVO Tre principesse troppo vivaci portarono scompiglio alla corte francese. Finì in tragedia.
LA TORRE DELLO
SCANDALO A
lla metà del Quattrocento a Parigi circolava una storiella curiosa e inquietante: una regina, che viveva rinchiusa in un’antica torre, uccideva i suoi giovani amanti gettandoli nella Senna. Solo una leggenda popolare, certo; eppure, dietro al macabro racconto si celava uno scandalo sessuale realmente accaduto nel 1314 e noto come “affare della Torre di Nesle”. La vicenda finì tragicamente non senza aver infangato per bene il prestigio della famiglia reale francese. Protagoniste della piccante avventura furono infatti nientemeno che le nuore del re di Francia, Filippo IV soprannominato Filippo il Bello (1268-1314).
ALINARI
FATTI E CONSEGUENZE. Filippo aveva quattro figli: una femmina, Isabella, che andò in sposa al sovrano d’Inghilterra Edoardo II; e tre maschi, Luigi, erede al trono, Filippo e Carlo. Per la sua blasonata progenie il re voleva ovviamente mogli all’altezza, cioè nobildonne appartenenti all’alta aristocrazia. Così, nel 1305, fece sposare Luigi con Margherita, figlia del potente duca di Borgogna; Filippo e Carlo, invece, convolarono a nozze qualche anno dopo con due sorelle, rispettivamente Giovanna e Bianca di Borgogna, che discendevano per parte di madre dalla famiglia reale. Agli inizi del Trecento la corte di Filippo il Bello, che viveva al Louvre (diventerà un museo solo durante la Rivoluzione francese), non brillava per vivacità; ma l’arrivo delle tre principesse portò una ventata d’aria fresca e l’austera dimora del re iniziò ad animarsi di feste e balli. Proprio in una di queste occasioni le vivaci sposine conobbero due aitanti cavalieri, i fratelli Filippo e Gualtiero d’Aunay. Questi non ci misero molto a conquistare le ragazze: Bianca divenne l’amante di Filippo, Margherita di Gualtiero. Giovanna, invece, rimase fedele a suo marito, anche se ovviamente era al corrente di tutto.
Nella leggenda
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RMN/ALINARI
Sopra, le tre principesse accusate di orge e tradimenti in una acquaforte del 1842. A destra, la locandina di una rappresentazione teatrale de La Tour de Nesle di Alexandre Dumas (1889). Nell’altra pagina: la Torre di Nesle nel XV secolo, in un’incisione ottocentesca.
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Bello ma vendicativo
ALINARI
Filippo IV di Francia, detto il Bello: la sua vendetta sui responsabili del tradimento fu atroce. Ma non servì a niente: nessuno dei suoi figli ebbe eredi in grado di portare avanti la dinastia.
Per qualche anno la tresca andò avanti in segreto. Secondo alcune fonti, sarebbe stata la regina d’Inghilterra Isabella a rendersi conto per prima di quello che stava accadendo. In visita a Parigi nel 1314, durante una cerimonia Isabella notò qualcosa di strano: i fratelli d’Aunay indossavano alla cintura le stesse identiche aumônières (le borsette tipiche del Medioevo) che lei stessa aveva regalato alle cognate. Com’era possibile? La donna ne parlò subito al padre, che dopo qualche tentennamento (mettere tutto a tacere o indagare, a costo di uno scandalo?) decise di aprire un’inchiesta e... si scatenò l’inferno.
IL DISONORE. Filippo e Gualtiero vennero arrestati e, messi sotto tortura, confessarono: da tre anni avevano una relazione con Bianca e Margherita. Per il sovrano fu un affronto indicibile: le sue nuore, le prime donne di Francia, adultere! Un’offesa tanto più grave per le potenziali conseguenze dinastiche: i figli che le due “peccatrici” avevano avuto dai loro mariti (Margherita una femmina, Bianca un maschio e una femmina) potevano essere dei bastardi. Una principessa aveva il dovere di essere al di sopra di ogni sospetto e, dato che il trono si trasmetteva di padre in figlio, con queste premesse la legittimità dell’intera dinastia reale era messa in discussione. Lo scandalo non restò confinato nelle mura del palazzo: si diffuse a macchia d’olio anche fra il popolino che ovviamente sulla questione non lesinò sarcasmi e battute sui principi cornificati e gli appetiti delle consorti. Come scrive Jean Bouin, autore del Memoriale historicum e contemporaneo agli eventi, questo
IN PRIVATO
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Fu l’unica figlia femmina del re, Isabella, a scatenare l’inferno con i suoi sospetti
PUNIZIONE ESEMPLARE. Alle principesse fu invece risparmiata la vita, se così si può dire. Arrestata in un primo tempo assieme alle cognate, Giovanna fu liberata perché riconosciuta estranea alla vicenda. Margherita e Bianca, invece, furono rasate a zero – era la punizione riservata alle adultere – e rinchiuse nella fortezza di Gaillard, in Normandia. Le condizioni della prigionia erano durissime e, per Margherita, probabilmente fatali: internata in una cella esposta ai quattro venti, morì dopo un anno di detenzione, di malattia. C’è però anche un’altra ipotesi. Visto com’erano andate le cose, al marito tornava molto più utile una moglie morta di una viva benché in prigione. La vedovanza gli avrebbe infatti consentito di risposarsi per avere un erede. Da qui il sospetto che Luigi abbia ordinato l’assassinio della donna. Quanto a Bianca, fu liberata solo verso il 1320; si chiuse allora in convento e morì ancora giovane.
La maledizione dei Templari
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o scandalo delle principesse scoppiò in un momento delicato: nel 1307 Filippo il Bello aveva infatti dato inizio alla persecuzione dei Templari; la condanna a morte di Jacques de Molay, Maestro dell’Ordine, fu eseguita appena un mese prima di quella dei fratelli d’Aunay. Dopo questi fatti di sangue sembra che i figli di Filippo (morto a novembre 1314) siano stati vittime dalla malasorte: nessuno di loro riuscì ad avere un figlio maschio. Senza eredi. Luigi X, marito di Margherita, si risposò dopo la morte della moglie, ma il suo unico bambino morì a quattro giorni dalla
nascita. A Luigi successe Filippo V, che come il fratello non ebbe maschi. L’ultimo a regnare fu Carlo IV: riprese moglie due volte dopo l’annullamento delle nozze con Bianca (1322), ma il tanto atteso figlio morì appena nato; quando il re si spense nel 1328, la linea diretta dei Capetingi si estinse. Filippo il Bello e la sua famiglia sono anche i protagonisti della saga dei romanzi storici I re maledetti, di Maurice Druon, basata su una presunta maledizione lanciata al sovrano e ai suoi discendenti dal Maestro dei Templari Jacques de Molay prima di salire sul rogo.
LA TORRE CHE NON C’È. Questa storia di sangue e morte viene ricordata come “affare della Torre di Nesle”, eppure né le cronache medievali né le varie leggende che nacquero attorno alla vicenda la citano come luogo degli adulteri. Torrione medievale di Parigi, abitato per qualche tempo da Giovanna di Borgogna e demolito nel 1663 per costruire la Biblioteca Mazzarino, fu associato agli incontri clandestini di Bianca e Margherita solo nel Seicento. La torre non mancò di ispirare artisti e letterati, tra cui Alexandre Dumas, che nel 1832 scrisse un’opera drammatica sul caso: La Tour de Nesle. Da allora, nell’immaginario popolare, questa lugubre torre divenne il teatro di quello che ancora oggi è considerato uno dei più grandi • scandali sessuali della storia francese. Simone Zimbardi
Sotto, incisioni ottocentesche che ripercorrono le tappe dello scandalo. Da sinistra, le principesse (Margherita, Bianca e Giovanna) con i loro amanti durante una festa privata e a cavallo; il presunto assassinio di Margherita nella fortezza di Gaillard.
IN PRIGIONE
LEEMAGE/MONDADORI PORTFOLIO
IN PUBBLICO
Brutta fine
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affare “provocò il più grande disonore al regno di Francia”. Furioso per l’affronto subito, il re Filippo non ebbe alcuna pietà per i colpevoli Del resto, quanto a crudeltà non era ultimo a nessuno: è a lui che si deve la soppressione dell’ordine dei Templari col relativo massacro di migliaia di monaci-cavalieri. I fratelli d’Aunay furono trasferiti a Pontoise, poco lontano da Parigi. Qui vennero prima picchiati e scorticati vivi; poi furono evirati e il loro pene gettato in pasto ai cani; infine vennero marchiati a fuoco, legati a dei cavalli e trascinati per le vie della città prima di essere decapitati, si spera per loro ormai morti, sulla pubblica piazza.
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SOCIETÀ ARCHIVIOGIANCOLOMBO
1957 Controlli di polizia in piazza Duomo. Nella città preboom economico era ancora l’epoca della ligera, malavita di piccoli criminali che si univano solo per fare il colpo.
La storia criminale della città, tra gli anni Quaranta e gli Ottanta. Dai piccoli delinquenti del Dopoguerra a Vallanzasca.
MILANO E LA
MALA A cura di Irene Merli
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ARCHIVIOFARABOLA
1968 Una festa al Number One di Milano: il playboy Beppe Piroddi e l’attrice Odile Rodin sembrano un gangster e la sua pupa. I banditi milanesi, in effetti, erano affezionati frequentatori di night club e bische.
ARCHIVIOPRIVATO
1979 Renato Vallanzasca con Francis Turatello, il re delle bische, suo testimone alle nozze (celebrate a Rebibbia) con Giuliana Brusa. Il “bel Renè”, in carcere, riceverà per anni centinaia di lettere di ammiratrici.
1949
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ARCHIVIOGIANCOLOMBO
Durante la guerra la malavita aveva imparato a combattere con nuove armi. Così, negli anni Cinquanta, comparvero i mitra per svaligiare gioiellerie e portavalori. Come a Chicago
L’8 ottobre la banda Dovunque viene sgominata dalla polizia. E a casa di un imputato, Ugo Ciappina, si trova un vero arsenale da guerra.
1977
1949 Il 1° ottobre la banda Dovunque, chiamata così per la velocità di spostamento, rapina la gioielleria superprotetta di via Donatello (la strada nella fotografia).
ARCHIVIOGIANCOLOMBO
ARCHIVIOFARABOLA (4)
La seconda cattura, a Roma, di Renato Vallanzasca, il violento boss della Comasina. Alla fine della sua sanguinosa carriera totalizzerà 4 ergastoli e sarà accusato di 7 delitti, 4 commessi di sua mano.
ARCHIVIOFARABOLA (4)
1958 La mattina del 27 febbraio, in via Osoppo, 7 malviventi in tuta blu da operaio speronano con un camioncino il furgone blindato portavalori della Banca Popolare di Milano. Poi, senza sparare, disarmano le guardie e si dileguano con un bottino clamoroso.
L’abilissima banda di via Osoppo fu catturata grazie all’etichetta delle tute, lasciate su un greto
1958 Nel tondo: il 1° di aprile i giornali escono a titoli cubitali con la notizia dell’arresto dei banditi di via Osoppo. A lato: alla conferenza stampa il questore De Rosa mostra una delle armi della “rapina del secolo”. 84
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1949 Ezio Barbieri in “gabbia“ al suo processo. Detto il bandito dell’Isola (quartiere ad alto tasso di ligera), Barbieri era il capo della banda dell’Aprilia nera, la veloce Lancia con cui fuggiva dopo i colpi.
LA MOSTRA
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ino all’11 febbraio nelle splendide sale di Palazzo Morando è allestita l’esposizione Milano e la Mala. La storia criminale della città, dalla rapina di via Osoppo a Vallanzasca. Il percorso della mostra, organizzato in senso cronologico, ricostruisce quarant’anni di vita e malavita della capitale morale, dalle prime rapine del Dopoguerra, quando Milano era ancora affamata e da ricostruire, ai crimini più efferati
dei boss come Turatello, Epaminonda e Vallanzasca, che agivano invece in una metropoli in rapida e forte ascesa economica. Al “bel Renè“ e alle sue feroci gesta è dedicata una sezione intera. Guardie e ladri. Il visitatore è condotto nel viaggio dalla ligera al racket grazie a 140 fotografie (tra cui tutte quelle presenti in questo servizio), video, documenti e “strumenti del mestiere” come la celebre custodia del mitra di
Luciano Lutring, i dadi delle bische, le armi che la polizia usava contro il crimine meneghino nelle sue varie fasi evolutive. In mostra ci sono anche le storie di chi ha tentato di contrastare bande, banditi e boss, come il commissario Nardone, il commissario Zamparelli, detto Maigrette, il leggendario maresciallo Oscuri e i questori Agnesina e Serra. Palazzo Morando, Milano: info: 02 8056685; www.mostramalamilano.it
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SCIENZA A caccia di scheletri
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La paleontologa inglese Mary Anning in un ritratto. A destra, un acquerello del 1830 basato sui fossili ritrovati dalla scienziata.
MARY ANNING (1799-1847)
Paleontologa LA CENERENTOLA DEI FOSSILI
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iversamente da altre scienziate, Mary Anning era di famiglia povera ed ebbe una scarsa istruzione. Nacque a Lyme Regis, nell’Inghilterra Meridionale, in una zona di scogliere ricche di fossili, che i locali vendevano ai visitatori. Fu il padre a insegnarle a cercarli e, morto lui (1810), la giovane proseguì l’attività. Nel 1811 scoprì il primo scheletro di ittiosauro, un rettile marino, seguito poi dal primo plesiosauro, da uno pterosauro (primo rettile volante d’Inghilterra) e nuove specie di fossili di pesci. Ispiratrice. Riuscì a ricostruire un intero scheletro, imparando l’anatomia dalle dissezioni di seppie e pesci e studiando articoli scientifici che chiedeva ai visitatori. Ebbe grandi intuizioni, come quella della natura dei coproliti (feci fossili), e il suo rigore scientifico influenzò molto la paleontologia, disciplina allora nascente.
Intraprendenti, anticonformiste e molto più in gamba di certi colleghi maschi. Ma spesso queste studiose sono rimaste senza cattedra né riconoscimenti.
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MARIA CUNITZ (1610-1664)
Astronoma STELLA NASCENTE DI SLESIA
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ata in Slesia (oggi Polonia) in una famiglia colta, a 5 anni sapeva leggere, a 10 parlava sette lingue. Appassionata di astronomia, studiò tra l’altro con il medico Elias von Löwen, che sarebbe poi diventato suo marito. Eredità. Nel 1650 pubblicò a proprie spese Urania propitia, in cui proponeva nuovi metodi di calcolo e tavole astronomiche, e
semplificava le teorie di Keplero (suo contemporaneo), correggendone gli errori. Scritto in latino, lingua della scienza, e in tedesco, equiparato a lingua scientifica solo a fine secolo, il libro ebbe molta risonanza. Nel 1655 un incendio le distrusse casa e appunti. Ma Maria Cunitz non fu scordata: a lei sono dedicati un cratere su Venere e un asteroide.
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La Storia ci ha tramandato raramente il nome di scienziate. D’altronde gli studi superiori sono stati preclusi per secoli alle donne, alle quali le convenzioni sociali lasciavano poco spazio. Eppure, in tante ce l’hanno fatta, lottando contro la famiglia e la società, anche se di rado hanno avuto grande risonanza perché rimaste all’ombra degli uomini. Eccone alcune. M. GAETANA AGNESI
LAURA BASSI
Matematica
Fisica
(1718-1799)
(1711-1778)
PIA DIVULGATRICE
LA PRIMA DOCENTE
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ata a Milano da una famiglia ricca, era tanto brillante che il padre, docente di matematica all’Università di Bologna, le fece dare un’istruzione privata. Dopo aver imparato sette lingue passò ad altri interessi, sfoggiando le proprie competenze nel salotto culturale di casa. Capolavoro. A 17 anni pubblicò il primo saggio, ma l’opera summa arrivò nel 1748: Instituzioni analitiche ad uso della gioventù italiana. Scritta in italiano (non in latino, com’era d’uso), fu tradotta in inglese e francese. Era il primo libro di matematica di una donna e la prima opera divulgativa del genere: in mille pagine Maria Gaetana Agnesi esponeva i principi base di algebra e geometria analitica, calcolo differenziale e integrale. E descriveva, per prima, la versiera, un tipo di curva matematica. A un certo punto, però, accantonò gli studi per dedicarsi alla beneficenza.
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A cura di Giuliana Lomazzi
olognese, fu la seconda laureata d’Europa. Versata in tutte le materie, studiate a casa, fu accolta nel 1732 all’Accademia delle scienze. Lo stesso anno discusse all’università bolognese due tesi, ottenendo una cattedra onoraria di filosofia per 500 lire annue – ma poteva insegnare solo in certe occasioni. “Casalinga”. Famosa in tutta Europa, intraprese studi di fisica sperimentale e matematica con il medico Giuseppe Veratti, che sposò nel 1738. Con lui organizzò in casa un laboratorio di fisica sperimentale newtoniana e un salotto culturale, e qui dal 1749 iniziò a insegnare la disciplina a universitari, aggirando il divieto per le donne; l’ateneo le raddoppiò lo stipendio. Ogni anno la Bassi teneva dissertazioni all’Accademia delle Scienze sugli argomenti più svariati. Nel 1766 ebbe infine una cattedra, questa volta effettiva. 87
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La prima donna a ricevere il Nobel fu Marie Curie nel 1903: inizialmente doveva essere conferito solo al marito Pierre. Poi il bis, nel 1911
Software d’annata
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Un ritratto del 1836 di Ada Lovelace. Figlia del poeta Byron, è considerata la prima programmatrice di computer al mondo.
CÉCILE VOGT (1875-1962)
ADA LOVELACE (1815-1852)
Matematica
ata a Londra, era figlia del poeta Byron e di una nobile studiosa di matematica, che però non formarono mai una coppia. Temendo “derive poetiche” della figlia, la madre la avviò allo studio della matematica. Geniale. A 17 anni la Lovelace (il cognome è del marito, che avrebbe sposato nel 1835) conobbe Charles Babbage, che lavorava a una macchina analitica per svolgere qualsiasi tipo di operazioni.
LA “MAMMA” DELLE NEUROSCIENZE
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LA NERD DEI COMPUTER
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Neurologa
Per lui tradusse un testo in cui l’ingegnere italiano Luigi Menabrea illustrava le proprie teorie per lo sviluppo della macchina. Ada aggiunse molte brillanti note. Descrisse un algoritmo per il calcolo dei numeri di Bernoulli, il primo programma informatico della Storia. Ebbe l’intuizione che in futuro la macchina non avrebbe fatto solo calcoli ma anche, tra l’altro, “composto” musica. Nel ’79 le fu dedicato il linguaggio informatico Ada.
i origine francese, Cécile Mugnier fu tra le poche laureate in medicina a Parigi. Intraprese poi studi di neurologia all’Ospedale di Bicêtre dove conobbe il futuro marito, il tedesco Oskar Vogt, con cui proseguì le ricerche a Berlino per sessant’anni. I due volevano capire le basi dei processi della coscienza e dei disordini mentali come nevrosi e psicosi. Vedova. Verso fine carriera la coppia si concentrò sulla terapia genica – ancora oggi all’avanguardia. Cécile svolse inoltre ricerche di neuropatologia avanzata e fu una pioniera nella neuroanatomia del talamo, una struttura del cervello. Ebbe però riconoscimenti limitati. Per una ventina d’anni ottenne un posto ufficiale come insegnante retribuita al Kaiser Wilhelm Institut. Dopo la morte del marito non le vennero più riconosciuti meriti scientifici.
(1895-1957)
Ingegnere LADY DINAMO
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Caroline Haslett
D’altri tempi
In un quadro del 1901 la matematica, filosofa e astronoma Ipazia che visse in Egitto (IV-V secolo d.C.).
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ata da una modesta famiglia inglese, mentre lavorava si dedicò a studi di ingegneria elettrica a Londra. L’intento era liberare le donne dalla schiavitù dei lavori domestici, permettendo loro di coltivare i propri interessi fuori casa. Vide lontano: la corrente elettrica doveva ancora raggiungere le case, ma già era presente nell’industria. Così aprì alle donne un campo, quello dell’ingegneria, fino ad allora prerogativa maschile. Elogiata. Cominciò nel 1919 come prima segretaria della Women’s Engineering Society; in seguito fondò e diresse due riviste di ingegneria femminile e varie associazioni di categoria. Dopo la Seconda guerra mondiale, unica donna, fu l’esperta della sicurezza in un comitato di 20 professionisti incaricati di valutare le necessità per le istallazioni elettriche nelle case. Ebbe anche incarichi governativi, e rappresentò l’Inghilterra all’estero. Le andò meglio che ad altre donne: cambiati i tempi, i riconoscimenti non le mancarono.
LE ALTRE DONNE DI SCIENZA Ipazia (IV-V secolo): la prima matematica e astronoma di cui abbiamo notizia. Fu la prima donna a capo della scuola neoplatonica di Alessandria d’Egitto. Grazie a lei fu migliorato l’astrolabio e inventato l’idroscopio. Fu uccisa da monaci cristiani. Loredana Marcello (XVI secolo), detta la “dogaressa erudita”: sposò un doge, lasciò un’opera di botanica (perduta) che fu usata per curare gli appestati a Venezia. Elena Cornaro Piscopia (1646-1684): veneziana, fu la prima laureata d’Europa (e forse del mondo), nel 1678 a Padova. Maria Sibylla Merian (1647-1717): naturalista e illustratrice tedesca, studiò (e disegnò) la metamorfosi del bruco in farfalla. I suoi lavori ebbero tardi riconoscimenti perché scritti in tedesco e non in latino. Caroline Herschel (1750-1848): tedesca, fu la prima donna a scoprire comete (ne individuò otto) e a ricevere prestigiose onorificenze scientifiche. Lavorò con il fratello William, noto astronomo. Sofia Kovalevskaya (1850-1891): fu la prima laureata in matematica d’Europa e la prima fisica russa. Nel 1889 le fu assegnata a Stoccolma una cattedra universitaria. Fu anche tra le prime scienziate a collaborare con una rivista scientifica. Ellen Swallow Richards (1842-1911): chimica statunitense ed ecologista ante litteram, fu la prima donna a entrare al Massachusetts Institute of Technology di Boston. Si occupò di questioni sanitarie e della qualità di aria e acqua. Grazie a
lei, il Massachusetts fu il primo Stato Usa a introdurre standard qualitativi per le acque e moderne fognature. Rosalind Franklin (1920-1958): fisica e chimica britannica, intuì per prima che il Dna era costituito da due catene distinte. I colleghi Francis Crick e James Watson, al corrente dei suoi studi, presentarono un modello del Dna, aggiudicandosi il Nobel per la medicina nel 1962. Lise Meitner (1878-1968): fisica atomica austriaca, studiò la radioattività con Otto Hahn e fornì per prima l’esatta interpretazione del processo di fissione nucleare. In lizza 3 volte per il Nobel, non lo ottenne perché ebrea: questo le impedì di continuare a lavorare con Hahn, il quale ricevette il premio nel 1944 per la scoperta della fissione nucleare. Maria Goeppert-Mayer (1906-1972): fisica tedesca naturalizzata Usa, studiò il nucleo atomico di cui propose un modello. Per questo ricevette il Nobel nel 1963 insieme a Hans D. Jensen. Prima di ottenere la cattedra in fisica, lavorò per anni senza stipendio. Grace Murray Hopper (1906-1992): pioniera della programmazione informatica, questa matematica americana lavorò con il primo computer digitale della marina, il Mark I. Margarete Schütte-Lihotzky (18972000): seconda donna austriaca a laurearsi in architettura e prima a svolgere un’attività professionale. Pioniera dell’edilizia popolare, per prima ideò una cucina ergonomica e una lavanderia centralizzata. 89
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I GRANDI TEMI LA RESTAURAZIONE
Talleyrand Uno...
Il principe di Talleyrand, rappresentante della Francia, detto il “diavolo zoppo” per il suo difetto fisico e per la sua propensione alle astuzie politiche. A destra, i partecipanti al Congresso, che si tenne a Vienna dal 1º novembre 1814 al 9 giugno 1815.
Al Congresso di Vienna le potenze europee tentarono di riportare indietro l’orologio della Storia, senza riuscirci.
L’ULTIMO
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von Metternich ... contro l’altro
Il principe austriaco von Metternich che si mise in luce durante i lavori del Congresso e nel 1821 divenne Cancelliere dell’impero. Aveva come principale obiettivo contrastare lo spirito rivoluzionario che dilagava in Europa.
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er più di venticinque anni uno spettro si era aggirato per l’Europa, togliendo il sonno a re e imperatori e terrorizzando una generazione di parrucche incipriate. Questo spettro si chiamava “rivoluzione”, un sconvolgimento che si era allargato a macchia d’olio in tutta Europa a partire dal fatidico 14 luglio 1789, quando il popolo parigino aveva dato l’assalto alla Bastiglia. E con il tempo aveva prodotto anche un mostro, Napoleone, che con le sue baionette aveva messo a ferro e fuoco il Vecchio Continente. Ora però il peggio sembrava alle spalle e il “Piccolo caporale” aveva come impero personale solo l’isola d’Elba, mentre i potenti d’Europa si
riunivano in congresso a Vienna il 1° novembre 1814 per rimettere le cose a posto. Nelle cancellerie europee, infatti, in quei giorni la parola d’ordine era “restaurazione” e l’obiettivo era riportare le lancette della Storia a prima della Rivoluzione francese, come ha scritto lo storico Franco Della Peruta: “I teorici più intransigenti della controrivoluzione restauratrice coltivavano l’ideale di un ritorno integrale al passato, di una cancellazione totale dei cambiamenti introdotti nella società civile e politica europea sotto il regno dei principi dell’89 e con la forza delle armate di Napoleone”. Più facile a dirsi che a farsi, dato che Napoleone e le sue armate avevano rivoltato il continente come un
guanto, facendo e disfacendo nazioni. All’apertura del Congresso si presentò al castello di Schönbrunn una folla di duecento delegazioni, in rappresentanza di Stati e Staterelli, ciascuna pronta a perorare la propria causa.
PARTITA A QUATTRO. Il Congresso “assomiglia a una fiera in un piccolo paese, in cui ognuno dà una lucidata al dorso del proprio bestiame per venderlo e barattarlo”, scrisse, in quei giorni, un dignitario prussiano, Gebhard Leberecht von Blücher, e in mezzo a tanto clamore poche erano le voci che contavano veramente. “A Vienna i due Stati guida furono la Russia e l’Inghilterra, le due potenze che più avevano contribuito al 91
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Regno di Norvegia Oslo
Impero russo
Helsinki
Stoccolma
Regno di Svezia
mare del Nord
Impero d’Austria
Mosca
Regno di Danimarca Copenhagen
Confine della Confederazione germanica
Regno di Gran Bretagna e Irlanda Londra
Regno dei Paesi Bassi
Danzica
sia Prus o di Regn Berlino
Amsterdam
Varsavia Parigi
Confederazione Praga germanica
I m pero d ’Austria Vienna
Monaco Regno di Francia
Svizzera Milano Torino
Regno di Portogallo
Nuovi equilibri
Nella cartina, il continente come uscì dal Congresso, diviso tra le maggiori potenze europee. Sotto, Lord Castlereagh (1769-1822), di origine irlandese, all’epoca della conferenza ministro degli Esteri del Regno Unito.
Lisbona
Madrid Regno di Spagna
Gibilterra (Gran Bretagna)
Regno d’Ungheria
Gr. Modena Gr. Toscana
Venezia Istria Stato della chiesa Roma
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Regno delle Due Sicilie
Cagliari mar Mediterraneo
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Malta (Gran Bretagna)
Dopo anni di guerre, i nobili volevano riassaporare la bella vita di una volta
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Budapest Lombardo Veneto
Napoli
Lord Castlereagh
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Regno di Sardegna
Impero russo
Regno di Polonia
crollo di Napoleone, la prima con le sue inesauribili riserve di soldati, la seconda con la sua supremazia navale”, scrive Della Peruta. A rappresentarle, lo zar Alessandro I (1777-1825), personalità impulsiva, imprevedibile, impregnata di misticismo religioso, e Lord Castlereagh (1769-1822), freddo e realista ministro degli Esteri di sua maestà britannica. Lo zar mirava ad assumere la guida di tutta l’Europa come un grande padre depositario della volontà divina. Castlereagh mirava invece a evitare proprio un’egemonia in Europa di qualsivoglia potenza. Tra queste opposte visioni si inserì l’azione delle due menti più raffinate della diplomazia dell’epoca, l’austriaco principe di Metternich e il principe di Talleyrand, rappresentante di Luigi XVIII, fratello del sovrano decapitato dai rivoluzionari nel 1793 e re di Francia dopo la cacciata di Napoleone (v. riquadro nelle
pagine seguenti). Tra i quattro, a cui si aggiungeva Karl August von Hardenberg (1750-1822), plenipotenziario di una Prussia sempre più in ascesa, si giocò per mesi una partita a scacchi in cui ognuno controllava innanzitutto gli avversari prima di far qualsiasi mossa.
DALLE DANZE... La Restaurazione, in fondo, poteva attendere qualche mese, anche perché dopo decenni di guerre e lotte l’aristocrazia aveva voglia di riassaporare la bella vita.“Il Congresso danza ma non avanza”, scrisse in una missiva al principe de Talleyrand il quasi ottuagenario Charles Joseph de Ligne, militare e scrittore, che morì prima di vedere la fine di quello storico congresso. E Vienna in quei giorni sembrava fatta apposta per danzare. «Trionfava una gioiosa spensieratezza, condita da uno straordinario sfoggio di eleganza e di lusso e animata da intrighi sentimentali che coinvolsero tutti i protagonisti del Congresso», spiega Vittorio Criscuolo, docente di
La Santa Alleanza gendarme d’Europa
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ordine stabilito a Vienna venne mantenuto grazie alla polizia, alla censura e agli eserciti. Fu inoltre deciso il principio in base al quale, se uno Stato aveva problemi di carattere rivoluzionario, le altre potenze potevano intervenire per sedare le
rivolte. Su proposta dello zar Alessandro I, tra Austria, Russia e Prussia nacque la Santa Alleanza (ottobre 1815), detta santa perché “voluta” da Dio per preservare l’ordine costituito. Il mutuo aiuto in caso di rivolte interne fu uno strumento efficace per reprimere le
insurrezioni durante i moti carbonari e liberali degli Anni ’20 e ’30 dell’Ottocento. Dentro e fuori. Nell’alleanza entrò nel 1822 anche la Francia, mentre ne rimase fuori la Gran Bretagna, per la quale il patto rappresentava una riaffermazione dell’assolutismo
di origine divina contrario ai principi della monarchia parlamentare inglese. Anche il papa non appoggiò la Santa Alleanza poiché a essa partecipavano, oltre alla cattolicissima Austria, la Russia, ortodossa, e la Prussia, protestante.
Congresso danzante
Storia moderna all’Università Statale di Milano. In effetti di Metternich si disse che trascorreva tre quarti della sua giornata tra feste e danze e lo zar Alessandro venne descritto nei dispacci ufficiali come un “accanito ballerino”.
... AI DUBBI. Non fu però un’assise da operetta, quella di Vienna, perché sotto la patina di festa aleggiava la preoccupazione tra teste coronate e dignitari di corte. Preoccupazione che la rivoluzione riprendesse fiato e che la borghesia, sempre più ricca con l’industria e i commerci, non se ne stesse buona buona in un cantuccio mentre l’aristocrazia riprendeva in mano le briglie del potere. Preoccupazione che le rivendicazioni di liberali e patrioti, che già aleggiavano nell’aria, prendessero forza sulle ali del nuovo gusto romantico con il suo amore per le passioni, la libertà e gli eroismi. A questo si aggiungevano i sospetti tra le grandi potenze che danzavano nella stessa sala ma ognuna a tempo della propria musica. Prova di tanta diffidenza erano le spie, di cui Vienna era piena, come conferma sempre Criscuolo quando racconta che il governo austriaco «organizzò un capillare ed
efficientissimo sistema di spionaggio: in pratica tutti i membri delle delegazioni e tutti i personaggi di rilievo presenti al Congresso furono seguiti e controllati costantemente». Di queste divisioni seppe in un primo tempo approfittare con astuzia il “diavolo zoppo”, come gli avversari chiamavano Talleyrand per il suo difetto fisico e la sua luciferina propensione all’intrigo. Riuscì a far passare la Francia non come nazione sconfitta ma come vittima della Rivoluzione prima e di Napoleone poi. Bisognava quindi restaurare il potere legittimo rappresentato da Luigi XVIII e non imporre punizioni al Paese. Il principio di legittimità, cioè il ritorno al governo delle autorità che avevano esercitato il potere prima della Rivoluzione, divenne così uno dei cardini del Congresso anche perché era un punto di partenza solido e ancorato ai bei tempi andati. Castlereagh, e soprattutto Metternich, erano però troppo intelligenti per non capire che non era possibile far tornare indietro di 25 anni il corso della Storia. “La Restaurazione non poteva essere una pura e semplice reazione. Essa andava invece vista come il tentativo
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A lato, un momento di svago durante la conferenza. Gli aristocratici non si fecero mancare feste e danze anche in quei giorni, in cui si decidevano le sorti di Stati e popoli d’Europa. In basso a destra, Alessandro I, zar di Russia dal 1801 al 1825.
Alessandro I
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ALINARI
Ultimo atto
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A lato, i “big” d’Europa si spartiscono il continente a Vienna, in una stampa satirica anonima. Sotto, il registro dei lavori e le decisioni prese alla fine dell’assise, in calce le firme dei rappresentanti dei cinque Stati principali (Francia, Austria, Prussia, Russia e Gran Bretagna).
Talleyrand vs Metternich Il Congresso di Vienna fu anche uno scontro di personalità, ciascuna decisa a ottenere vantaggi maggiori per la propria nazione. Tra questi vi erano il principe di Talleyrand, delegato per la Francia, e Klemens von Metternich, plenipotenziario dell’Impero d’Austria. Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord (1754-1838) era un abile trasformista. Diventato vescovo, senza vocazione, nel 1789, aveva poi aderito alla Rivoluzione francese e in seguito era entrato al servizio di Napoleone. Nonostante ciò, nel 1814 sedeva con le potenze europee a ridisegnare l’Europa per riportarla indietro nel tempo, a prima della Rivoluzione. Opposti. Il principe di Metternich (1773-1859), invece, per tutta la vita ebbe un unico obiettivo: contrastare lo spirito rivoluzionario e ripristinare l’ordine, assicurando la pace all’Austria e all’Europa. Fu sempre al servizio degli Asburgo: iniziò come ambasciatore a Dresda e a Parigi e in seguito, durante gli anni delle guerre napoleoniche, tentò, da ministro degli Esteri, di contenere le ambizioni del Còrso. Il Congresso di Vienna rappresentò la sua consacrazione politica e gli aprì la strada, nel 1821, alla carica di Cancelliere dell’Impero d’Austria. Indro Montanelli ben sintetizzò le loro antitetiche personalità: “Talleyrand non credeva a nulla e quindi era sempre pronto a tradire chiunque. Metternich rimase sempre specchiatamente fedele al suo Paese e al suo sovrano, credeva in ciò che faceva anche se era sbagliato”. 94
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Con la Restaurazione si crearono equilibri che, tra alterne vicende, durarono fino al 1914 di creare un nuovo equilibrio politico e sociale che, pur fondandosi sui valori dell’antico regime, teneva conto in qualche misura delle esigenze di rinnovamento affermatesi dopo il 1789 nel campo legislativo, amministrativo, economico e sociale”, ha scritto Della Peruta. La Rivoluzione e Napoleone avevano creato leggi efficaci, una burocrazia efficiente e un esercito moderno. Non aveva senso rinunciarvi. L’importante era che non si parlasse più di assemblee, sovranità popolare e uguaglianza.
dopo mesi di discussioni, vennero in realtà prese in tutta fretta dopo che si era diffusa la notizia della fuga di Napoleone dall’isola d’Elba (26 febbraio 1815). Cominciava l’ultima avventura napoleonica, quella dei Cento Giorni, e non era più tempo di battibecchi tra le grandi potenze. Bisognava unirsi ancora una volta per fronteggiare il nemico di sempre. Alla chiusura del Congresso, il 9 giugno 1815, pochi giorni prima della resa dei conti definitiva con Napoleone a Waterloo, diplomatici e dignitari erano comunque convinti di aver posto una pietra tombale sulla Rivoluzione. EQUILIBRISMI. Quanto alla Fu un’illusione, come dimostrarono legittimità, doveva essere dominata da gli eventi successivi fino alle rivoluzioni un sano realismo basato sul principio del 1848, che spazzarono via la dell’equilibrio, cioè sull’idea di evitare Restaurazione. Tuttavia il Congresso che uno Stato potesse stabilì per la prima volta APERNE primeggiare sugli altri. il concetto di equilibrio DI PIÙ E per mantenere questo tra le 5 potenze maggiori, equilibrio il Congresso di che resse il continente Vienna ridisegnò la carta europeo, cuore della Il Congresso di del Vecchio Continente, politica mondiale, Vienna, Vittorio Criscuolo, Il Mulino. ma senza tenere conto garantendo un secolo di degli interessi dei popoli. relativa pace. Più prosaico L’Ottocento, Franco Della Peruta, L’Austria ebbe il Lombardoil giudizio degli avversari Mondadori. Veneto e l’egemonia sul Nord della Restaurazione, come Metternich, Luigi Italia, la Russia si allargò dimostra l’epitaffio scritto Mascilli Migliorini, in Polonia, la Prussia verso dal poeta liberale Byron Salerno Editore. Occidente nelle terre renane alla morte di Castlereagh: Alessandro I. e la Francia mantenne il suo “Qui giacciono le ossa di Lo zar della status di potenza. Alla Gran Castlereagh: fermati, o Santa Alleanza, Henri Troyat, Bretagna rimase il dominio viandante, e piscia”. Bompiani. Roberto Roveda sui mari. Queste decisioni,
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INTANTO NEL MONDO EUROPA
MONDO
1812
1812
Fallimentare spedizione in Russia di Napoleone.
SOCIETÀ E CULTURA
Inizia la guerra anglo-americana.
1813
Napoleone è sconfitto a Lipsia; la coalizione anti-francese inizia l’invasione della Francia.
1814
1814
Le potenze europee occupano Parigi e costringono Napoleone all’esilio sull’isola d’Elba. In Francia sale al trono Luigi XVIII mentre si apre il Congresso di Vienna.
George Stephenson collauda con successo la prima locomotiva a vapore.
1815
1815
Sconfitta definitiva di Napoleone, fuggito dall’Elba, a Waterloo. Si chiude il Congresso di Vienna. Nasce la Santa Alleanza tra Russia, Prussia e Austria.
Negli Stati Uniti viene varata la prima nave da guerra alimentata a vapore.
1816
1816
Nasce il Regno delle Due Sicilie.
1818
Indipendenza del Cile.
1820
Moti liberali in Piemonte (sotto, Carlo Alberto di Savoia).
1819
Walter Scott pubblica Ivanhoe.
Moti carbonari e liberali in Spagna, Portogallo e a Napoli.
1821
Viene rappresentato per la prima volta a Roma Il barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini.
1821
Simón Bolívar guida il Venezuela all’indipendenza dagli spagnoli. Gli Stati Uniti ottengono la Florida dalla Spagna. Indipendenza del Perù.
1823
Il presidente Usa James Monroe proclama la “Dottrina Monroe”: non ci devono più essere interferenze dell’Europa nelle Americhe.
1824
Nasce la Repubblica del Messico.
1825
1824
Prima esecuzione della Nona Sinfonia di Beethoven.
L’Uruguay diventa indipendente.
1830
In Francia scoppia la “rivoluzione di luglio” che porta sul trono Luigi Filippo d’Orléans, detto il “re borghese”.
1834
Nasce l’Unione doganale degli Stati tedeschi (Zollverein), che porterà all’unificazione della Germania.
1830
Le truppe francesi iniziano la conquista dell’Algeria sottraendola al controllo degli Ottomani.
1834
Louis Braille mette a punto il sistema di lettura per i ciechi, il Codice Braille.
1839
1839
1844 1848
1848 In California inizia la corsa all’oro.
Moti rivoluzionari in tutta Europa. Prima guerra d’indipendenza in Italia. La Francia diventa una repubblica e Metternich è costretto alle dimissioni da cancelliere dell’Austria. Finisce l’età della Restaurazione.
1834
Inizia il Great Trek, la lunga migrazione dei Boeri dalla colonia del Capo verso le regioni dell’Orange e del Transvaal. Scoppia il conflitto anglo-cinese conosciuto come Prima guerra dell’oppio.
Fallisce il moto dei fratelli Bandiera.
1830
Stendhal pubblica Il rosso e il nero.
Viene inaugurata la prima linea ferroviaria italiana, la Napoli-Portici.
1848
Pubblicato a Londra il Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx e Friedrich Engels. Nello scritto si analizza la Storia come lotta di classe ed è proclamata la necessità di una rivoluzione che porti alla dittatura del proletariato. 95
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MISTERO A Johann Joachim Winckelmann dobbiamo la storia Ma l’amore per la bellezza non lo salvò da una morte
MOVENTE
Libri e antiche mura
Il ritratto di Johann Joachim Winckelmann, su un paesaggio classico, di un pittore anonimo (1760). 96
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dell’arte, il Neoclassicismo, l’archeologia moderna. orribile e, ancora oggi, con un...
OSCURO
BRIDGEMAN/MONDADORI PORTFOLIO
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inque fendenti mortali: così, 250 anni fa, moriva in una locanda triestina una della menti più brillanti e ammirate del XVIII secolo. Storico dell’arte e “padre” del Neoclassicismo, a Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) il mondo è debitore per l’enorme contributo che diede all’archeologia e alla cultura. Ma che sia morto così, assassinato in una stanza d’albergo, pochi lo sanno. E tra quelli che lo sanno, in tanti hanno ancora oggi più di un dubbio. Lo accoltellò un ladruncolo, Francesco Arcangeli, ma le certezze finiscono qui. Perché sul movente i dubbi sono più di uno: davvero si trattò di una rapina finita male? E se non fu così, c’era forse un mandante dietro l’omicidio? A queste domande prova a rispondere il libro Il delitto Winckelmann. La tragica morte del fondatore dell’archeologia moderna (Metamorfosi Editore), che la storica dell’arte Paola Bonifacio ha scritto seguendo le tracce dello studioso tedesco e ricostruendone soprattutto gli ultimi giorni e le ultime ore.
ROMA VAL BENE UNA MESSA. Fu proprio grazie alla sua solida cultura che, nel 1755, Johann coronò uno dei suoi più grandi sogni: trasferirsi a Roma. Il nunzio apostolico in Polonia, il cardinale Alberico Archinto
AKG/MONDADORI PORTFOLIO
SCALA
Dove studiò
La Vecchia Chiesa della Santa Croce a Dresda, dipinto di Canaletto (1721– 1780).
Heinrich Graf von Bünau
Il conte Von Bünau: nella sua biblioteca si perfezionò la formazione culturale del giovane studioso.
Una volta a Roma, forse l’archeologo si lasciò coinvolgere in giochi di potere più grandi di lui (residente a Dresda, dove Winckelmann si era trasferito), gli propose di accompagnarlo nella Città eterna previa conversione alla fede cattolica. Gli iniziali dubbi di Winckelmann si diradarono presto e lo studioso partì alla volta di Roma il 18 novembre 1755 col certificato di battesimo in tasca e una pensione pagata dal principe ereditario tedesco Federico Cristiano, affinché lo tenesse informato sulle scoperte archeologiche sia nello Stato
della Chiesa sia nel Napoletano. «A Roma», scrive Paola Bonifacio, «era stato accettato dalla comunità erudita italiana che aveva qui il suo punto di riferimento»: la fama di Winckelmann iniziò a diffondersi nei palazzi del potere romano, tanto che, oltre ad accompagnare papa Clemente XIII nelle visite alle scoperte archeologiche, divenne anche responsabile della biblioteca del cardinale Alessandro Albani.
Perché ha lasciato il segno
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inckelmann è stato un grande innovatore. Fu il primo a dare una veste scientifica alla storia dell’arte, rivoluzionata dal suo saggio più importante: La storia dell’arte nell’antichità (1763). L’impostazione di Winckelmann, basata sulla ricostruzione dell’arte antica attraverso lo studio delle fonti e l’analisi stilistica delle opere, sancì anche la nascita della moderna archeologia: grazie a lui, infatti, i monumenti antichi vennero studiati come opere d’arte in se stesse e
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come documenti in grado di fornire informazioni sulle civiltà e sulle culture precedenti, e non come semplici curiosità antiquarie. Neoclassicismo. Diede vita inoltre a un sistema di datazione delle opere fondato sullo studio del loro stile, sull’osservazione diretta e il confronto con le fonti letterarie. La fortuna delle sue teorie contribuì alla nascita e alla diffusione della corrente artistica del Neoclassicismo, che si ispirava appunto alle antichità greche e romane.
Ma, come sottolinea Bonifacio, forse Winckelmann si lasciò coinvolgere in giochi di potere più grandi di lui. Giochi che tirano in ballo l’Ordine dei Gesuiti e la Vienna imperiale di Maria Teresa.
SALVARE I GESUITI. «I Gesuiti erano malvisti un po’ dovunque», scrive Paola Bonifacio, «venivano accusati di tutto, anche di malversazione e addirittura di sedizione». Il fatto è che l’Ordine era molto potente e gli Stati laici di un’Europa travolta dalle idee illuministe e anticlericali non vedevano l’ora di cancellarne tutti i privilegi. Ma dovevano vedersela con Roma: la Chiesa riconosceva nell’attacco ai Gesuiti un attacco al suo potere temporale. L’Ordine andava difeso e, secondo alcuni prelati, l’obiettivo si poteva raggiungere attraverso l’imperatrice Maria Teresa d’Austria. Maria Teresa, per quanto “illuminata” e altalenante nei suoi rapporti con Roma, era pur sempre una devota cattolica e soprattutto una convinta sostenitrice dell’Ordine. L’Austria, dunque, rimaneva forse l’ultimo baluardo cattolico contro la marea laica e illuminista che dilagava in Europa.
GENTILE CONCESSIONE WINCKELMANN E IL MUSEO CAPITOLINO NELLA ROMA DEL SETTECENTO AKG/MONDADORI PORTFOLIO
Città eterna
Il quadro Veduta pittoresca del Campidoglio, con la statua equestre di Marco Aurelio, del pittore parigino Hubert Robert (1733-1808).
Alberico Archinto
Il cardinale Archinto (1698-1756): fu lui che portò Winckelmann nella Città eterna.
GETTY IMAGES (2)
Maria Teresa d’Austria
L’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo (1717-1780): poco prima di morire Winckelmann andò in missione da lei.
In mostra a Roma
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er celebrare gli importanti anniversari winckelmanniani del 2017 (300 anni dalla nascita) e del 2018 (250 anni dalla morte), a Roma sarà visitabile fino al 22 aprile 2018 la mostra Il Tesoro di Antichità. Winckelmann e il Museo Capitolino nella Roma del Settecento. Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e a cura di Eloisa Dodero e Claudio Parisi Presicce, con l’organizzazione di Zètema Progetto Cultura, la mostra racconta gli anni cruciali che hanno portato, nel dicembre del 1733, alla fondazione del Museo Capitolino, il primo museo pubblico d’Europa. Presenta inoltre le sculture capitoline sotto una luce diversa, ovvero attraverso le intuizioni, spesso geniali, del grande Winckelmann. Arricchita da una selezione di 118 opere, Il Tesoro di Antichità si sviluppa in tre sedi diverse: le Sale Espositive di Palazzo Caffarelli, le Stanze Terrene di Sinistra del Palazzo Nuovo e le Sale del Palazzo Nuovo. Per maggiori informazioni www.museicapitolini.org.
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Il movente della rapina finita male non regge: tutta l’azione era stata premeditata Ma Winckelmann cosa c’entrava in tutto questo? In teoria poco, in pratica molto. Con la sua autorevolezza e la sua fama di erudito, era la persona giusta a cui affidare documenti importanti e riservati da consegnare direttamente a Maria Teresa d’Austria: col suo nome poteva entrare in qualunque palazzo del potere senza destare sospetti. Fu così che il 10 aprile 1768 partì da Roma. Ufficialmente per uno dei tanti viaggi che spesso compiva in Europa, in pratica per nascondere tra i suoi bagagli le carte che avrebbe dovuto recapitare a Vienna. Nella capitale austriaca Winckelmann avrebbe ricevuto altri documenti da portare a Roma: era in gioco la stabilità del potere ecclesiastico, religioso, ma anche politico ed economico della Chiesa.
MISSIONE FATALE. Il viaggio di Winckelmann fu un successo: l’incontro con l’imperatrice e con il potente ministro von Kaunitz si concluse con la consegna di alcune preziose medaglie d’oro e d’argento e, soprattutto, di una serie di documenti riservati che dovevano essere portati immediatamente a Roma. Ma quel carteggio non arrivò mai a destinazione. Lungo il viaggio di ritorno, infatti, lo studioso tedesco dovette fermarsi a Trieste (allora porto dell’Austria) in attesa di un imbarco per Ancona, da dove avrebbe poi proseguito alla volta di Roma. Giunto in città il 1° giugno 1768, Winckelmann trovò una stanza, la numero 10, presso la centrale Locanda Grande: 6 lire per vitto e alloggio. Nella stanza accanto, la numero 9, alloggiava invece Francesco Arcangeli, 28enne nativo di Campiglio (Pistoia), giunto da Vienna dopo una condanna per furto e alla ricerca di un lavoro in città. Immediatamente Arcangeli promise di
Il luogo del delitto
Piazza San Pietro (oggi Piazza Unità d’Italia), a Trieste: qui c’era la Locanda Grande, teatro dell’omicidio di Winckelmann. Dipinto di Giuseppe Bernardino Bison (1762-1844).
aiutare Winckelmann nella ricerca di un imbarco. Ma i giorni passavano senza che lo studioso riuscisse a lasciare Trieste. Decise quindi di informarsi personalmente al porto e solo allora capì che Arcangeli stava prendendo tempo. Ma per quale ragione? Dubbi e sospetti andavano chiariti. L’8 giugno 1768, i due si trovarono uno di fronte all’altro nella stanza dell’archeologo; ma la situazione precipitò. Prima discussero animatamente, poi l’italiano estrasse dalla camicia un laccio e cercò di strangolare Winckelmann. Lo studioso reagì energicamente, così l’assassino decise di portare a termine l’opera con il coltello e colpì per cinque volte il petto della vittima. Mentre l’assassino si dava alla fuga, Winckelmann spirava. La fuga di Arcangeli non durò molto: arrestato, venne immediatamente processato e condannato a morte mediante il supplizio della ruota davanti alla Locanda Grande. L’esecuzione dell’assassino pose la parola fine al giallo che aveva sconvolto tutta l’Europa: secondo la versione
Visse d’arte
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ufficiale, infatti, Winckelmann venne ucciso mentre Arcangeli tentava di rubargli le monete ricevute a Vienna.
I DUBBI. Eppure il movente della rapina regge poco. Lo stesso Arcangeli al processo sostenne che, se realmente avesse voluto impossessarsi dei beni dell’archeologo, avrebbe potuto farlo in sua assenza poiché ne conosceva bene le abitudini. Un’altra ipotesi riguarda l’omosessualità di Winckelmann: può darsi che fra lui e l’assassino sia scoppiato un diverbio a causa di un approccio sessuale finito male. Eppure, aggiunge Bonifacio, «quella che si è conclusa con l’omicidio era evidentemente un’azione a lungo premeditata: l’assassino infatti si procurò con ampio anticipo il laccio, che predispose a nodo scorsoio, e il coltello». Ma fanno riflettere anche le strane e pressanti richieste provenienti da Vienna e da Roma subito dopo l’uccisione: «Le lettere intercorse testimoniano chiaramente una certa volontà di chiudere al più presto la questione con la restituzione di ogni oggetto appartenuto a Winckelmann».
COURTESY MOSTRA WINCKELMANN A MILANO, BIBLIOTECA BRAIDENSE
inckelmann dedicò la sua vita interamente alla cultura con un’abnegazione senza eguali. Nacque il 9 dicembre 1717 a Stendal, in Prussia, da una famiglia di umili origini: il padre, mastro calzolaio, e la madre, figlia di un tessitore, non potevano certo assecondare gli slanci culturali del figlio. Si iscrisse all’università, ma le ristrettezze economiche lo costrinsero a guadagnarsi da vivere come precettore privato. Erudito. La passione per l’arte e la storia non accennavano a diminuire e il ragazzo dedicava ogni momento libero alla lettura dei testi classici. In breve la sua fama di erudito si diffuse e, su consiglio della Soprintendenza di Stendal, trovò un lavoro come bibliotecario presso il conte Heinrich von Bünau a Nöthnitz, a sud di Dresda. Nella fornitissima biblioteca (40mila volumi!) “conobbe” illuministi come Voltaire e Montesquieu; mentre nella Galleria Reale di Dresda, uno dei musei più importanti del Settecento, approfondì la sua conoscenza della pittura italiana del Rinascimento. In pochi anni divenne una personalità di spicco nel mondo culturale dell’epoca.
E qui si apre un altro mistero: nell’accuratissimo inventario dei beni della vittima vengono citati involucri intatti di cui non è dato conoscere il contenuto e di cui Vienna richiese immediatamente l’invio. Chi beneficiò della morte dello studioso? Che cosa contenevano i documenti che ne causarono l’assassinio? Il mistero • resta. Fabio Dalmasso
Johann Joachim Winckelmann
L’archeologo in un ritratto del 1768 (l’anno in cui morì, a quasi 51 anni) del pittore Anton von Maron. 101
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STORIE D’ITALIA
A.MOLINO
BERGAMO
Nato a Bergamo, Giacomo Costantino Beltrami arrivò in America nel 1823, socializzò con gli indiani e scoprì le fonti del Mississippi.
L’UOMO CHE PARLÒ COI
SIOUX N
L’arrivo
In una ricostruzione, Giacomo Costantino Beltrami sulle sponde del Julia Lake: era il 1832 e l’esploratore italiano credeva che quello fosse il luogo d’origine del fiume Mississippi. La sua fu un’esplorazione geografica ma anche etnologica alla scoperta delle tribù native.
ello Stato del Minnesota ancora oggi c’è una contea che porta il suo nome: la Beltrami County. E non solo: ci sono anche la cittadina Beltrami (nella Contea di Polk), il quartiere Beltrami a Minneapolis e la riserva naturale Beltrami Island State Forest. Insomma Giacomo Costantino Beltrami da Bergamo ha lasciato ampiamente il segno nella leggenda del West. Vissuto a cavallo tra ’700 e ’800, fu «patriota italiano, soldato napoleonico, giudice, letterato, e anche scienziato in vari campi, dalla storia e dalla lingua degli Aztechi fino alla botanica», spiega Luigi Grassia, autore di Balla coi Sioux. Beltrami, un italiano alle sorgenti del Mississippi (Mimesis Editore). «Lui però si considerava soprattutto un esploratore, e lo scopritore delle sorgenti del Mississippi. Questo è stato il capolavoro della sua vita». Un traguardo che però non diede a Beltrami fama e gloria a casa sua, in Italia.
SOTTO L’ALA NAPOLEONICA. Giacomo Costantino Beltrami nacque nel 1779 da una famiglia abbiente: suo padre, Giovanni Battista era doganiere della Repubblica di Venezia in una città che si apprestava a vivere uno dei momenti più importanti della sua storia con
l’invasione dell’esercito napoleonico (1797). Dalle poche notizie certe sull’infanzia di Beltrami sappiamo che imparò con facilità il francese, cosa che si sarebbe poi rivelata molto utile. Quando Napoleone conquistò Bergamo, infatti, Beltrami non ebbe difficoltà a essere impiegato in varie mansioni: attratto da quella forza dirompente e rinnovatrice che lo tsunami napoleonico portava con sé, dopo alcuni incarichi di supporto all’esercito francese, Beltrami intraprese una rapida carriera che lo portò a ricoprire ruoli come cancelliere di giustizia e giudice nelle Marche, dove avviò anche una tenuta agricola. Fedele agli ideali napoleonici, non esitò a usare la mano pesante nella repressione delle rivolte contadine che periodicamente si scatenavano contro l’imperatore d’Oltralpe. Vicino alla carboneria e alla massoneria, dopo la caduta del regime napoleonico e la morte del suo grande amore, Giulia de’ Medici Spada, fu accusato di aver preso parte a una rivolta antiaustriaca: costretto all’esilio si rifugiò a Firenze per poi ottenere il permesso di ritornare nella sua tenuta marchigiana, ma come sorvegliato speciale. Una situazione insostenibile per Beltrami che decise di lasciare l’Italia. «Dopo il crollo del Regno napoleonico 103
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Beltrami lasciò l’Europa anche deluso dalla caduta del regime napoleonico
Visti da vicino
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Un’illustrazione ottocentesca di un guerriero sioux. Il bergamasco fu tra i primi occidentali a socializzare con le tribù native americane, spinto dalla sete di conoscenza.
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d’Italia, su cui aveva fondato tutta la sua vita, dalle speranze politiche a quelle personali, Beltrami si mise a girovagare per l’Europa, ma ogni Paese che visitò gli apparve come il regno della reazione», spiega Grassia. Il Nuovo Mondo poteva aprirgli orizzonti alternativi.
SENZA PREGIUDIZI. Il viaggio che portò Beltrami prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti aveva uno scopo preciso: “Raccogliere lungo il percorso l’esperienza e la storia dei popoli stranieri più degni di ammirazione, studiate nei luoghi stessi dove la libertà aveva trionfato, per farle conoscere in Italia in modo che il Paese ne traesse ispirazione per la sua propria libertà”. Con questo spirito Beltrami salpò da Liverpool presumibilmente alla fine di ottobre del 1822 per sbarcare, il 21 febbraio dell’anno dopo, a Filadelfia. Da lì prese il via il suo tour americano: Baltimora, Washington e poi una lunga e avventurosa esplorazione verso il cuore selvaggio dell’America, quella frontiera a Ovest che gli avrebbe riservato sorprese e incontri con i nativi americani. Proprio nel rapporto con queste popolazioni Beltrami dimostrò di essere un «pioniere della multiculturalità, un termine che alla sua epoca non esisteva nemmeno, per come ha saputo entrare in contatto con gli indiani d’America senza pregiudizi da bianco colonizzatore o conquistatore», aggiunge
Esploratore
ALAMY/IPA
Sotto, Giacomo Costantino Beltrami in un quadro del ’900. A sinistra, il Lago Itasca, dove inizia il Mississippi. Beltrami pensò di aver trovato le sorgenti del fiume nel poco lontano Julia Lake, chiamato così in memoria dell’amata Giulia de’ Medici Spada (nel tondo, in un disegno).
RICORDI DI VIAGGIO. Aggregatosi a una missione militare di ricognizione, Beltrami salpò dalla confluenza fra l’Ohio e il Mississippi il 21 aprile 1823 a bordo del battello a pale Virginia. Ad attirare l’attenzione del viaggiatore italiano fu Grande Aquila, capo del popolo dei Sauk e fiduciario dell’esercito americano presso la propria tribù. Tra i due nacque subito una sincera amicizia, suggellata da un dono originale: Beltrami ricevette infatti lo scalpo di un sioux che Grande Aquila portava appeso alla cintola. Fu il primo di una serie di souvenir che collezionò nel suo girovagare tra le tribù indiane: entrando in contatto con i Winnebago, con i Sioux e altre popolazioni di nativi, il bergamasco entrò in sintonia con gli autoctoni e raccolse moltissimi oggetti che sono oggi esposti al Civico Museo di Scienze naturali Caffi di Bergamo e nel Palazzo Luchetti Gentiloni di Filottrano (An). Si tratta di reperti rari come la bella ed elaborata “borsa da medicina” (il medicine man era lo sciamano guaritore) che Beltrami barattò per una bottiglia di whisky: si tratta della pelle intera, compresa la testa, di un grosso mustelide, liberata dai peli e svuotata di tutti gli organi interni così da formare una sacca decorata con
MUSEO DI SCIENZE NATURALI E. CAFFI/BERGAMO
Grassia. «Ma anche senza il mito letterario del buon selvaggio, troppo facile da coltivare in Europa, con un oceano in mezzo».
Gli altri pionieri made in Italy
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ell’800 migliaia di italiani, oltre a Beltrami, attraversarono l’oceano e, invece di fermarsi nella già promettente New York, si spinsero oltre il corso del Mississippi e del Missouri. Tra di loro c’era Leonetto Cipriani, origini toscane, che nel 1853 fu il primo italiano a compiere la traversata dal
Sotto, un ritratto di Falco Nero (17671838), un capo tribù dei Sauk, uno dei popoli con cui venne a contatto Beltrami.
Missouri alla California con una carovana di carri, o almeno il primo a raccontarla. Lo scopo principale del viaggio? “Fare personalmente dei rilevamenti ferroviari”. Aveva visto giusto: la corsa delle compagnie ferroviarie verso il Pacifico nella seconda metà dell’800 diventò uno degli affari più remunerativi della frontiera.
Qualcuno fece fortuna invece con caramelle e cioccolatini: fu il caso di Domenico Ghirardelli di Rapallo (Ge) che, in piena febbre dell’oro, vendeva dolciumi da una città mineraria all’altra. Nel 1852 impiantò a San Francisco una fabbrica di liquori e cioccolato, la Ghirardelli Chocolate Company che esiste tuttora.
Beltrami scrisse il vocabolario di lingua sioux (il primo di sempre) mentre cercava la fonte del Mississippi pitture rituali e aculei di porcospino privati della punta, ammorbiditi, colorati e intrecciati. Beltrami raccolse anche tamburi da sciamano, stoffe decorate con figure geometriche, mocassini in pelle, gambali, zufoli di legno, flauti da corteggiamento e una racchetta da lacrosse, un gioco praticato dai nativi che consisteva nel raccogliere e lanciare una palla verso la porta avversaria. Ma il pezzo più pregiato è il giaccone d’alce creato appositamente per Beltrami da Woascita, figlia di Tempo Coperto della tribù dei Chippewa presso i quali il viaggiatore italiano divenne molto noto acquisendo fama di grande combattente.
L’ABC DEI SIOUX. Deciso a scoprire le sorgenti del Mississippi, Beltrami iniziò l’ultima
I souvenir
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In pace e in guerra. In tutto il West non mancarono nemmeno missionari arrivati a convertire i nativi alla fede cristiana: il romano padre Mengarini (1811-1887) in Oregon fu considerato fra i maggiori esperti della lingua degli indiani Flathead. Durante la Guerra civile americana (1861-1865) alcuni
parte della sua lunga avventura americana il 9 agosto 1823: da solo, facendosi amici gli indiani Chippewa che incontrava, ormai vestito solo di pelli e corteccia di betulla, si orientò in un puzzle di aquitrini, laghi, fiumi, valli (“perché quasi tutto il Paese [...] galleggia per così dire, sull’acqua”, annotò nei suoi appunti); il 31 dello stesso mese giunse a quelle che lui ritenne le uniche fonti del grande fiume: in realtà erano solo quelle più settentrionali, quelle del Julia Lake, così battezzato da Beltrami a perenne ricordo del suo grande amore, Giulia de’ Medici Spada. Ma si sbagliò di poco: il fiume nasce dal vicino Lago Itasca. Cinque anni dopo fece un resoconto dettagliato arricchito da una mappa (v. nella pagina accanto) del corso del fiume dal Lago Winnipeg (Canada) al Golfo del Messico, tra Tennessee, Louisiana, Alabama, Mississippi e Kentucky. Ma non fu solo un’esplorazione geografica: Beltrami mise insieme anche il materiale che
italiani imbracciarono anche le armi, come Adolfo Farsari, vicentino, che militò nell’esercito nordista: entrò nel 12° Cavalleggeri anche allettato dalla buona paga. Dopo la Guerra civile, proseguì la sua avventura al di là del Pacifico, in Giappone. Ma c’è chi in
America rimase, come Carlo Camillo di Rudio, bellunese classe 1832, che diventò ufficiale del 7° Cavalleggeri (quello del generale Custer) e il 25 giugno 1876 era sul campo di battaglia di Little Big Horn, la più grande vittoria dei nativi contro l’esercito Usa. (a. r.)
sarebbe divenuto il primo dizionario della lingua sioux della Storia. «Durante la parte più avventurosa del suo viaggio, nella valle del Mississippi alla ricerca delle sorgenti, Beltrami si portava dietro un taccuino su cui appuntava tutte le nuove parole sioux che scopriva man mano, in modo da ricordarsele e poterle utilizzare in seguito», spiega Grassia. Il Sioux Vocabulary 1823 di Beltrami è stato pubblicato negli Stati Uniti nel 1995 da un’autorevole casa editrice di testi sioux.
Il viaggio
PROFETA ALL’ESTERO. Ormai 58enne, Beltrami rientrò in Italia dopo un lungo peregrinare tra Messico, Haiti, Inghilterra, Francia e Germania: il 6 gennaio 1855, all’età di 76 anni, morì a Filottrano lasciando dietro di sé la fama di viaggiatore e scopritore attento, curioso e lungimirante. In un’epoca in cui gli indiani venivano trattati come nemici da uccidere, Beltrami vide in loro esseri umani da conoscere, anche attraverso i loro oggetti di uso quotidiano o quelli impiegati in rituali. Una sensibilità rara per l’epoca che fece di Beltrami un personaggio unico, più famoso e celebrato negli Stati Uniti che in Italia come dimostra • anche la Beltrami County.
La mappa del corso del Mississippi, dal Canada al Golfo del Messico, realizzata da Beltrami nel 1828: ricostruisce dettagliatamente l’alto Mississippi, dove si spinse alla ricerca delle sorgenti del fiume. In basso, due oggetti collezionati da Beltrami: un tamburo da sciamano che raffigura un demone e un paio di mocassini decorati.
MUSEO BELTRAMI DI FILOTTRAMO (ANCONA) (2)
Fabio Dalmasso
AGENDA
A cura di Irene Merli
MOSTRA ROMA
BERNINI SUPERSTAR
Nella Città Eterna, culla del suo genio, la più grande antologica sul massimo rappresentante del barocco.
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alleria Borghese, luogo unico al mondo per fusione di museo e opere, celebra l’arte di uno dei suoi primi e più prestigiosi “ospiti”: Gian Lorenzo Bernini. A tutto tondo. Non poteva che svolgersi qui la più ampia mostra monografica sul grande scultore secentesco. Perché fu proprio il cardinale Scipione Borghese il suo primo committente e volle da lui, per quella che allora era una sfarzosa villa, gruppi marmorei per ogni
stanza, in dialogo con lo spazio architettonico. L’esposizione Bernini, articolata in 8 sezioni, dà quindi un ritratto a tutto tondo dell’artista (sopra, in un autoritratto giovanile): dalla sua collaborazione con il padre Piero fino agli ultimi marmi, dai restauri di statue antiche, a bozzetti, dipinti e disegni prepatori per una statua equestre di Luigi XIV. Per chi ama il grande artista napoletano o vuole scoprirlo, un’occasione da non perdere.
Fino al 4/2/2018. Galleria Borghese. Informazioni e prenotazioni (obbligatorie): 068413979, www.galleriaborghese.beniculturali.it
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A destra, David. Bernini rappresentò l’eroe biblico nel momento in cui accumula forza per scagliare la pietra addosso al gigante Golia.
©MIBACT-GALLERIABORGHESE
©MIBACT-GALLERIABORGHESE
A sinistra, Apollo e Dafne. Sotto, dall’alto, dettaglio dello stesso gruppo scultoreo; particolare del Ratto di Proserpina.
MILANO Auguste Rodin, Colei che fu la Belle Heaulmière, (1880-83).
Frida Kahlo. Oltre il mito Una grande retrospettiva dedicata all’artista messicana. Per mostrarne la figura autentica, al di là delle leggende, con prestiti di opere mai arrivate in Italia. Dall’1/2 al 3/6/2018. Museo delle culture (Mudec). Info: www.mudec.it GENOVA
Picasso. Capolavori dal Museo Picasso di Parigi In esposizione tutte le opere più care al grande Pablo (50 tra dipinti e fotografie), quelle da cui non si volle mai separare fino alla morte avvenuta nel 1973. Fino al 6/5/2018. Palazzo Ducale. Info: www.mostrapicassogenova.it TREVISO
Auguste Rodin (1840-1917)
FERRARA
Courbet e la natura
80 opere del grande artista francese, tra cui ben 50 sculture e 30 disegni. Tra loro, capolavori celeberrimi come Bacio e Pensatore, e grandi bozzetti dei gruppi monumentali, come I Borghesi di Calais.
A cinquant’anni dall’ultima grande rassegna italiana dedicata al padre del realismo, nella città degli Estensi arriveranno 60 oli su paesaggi e animali, sua principale ispirazione, dai musei di mezzo mondo.
Dal 24/2 al 3/6/2018. Museo civico di Santa Caterina. Info: www.lineadombra.it
Dal 22/9/2018 al 6/1/2019. Palazzo dei Diamanti. Info: www.palazzodiamanti.it
©HENRICARTIERBRESSON/MAGNUMPHOTO
2018: UN ANNO IN MOSTRA
FOTO PALERMO
Henri Cartier-Bresson Fotografo 140 fotografie, scattate in tutto il mondo, per immergersi nel mondo del maestro francese dell’immagine e scoprire la ricchezza umana di ogni suo scatto (sopra, Prostitute. Calle Cuauhtemoctzin, Città del Messico, 1934). Fino al 25/2/2018. Galleria d’arte moderna. Info: www.mostracartierbresson.it
EVENTO CASTELFRANCO (TV)
Le trame del Giorgione A partire dalla Pala del Duomo, primo capolavoro del Giorgione. Un percorso di ritratti veneti del ’600 di grandi autori, corredato da velluti, ricami e broccati che vestivano i protagonisti della Serenissima. Fino al 4/3/2018. Museo Casa Giorgione, altre sedi. Info: www.letramedigiorgione.it ANNIVERSARI
BERGAMO
Raffaello e l’eco del mito La mostra illustra il percorso del Sanzio dalla gioventù alle soglie della maturità, gli autori che lo influenzarono e la fascinazione che ebbe in particolare sugli artisti dell’800 e sulle Avanguardie di inizio ’900, sino a oggi. Dal 27/1 al 6/5/2018. Accademia Carrara. Info. www.raffaellesco.it Sopra, Gustave Courbet, La volpe nella neve (1860). A lato, Dionigi Faconti, Raffaello che, rapito da una bellissima donna con due bimbi, immagina il quadro della Madonna della Seggiola.
La dura verità La drammatica realtà della gente comune di Pietrogrado, a un anno dalla Rivoluzione d’Ottobre e durante la guerra civile. Raccontata da un testimone. Cronache dell’anno 1918, Isaak Babel’, Skira editore, 16 euro 111
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Storia
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COME SI VIAGGIAVA NEL ’600? Ce lo raccontano i diari e le lettere dei giramondo dell’epoca, raramente esagerati nel descrivere l’infinita fatica di spostarsi.
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Nel 1979 l’Ira (Irish Republican Army), il gruppo armato per l’indipendenza dell’Irlanda dalla Gran Bretagna, raggiunse l’apice della sua potenza.
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