Primavera 2015 � 7,90
GRECIA E ROMA
Sped. in A. P. - D.L. 353/03 art. 1, comma 1 NE/VR
I PROTAGONISTI • filippo il macedone e alessandro magno •
• erodoto, socrate, archimede: i geni dell’antichità • • le regine che sfidarono l’urbe • • cesare, BRUTO, ANTONIO e la fine della repubblica • • da augusto a giustiniano, i grandi imperatori •
SCOPRIRE IL PASSATO, CAPIRE IL PRESENTE.
In questo numero, tutte le avventure intorno al mondo: gli Antichi al di là delle Colonne d’Ercole, Colombo e il mistero della scoperta dell’America e poi Magellano, Pigafetta, James Cook fino agli esploratori di spazio e abissi. Cosa li ha spinti ad andare oltre l’ignoto? E inoltre: i segreti dei profumi, l’invenzione del radar, i monaci del ‘200 scomunicati, la guerra di Vandea.
FOCUS STORIA. OGNI MESE LO SPETTACOLO DEL PASSATO. Disponibile anche in versione digitale su:
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GRECIA E ROMA
I PROTAGONISTI
6 GRANDI
Elena di Troia in una statua di Canova (1819). Corrisponde all’immagine di bellezza ideale tramandata dall’arte classica.
IERI GRANDI OGGI
30 UNO
Chi erano i personaggi dell’antichità classica che hanno lasciato un segno indelebile nel nostro modo di vivere e di pensare? Intervista a Valerio Massimo Manfredi.
8
12 L’ALLODOLA
pag. 8
36 STRATEGA
NERA
42
DALLO IONIO ALL’HIMALAYA
48
L’ALTRA GRECIA
PER AMORE, PER VENDETTA Un imperatore superbo, un popolo fiero, una regina spietata cui avevano ucciso il figlio... La storia di Tomiride.
24 IL
PRIMO REPORTER
Erodoto, il “padre” della Storia.
DI SE STESSO
Alcibiade fu l’ultima speranza di Atene nella Guerra del Peloponneso. Grande oratore, tradì la sua città, ma da molti fu trattato come un eroe.
pag. 30
La verità su Saffo, la poetessa più famosa della Grecia.
20
CHE LA SAPEVA LUNGA
Socrate fu un uomo buono, assetato di cultura, coraggioso. Fu eliminato perché faceva paura ai politici. Luciano De Crescenzo gli ha dedicato due libri e questa intervista.
BELLEZZA FATALE
Ecco la donna per la quale scoppiò la guerra tra Greci e Troiani. Vecchie e nuove ipotesi, tra leggenda e archeologia, su Elena di Troia.
ARALDO DE LUCA
C
he cos’altro è la Storia se non il risultato di ambizioni, gesta, sfide intellettuali delle persone che sono vissute prima di noi? E non è forse più forte il richiamo a eventi lontani se raccontato attraverso le vite dei protagonisti? Questo numero di Focus Storia Collection affronta l’antichità greco-romana con la lente della biografia. Un’immersione nella quotidianità di 2.000 (e oltre) anni fa nelle corti di re e imperatori romani e nei campi di battaglia dei grandi generali; nell’agorà di Socrate o nella casa di Archimede prima che il suo ingegno venisse spento dalla spada di un “barbaro” romano. Ma troveremo anche il languore di Saffo, l’astuzia di Cleopatra, il coraggio di regine che sfidarono la grande Roma. Figure eroiche. Perché la Storia la scrivono i vincitori e l’antichità classica non è stata amica delle donne. Solo poche sono riuscite a valicare entrambe le barriere. Se oggi siamo liberi di scrivere e raccontare lo dobbiamo ai Greci: che hanno inventato la democrazia, concepito la storiografia, coltivato l’arte della narrazione col teatro. E i Romani? Hanno dato altrettanto. E in più hanno tramandato tutto quello che c’era di buono nella cultura ellenica. Il nostro mondo ringrazia. Emanuela Cruciano
pag. 42
Valoroso, colto, affascinante, in soli 12 anni Alessandro Magno conquistò l’impero più ampio che si fosse visto fino ad allora.
Sotto la guida del re Filippo II, il piccolo Regno di Macedonia prese il controllo di quasi tutta la penisola greca. Ecco come ci riuscì.
COPERTINA: ALESSANDRO MAGNO E ADRIANO. FOTO: DE LUCA, E. OLAF.
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GRECIA E ROMA
I PROTAGONISTI 54 INGEGNO
E POLITICA
104 NELLE
Vita, morte e scoperte del più grande genio matematico dell’antichità: Archimede.
60 I
NEMICI DEI GRECI
110 I
Consoli romani, imperatori persiani, generali macedoni. Alcuni furono acerrimi avversari degli Elleni, altri si guadagnarono il loro rispetto, altri ancora giunsero persino a combattere al loro fianco...
62
68
pag. 68
pag. 80
120 SANTO
DEI FARAONI
pag. 96
Non era la fatalona che si racconta. Cleopatra parlava otto lingue, era spiritosa e intelligente. E non fu un aspide a ucciderla.
140 GLI
ALTRI GRANDI ROMANI
Astuto, prudente e carismatico. Così era Augusto, il primo imperatore di Roma. pag. 128
90 L’IMPERATORE
MONTANARO
Generali valorosi, intellettuali, politici. Gli altri protagonisti di Roma. 143 LETTURE
Il suo nome è ricordato per i bagni pubblici. Ma Vespasiano fu il vero fondatore dell’impero.
4
DI LUI SOLO DIO
Ambizioso e intelligente, Giustiniano rese più fastosa Costantinopoli e riconquistò parte dell’Occidente.
CHE FONDÒ L’IMPERO
146 SIAMO
ANCORA GRECO-ROMANI?
D’AMORE
Adriano è stato uno dei più grandi imperatori di Roma.
DI GALLA PERFIDIA
134 SOPRA
pag. 114
84 L’UOMO
96 FOLLIE
128 L’AMBIZIONE
Discendente di imperatori, prigioniera e poi regina dei Visigoti, tornata in patria Galla Placidia non esitò a mandare a morte i rivali per riprendere il potere.
NON DEVE MORIRE
Se Giulio Cesare fosse scampato alla congiura nel 44 a.C. avrebbe forse regnato da Alessandria d’Egitto, sposo di Cleopatra. E l’erede Ottaviano...
PER FORZA
Si attribuì il merito di aver legalizzato il culto cristiano guadagnandosi un posto tra i grandi della Chiesa. Costantino invece...
Scipione e Annibale, eterni rivali, si scontrarono nelle guerre puniche.
80 CESARE
REGINA RIBELLE
Bella, dotta e spregiudicata, per molti aspetti simile a Cleopatra: ecco chi era Zenobia, la regina di Palmira (in Siria), che conquistò l’Egitto e osò sfidare Roma.
GIGANTI CONTRO
74 L’ULTIMA
NEMICI DI ROMA
Per conquistare il mondo e imporre la “pax romana”, l’Impero romano aveva collezionato nemici di tutto rispetto. Eccoli in questa carrellata.
114 LA
GLI ALTRI GRANDI ELLENICI Ecco gli altri politici, studiosi e intellettuali grazie ai quali la cultura greca lasciò un contributo inestimabile in ogni campo delle attività umane.
MANI DEL RAÌS
Come, partito da Leptis Magna, il libico Settimio Severo divenne imperatore romano.
pag. 134
Anche la nostra epoca ha prodotto grandi personaggi. Ma al momento non si profila nessuno in grado di fronteggiare la crisi che stiamo vivendo.
OGNI MESE UNA NUOVA IMMAGINE DEL MONDO
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INTERVISTA
Chi erano i personaggi dell’antichità CLASSICA che hanno lasciato
GRANDI IERI
L
a cultura occidentale affonda le proprie radici nel mondo greco e in quello romano, segnati entrambi dalle gesta di grandi personalità. Ma che cosa accomunò e cosa distinse le loro imprese politiche e militari? In che modo la storiografia le ha amplificate? E, soprattutto, come mai il pensiero dei nostri antenati “greco-romani” ci appare ancora così moderno? A rispondere a queste e altre domande, lo scrittore e storico dell’antichità Valerio Massimo Manfredi, con cui cercheremo di comprendere meglio il contesto storico in cui i grandi del passato divennero tali. Quale fu il “periodo d’oro” dell’antica Grecia? E grazie a quali personaggi? Per la Grecia il periodo d’oro si può collocare tra la fine delle guerre persiane (499-479 a.C.) e la morte di Pericle (429 a.C.), sotto il cui governo Atene, già città leader del cosmo greco, aveva raggiunto il massimo del proprio splendore. Nel V secolo a.C. si registrò una specie di “miracolo greco” che, sotto l’egida della democrazia ateniese, coinvolse ogni aspetto della società, a partire dall’arte e dalla cultura. In architettura abbiamo il Partenone, nelle arti figurative i grandi cicli statuari di Fidia, nel teatro i capolavori di Eschilo, Sofocle ed Euripide, in filosofia Socrate e i suoi epigoni. Non bastasse, in tale periodo nacque la storiografia: prima con Erodoto, che fece da ponte con le precedenti opere epiche; e poi con Tucidide, vero fondatore della moderna ricerca storiografica basata sull’attendibilità delle fonti e sull’assenza di ogni divinità dalla narrazione. 6
E nella storia di Roma? Nella realtà romana è più difficile individuare un “periodo d’oro”, perché vanno presi in considerazione un arco di 2.000 anni e molteplici forme di governo. Senz’altro l’età del primo imperatore Augusto (27 a.C.-14 d.C.) è stato uno dei periodi più fertili. Con lui ebbero fine le guerre civili che avevano a lungo straziato la società romana e iniziò un’era di pace che coinvolse ogni angolo dell’impero. Sotto Augusto vennero tra l’altro ampliate le carreggiate della vasta ramificazione stradale romana e anche le località più remote furono dotate di moderne stazioni in cui erano attivi servizi di posta, ristoro, alloggio, rimessa per cavalli e sorveglianza. In tutta Roma sorsero inoltre nuovi monumenti e la cultura ricevette nuovi impulsi, grazie anche al rapporto di fiducia tra il princeps e il poeta Publio Virgilio Marone. Augusto intervenne in pratica in ogni ambito del vivere civile, distinguendosi peraltro per uno stile di vita austero e passando alla Storia anche per aver in qualche modo creato l’Italia: Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua, “tutta l’Italia mi giurò spontaneamente fedeltà”, scrisse nelle Res gestae divi Augusti. L’accesso al potere era aperto a tutti? E quali erano le tradizionali vie di ascesa politica? Sempre prendendo come riferimento l’Atene di Pericle, in Grecia la carriera politica – e la relativa diaria – era accessibile a qualunque cittadino libero. Si pensi in proposito a Temistocle, generale e politico di spicco le cui origini erano palesemente umili, essendo figlio di un
venditore di legumi. D’altronde, per entrare nell’assemblea del popolo, o Ecclesia, bastava essere cittadini ateniesi e aver compiuto la maggiore età (e questo, seppur con lievi variazioni, valeva in tutte le poleis greche). Peraltro, chiunque volesse emergere come leader politico doveva trovare il supporto proprio di tale assemblea, e per far ciò, oltre a una buona oratoria, era indispensabile – ieri come oggi – crearsi una rete di amicizie “influenti”. Quando però si esagerava con l’ambizione di potere, e con il relativo rischio di tirannide, era dietro l’angolo l’ostracismo, ossia l’esilio. A Roma, dove vi era sia una rappresentanza dell’aristocrazia (il Senato), sia della plebe (il Tribunato della plebe), diversamente che in Grecia non vi erano pregiudiziali etnico-razziali. Non a caso furono molti i “non romani” che salirono al trono imperiale. Traiano (98-117), per esempio, che, essendo di origine iberica, non era nemmeno italico. La porpora imperiale fu inoltre raggiunta anche da barbari come Massimino Trace (235-238) e persino da un arabo: Filippo (244-249). In tali casi, più delle origini era importante sentirsi parte del mondo romano ed essere valorosi combattenti. Dal III secolo la via più facile per accedere al trono fu infatti quella militare, e ogni grande comandante si affermava in modo naturale anche come leader politico. Ben diverse dovevano essere le condizioni per l’ascesa delle donne... Complessivamente le donne erano svantaggiate, in Grecia in modo particolare. La società greca era estremamen-
un segno INDELEBILE nel nostro modo di vivere e di PENSARE
GRANDI OGGI te maschilista e la vita politica era appannaggio maschile. Persino nel periodo d’oro di Atene abbiamo pochissimi personaggi femminili di spicco, fatta eccezione per Aspasia, etera o concubina di Pericle nonché donna dallo spirito libero e regina del suo “salotto”, capace di tessere alleanze e condizionare la vita politica. A Roma, pur rivestendo ruoli di subordine, le donne godevano di maggiore libertà, e soprattutto in epoca imperiale alcune sono state in grado di acquisire un enorme potere. Tra queste, Livia, moglie di Augusto che dettò molte delle scelte del marito e che riuscì con determinazione a non avere figli con lui. Il motivo? Favorire quelli già avuti in matrimoni precedenti, a partire da Tiberio, prossimo a divenire imperatore. Non meno carismatica fu Agrippina, la spietata madre dell’imperatore Nerone. Infine a Roma c’era un’importante istituzione in mano alle donne: le vestali, giovani vergini che avevano il compito di tenere sempre acceso il fuoco sacro alla dea Vesta, simbolo della vita eterna dell’Urbe. Come erano visti gli intellettuali e i letterati in Grecia e a Roma? Soprattutto ad Atene, erano tenuti in gran considerazione e rivestirono un ruolo fondamentale nel formare la coscienza dell’epoca, non lesinando in molti casi aspre critiche al potere. Aristofane, per esempio, scrisse varie commedie in cui attaccava in maniera feroce la politica ateniese, a suo parere degenerata in demagogia, e lo stesso Socrate fu condannato a morte per la sua critica della società, per il suo continuo contestare e insinuare dubbi. Il teatro rivestì
una particolare importanza nell’educazione della comunità (Pericle favorì l’accesso agli spettacoli per tutti), fornendo modelli positivi – gli eroi – e mettendo in scena esemplari punizioni per i malvagi. Il clima di fervore culturale proseguì tra l’altro in epoca ellenistica, quando con Tolomeo I (367–283 a.C.) sorgerà ad Alessandria il Museion, un centro di studi e di ricerca frequentato dai più grandi scienziati del mondo di allora che gettarono le basi del nostro pensiero scientifico e della nostra letteratura. In campo romano la situazione è abbastanza diversa, poiché la letteratura tende a essere meno universale e a fondersi con la politica. Giulio Cesare farà per esempio il letterato di se stesso scrivendo il De bello gallico, e complessivamente possiamo affermare che a Roma la politica si auto-racconta e auto-celebra. Come avvenne anche con Virgilio e la sua Eneide, poema nazionale incentrato sul mito di Enea in cui si glorificavano le origini di Roma. Non per questo mancavano autori pronti a fare critica. Iullo Antonio, figlio del triumviro Marco Antonio, compose per esempio il poema epico Diomedea, in cui contestava la propaganda augustea. Perché il loro pensiero è ancora così attuale? La “modernità” degli antichi, e in particolare degli autori greci, si spiega con un banale ragionamento: il loro pensiero ci appare così attuale perché ci appartiene. Noi “deriviamo” da loro, ed è quindi naturale che il nostro sistema di pensiero risulti affine a quello dei grandi intellettuali del passato.
Ci sono personaggi giunti a noi alla stregua di eroi, ma che in realtà non avevano particolari meriti? Non direi. O meglio, poiché la Storia la scrivono i vincitori, è chiaro che in alcuni casi siano stati amplificati i meriti (o attenuati i difetti) di questo o di quel personaggio, ma di solito i grandi protagonisti delle cronache storiche avevano indubbie qualità. Peraltro, la storiografia ha spesso rivestito un ruolo critico: Plinio definì la conquista della Gallia un crimine contro l’umanità, mentre Tacito fece dire a Calgaco, sovrano dei Caledoni, che i Romani “fanno il deserto, e lo chiamano pace”. Attribuendo ad altri i propri pensieri, gli storici del tempo – pur appartenendo spesso ai vincitori – riuscirono a mantenere un distacco critico dagli eventi e dai loro protagonisti. E oggi? Sfruttando i media, oggi è possibile che emergano personaggi di scarsa sostanza. Ma, almeno nelle democrazie occidentali, c’è una sorta di “allergia” per quelle personalità che, specie a livello politico, tendano a emergere troppo o appaiano eccessivamente decisioniste. Uno spauracchio figlio delle tragedie totalitarie del ’900 eppure molto simile a quello degli ateniesi di 2.500 anni fa... • Matteo Liberti
VALERIO MASSIMO MANFREDI, classe 1943, è scrittore, archeologo, topografo del mondo antico. Ha condotto spedizioni archeologiche in molte località del Mediterraneo. Il suo ultimo libro: Le meraviglie del mondo antico (Mondadori).
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ELENA DI TROIA - 1200 A.C.
Bellezza
FATALE
AKG/MONDADORI PORTFOLIO
Chi era VERAMENTE la donna per la quale scoppiò la guerra tra Greci e Troiani? Vecchie e nuove IPOTESI, tra LEGGENDA e archeologia
U Elena di Troia è da secoli un mito immortale: ecco come la vedeva il preraffaellita Dante Gabriel Rossetti nel 1863.
NATA DA UN UOVO
Il mito racconta che Zeus si trasformò in cigno per sedurre Leda, moglie del re di Sparta. Lei partorì un uovo dal quale nacque Elena (qui in una statuetta del V secolo a.C.).
L.RICCIARINI/LEEMAGE
PALLIDA E BIONDA
na magnifica preda, bionda e pallida come il marmo, fragile vittima del desiderio altrui? No. Una virago seminuda e una bellezza tutt’altro che classica, eppure così influente da far muovere interi eserciti. È questo, secondo la storica inglese Bettany Hughes, il ritratto più verosimile della femme fatale dell’antichità: Elena di Troia, la donna per la quale – narra Omero nell’Iliade – più di 3mila anni fa scoppiò la guerra fra Greci e Troiani. Principessa calva. «Elena è un personaggio del mito, ma i suoi caratteri potrebbero avere radici in una delle ricche regine spartane del XIII secolo a.C.», spiega la studiosa, autrice di una lunga indagine sul campo. Il luogo dove cercare la vera Elena non è quindi Troia (la località, oggi in Turchia, che nel racconto di Omero fu sua residenza dopo il rapimento da parte di Paride) ma Sparta (l’antica Lacedemone), dove la giovane sarebbe diventata sovrana a fianco del marito Menelao. «Per anni si è pensato che il palazzo di Menelao fosse da cercare sulla collina di Terapne, fuori Sparta, dove sono state recuperate 300 statuette legate al culto di Elena», racconta Hughes. «Secondo alcuni archeologi greci, gli ultimi scavi farebbero invece pensare che i resti di Lacedemone, capitale del Peloponneso meridionale sul finire dell’età micenea, si trovino a Pellana, 25 km a nord di Sparta». Qui, a 12 anni, le ragazze di 3.200 anni fa erano in età da marito, ed Elena non faceva eccezione. Solo allora avrebbe potuto farsi crescere la chioma fluente che per secoli le hanno attribuito poeti e pittori. Prima sarebbe stata calva. «Negli affreschi micenei le donne di classe elevata mostrano fino all’adolescenza la testa rasata, a parte un ricciolo o una corta coda di cavallo», racconta la studiosa. Tradizionalista. «Conosciamo poco dell’educazione delle ragazze spartane nel 1200 a.C.», dice Marxiano Melotti, docente di Metodologia della ricerca archeologica all’Università di Milano Bicocca, «ma si può supporre che alcuni costumi della Sparta arcaica, molto tradizionalista, riflettano usi più antichi». Sappiamo per esempio che le spartane del VII secolo a.C. si esercitavano alla lotta come i maschi, combattendo nude corpo a corpo.
Nobile e quindi destinata a una carriera da sacerdotessa, ma anche a diventare moglie e madre, la principessa sarebbe stata iniziata ai culti orgiastici legati alla fertilità. Isolate per lunghi periodi tra i boschi e sulle montagne, le adolescenti spartane entravano in contatto con le divinità attraverso musica e danza, mentre venivano istruite all’uso di piante medicinali come il papavero da oppio, che cresceva spontaneo nel Peloponneso. «Le donne della tarda Età del bronzo erano il tramite privilegiato con gli dèi. E il culto era tutt’uno con gli affari terreni», spiega Hughes. Influente e in età fertile, la ragazzina era un ottimo partito. Cosparsa di unguenti a base di olio d’oliva, con la pelle di tutto il corpo “sbiancata” da una passata di ossido di piombo e ricoperta di tatuaggi a colori sgargianti, gli occhi truccati pesantemente di nero e di rosso, il corpo avvolto da vari strati di lino indaco e porpora, carica di gioielli, ma a seni nudi, così si sarebbe presentata al suo promesso sposo. Il menù del banchetto nuziale? Minestra di lenticchie al cumino, focacce di farina di ceci, stufati con la frutta e (solo per gli ospiti vip) arrosti di cinghiale e di cervo. Ma quale rapimento! Le corti micenee del XIII secolo a.C. ricevevano spesso inviati stranieri e il troiano Paride, di cui parla Omero, poteva essere uno di questi. «Le giovani aristocratiche erano “merce diplomatica”», continua Hughes, «e capitava che l’ospitalità comprendesse anche lo scambio di donne». Ma c’è di più. Secondo una tradizione che risale alla poetessa Saffo (VII-VI secolo a.C.) nell’antica Sparta era diffusa la poliandria (il corrispondente femminile della poligamia), una pratica la cui origine si faceva risalire proprio alla fuga d’amore (e non al rapimento) di Elena e Paride. Quel che è certo, è che scendere in guerra per una donna, tre millenni fa, non era così raro, come provano anche molte testimonianze scritte. Sappiamo per esempio che verso il 1230 a.C. i regni di Ugarit e di Amurru (nell’attuale Siria) rischiarono di distruggersi a vicenda a causa della principessa di Amurru. Questa venne data in sposa al re di Ugarit per rafforzare l’alleanza tra le due città-Stato, ma fu rispedita al mittente, forse per non aver voluto consumare il matrimonio.
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ARALDO DE LUCA
Brutta fama. Furono dunque i Greci dell’VIIIVII secolo a.C. a “montare” l’episodio del rapimento. Secondo il mito, Elena (figlia di Zeus e di Leda, e nata da un uovo) era già stata rapita una prima volta fra i 7 e i 10 anni dal cinquantenne Teseo, leggendario re di Atene che avrebbe abusato sessualmente di lei. Per i Greci classici, insomma, quella donna era stata fin da bambina sinonimo di discordia. Perché? «Per loro, ogni donna era una creatura pericolosa che sapeva soggiogare gli uomini», risponde Melotti. «Se volevano evitare problemi come la guerra di Troia, i mariti avevano il diritto e il dovere sociale di chiudere in casa le proprie spose». La civiltà classica di Atene temeva e degradava il sesso femminile. Così, la regina e sacerdotessa che forse ispirò Elena divenne una fedifraga corruttrice di eroi. «Fu questa l’epoca in cui ebbero origine le interpretazioni più durature del suo mito, che ne fecero nell’Iliade una “cagna lasciva” e una
“distruttrice di città”», conferma Hughes. «A Sparta, invece, Elena continuò a godere di un’immagine positiva, diventando nume tutelare nei rituali femminili che segnavano il passaggio alla maturità sessuale», precisa Melotti. Ma fu l’immagine classica a vincere, tramandata attraverso i Romani e il Rinascimento. Fino al film Troy (2004), dove al posto di una regina un po’ selvaggia c’è l’algida attrice tedesca Diane Kruger. Nonna Elena. L’Elena dell’Iliade torna a Sparta alla fine della decennale guerra di Troia, viaggiando in lungo e in largo per il Mediterraneo Orientale. La sua bellezza la salva dalla vendetta di Menelao e lei riprende il suo ruolo di regina e moglie (mentre le adultere nell’antica Grecia erano viste malissimo), ma la sua morte resta un mistero. E la vera Elena, che fine potrebbe aver fatto? Avrebbe vissuto in un coloratissimo palazzo, dividendosi tra gli impegni di sacerdotessa e i lussi di una ricca corte. Ma il suo regno sarebbe stato breve. «Fino a oggi non sono ancora state identificate le spoglie di una regina spartana del XIII secolo a.C.», spiega Hughes. «Ma sappiamo da vari ritrovamenti che le donne micenee non vivevano in media più di trent’anni». Madre a 12 o 13 anni, a 24 Elena sarebbe già stata nonna. Il suo funerale fu certamente degno di una semidea e il suo corpo, interamente ricoperto di gioielli, fu seppellito in un thólos, una grande tomba a cupola. •
LESSING/CONTRASTO
Il “MODELLO” di Elena fu forse una regina spartana del XIII secolo a.C. RICCA e potentissima
DEA DEL SESSO?
Divinità micenea della fertilità in avorio. Risale all’epoca dei fatti narrati nell’Iliade e dà l’idea di come poteva apparire una regina micenea del 1200 a.C.
Aldo Carioli
E se invece fosse stata una vichinga?
C BELLEZZA IDEALE
Il profilo di Elena di Troia in una statua di Antonio Canova (1819, all’Ermitage). Corrisponde all’immagine di bellezza ideale tramandata dall’arte classica.
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ome mai Elena, principessa spartana dai tratti mediterranei, viene descritta nell’Iliade come una bellezza bionda? Semplice licenza poetica? Per lo studioso Felice Vinci (autore del libro Omero nel Baltico, Palombi) le storie narrate da Omero sarebbero state “importate” in Grecia durante una grande migrazione – seguita a un cambiamento climatico – che verso il 1500 a.C. avrebbe spinto le popolazioni della Scandinavia a stabilirsi nel mar Mediterraneo. Qui gli uomini del Nord avrebbero fondato la civiltà micenea, riambientando i racconti della loro tradizione. La ricerca si basa su un accurato confronto fra i
testi omerici, le saghe nordiche, la geografia del Mediterraneo e quella della Scandinavia. La sorprendente conclusione è che Troia sarebbe in realtà l’attuale località di Toija, sulla costa finlandese del mar Baltico. Le conferme. La storia di Elena, in particolare, troverebbe conferma in un personaggio citato nelle Gesta Danorum (un testo del XII secolo che riprende alcune tradizioni orali): una donna che “con i suoi amplessi poteva attribuire la regalità”. Proprio come Elena, che sposando Menelao gli permette di diventare re di Sparta. E in quello stesso testo si legge anche che il rapimento di una regina comportava sempre la guerra.
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SAFFO - 640 A.C.
CLUB ESCLUSIVO
Saffo e Alceo (con la lira) nel “Circolo delle Muse” fondato dalla poetessa a Lesbo, in un dipinto di Lawrence Alma-Tadema (1881).
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NERA
Erotomane CORRUTTRICE di fanciulle o genio e prima femminista? La VERITÀ sulla poetessa più famosa della Grecia
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L’allodola
Mithymna
Per gli antichi la poetessa era una SUPERSTAR: nell’Atene del secolo a.C. la FAMA di Saffo era pari a quella di OMERO
Antissa Èreso
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Polichnitos
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ISOLA DI LESBO
L’isola di Lesbo, nel mar Egeo orientale, in una foto aerea. Sono indicate le località principali: Saffo nacque a Èreso, ma il suo tiaso era a Mitilene.
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Ho una bella bambina, che assomiglia a fiori d’oro / Cleide amatissima / non la cambierei con la Lidia intera.
Mitilene
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l filosofo greco Platone, nel IV secolo a.C., la definì “decima musa”. Tre secoli dopo, i poeti latini Orazio e Ovidio la presero a modello per i loro versi. Lo storico e geografo greco Strabone, nel I secolo d.C., fu categorico: “Per quanto risaliamo nel tempo, non riusciamo a ricordare, in nessun’altra epoca, una donna capace di rivaleggiare con lei nella poesia”. Come educatrice fu paragonata nientemeno che al filosofo greco Socrate (469-399 a.C.) ma fu anche disprezzata per aver cantato l’amore omosessuale tra donne ed esaltata come prima femminista. Saffo, che i Greci soprannominarono “l’allodola nera” perché si diceva avesse i capelli ricci e scuri, fu tutto questo e molto altro ancora. Tra Mito e Storia. Saffo nacque tra il 640 e il 620 a.C. a Èreso, sull’isola di Lesbo. Ma certezze biografiche non ce ne sono. «Era molto celebrata già nell’antichità», spiega Marxiano Melotti, docente di Metodologia della ricerca archeologica all’Università di Milano Bicocca. «Per questo motivo si sentì subito il bisogno di creare attorno al suo personaggio una ricca e romanzesca biografia “ufficiale” nella quale è difficile distiguere il mito dalla realtà. Un testo antico indica il 612 a.C. come sua data di nascita, ma il termine utilizzato può riferirsi anche al momento di massima notorietà». Suo padre Scamandrònimo apparteneva a un’antica famiglia aristocratica e morì quando Saffo era ancora bambina. La ragazza crebbe così insieme alla madre Cleide e sotto la tutela del fratello maggiore Carasso e dei parenti maschi. Fu proprio a causa loro che Saffo fu travolta giovanissima dal turbine della politica.
PROFILO CLASSICO
Saffo vista dallo scultore Jean-Jacques Pradier, nel 1851.
SIMEPHOTO
Guerra di clan. La Grecia arcaica era un mondo di radicali cambiamenti: con il tramonto della civiltà micenea era entrato in crisi il potere dei re. Le famiglie più influenti stavano prendendo il comando e i sovrani furono sostituiti da governi oligarchici o tiranni. A Lesbo, la stirpe regale dei Pentilidi fu deposta da un consiglio di aristocratici del quale facevano parte anche i parenti di Saffo. Quando però un certo Mirsilio diventò tiranno, alcune famiglie si opposero: tra queste c’erano anche il clan di Saffo e quello del suo amico e poeta Alceo, che infiammava gli animi con i suoi canti di guerra e ribellione. Ma il complotto contro Mirsilio fallì e i clan ribelli furono condannati all’esilio a Pyrra, presso Mileto (oggi in Turchia). Saffo era appena adolescente. Tornati a Lesbo dopo la morte di Mirsilio, i clan di Saffo e Alceo tramarono anche contro il nuovo tiranno, Pittaco, che Alceo definì “grassone con i piedi piatti e ipocrita spaccone”. Tra il 598 e il 590 a.C. a Saffo e ai suoi toccò di nuovo l’esilio, ma a condizioni più dure: il patrimonio di famiglia fu confiscato. E Saffo dovette prendere il mare nuovamente. Questa volta fuggì in Sicilia, sembra a Siracusa,
ospite di parenti. A quel tempo si sarebbe sposata con Cèrchila, un ricco mercante dell’isola di Andros, con il quale avrebbe avuto una figlia chiamata Cleide. Alcuni però negano che Saffo si fosse sposata e sostengono che la Cleide citata in alcuni versi fosse in realtà una delle sue amate ragazze. «Non c’è ragione di negare quel matrimonio», obietta Melotti. «Il fatto che si circondasse di fanciulle non significa che fosse contraria alla vita coniugale. Anzi, per lei, come per ogni donna della sua cerchia, le nozze erano un punto d’arrivo irrinunciabile». Sposata o no, verso il 585 a.C. Saffo tornò a Lesbo ricchissima. Con i suoi averi decise di fondare nella città di Mitilene un tiaso femminile, una sorta di club esclusivo per “ragazze bene” in età da marito: era nato il “Circolo delle Muse”. Emancipate. Le donne di Lesbo erano tra le greche più ostinate e indipendenti. I padri più progressisti, come Scamandrònimo, lasciavano persino che le proprie figlie imparassero a leggere e a scrivere insieme ai fanciulli. Ma che cosa studiavano le seguaci di Saffo? Tutto quello che c’era da sapere sul matrimonio, compresi gli aspetti pratici della sessuali-
TECNOLOGIA E POESIA
Acquedotto romano a Lesbo. Molti letterati romani si ispirarono allo stile poetico di Saffo per creare i loro componimenti.
Lì mi lasciò, tra le lacrime / e mi disse: come è terribile / Saffo, questa nostra sorte / perché è contro il mio volere che ti abbandono. / Io le rispondevo: / parti serena e ricordati di me / sai che noi ti amavamo [...] e su un letto morbido / [...] placavi il desiderio. 15
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Foto di gruppo: le “primedonne” dell’antichità
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affo (5) è solo una delle grandi donne del passato, ritratte nel 1902 da Frederick Wallenn in questo acquarello. Miriam (1), sorella di Mosè, e Rebecca (2), moglie di Isacco e madre di Esaù e Giacobbe, furono “primedonne” bibliche. Semiràmide (3) fu la leggendaria regina degli Assiri, Cleopatra (6) l’ultima sovrana d’Egitto e Boadicea (13) guidò gli Iceni della Britannia che si ribellarono ai Romani nel I secolo d.C. La moglie di Ulisse, Penelope (4), è simbolo di fedeltà coniugale, mentre la vedova romana Cornelia (7) rifiutò di risposarsi. Nella Grecia antica, Frine (8) e Aspasia (9) furono influenti cortigiane; per la bella Elena (10) si scatenò la Guerra di Troia e l’eroina Atalanta (11) fu sposata con l’inganno, come Imogene (12).
Durante i RITI INIZIATICI le ragazze venivano incoronate con FIORI e cosparse di UNGUENTI. A quel punto, erano pronte per l’AMORE tà, ma soprattutto la danza, il canto, il portamento e le buone maniere. Presto a Lesbo accorsero ragazze da tutta la Grecia. «I diversi tiasi erano in concorrenza fra loro», continua Melotti. «Si sfidavano in gare di danza o di canto in cui le giovani mostravano alla comunità di avere acquisito i principi culturali della città meglio delle ragazze di altri tiasi. Il tiaso migliore formava le spose migliori. Un tipo di competizione simile a quello in voga fino a pochi anni fa nei college universitari inglesi». Quando si sposavano, Saffo stessa si occupava della cerimonia e saluta-
va le sue ex allieve con versi struggenti che suonavano proprio come dichiarazioni d’amore. Scuola d’amore. La pedagogia greca più arcaica prevedeva che l’adolescente fosse affidato alle cure di un nobile adulto. Era questo il significato originario della parola “pederastia”: l’erastés era infatti l’adulto che istruiva l’erómenos (“oggetto del desiderio”). «Anche il tiaso femminile si basava su rapporti affettivi e sessuali tra donne adulte e fanciulle, analoghi a quelli alla base dei riti di passaggio maschili», dice Melotti. «Lo scopo era simile: cementare la solidarietà tra i membri di uno stesso gruppo sociale, per mantenere unita la città e la sua élite aristocratica. Queste forme di omosessualità erano probabilmente temporanee, limitate al periodo educativo e funzionali a preparare i giovani alla successiva fase eterosessuale della vita matrimoniale». Con l’entrata nella società adulta (cioè con le nozze) la relazione terminava. «Il tiaso greco, però, era prima di tutto uno spazio dove celebrare riti», continua l’esperto. «In questo l’istruzione delle ragazze era diversa da quella dei
Appena ti guardo, non mi riesce più di parlare / la lingua s’inceppa, subito un fuoco sottile corre sotto la pelle / gli occhi non vedono più, le orecchie rombano / il sudore mi scorre, un tremore / mi afferra tutta, sono più verde / dell’erba, mi vedo a un passo / dall’essere morta. 16
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Sei venuta e fu un bene, io ti desideravo / hai dato sollievo / al mio cuore arso dal desiderio.
Un mistero mai svelato: era davvero lesbica?
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ella vita di Saffo, dopo la nascita del “Circolo delle Muse”, non ci furono uomini. Anche ammesso che il mercante Cèrchila fosse stato suo marito all’epoca era già morto. E il poeta Alceo, che quasi certamente era innamorato di lei, secondo Aristotele fu respinto. In versi, ma con fermezza. Dichiarata. Saffo era dunque veramente innamorata di Archeanassa, Attis, Dike, Eirène o Mégara, tra le più belle allieve della sua scuola? Probabilmente sì, a giudicare dalle parole esplicite e appassionate che rivolse loro in autentiche dichiarazioni d’amore. «Lei stessa paragonava
la pederastia maschile al suo eros», spiega la studiosa tedesca Marion Giebel, autrice di una dettagliata biografia. «Per Saffo l’eros era una forza primigenia che riempie gran parte della nostra esistenza
e dà la vita». E non c’era nulla di male se le giovani greche venivano iniziate al mistero dell’amore da una donna più matura e con più esperienza di loro. In fondo, facevano così anche gli uomini.
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maschi, che con i loro riti iniziatici acquisivano anche competenze militari che dovevano prepararli a divenire cittadini e guerrieri». Nel tiaso femminile invece si veneravano le nove Muse (dee dell’arte e della scienza) e le Càriti (le Grazie dei Romani), divinità minori dispensatrici di bellezza. Ma soprattutto Afrodite, la divinità dell’amore e della fertilità, di cui Saffo fu forse una sacerdotessa. La rosa infatti, simbolo della dèa, ricorre spesso nei suoi versi. Rivoluzione poetica. Il talento artistico di Saffo fu enorme. Ma la prima poetessa della Storia ebbe anche la fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Gli Eoli da cui discendevano gli abitanti di Lesbo, originari della Grecia continentale, avevano colonizzato l’isola verso il 1100 a.C. ed erano considerati tra i popoli più sensibili alle arti. Uno di loro, il poeta e musicista Terpandro, si diceva avesse inventato la lira a 7 corde vincendo nel 675 a.C. a Sparta una gara musicale in onore del dio Apollo. Forse per questo proprio a Lesbo, con Saffo e Alceo, nacque una nuova forma poetica ormai lontana dai
Illustrazione degli anni Venti ispirata al Settecento libertino.
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toni guerreschi ed eroici dell’Iliade e dell’Odissea. A Lesbo si componevano infatti semplici poesie e canti ispirati alla tradizione popolare e alle danze, inni agli dèi, lamenti e versi d’amore. L’eros e la passione erano tra gli argomenti preferiti. Cattiva maestra. Saffo entrò nella leggenda subito dopo la sua morte (avvenuta forse quando aveva poco più di 50 anni) e le sue poesie (di cui oggi restano pochi frammenti, per lo più copie su papiri scoperti in Egitto) furono raccolte in 9 libri. E ben presto cominciò a dividere. Già a partire dal IV secolo a.C. si erano diffuse le scuole pubbliche con insegnanti retribuiti: non c’era dunque più bisogno di nobili che si occupassero dei giovani. E col tramonto dell’età classica, parlare apertamente delle passioni amorose e manifestare i sentimenti come aveva fatto Saffo diventò “indecente”. Così, l’eros saffico cadde in disgrazia e Saffo stessa fu descritta ora come corruttrice di giovinette, ora come una divoratrice di uomini. Ma a Saffo molti Greci (soprattutto Ateniesi) rimproveravano più che altro la libertà di cui godevano le donne di Lesbo. Gli uomini temevano che il suo esempio potesse mettere strane idee in testa alle loro mogli, mentre le donne più conservatrici l’accusavano di aver rotto con la tradizione degli avi. Amata e odiata. Il tono appassionato dei versi indirizzati alle sue allieve le costò poi, in epoca cristiana, la fama di erotomane. Il teologo Tatiano di Mesopotamia (II secolo) scrisse di lei: “Saffo è una donna dissoluta e pazza d’amore, che canta la sua impudicizia”. E nell’enciclopedia bizantina Suda, scritta
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INNAMORATA DI UN “LUI”
Saffo e Faone, l’uomo per il quale si sarebbe uccisa. Ma è solo una leggenda, diffusa fin dall’antichità.
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Il termine LESBICA nacque in Francia a metà Ottocento. In greco il verbo LESBIZO indicava invece il sesso ORALE
attorno al Mille, si condannavano le relazioni tra la maestra e le sue allieve, giudicate indecenti. Per gli umanisti del ’400, ma anche per gli esponenti del Neoclassicismo nel ’700, fu maestra insuperata di poesia e sentimento. Nel più moralista periodo barocco (’600) fu di nuovo bollata come viziosa. Di certo, Saffo non cadde mai nell’oblio, come prova la diffusione anche nel linguaggio comune dei termini “amore saffico” e “lesbica” (dall’isola di Lesbo), diventati sinonimo di omosessualità femminile. Ma i giudizi su di lei restarono sempre ambigui. Come quello del filosofo greco Aristotele (384-322 a.C.): “Poetava audacemente e con la maestrìa di un • uomo, nonostante fosse solo una donna”.
NELLA SUA ISOLA
La costa di Lesbo. L’isola, che passò dai Greci ai Romani e ai Bizantini, è ad appena 15 chilometri dalla Turchia.
Karin Krempel-Haglund (ha collaborato Aldo Carioli)
Una vita leggendaria
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li antichi la descrissero piccola e bruttina, di carnagione olivastra e con i capelli arruffati. In realtà, nessuno sa che aspetto avesse Saffo. Questo ritratto corrisponde infatti a un luogo comune diffuso nell’antichità e basato sulla teoria degli opposti: alla bruttezza esteriore corrispondeva la bellezza interiore. Ma è solo una delle tante leggende nate nei secoli intorno alla figura della poetessa di Lesbo. Dicerie. Già nel IV secolo a.C., per esempio, circolava tra i commediografi una storiella sulla sua morte. Saffo si sarebbe suicidata dopo esse-
re stata respinta dal barcaiolo Faone, di cui era follemente innamorata. Suicidio. Disperata, si sarebbe gettata da una rupe dell’isola di Lèucade, nel mar Ionio. Questa leggenda è però il riflesso di un racconto mitologico. Faone era infatti una semidivinità del seguito di Afrodite e presso la rupe di Lèucade (oggi Capo Ducaton) in età arcaica si celebravano riti il cui significato è andato poi perduto. Forse, un antico commediografo greco volle prendersi gioco di Saffo facendola morire – lei che aveva cantato l’amore per le donne – per amore di un uomo. (a. c.)
TOMIRIDE - VI SEC. A.C.
Un imperatore SUPERBO, un popolo FIERO, una regina SPIETATA cui avevano UCCISO il figlio...
Per AMORE
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endicativa come Uma Thurman in Kill Bill. Tragica come un’eroina di Shakespeare. Leale come un samurai giapponese. E ancora: sentimentale, passionale, spietata, come sa esserlo solo una donna ferita. O una madre a cui hanno strappato il figlio in una guerra ingiusta. Tomiride, regina dei Massageti, è stata tutte queste cose insieme. Nel VI secolo a.C. governò il suo popolo, una tribù dell’Asia Centrale, ai confini nord-orientali della Persia. Lo difese dagli attacchi dell’imperatore Ciro il Grande, che – stando ai racconti di Erodoto – uccise insieme ai suoi soldati per vendicare la morte del figlio. Non contenta, immerse la sua testa nel sangue dei nemici e bevve, inveendo sul suo teschio: “Tu hai ucciso me, anche se sono viva e ti ho sconfitto, sopprimendo con l’inganno mio figlio: ora io ti sazierò di sangue, esattamente come ti avevo minacciato”. Coraggiosa e combattiva, ispirata dall’amore per il suo popolo, Tomiride è diventata simbolo di vendetta e amore materno, ai limiti della follia. Di lei parlò per primo lo storico greco Erodoto nelle sue Storie, ma successivamente anche Strabone, Cassiodoro e Polieno. E se le fonti talvolta si contraddicono (Senofonte, nella Ciropedia, scrisse che Ciro morì di vecchiaia nella sua reggia), Erodoto racconta il confronto tra la regina e il Gran Re come un evento pulp. Indomita. «Era intelligente e nobile», racconta Guglielmo Colombero, che a lei ha dedicato il romanzo storico Tomyris, la signora delle tigri (Falzea). «Tomiride anticipò i valori di parte del femminismo contemporaneo, rifiutando di sposare in seconde nozze Ciro, simbolo del potere, per difendere il suo popolo. Dopo la morte del marito governò con lealtà e onestà.
E grazie alla sua autorità riuscì a preservare i Massageti dal dominio persiano». La sua storia ebbe inizio nel 529 a.C. Ciro, dopo aver unificato sotto il suo regno le tribù iraniche, aver conquistato Babilonia (540 a.C.) e prima ancora la Media (550 a.C.) e la Lidia (546 a.C.), rientrò in Iran come “Re dell’Universo”, investito di tutti i titoli della Mesopotamia e dell’Asia Minore. Il suo obiettivo, ora, era occupare il territorio dei Massageti, per procedere nel suo progetto universalistico: fondare un grande Impero persiano. Il Gran Re, racconta Erodoto, marciò contro di loro, certo di portare a casa una facile vittoria. Come un eroe al culmine del successo, con un’alta considerazione di sé e convinto di essere “qualcosa più che un uomo”, era sicuro che questo bastasse a renderlo irresistibile. Non solo in guerra. Per prima cosa, cercò di risolvere diplomaticamente la questione con i Massageti proponendo a Tomiride di diventare sua sposa. Ma la regina, rifiutando di barattare l’amore con il potere, respinse l’offerta. Ciro allora passò al contrattacco: dichiarò guerra a lei e al suo popolo iniziando, con un inequivocabile segnale offensivo, a costruire un ponte lungo il fiume Arasse, che separava i due regni. Per indurlo a desistere dall’impresa, sempre secondo Erodoto, Tomiride gli inviò un araldo con un messaggio spavaldo: “Desisti, regna sui tuoi territori e lascia che noi regniamo sui nostri sudditi. Ma so già che non vorrai accettare e anzi tutto vorrai fuorché startene in pace”. Quindi proponeva: “Perciò, se davvero aspiri tanto a misurarti con i Massageti, lascia perdere il ponte sul fiume che ti costa tanta fatica; passa pure nel nostro territorio, le nostre truppe si ritireranno a tre giorni di cammino dal fiume. Se invece
NEL NOME DEL FIGLIO
La vendetta di Tomiride in un dipinto di Antonio Zanchi (1631-1722): fa immergere la testa di Ciro il Grande in un vaso pieno di sangue.
Per VENDETTA 20
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CIRO il Grande sorprese i Massageti con l’ INGANNO facendoli preferisci essere tu ad accogliere noi nel vostro Paese, allora fai tu le stesse cose”. È a questo punto che ha inizio la parte più avventurosa ed efferata del dramma. Ciro, con l’inganno, mandò sul campo, oltre il fiume, i reparti meno valorosi del suo esercito, allestendo nelle vicinanze ricchi banchetti a base di carne e vino. Sconfitte facilmente le truppe avversarie, i Massageti si illusero di aver vinto la guerra e iniziarono a bere e mangiare approfittando della mensa nemica, fino a ubriacarsi completamente. «La cosa fu estremamente facile, in quanto i Massageti non conoscevano il vino», spiega Guglielmo Colombero. «Il loro “sballo” consueto non era alcolico, ma tossico: erano consumatori di cannabis, che solitamente aspiravano, bruciandola in grandi falò collettivi». Solo quando furono completamente ottenebrati dall’alcol, arrivò il grosso dell’esercito di Ciro che, senza difficoltà, uccise e fece prigionieri molti soldati, tra cui Spargapise, figlio di Tomiride, che al risveglio, per il disonore, scelse di togliersi la vita. Tremenda vendetta. «La regina, una donna già in lutto per la morte del marito, alla notizia della morte del figlio impazzì di dolore. E meditò vendetta. Una madre a cui si strappa un figlio è capa-
ce di gesti estremi, folli». Sentendosi tradita, constatato che Ciro non era stato leale, la regina raccolse le truppe rimaste e attaccò l’esercito nemico. Lo scontro durò a lungo, fino a che le milizie persiane, a colpi di frecce, lance e asce (i Massageti, in gran parte arcieri, combattevano soprattutto a cavallo), furono completamente distrutte. In battaglia cadde lo stesso Ciro. La regina cercò sul campo il suo cadavere, fece riempire un vaso del sangue dei nemici e, immergendovi la testa del Gran Re, bevve dal suo teschio infierendo su di lui e gridando la sua vendetta. Donna disperata. Il gesto, interpretato da alcuni storici come un rito barbarico, è stato considerato da altri, soprattutto scrittori e artisti, l’espressione estrema di una donna disperata. Non a caso ha acceso nei secoli l’immaginario di molti pittori, tra cui Rubens e Moreau, che l’hanno rappresentata in due celebri dipinti. E di Shakespeare, che l’ha citata come esempio di passionalità femminile nel suo Enrico VI. Ridurre il gesto della regina a un’usanza rozza e incivile sarebbe riduttivo. I Massageti non furono solo una popolazione barbara, nomade e bellicosa. «Non si può escludere che abbiano avuto scam-
IL PIÙ ODIATO
Sotto a sinistra, un ritratto dell’imperatore di Persia Ciro II, l’acerrimo nemico della regina Tomiride.
Chi erano i Massageti?
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Massageti popolarono i territori a nord-est del fiume che lo storiografo greco Erodoto chiamava Arasse. Si tratterebbe dell’odierno Amu-Darya, tra Turkmenistan e Uzbekistan. Appartenevano all’antico gruppo degli Sciti (quelli orientali, chiamati Saka), nomadi che abitarono tra il Mar Nero e la Siberia. Cannibali. «Le informazioni di Erodoto non sono sempre verificabili archeologicamente», spiega Bruno Genito, docente di Archeologia e storia dell’arte iranica all’Università L’Orientale di Napoli. «È verosimile però che, come diceva lo storico greco, praticassero sacrifici umani», prosegue l’esperto.
«Era un’abitudine, sembra, abbastanza diffusa nella tradizione nomadica. Così come era frequente che figure femminili si distinguessero per incarichi militari o politici, perché in quelle culture la donna rivestiva un ruolo più importante che in quella greca».
Forti sul campo. Dal punto di vista militare gli Sciti erano abbastanza evoluti. Oltre all’introduzione dell’arco che da essi prese il nome di “scitico” (foto in basso) elaborarono un tipo di freccia con la punta a tre alette, più aerodinamica e tagliente. E quindi più micidiale.
ubriacare: non conoscevano il VINO bi commerciali con le più evolute popolazioni greche», spiega Colombero. «Lo testimoniano i reperti di arte orafa e vascolare ritrovati nelle loro tombe, che confermerebbero anche l’esistenza di un’organizzazione militare abbastanza sviluppata. È probabile infatti che dietro la vittoria dei Massageti ci sia stato anche l’utilizzo dell’arco scitico, ancora sconosciuto ai Persiani, che permise all’esercito di Tomiride una gittata superiore, circa 100 passi (75 metri), rispetto a quella degli archi delle truppe rivali. Né si possono escludere, infine, contatti con alcuni pensatori greci. Anacarsi per esempio, un principe scita che viaggiò per tutta la Grecia, annoverato tra i sette sapienti dell’antichità, potrebbe essere entrato in contatto con la stessa Tomiride». Grande determinazione. Più che barbara e sanguinaria, l’immagine che della regina dei Massageti emerge è quella di una donna guerriera. Che si oppose a un despota e reagì alla morte del marito e del figlio con determinazione. Forse anche per questo nel cielo c’è un asteroide che porta il suo nome: l’omaggio a una regina che seppe essere guerriera senza dimenticarsi di essere donna e madre. •
REGINA ARMATA
Tomiride in un affresco su tela di Andrea del Castagno (14211457): lancia e armatura non nascondono la femminilità del personaggio.
Giuliana Rotondi
L’ammiraglia Artemisia speronata da una trireme greca, Artemisia affondò una vicina nave alleata, disorientando il comandante dell’imbarcazione avversaria, che così virò verso un altro obiettivo. Serse, nella confusione dello scontro, credette che Artemisia avesse affondato una nave nemica e al termine della battaglia (persa) la coprì di onori, dicendo: “Così le donne mi diventano uomini e gli uomini donne!”. La leggenda vuole che anni dopo lo scontro di Salamina, soffrendo per un amore non corrisposto, Artemisia si tolse la vita buttandosi dalla rupe di Leucade, nel mar Egeo.
ALINARI
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eno leale di Tomiride. Sicuramente più lucida e astuta. Artemisia I, la regina della Caria (nell’attuale Turchia) che dopo la morte del marito ne prese il posto come tiranno di Alicarnasso, è ricordata soprattutto per aver partecipato alla battaglia navale di Salamina (480 a.C.). Ma dalla parte dei Persiani. Alleata di Serse, nipote di Ciro il Grande, fu l’unica donna dell’antichità che ebbe l’onore di comandare una flotta. Spregiudicata. Il greco Erodoto, nelle Storie, racconta che durante i combattimenti, rischiando di essere
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ERODOTO - 480 A.C.
ARCHIVIO DELL’ARTE/L. PEDICINI
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REPORTER
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Visse 2.500 ANNI FA ed è il “padre” della GEOGRAFIA e della Storia. Ma come scovava le sue NOTIZIE il greco Erodoto?
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VIAGGIATORE
Un presunto busto di Erodoto, copia romana da un originale greco realizzato nel IV secolo a.C., cent’anni dopo la morte dello scrittore.
rodoto non ci avrebbe mai creduto: finire in un luogo cancellato dalla Storia! Viaggiatore e scrittore infaticabile, pater historiae per Cicerone, fu messo nel Limbo da Dante, insieme ad altri grandi del passato “colpevoli” di essere nati pagani. Peccato che, nel 2007, il Vaticano abbia abolito ufficialmente il Limbo, lasciando i suoi illustri abitanti senza fissa dimora. A pensarci bene, però, questo non è l’unico paradosso. Non sappiamo praticamente nulla di Erodoto. Nonostante ciò le sue Storie, scritte nel V secolo a.C., sono una fonte unica e preziosa sulle vicende arcaiche della Grecia e sui popoli e le terre del mondo antico. La sua narrazione impersonale e quasi giornalistica da una parte ha il pregio di consegnarci una testimonianza dettagliata e a prima vista attendibile, ma dall’altra non dà alcuna informazione pratica sulle spedizioni all’origine di quelle conoscenze. Così, sappiamo particolari apparentemente secondari, ma ignoriamo se Erodoto viaggiasse da solo o con qualche servo al seguito. Qualcuno che magari gli faceva da traduttore o lo aiutava a ricordarsi tutto ciò che gli raccontavano, visto che prendere appunti su una tavoletta d’argilla, come si usava allora, non era certamente pratico. Di lui si sa che nacque in una famiglia influente ad Alicarnasso (oggi Bodrum, in Turchia) intorno al 480 a.C. La madre era greca mentre il pa-
dre, Lyxes, orientale. Oltre ad avere sangue misto, era un greco “di frontiera” visto che crebbe in una colonia dell’Asia Minore dove era forte l’influenza della Persia. Questo incrocio culturale lo aiutò a guardare al mondo con curiosità e con meno pregiudizi. Nel 444 a.C. partecipò alla colonizzazione di Thurii, in Magna Grecia (vicino a Sibari, nel golfo di Taranto) e con certezza si recò solo in Egitto, Fenicia e Mesopotamia. Quel che si sa, insomma, è davvero poca cosa, considerata l’enorme quantità di nozioni geografiche, etnografiche e storiche contenute nella sua opera. Un’opera che, nella versione originale, doveva essere piuttosto diversa da quella che conosciamo. La divisione in capitoli e paragrafi, infatti, fu opera dei filologi delle epoche successive, probabilmente grammatici di Alessandria, poiché i nove libri delle sue Storie erano in origine un unico, interminabile testo che si allungava sul papiro senza interruzioni. Libera scelta. È un mistero anche perché Erodoto si fosse messo in viaggio. «Si possono però fare ipotesi verosimili», dice Antonio Violante, già docente di Geografia storica all’Università di Milano. «Personalmente sono convinto che decise di partire per puro amore di conoscenza. Anche se non ci sono elementi per dirlo, sembra escluso che avesse incarichi ufficiali. La situazione politica dell’epoca vedeva il mondo sostanzialmente diviso in due:
MERAVIGLIE
BPK/SCALA
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Erodoto citò per primo, nelle Storie, le piramidi d’Egitto. Ma riferì anche, per sentito dire, di popoli fantastici come i Cinocefali, uomini dalla testa di cane (a destra, in una stampa del 1493).
Tra i POPOLI che descrisse c’erano i nomadi ANDROFAGI: per lui ca d’oro della tragedia greca e fu amico di Sofocle, uno dei suoi massimi esponenti. Affabulatore. Forse per tenere la platea con il fiato sospeso, insieme alle gesta di re e grandi eserciti, nelle Storie si leggono anche fatti e creature fantastici, ripresi dai miti e dalla tradizione o inventati, talvolta ricchi di particolari piccanti.Uno di questi è il rapimento della regina greca Io, nel porto di Argo. Racconta Erodoto: “I Fenici affermano che non furono loro che, ricorrendo al ratto, la portarono in Egitto, ma che ad Argo essa ebbe una relazione con il comandante della nave, e che quando si accorse di essere incinta, vergognandosi dei genitori, essa stessa per sua volontà si imbarcò insieme coi Fenici per non essere scoperta”. Storie del genere infiammavano il pubblico. Come i racconti esotici provenienti da luoghi lontani e misteriosi, che parlavano di Amazzoni (donne guerriere), Acefali o Cinocefali (uomini senza testa o con la testa da cane). O come certi particolari morbosi e inventati. Anche se probabilmente non
GIARDINI DA SOGNO
I giardini pensili di Babilonia in una stampa del 1592 ispirata alla descrizione che ne fece Erodoto nelle sue Storie.
GRANGER COLLECTION/ALINARI
da una parte le città-Stato greche, dall’altra l’Impero persiano con le sue satrapie, cioè le province. E gran parte dell’opera di Erodoto era rivolta proprio alla descrizione delle terre persiane. Dubito che qualcuno, visto l’etnocentrismo greco, possa avergli commissionato un lavoro del genere». Se non viaggiava per conto dei potenti, e quindi non poteva contare sul loro denaro, come si manteneva Erodoto? La tradizione narra che leggeva pubblicamente le sue opere ed è probabile che il compenso fosse piuttosto buono. Almeno stando a quello che riferisce lo scrittore Plutarco (I secolo d.C.). Sembra che in occasione delle Panatenee, la festa religiosa più importante dell’antica Atene, lo storico di Alicarnasso avesse intascato dieci talenti (circa 170 euro di oggi) per una sola lettura. Il fatto che la recitazione fosse il modo principale per diffondere notizie e idee, visto che Johann Gutenberg sarebbe venuto duemila anni più tardi e i papiri erano costosissimi, certamente influì sullo stile di Erodoto che, tra l’altro, visse nell’epo-
erano “i più selvaggi al mondo [...]. Gli unici a cibarsi di carne umana”
ANIMALI
gava il mare Egeo con Susa (oggi Shush, in Iran), la capitale amministrativa. Poi, naturalmente, c’era il mare. È logico pensare che Erodoto sfruttasse le navi commerciali per i suoi spostamenti nel Mediterraneo. A quei tempi, però, si navigava soltanto da marzo a ottobre perché, durante i mesi più freddi, nessuno si sognava di lasciare il porto». Sulle pur gloriose galee greche, le tempeste invernali dovevano essere una gran brutta esperienza, ma Erodoto non si fermò davanti a nulla. «Al contrario di Tucidide, che si concentrò sulla Guerra del Peloponneso e teorizzò la storiografia come testimonianza esclusiva di chi vive gli eventi in prima persona ed è contemporaneo a essi, Erodoto si diede un raggio d’azione, spaziale e temporale, enormemente più ampio», continua Violante. «Descrisse luoghi in cui non era mai stato e fatti precedenti la sua nascita». Ciò, ovviamente, lo mise di fronte a un problema insolubile: il suo impulso a preservare la verità storica si scontrò con le fonti che aveva a disposizione, cioè i fatti riferiti dal-
AKG/MONDADORI PORTFOLIO (2)
Sotto, un coccodrillo del Nilo in una stampa del ’600. Erodoto descrisse per primo la fauna dell’Egitto. Accanto, un ippopotamo (detto un tempo “cavallo d’acqua”) in una stampa del ’600. Erodoto lo descrisse con la criniera.
ci mise mai piede, Erodoto attribuì per esempio la seguente abitudine alla più popolosa delle satrapie persiane, l’India: “L’accoppiamento di tutti questi Indiani di cui ho parlato si svolge pubblicamente come per le bestie, e il colore della pelle lo hanno tutti uguale, simile a quello degli Etiopi. Lo sperma che essi emettono unendosi alle donne non è bianco come negli altri uomini, ma nero al pari della loro pelle, e anche gli Etiopi emettono uno sperma simile”. In viaggio. Ma come si faceva, 25 secoli fa, a organizzare spedizioni intercontinentali? Serviva il passaporto, e magari anche un visto, per entrare per esempio in Persia? Forse non c’era la burocrazia, ma è quasi certo che Erodoto, nei luoghi che visitò, ebbe l’aiuto del prosseno, una specie di console onorario che si occupava dei viaggiatori greci. Quanto al comfort, non doveva essere un granché. «Le strade dell’antica Grecia, percorse a piedi o su carri, erano poco più che sentieri tra le varie città», dice Violante. «Nell’Impero persiano, per fortuna, c’era invece la Grande strada reale che colle-
Un mondo in bilico tra realtà e fantasia
I
Androfagi
PA EURO Agatirsi
Celti Istro
EUROP A Massageti
Sciti
ubio) (Dan
Geti
Liguri
Traci
Iberi
L’Ecumene, ovvero il mondo secondo Erodoto.
Iperborei
ano Oce
Sarmati
Ponto Eu si
no
Mar Caspio
Aras (Volga)
Egeo
Battriani te Eufra
non è possibile né vedere né attraversare le zone al di là del loro Paese, verso nord, a causa della caduta di piume. L’inverno è così rigido che le regioni al nord sono inabitabili. Io penso dunque che gli Sciti e i loro vicini, parlando per immagini, chiamino piume la neve”. Ancora più a nord vivevano i leggendari Iperborei. L’Asia finiva in India e l’Africa (chiamata Libia) non andava oltre il Sahara: i confini orientali e meridionali del mondo erano “terra incognita”, mentre quelli occidentali erano segnati dall’Oceano.
Tigri
l vasto mondo descritto da Erodoto (l’Ecumene, la “terra abitata”) rifletteva una geografia rimasta immutata fino alle esplorazioni del XV secolo. Comprendeva l’Europa Occidentale con i Celti che avevano colonizzato parte della Spagna, come pure il bacino del Danubio (che chiamava Istro). Steppe. A Nord giungeva fino al mare (il Baltico) da dove arrivava l’ambra venduta nel Mediterraneo. Più a est c’erano gli Sciti (tra Ucraina e Asia Centrale) di cui scrisse: “Gli Sciti affermano che
LIBIA
ASIA
Persiani
Indo
Indiani Nilo
Etiopi Oce
ano
o
Ocean
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ALAMY
Erodoto riferì ciò che vide, ma anche MITI e tradizioni orali. Da qui il mix di realtà e FANTASIA mento che i Greci iniziarono a chiamare “barbari” i loro avversari. Questa visione rifletteva il conflitto ideologico tra Persiani monoteisti e assolutisti e Ateniesi politeisti e democratici. Ma fu Erodoto a sintetizzarla per primo: un’intuizione talmente innovativa da rendere il suo lavoro ancora oggi prezioso per gli storici. Per arrivare a un’analisi di questo tipo, però, non bastava una solida conoscenza, più o meno diretta, delle popolazioni che abitavano i due “blocchi”. Era indispensabile inserire il tutto in una concezione geografica dettagliata. Erodoto la ideò e ne fece “l’atlante degli antichi” per diversi secoli. Vecchio mondo. «Aveva individuato tre continenti: Europa, Asia e Africa», chiarisce Violante. «Siccome poi, come molti Greci, Erodoto aveva un amore per la simmetria, che applicava anche agli schemi mentali, divise i tre continenti in quattro quadranti. A nord-ovest mise l’Europa, a sud-ovest l’Africa, a sud-est l’Asia e a nord-est… di nuovo l’Europa (vedi pagine precedenti). L’idea di un continente europeo esteso fino alla Siberia, per quanto imprecisa, non era del tutto sballata. Erodoto ritenne che gli abitanti della Scizia, un’area che oggi potrebbe corrispondere all’incirca all’Ucraina e alla Bielorussia, fossero più europei che asiatici». Esattamente come riteniamo noi oggi. • Marsiglia De Amici
ESSERI FANTASTICI
Sopra, la nascita da un uovo descritta da Erodoto, eco dei miti. Sotto, a sinistra, la Torre di Babele, ovvero la ziggurat di Babilonia, descritta e forse visitata da Erodoto. Sotto a destra: secondo Erodoto gli Sciapodi erano leggendari abitanti dell’Africa che si facevano ombra con gli enormi piedi (qui in una stampa medioevale).
BRIDGEMAN/MONDADORI PORTFOLIO
MARY EVANS/ALINARI
le persone che incontrava. Il suo spirito critico era un ottimo antidoto contro la soggettività e le leggende, ma ovviamente non bastava. E lui lo sapeva benissimo: ogni volta che scriveva senza avere verificato personalmente metteva in guardia il lettore. Archivio vivente. La trasmissione della memoria fu un altro punto nevralgico nel lavoro di Erodoto e divenne un’ossessione. Lo dichiarò apertamente all’inizio del primo libro: “Questa è l’esposizione della ricerca di Erodoto di Alicarnasso, perché gli eventi umani non svaniscano con il tempo e le imprese grandi e meravigliose, compiute sia dai Greci che dai barbari, non diventino prive di gloria; in particolare egli ricerca per quale ragione essi combatterono tra di loro”. Nel V secolo a.C. non esistevano archivi storici, biblioteche, enciclopedie. L’unico deposito affidabile per le conoscenze umane era la tradizione orale. E l’unico modo per accedere a questo sapere era mettersi in viaggio e incontrare persone. È soprattutto questo, per il giornalista e scrittore polacco Ryszard Kapuścińsky (1932-2007) a fare di Erodoto il primo autore di reportage. Il proemio delle Storie contiene un’altra grande intuizione erodotea: la descrizione dell’opposizione tra Occidente e Oriente. Una frattura che iniziò con la pretesa dell’imperatore persiano Dario di sottomettere la Ionia, in soccorso della quale giunsero le truppe di Atene. Fu così che cominciarono le cosiddette Guerre persiane. E fu da quel mo-
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SOCRATE - V SEC. A.C.
Uno che la GENIO CERTIFICATO
CREDITO
ALAMY
Le rovine di Delfi, dov’era l’oracolo che definì il filosofo “il più sapiente”. A sinistra, Socrate nella tipica posa del pensatore.
SAPEVA lunga
Il grande filosofo fu un uomo buono, assetato di CULTURA, coraggioso. Fu eliminato perché faceva PAURA ai politici. Luciano De Crescenzo gli ha dedicato due libri e questa intervista
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LAIF/CONTRASTO
A
lle radici del pensiero occidentale c’è un uomo dall’aspetto dimesso e dal profilo non proprio apollineo, che parlava il linguaggio del popolo. Un individuo semplice che, unico fra i filosofi della sua epoca (il V secolo a.C.), invece di farsi vanto delle sue conoscenze, affermava convinto: “So di non sapere”. Eppure, l’oracolo divino proclamò Socrate “il più sapiente”. Abbiamo chiesto allo scrittore napoletano Luciano De Crescenzo, talmente innamorato della filosofia greca da ricevere nel 1994 la cittadinanza onoraria ateniese, di raccontarci la vita del filosofo e spiegarci il pensiero di quest’uomo, al quale ha dedicato due monografie tradotte in tutto il mondo (Socrate; Socrate e compagnia bella) e per il quale prova, come lui stesso ci ha confidato, un autentico “amore passionale”. “C’è chi s’innamora di Sofia Loren, chi di Marx, chi porta fiori sulla tomba di Rodolfo Valentino: l’amore della mia vita è stato Socrate”. L’ha detto lei. Perché? «Di tanto in tanto sulla Terra nascono grandi uomini. Penso a Gesù, Gandhi, Buddha, san Francesco. C’è qualcosa, però, che distingue Socrate da tutti gli altri, ed è la sua normalità: era una persona molto semplice, che non lanciava proclami, non pretendeva di trascinarsi dietro torme di seguaci. Non si presentava come depositario di una sua verità, al massimo aiutava gli altri a cercarla in se stessi. Tanto per dirne una, aveva l’abitudine di frequentare banchetti, di bere e, se capitava l’occasione, di fare l’amore con un’etèra (prostituta d’alto bordo, ndr)». Però non lasciò nulla di scritto e i ritratti che ne fecero Senofonte, Platone, Aristofane sono discordanti... «Tutto quello che sappiamo di Socrate lo dobbiamo a ciò che scrissero i suoi sette discepoli più rappresentativi: Antìstene, Aristippo, Euclide, Fedone, Platone, Èschine e Senofonte. Il problema è che, malgrado tutti i suoi insegnamenti morali, i suoi allievi si odiavano cordialmente, e ognuno di loro si
La vita di Socrate
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a.C. Socrate nasce nel demo Alopece, un sobborgo a mezz’ora di cammino da Atene, alle pendici del Monte Licabetto, da una famiglia della classe media: il padre Sofronisco (in greco “Colui che riconosce la saggezza”) è uno scultore, la madre Fenarete (“Colei che fa risplendere la virtù”) una levatrice.
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Giovanissimo, entra a far parte del circolo di Pericle, un gruppo scelto di uomini colti. Viene così a conoscenza delle idee di filosofi come Anassagora e Anassimandro. Durante la Guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta (431-404 a.C.) partecipa alle operazioni, distinguendosi per coraggio ed eroismo.
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È richiamato sotto le armi nella Battaglia di Delio, in cui le truppe ateniesi, comandate da Ippocrate, sono battute dai Beoti guidati da Pagonda. Nel 422 partecipa al tentativo di riconquista di Anfipoli, colonia ateniese occupata dal generale spartano Brasida, ma Atene è nuovamente battuta.
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Sposa Santippe, da cui avrà tre figli: Lamprocle, Sofronisco e Menesseno. Il rapporto coniugale è tempestoso: in un periodo in cui le mogli sono sottomesse, Santippe appare irascibile. Corre voce, addirittura, che Socrate stia tutto il giorno in piazza a filosofare per restare lontano dalla consorte.
LEEMAGE/MONDADORI PORTFOLIO
Nella Battaglia di Potidea, secondo quanto riportò PLATONE nel offrì come unico e vero interprete del pensiero socratico. Detto tra noi, quanto a intelligenza filosofica Senofonte non era proprio un’aquila. Quindi Platone è senz’altro la fonte più attendibile». Com’era Socrate da giovane? «Della sua infanzia non sappiamo nulla, e a essere sinceri facciamo un po’ fatica a immaginarcelo bambino. Essendo di famiglia benestante, o quasi, fece studi regolari come tutti gli altri ragazzi di Atene, a diciotto anni prestò servizio militare e a venti divenne oplita (soldato di fanteria, ndr) dopo essersi procurato un’armatura adeguata. Era ancora ragazzino quando il maestro Critone, innamorato della grazia della sua anima, se lo portò via per iniziarlo all’amore della conoscenza. Di uno dei suoi maestri, Archelào, fu anche l’amante, o per essere precisi quello che a quei tempi si definiva “eromene”, l’amante più giovane in un rapporto amoroso tra due uomini, contrapposto all’“eraste”, l’amante più anziano. Prima di considerare Socrate un gay, però, sarà meglio chiarirsi una volta per tutte: l’omosessualità a quei tempi era una co-
sa normalissima, non a caso è passata alla Storia come “amore greco”». Non è strano che un uomo non violento come lui, che può essere considerato una specie di Gandhi dell’antichità, sia stato un buon soldato? «Diciamo pure un buon marine: nel 432 a.C. fu imbarcato insieme con altri duemila ateniesi e mandato a combattere a Potidea, una piccola città del Nord della Grecia che si ribellò allo strapotere di Atene. Lì si guadagnò la prima medaglia al valore salvando la vita al giovane generale Alcibiade: lo vide ferito sul campo di battaglia, se lo caricò a cavalluccio e lo portò in salvo in mezzo a una selva di nemici. Ma non fu tanto il suo coraggio a sorprendere tutti, quanto la sua totale indifferenza ai disagi della guerra: girava scalzo sulla neve e sul ghiaccio come se nulla fosse». Come reagì all’oracolo di Delfi che, in risposta alla domanda di un suo amico su chi fosse il più saggio di tutti, indicò in Socrate “il più sapiente dei sapienti”? «Rimase sconvolto perché non si sentiva affatto tale. Per dimostrare che il responso della pizia (la
IL VIZIO E LA VIRTÙ
Sotto, Socrate scopre il giovane Alcibiade a casa di un’etèra, cioè una cortigiana dell’epoca, in un quadro di Henryk Siemiradzki (1875).
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In conformità al principio della rotazione delle cariche, entra a far parte dei “pritani”, i membri del consiglio ateniese con compiti di amministrazione civica. Anche qui dimostra la stessa forza d’animo avuta in battaglia, unico a opporsi alla richiesta di giudizio sommario verso 10 strateghi (generali) accusati di viltà.
404
Mostra la stessa dignità quando, durante il governo dei Trenta tiranni, si rifiuta di eseguire l’ordine di partecipare alla cattura di Leonte di Salamina, che doveva essere condotto a morte. A salvare Socrate da una condanna è l’amnistia seguita alla caduta della tirannide e al ritorno della democrazia.
399
È denunciato per vilipendio dal giovane poeta Meleto, dietro cui si nascondono due politici ateniesi. Viene riconosciuto colpevole e condannato a morte da una giuria popolare.
Simposio, Socrate SALVÒ la vita al generale ateniese ALCIBIADE MOGLIE BISBETICA
AKG/MONDADORI PORTFOLIO
Santippe rovescia una brocca d’acqua sulla testa di Socrate (la tela è del ’600). A lui si attribuisce la frase, riferita a questo episodio, “Tanto tuonò, che piovve”.
sacerdotessa che pronunciava gli oracoli in nome del dio Apollo, ndr) era sbagliato interpellò tutti quelli che riteneva più sapienti di lui, poeti, artigiani e politici, ma alla fine dovette dare ragione all’oracolo. In effetti, Socrate era il più sapiente proprio perché era il solo a rendersi conto di essere ignorante. E da allora si dedicò a fare ciò che la divinità gli aveva indicato, ovvero educare gli altri alla cura della propria anima, e fece suo il motto che era scritto sul frontone del Tempio di Apollo a Delfi, e cioè “Conosci te stesso”. L’amore per la conoscenza divenne la sua ragione di vita: si racconta che prima di morire Socrate avesse ricevuto in carcere un maestro di musica per farsi impartire lezioni di cetra. Alla domanda di un discepolo, “Perché imparare a suonare la cetra, se di qui a poche ore ti faranno bere la cicuta?”, lui rispose semplicemente: “Perché mi piace imparare”». Che cosa lo ossessionava maggiormente? «La ricerca della verità. Quando diceva “So di non sapere” non negava l’esistenza della verità, ne incitava la ricerca. Era come se dicesse: “Guagliù, la verità esiste, anche se io non la conosco; quindi, lavoriamo per trovarla”. Braccava gli uomini come un cane da caccia, li costringeva a guardarsi dentro, nel profondo dell’animo. Si considerava un ostetrico dell’anima, proprio come sua madre, che faceva la levatrice, lo era del corpo. Ecco da dove nasceva la sua “maieutica”, ovvero l’arte di far “partorire” le menti. Spingendo gli uomini a cercare dentro se stessi, li tempestava di domande: “Che cos’è il vero?”, “Che cosa è il bene?”. A chi gli proponeva di farsi una bella scampagnata rispondeva: “Ma che cosa vuoi che mi possa insegnare la campagna, quando in città ho a disposizione tutti gli uomini che voglio e tutti così istruttivi?”». Si autodefinì scherzosamente un “tafano molesto” che punzecchiava Atene... «Se è per questo, Platone lo paragonò alla torpedine, un pesce in grado di dare una scarica elettrica e stordire chi lo tocca. Non tutti gli ateniesi lo ricambiavano dello stesso affetto; secondo lo stori33
co Diogene Laerzio, alcuni lo prendevano a pugni e gli strappavano i capelli per potersene liberare. Con tutto il rispetto, sono convinto che molti ad Atene lo evitassero come la peste e che appena la sua figura tracagnotta appariva sotto la Porta Sacra, c’era un fuggi fuggi generale, al grido di “oilloco, oilloco: fuitavenne!”, che è un’espressione napoletana e significa “eccolo, eccolo: fuggite!”». Come se lo immagina fisicamente? «Brutto, basso, peloso, con larghe narici, testa calva, gambe sottili e storte. Ma bello dentro. Sia d’estate che d’inverno vestiva allo stesso modo, con una specie di tunichetta chiamata chitone, alla quale al massimo aggiungeva un trìbon, un mantello di stoffa che portava drappeggiato sulla spalla destra. Sandali e maglie di lana neanche a parlarne. Un giorno si fermò davanti a una bottega di Atene ed esclamò stupito: “Ma guarda di quante cose hanno bisogno gli ateniesi per campare!”». Sua moglie Santippe è diventata il simbolo della donna bisbetica e possessiva. Ma, poi, era davvero tale? «Sul suo rapporto con Santippe si è sempre molto ricamato, ma probabilmente la loro vita coniugale era normale. Lei era una casalinga con tre figli da crescere, lui un marito che, a parte una piccola
rendita lasciata dalla madre, non portava a casa una dracma. Le voleva bene e la subiva con rassegnazione: a chi gli chiedeva come facesse a sopportarla, rispondeva:“Cosa vuoi che ti dica, ormai mi ci sono abituato, è come sentire il rumore incessante di un argano”. Del resto, l’aveva sposata a quasi cinquant’anni, forse più per avere un figlio che non una moglie, e fino ad allora si era sempre tenuto alla larga dal matrimonio. Se qualcuno gli chiedeva un consiglio, sul fatto di sposarsi o meno, rispondeva: “Fai come vuoi, tanto in entrambi i casi ti pentirai”». E invece pare che avesse una seconda moglie segreta... «È Aristotele a scrivere che Socrate aveva anche una seconda consorte, tale Mirto. Altri invece sostenevano che fosse una semplice concubina che si era trascinato a casa una sera in cui aveva bevuto. Sul triangolo amoroso Socrate-Santippe-Mirto ironizzò anche Brunetto Latini, il maestro di Dante citato nel XV canto dell’Inferno, che dipingendo le due donne scrisse che litigavano “perché il marito mostrava amore oggi più all’una e domane più all’altra”». Perché Socrate fu condannato a morte? «Ce lo chiediamo ancora oggi! Dal punto di vista giuridico, fu accusato di aver corrotto i giovani e di non avere fede negli dèi nei quali, invece, credeva la
“Ma tu muori INNOCENTE”, disse piagnucolando la MOGLIE. E Socrate le rispose: “E tu volevi che io morissi COLPEVOLE?”
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MORÌ TRA I SUOI DISCEPOLI
Sotto, la morte di Socrate, decretata da una giuria popolare per somministrazione di cicuta, in un celebre quadro di JacquesLouis David (1787). A sinistra, una statua ottocentesca che rappresenta Socrate moribondo; è dello scultore Mark Antokolski.
tori Anito e Licone, e condannarono a morte il denunziante, Meleto». Qual è la lezione più importante che ci ha lasciato? «Si vive meglio da buoni che da cattivi. La felicità che si prova perché si è virtuosi è già un premio. Ed è meglio subire un’ingiustizia piuttosto che farla. Ci sono due aneddoti citati da Platone che fanno capire bene la sua integrità morale. Quando rischiò la pelle, sotto la dittatura dei Trenta tiranni, per opporsi all’arresto del democratico Leonte di Salamina, pare che disse: “Della morte non m’importa un bel niente, molto m’importa di non commettere ingiustizia o empietà”. Secondo l’altro aneddoto, mentre la moglie Santippe piagnucolava lamentando “Ma tu muori innocente”, lui dalla cella ribatté: “E tu volevi che io morissi colpevole?”. Insomma, Socrate era buono, tenace, intelligente, ironico, tollerante e insieme inflessibile. Come si fa a non innamorarsi di lui?». • Claudia Giammatteo
LUCIANO DE CRESCENZO nato a Napoli nel 1928, è scrittore, regista, attore e uomo di spettacolo. E autore di numerose opere di divulgazione filosofica, fra le quali Socrate, Socrate e compagnia bella e Storia della filosofia greca, edite da Mondadori.
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città. Lui si difese mandando in contraddizione chi lo aveva trascinato in tribunale. Ma la verità è un’altra: ad Atene nessuno faceva caso alla religiosità degli altri, e ogni scusa era buona per far fuori un avversario come lui, che con la sua dialettica minacciava il potere costituito. Gli uomini hanno bisogno di certezze: se uno arriva a sostenere che i politici siano dei presuntuosi ignoranti, ecco che quello diventa il nemico numero uno e deve morire». Gli fu offerta su un piatto d’argento la possibilità di evadere dal carcere e lui rifiutò. Perché? «Proprio per rispetto della legge ateniese, per lui sacra. “Quali ragionamenti potrei fare sulla virtù e sulla giustizia”, disse, “dopo avere infranto la legge?”. Al cancelliere del tribunale che gli chiese quale fosse per lui il prezzo della libertà rispose provocatorio: “Una mina d’argento”, cioè nulla. Aveva già 70 anni, tanto valeva finirla lì senza rinunciare ai suoi ideali. E poi Socrate non temeva la morte. Le ultime parole che disse ai suoi amici prima di bere tutto d’un fiato la cicuta furono: “Ecco che è giunta l’ora di andare: io a morire e voi a vivere. Chi di noi abbia avuto il destino migliore è oscuro a tutti fuorché agli dèi”. Qualche giorno dopo gli ateniesi si pentirono di averlo condannato: chiusero per lutto i ginnasi, i teatri e le palestre, mandarono in esilio i suoi accusa-
ALCIBIADE - 450 A.C
STRATEGA
ROGER-VIOLLET/ALINARI
IN LOTTA TRA BENE E MALE
Alcibiade prelevato da Socrate dalla casa delle cortigiane nel dipinto settecentesco di Jean-Charles-Nicaise Perrin: lo stratega frequentò Socrate durante la giovinezza, diventandone, si dice, l’amante.
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di se stesso Fu l’ultima SPERANZA di Atene nella GUERRA del Peloponneso. Grande ORATORE, tradì la sua città, ma da molti fu trattato come un EROE
B
ello e seducente. Impulsivo e ambizioso. Nobile e ricco. All’occorrenza gentile. Ma, se necessario, spregiudicato al limite dell’irriverenza. Un Gianni Agnelli dell’antica Grecia, come ha detto qualcuno. Le donne impazzivano per la sua eleganza e la sua erre moscia. Gli uomini erano sedotti dalle sue doti strategiche e dalla sua appassionata arte oratoria capace di “lanciare il cuore oltre l’ostacolo” e far sognare un ritorno agli antichi splendori proprio mentre l’Atene del V secolo a.C. viveva una crisi profonda di valori e prospettive, accresciuta dalla logorante Guerra del Peloponneso. Esponente dell’ala democratica della città, pose sempre la sua ambizione al di sopra del senso dello Stato e della patria. Addirittura al di sopra degli dèi. Gli Ateniesi lo amarono (e lo odiarono) pazzamente. Come gli Spartani, con cui ebbe una breve liaison, e i nemici Persiani, di cui cercò la benevolenza. Ma chi fu davvero Alcibiade (450-404 a.C.)? Un uomo per tutte le stagioni pronto a cambiar casacca pur di vincere e rimanere a galla, o piuttosto un figlio del suo tempo, relativista e arguto, capace di muoversi con furbizia nei corridoi del potere e di parlare alla “pancia” della gente, esponendosi così alla volubilità del giudizio popolare? La giovinezza. Sicuramente fu un abile stratega. Figlio di una cugina di Pericle, crebbe frequentando la casa del politico ateniese che tuttavia, a quanto risulta, si disinteressò di lui. Forse perché, come
osserva Chiara Pecorella Longo, autrice di Alcibiade, una storia ateniese (Giunti Marzocco), «aveva ritenuto inutile lottare contro una natura ingovernabile». Il clima intellettualmente frizzante dell’Atene di quegli anni fece il resto: allievo di Socrate (v. riquadro alle pagine seguenti), frequentò anche i circoli dei sofisti dove imparò le migliori tecniche di arte oratoria, dibattendo i temi caldi del momento. Alcibiade rese la massima dei sofisti (“la giustizia è l’utile del più forte”) sua filosofia di vita. Sostenere che è giusto che il più forte comandi era da un lato la premessa dell’imperialismo ateniese – giustificava il potere dei più ricchi sulla città e sulle colonie – ma dall’altro lato era anche alla base di quel “relativismo etico” secondo cui non esiste un’idea di bene assoluto. L’abilità nell’individuo sta piuttosto nel persuadere gli altri con le argomentazioni più convincenti (che non necessariamente sono anche le più giuste). La capacità di persuasione ad Alcibiade non mancava. A dieci anni dallo scoppio della Guerra del Peloponneso, a quasi 30 anni (l’età necessaria ad Atene per ottenere incarichi politici), contava già un certo numero di fedelissimi e si era distinto nella commissione incaricata di rivedere, aumentandolo, il tributo degli alleati per la prosecuzione della guerra, schierandosi apertamente sul fronte interventista. Con spregiudicatezza aveva però aperto anche ai “pacifisti”, proponendosi agli Spartani come interlocutore unico per firmare un’eventuale tregua, diventata possibile dopo la morte dei co37
MONDADORI PORTFOLIO
Fu un MAGO della comunicazione: tagliò la coda al suo CANE per far parlare di quello e IMPEDIRE agli ateniesi di dire cose PEGGIORI sul suo conto mandanti che avevano voluto il conflitto. Il gioco, suo malgrado, non funzionò: gli Spartani firmarono sì la pace (421 a.C.), ma con Nicia, a capo della fazione conservatrice ateniese. Alcibiade ingoiò il rospo, ma non desistette. Cinque anni dopo, perdurando la tregua, maturò un piano bellicoso che secondo molti storici, se portato a compimento, avrebbe cambiato il destino di Atene e forse dell’intera Grecia: la spedizione in Sicilia. Guerrafondaio. La città di Segesta era allora in guerra con Selinunte, a sua volta sostenuta da Siracusa (in quota spartana). Portare aiuto a Segesta significava creare un avamposto ateniese sull’isola, base per una successiva espansione. «Il suo sogno era ancora più ambizioso: l’occu38
pazione dell’Italia intera e di Cartagine», spiega la storica. «Fondato questo grande impero, Alcibiade avrebbe assalito il Peloponneso e Sparta, soggiogandoli una volta per tutte». Per convincere gli Ateniesi a sostenerlo tenne un discorso appassionato, degno della migliore tradizione guerrafondaia: “La nostra città se si manterrà inattiva finirà per logorarsi da sola. Una città abituata a essere attiva cade rapidamente in rovina se rinuncia all’azione”. Il comizio funzionò e dall’uditorio partirono applausi scroscianti. Nicia, suo eterno rivale, difendendo i propositi di pace, si oppose però all’iniziativa. Ma rilanciò con una mossa miope: pensando di far desistere gli Ateniesi suggerì di usare un numero altissimo di navi e di armati. Fu
A SCUOLA DI VITA
Alcibiade e Socrate discettano di filosofia con Aspasia, concubina di Pericle e coltissima etèra, in un dipinto del ’700.
ILLIRIA
ITALIA Napoli Taranto
EPIRO CORFÙ
TESSAGLIA
Mantinea 418 a.C. PELOPONNESO Sparta Pilo 425 a.C.
M. PATERNOSTRO
Siracusa 413 a.C.
Persiani Altri popoli
Spedizioni ateniesi Spedizioni spartane
Focolai di conflitto Battaglie
ALINARI
Atene e suoi alleati Sparta e suoi alleati
DISFATTA
La battaglia al largo di Siracusa durante la spedizione voluta da Alcibiade (415 a.C.) in una stampa del XIX secolo.
un boomerang: gli Ateniesi votarono favorevolmente e la disfatta a Siracusa fu un colpo dal quale la città non si riebbe. Non solo. Alcibiade cadde vittima di quella che oggi qualcuno chiamerebbe “giustizia a orologeria”: accusato di aver mutilato le erme (statue del dio Ermes poste presso i crocevia, numerose in Atene) e di avere organizzato parodie sacrileghe dei misteri eleusini, fu chiamato a giudizio. «La prima accusa era assurda, la seconda verosimile», dice l’esperta. «Fatto sta che salpate le 100 navi dal Pireo, dopo i primi successi Alcibiade fu prelevato dalla Sicilia per essere portato ad Atene; ma nello scalo di Turii lui e i suoi riuscirono a fuggire». Latitante, fu condannato in contumacia, i suoi beni vennero confiscati e il suo nome male-
Arginuse 406 a.C.
Delio 424 a.C. Megara
SICILIA
410 a.C. Cizico
Egospotami 405 a.C.
Potidea
Herakleia
Selinunte
Bisanzio
MACEDONIA
Il Mediterraneo Orientale durante la Guerra del Peloponneso.
Segesta
TRACIA
Anfipoli 422 a.C.
Nozio 407 a.C.
ATTICA Atene
IMPERO PERSIANO
Efeso Mileto
Thera
RODI
Cidonia CRETA
detto da tutti i sacerdoti di Atene. E il bel comandante? Trovò rifugio a Sparta. Cambio di casacca. A casa del nemico trascorse tre anni, quanto basta per dare a quel popolo di guerrieri oligarchi, amanti della guerra e della vita da caserma, consigli che portarono alla sconfitta della sua città natale, almeno in Sicilia. E non solo: come un camaleonte si adattò ai loro costumi. “Nessuno sa meglio di me, che ci ho vissuto dentro e ne sono vittima, cosa sia la democrazia ateniese. Non fatemi sprecar fiato su una cosa così evidentemente assurda”, gli fa dire Tucidide. Musica, per le orecchie spartane. Ma, per essere più convincente, Alcibiade adottò anche il loro look: lui amante dell’eleganza e delle raffinatezze rinunciò ai sandali e prese a girare scalzo con una rozza tunica sulle spalle, si nutriva di cipolle e iniziò a bagnarsi anche in inverno nelle gelide acque del fiume Eurota. Anche così conciato, riuscì a conquistare la regina di Sparta. E quando il re tornò dalle manovre militari si trovò tra le braccia un bambino di cui non poteva essere padre. Alcibiade affermò poi di aver sedotto la regina perché la sua discendenza regnasse su Sparta. Sarà. Di fatto, il sovrano non gradì e per lo sfrontato ateniese l’atmosfera a Sparta si fece pesante. Per non sbagliare si imbarcò su una flottiglia che partiva verso l’Asia: raggiunse così il satrapo persiano Tissaferne a cui, per non smentirsi, offrì i suoi servigi, questa volta contro Sparta. Il gran ritorno. Atene intanto era sull’orlo della catastrofe. Dopo la sconfitta, sul banco degli imputati era finita persino la democrazia: si incolpò il regime democratico della sconfitta siciliana e 39
La storiografia si è divisa sulla figura di Alcibiade. TUCIDIDE, la riscossa democratica contro le forze oligarchiche ateniesi. Quando alcuni inviati dei 400 giunsero a Samo per spiegare che il cambio di regime era volto al bene della città, i soldati stavano per far vela verso Atene per dar vita a una guerra civile. Lui li fermò, ordinò lo scioglimento del Consiglio dei 400, aprendo la strada a quelle “grandi intese”. I 5.000 decretarono così il suo ritorno in patria. Era il 411 a.C. Intanto il teatro principale della guerra si spostò nell’Ellesponto, dove Ate-
MONDADORI PORTFOLIO
gli oligarchi trovarono terreno fertile per organizzare una rivolta e affidare il potere a un Consiglio dei 400, assassinando alcuni capi dell’opposizione. Seguì un colpo di Stato e un governo guidato da un Consiglio dei 5.000 (oggi parleremmo di una “grande coalizione” tra democratici e conservatori per far fronte all’emergenza nazionale). Al progetto partecipò anche Alcibiade, esule che coltivava il sogno di tornare in patria. Trovò gioco facile e cavalcò l’onda di protesta contro la democrazia che l’aveva messo sotto processo. Eletto stratego dalla flotta dell’isola di Samo, condusse da qui
ATTENTATO
L’incendio della casa di Alcibiade ordinato dal capo spartano Lisandro, in un dipinto dell’800: lo stratega morì in quella circostanza.
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rievocando la Guerra del PELOPONNESO, ne parlò con benevolenza
FINALE TEATRALE
SCALA
La morte di Alcibiade (404 a.C.) colpito da una freccia mentre insegue il suo attentatore, in una stampa tedesca del 1902.
ne macinava vittorie. All’apice del successo della città, Alcibiade, eletto stratego (408-407 a.C.), rientrò effettivamente in patria. L’accoglienza non poteva essere più entusiasta e lui, per non farsi mancare nulla, organizzò anche una parata religiosa in occasione dei misteri eleusini, che anni prima aveva oltraggiato, guidando la processione non per mare – come si faceva ultimamente per paura di attacchi spartani – ma via terra. Una mossa studiata nei minimi dettagli: il popolo secondo una fonte lo esortò addirittura a farsi tiranno. E lui, saggiamente, rifiutò.
Salpò invece con la sua flotta verso la Caria per saccheggiarla e rifornirsi di quattrini, lasciando temporaneamente il comando della flotta al luogotenente Antioco, con l’ordine di non muoversi. Fu un errore fatale. Antioco, forse per ambizione, trasgredì il divieto e mosse contro la flotta spartana: fu una disfatta, e Alcibiade fu ritenuto responsabile del disastro. Gli Ateniesi, che dallo stratego si aspettavano solo vittorie, gli tolsero il comando e lui, temendo per la sua vita, si recò in Tracia. A capo di un gruppo di mercenari, condusse una guerra personale contro le tribù del luogo, arricchendosi come un comune avventuriero. Troppo pericoloso. Da qui fece un ultimo tentativo per salvare la propria carriera e la sua città. Trovandosi vicino al luogo dei combattimenti, a Egospotami, vide dall’alto di una collina le navi ateniesi e si accorse che erano schierate male. Si precipitò ad avvisare i suoi compatrioti, ma loro lo cacciarono, accusandolo di essere un traditore. L’indomani la flotta ateniese perse 200 navi; la guerra era finita. Gli oligarchi ateniesi e Lisandro, capo degli Spartani, temevano che Alcibiade si mettesse a capo dei democratici fuoriusciti e riuscisse a restaurare ad Atene la democrazia. Mandarono perciò dei sicari a ucciderlo: a 46 anni la carriera di Alcibiade fu interrotta per sempre. Rimase il suo mito. O meglio, il suo fantasma. Forse la riflessione più efficace fu quella di un suo contemporaneo, Aristofane, nella commedia Le rane, dove fa dire a Eschilo: “La città lo ama e lo odia e tuttavia lo vuole. Non bisogna allevare nella città un cucciolo di leone, ma quando lo • hai allevato devi adattarti alle sue abitudini”. Giuliana Rotondi
«
È
difficile dire quali siano stati i rapporti tra Socrate e Alcibiade, più giovane del maestro di circa vent’anni», spiega la storica Chiara Longo. «Ed è irrilevante la questione che tanto affannò i moralisti del passato, vale a dire se tra i due vi fossero stati rapporti di carattere erotico. È probabile, ma non è questo ciò che importa». Piuttosto, ai contemporanei e alle generazioni successive interessò capire se Socrate, condannato a morte nel 399 a.C., cinque anni
dopo la morte di Alcibiade, fu responsabile della condotta dei suoi discepoli. I fan dello stratega sostennero che frequentò Socrate solo per imparare da lui l’arte della parola. E c’è chi ritiene che solo fino a che rimase sotto l’influenza del maestro fu un ottimo cittadino. Le pagine più belle su quel rapporto le ha scritte Platone nel Simposio. Amici a tavola. La cornice è un banchetto al quale, oltre a Socrate e al suo discepolo Aristodemo, presenziano il commediografo
Aristofane, il retore Pausania e altri amici: ognuno tiene un discorso sull’eros. Verso la fine, fa irruzione Alcibiade ubriaco, che parlando di Socrate dice: “Quando l’odo mi balza il cuore e lacrime mi sgorgano sotto le sue parole. Quando io sentivo Pericle e altri oratori bravi, pensavo sì che parlassero bene ma non provavo questo, non mi tumultuava l’anima...”. Busto del filosofo Platone: nel Simposio parlò di Alcibiade e Socrate.
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Allievo (e amante) del maestro Socrate
E. OLAF (4)
ALESSANDRO MAGNO - 356 A.C.
Valoroso, COLTO, affascinante, in soli 12 ANNI Alessandro Magno CONQUISTÒ l’impero più ampio che si fosse visto fino ad allora. Ma la MORTE lo colse di sorpresa
Dallo IONIO all’HIMALAYA IL VERO VOLTO DEL RE
Rielaborazione 3D di una raffigurazione di Alessandro Magno su un orologio da tavolo russo dell’800. Questa e le altre immagini del servizio fanno parte di un progetto per ricostruire il vero volto del condottiero, vissuto tra il 356 e il 323 a.C.
S
i chiamava Alessandro III, re di Macedonia, ma è entrato nella leggenda con un altro nome: Alessandro il Grande (in greco “Aléxandros Mégas”). Per motivi che vanno al di là di ogni immaginazione. Perché non è stato solo uno dei più grandi condottieri della Storia, che in dodici anni di regno conquistò un enorme impero toccando i confini del mondo allora conosciuto: la sua vita straordinaria ha assunto colorazioni leggendarie in Occidente e in Oriente, narrata dalla letteratura araba (Corano, Libro dei Firdusi), persiana, armena, copta, turca e occidentale. E, soprattutto, perché più di chiunque altro ha incarnato l’eroe morto prematuramente al culmine della sua gloria, ed è al centro di enigmi tuttora irrisolti. Dove si trova la sua tomba, venerata nell’antichità e misteriosamente scomparsa? Chi o che cosa l’ha ucciso, interrompendo bruscamente i suoi sogni di gloria? Abbiamo chiesto di raccontarci la sua straordinaria vicenda a Valerio Massimo Manfredi, archeologo e grande narratore dell’antichità, che al giovane re macedone ha dedicato studi personali e romanzi tradotti in tutto il mondo. Nei suoi libri, lei parla spesso del fenomeno “imitatio Alexandri”, il fascino dell’invincibile condottiero che ha conquistato i grandi personaggi in tutte le epoche: da Scipione a Cesare, da Caligola a Traiano e Caracalla, fino a Maometto II e Napoleone. Quali sono i motivi di tanta passione? «Non tutto nella Storia è spiegabile. I mo-
tivi del fascino di Alessandro Magno hanno una componente umana e caotica: basti pensare alla sua morte prematura che stroncò il più grande progetto strategico-ideologico di tutti i tempi. La sua figura racchiude una combinazione dirompente di guerriero e di filosofo, la capacità di fondere insieme mondi lontani e diversi, la resistenza quasi sovrumana alle fatiche, alla fame, alla sete, al gelo, la capacità di pensare in grande senza limiti e senza confini. Nessuno prima di lui si era mai spinto con un esercito a tale distanza dal suo Paese d’origine, nessuno era mai stato così consapevole delle conseguenze che avrebbe avuto nella storia dell’umanità». È vero che per i contemporanei era un dio vivente? «Statue e dipinti ci mostrano la sua bellezza impressionante: aveva uno sguardo di tigre e un volto apollineo. Chiunque lo vedesse era pronto a seguirlo all’inferno. Gli storici raccontano che nessuno era immune al suo fascino... né donne, né uomini, né cani, né cavalli. Si narra che all’età di dodici o tredici anni sia riuscito da solo a domare il cavallo Bucefalo avuto in dono dal padre, con uno stratagemma: intuì la paura dell’animale per la propria ombra, così lo mise con il muso rivolto al sole». “A mio padre devo la vita, al mio maestro una vita che vale la pena essere vissuta”, ha lasciato detto. A chi si riferiva? «Ad Aristotele. Volendo i suoi genitori (il re Filippo II di Macedonia e la principessa dell’Epiro
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Da Gordio ad Alessandria d’Egitto, i luoghi della sua leggenda
L’
impresa di Alessandro Magno fu straordinaria anche dal punto di vista geografico: migliaia furono i chilometri che il suo esercito, portando con sé la cultura ellenistica, percorse da un capo all’altro del mondo conosciuto. Ecco le quindici tappe principali del suo viaggio. Verso oriente. Partito da Pella 1 , la capitale dell’antica
Pella
2
1
Troia
Macedonia, Alessandro sostò subito a Troia 2 per onorare la tomba di Achille, registrando la prima vittoria contro i Persiani presso il fiume Granico 3 . Taglio netto. A Gordio 4 , narra la leggenda, avvenne il celebre episodio del “nodo gordiano”: poiché, secondo l’oracolo, colui che avrebbe sciolto il nodo del Tempio di Giove sarebbe diventato imperatore d’Asia,
4
Alessandro lo recise a metà con la sua spada. Deciso a conquistare l’Impero persiano di Dario III, vinse a Isso 5 e, fuggito l’avversario, conquistò le città fenice di Sidone, Tiro 6 e Gaza. Nuove metropoli. Per controllare il Mediterraneo, fondò Alessandria d’Egitto 7 , poi sconfisse di nuovo Dario III a Gaugamela 8 e, inseguendolo,
Gordio
occupò le 4 capitali dell’impero: Babilonia 9 , Susa 10 , Persepoli 11 e Pasargadae. Inarrestabile, espugnò la città di Ecbatana 12 , fondò Alessandria in Aria 13 e Alessandria Escate 14 toccando il limite estremo orientale presso il Fiume Idaspe 15 quando le truppe, pur vincitrici, si rifiutarono di proseguire. La morte lo sorprese a Babilonia, sulla via del ritorno.
14 Alessandria Escate
33 Fiume Granico 5
Isso 8
6
13 Alessandria in Aria (Herat)
Gaugamela 12 Ecbatana
Tiro
10 Susa
7
Alessandria
9
Babilonia
15 Fiume Idaspe 11 Persepoli
I luoghi di Alessandro Magno in una cartina moderna. In rosso, i campi di battaglia.
Olimpia) dargli un’educazione greca, per completare la sua istruzione scelsero come maestro Aristotele, il più grande pensatore dell’epoca: oggi potrebbe equivalere a comprare tutta l’Università di Harvard per il primogenito. Fu Aristotele a insegnargli la scienza e l’arte, da cui derivò la sua versatilità di interessi. Scrisse un’edizione dell’Iliade appositamente per lui, firmò un contratto di esclusiva dove s’impegnava a non rivelare a nessun altro ciò che aveva insegnato ad Alessandro. E restò legato a lui per tutta la vita, come amico e confidente». Come furono invece i rapporti di Alessandro con i suoi genitori? Su di lui pesa il sospetto di avere preso parte, poco più che adolescente, all’assassinio di suo padre. «Secondo lo scrittore latino Plutarco, Alessandro, pur non essendo direttamente coinvolto nella congiura ordita da una sua guardia personale, ne era a
ARGILLA E METALLO
Elaborazione di un volto maschile in terracotta di epoca ellenistica. In basso a sinistra, nell’altra pagina, una falera (una decorazione metallica).
Fondò una quindicina di CITTÀ che portano il suo nome. Tra cui ALESSANDRIA D’EGITTO, cruciale per il controllo del MEDITERRANEO conoscenza e non la ostacolò. Io non credo. Certamente Alessandro era molto attaccato a sua madre e la decisione paterna di divorziare da lei per convolare a nozze con la giovane Cleopatra Euridice fu per lui motivo di disprezzo, oltre che di preoccupazione per la discendenza al trono. Ma la dimostrazione della sua estraneità al delitto è nella prima domanda che rivolse all’oracolo di Ammone: “Ho ucciso tutti gli assassini di mio padre o ne è rimasto qualcuno?”». Un altro mistero riguarda la sua vita sessuale: secondo alcuni ebbe molti amanti tra cui il suo amico Efestione... «Fu lo stesso Alessandro, che adorava Omero, a parlare di sé e di Efestione, amico e amante, come dei nuovi Achille e Patroclo. Una similitudine, secondo me, sbagliata, perché nei poemi omerici non c’è traccia di omosessualità, mentre Alessandro ed
Efestione furono indubbiamente amanti. Tanto è vero che la morte di Efestione, oggi attribuibile a una banale appendicite, lo sconvolse: rimase a lutto per sei mesi, volle una pira alta come un palazzo di 7 piani, progettò per lui un sontuoso mausoleo mai portato a termine». Il pensiero della morte, la sua, non lo sfiorava? «Alessandro sfidò e ignorò la morte mille volte. Credeva in modo così cieco nella sua discendenza dall’immortale Achille da comportarsi, in guerra, da pazzo temerario come lui: “Non c’è una parte del mio corpo che non abbia cicatrici, non c’è arma corta o da lancio che non mi abbia lasciato il segno: sono stato trafitto da frecce, colpito da una catapulta, battuto da pietre e mazze per voi, per la vostra gloria”. Disse così, secondo lo storico Arriano, alle truppe ammutinate. La verità è che la sua morte era un evento che nessuno si aspettava, incluso lui». 45
Le tappe della sua vita 356 a.C. Alessandro III re di Macedonia nasce a Pella (Macedonia), probabilmente il 20 luglio, figlio del re Filippo II e della principessa d’Epiro Olimpia. Da parte paterna – secondo una leggenda da lui alimentata – discende da Eracle, da quella materna dall’eroe Achille. 340 Mentre suo padre è impegnato in una spedizione a Bisanzio, riceve sedicenne la reggenza del trono macedone. Appena diciottenne guida alla vittoria la cavalleria del regno, che con lui diventerà l’arma offensiva per eccellenza, nella Battaglia di Cheronea. 336 Suo padre è assassinato in una congiura di corte. Alessandro sale al trono acclamato dall’esercito e consolida il suo potere facendo giustiziare i possibili rivali al trono. 335 Proseguendo nella poli-
tica di espansione iniziata dal padre partecipa alle spedizioni militari contro la popolazione balcanica dei Triballi e altre tribù illiriche. Quindi sbarca in Asia con un esercito di 40.000 uomini e 5.000 cavalieri: sconfigge i Persiani nella Battaglia del Granico (334 a.C.) e nella Battaglia di Isso (333 a.C.), conquistando rispettivamente Asia Minore e Cilicia. 332 Inizia la conquista dell’Egitto dove è accolto come liberatore. Fonda la città di Alessandria nel delta del Nilo e raggiunge l’oasi di Siwa: qui, nel santuario dedicato a Zeus-Ammone, è riconosciuto successore dei faraoni. 331 Sconfigge nuovamente l’esercito persiano del re Dario III nella Battaglia di Gaugamela. Dopo un anno fa ingresso trionfale a Persepoli, capitale dell’Impero persiano,
proclamato re dei re. L’ex re Dario, rifugiato a Ecbatana, viene tradito e ucciso da due suoi satrapi: Alessandro dà la caccia agli assassini e fa seppellire Dario nelle tombe reali. 329 Arrivato ai confini dell’odierno Turkestan cinese sposa Rossane, la figlia di un comandante della regione. Con un esercito persiano-macedone si prepara a invadere l’Indo per espandere ulteriormente i confini dell’impero. 324 Per stabilire una rotta marittima tra la Mesopotamia e l’India decide di marciare lungo il deserto costiero parallelamente alla flotta, ma per il clima ostile e il diffuso malcontento dei soldati sospende la spedizione e torna in Persia. Per consolidare il suo impero, organizza un matrimonio collettivo: ben diecimila veterani e ottanta ufficiali si
sposano con donne persiane e lui stesso si unisce a Statira, figlia di Dario III. Le sue nuove vesti di dio-monarca orientale attirano su di lui l’ostilità e due congiure: a farne le spese sono il generale Parmenione, che lo aveva tenuto sulle ginocchia da bambino, e suo figlio Filota, uccisi per ordine del re. 323 Il 10 (o l’11) giugno Alessandro muore a Babilonia. La sua fine è inaspettata: fino all’ultimo ha continuato a riunire lo Stato maggiore e a preparare una spedizione in Arabia. Tolomeo I fa erigere per lui un maestoso mausoleo: il suo impero è suddiviso tra i generali che lo avevano accompagnato nelle sue conquiste. Nascono il Regno tolemaico in Egitto, quello degli Antigonidi in Macedonia e quello dei Seleucidi in Siria e Asia Minore.
MORÌ in circostanze MISTERIOSE quando aveva solo 33 ANNI e si accingeva a conquistare la PENISOLA ARABA C’è chi dice che morì di malaria, chi assassinato a tradimento. Ma che cosa gli accadde veramente? «Tutti i racconti concordano su una determinata circostanza: dopo quarantotto ore di ininterrotti banchetti, alcol, cibo, eccessi di ogni genere e dopo avere appena scolato un’intera “coppa di Eracle” (enorme boccale di vino, ndr) il giovane re fu sorpreso da un dolore lancinante, che lo fece urlare come se fosse stato trafitto da una lancia. Un dolore seguito da febbre sempre più alta, e dodici giorni dopo, dal decesso. È normale avere pensato subito ad avvelenamento, ma Alessandro aveva già sventato due congiure e probabilmente si era già cautelato contro il veleno. Credo, invece, che la verità sia un’altra: quel dolore lancinante al fianco è identico a quello riferito da pazienti di pancreatite acuta. Credo sia quella la patologia che l’ha portato alla morte: stimolato dall’eccesso di attività enzimatica, il succo pancreatico può bucare peritoneo e intestino, invadere la cavità addominale, indurre peritonite, setticemia, perdita di conoscenza, coma e morte». 46
Che cosa sarebbe successo se il suo sogno di gloria non si fosse bruscamente interrotto? «L’avere ammassato una grande flotta in Occidente fa pensare che sognasse Cartagine, che fosse pronto a spingersi al di là delle Colonne d’Ercole. È probabile, a mio avviso, che si preparasse a una monarchia universale e divina». Il mito di Alessandro sopravvive ancora oggi. Chi è il suo erede naturale? È vero che Fidel Castro è tra i suoi maggiori ammiratori? «Confermo. Fidel Castro scelse addirittura il nome di battaglia “Alejandro” combattendo nella Sierra Maestra. Molti leader contemporanei sono rimasti affascinati da Alessandro. Il mausoleo della Piazza Rossa, monumentale contenitore della mummia di Lenin, è in fondo una riedizione moderna del mausoleo di Alessandria. Ma non esiste un suo erede naturale. Dall’alba dei tempi alla fine dell’universo non esisterà mai qualcuno uguale a un altro, nemmeno fosse clonato. E Alessandro Magno ebbe una vita favolosa. E un carisma davvero irripetibile». • Claudia Giammatteo
VALERIO MASSIMO MANFREDI, classe 1943, è scrittore, archeologo, topografo del mondo antico. Ha condotto spedizioni archeologiche in molte località del Mediterraneo. La trilogia di Aléxandros è tra le sue opere più famose.
Il mistero dell’ultima dimora
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ue sfingi a presidiare l’ingresso, e in cima al tumulo un leone alto cinque metri. Potrebbe essere questa tomba ritrovata ad Anfipoli, nel nord della Grecia, a custodire i resti di Alessandro il Grande, secondo una notizia recente. In Egitto. Di sicuro i luoghi candidati a ultima dimora del Macedone sono molti. In pole position due località egiziane. La prima è Siwa, l’oasi a ridosso del confine libico dove Iskandar el-Akbar (nome arabo del re macedone) si autoproclamò “figlio di Amon”, e quindi semidio. La seconda, e sua rivale principale, è la non lontana Alessandria, la città fondata dallo stesso Alessandro nel 332 a.C. per simboleggiare la sintesi tra la classicità greca e l’opulenza orientale.
STORIA E ARTE
Volto ricostruito a partire dal frammento di un carro del III secolo a.C. Le elaborazioni sono state realizzate dall’artista olandese Erwin Olaf.
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FILIPPO IL MACEDONE - 382 A.C.
Sotto la GUIDA del re Filippo II, il piccolo Regno di MACEDONIA prese il controllo di quasi tutta la penisola greca. Ecco COME ci riuscì
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COPPIA TURBOLENTA
Statua di Filippo II e (a destra, su una moneta) la moglie Olimpiade, principessa dell’Epiro.
DE AGOSTINI/GETTY IMAGES
N
ella Grecia antica, tutti hanno avuto il loro momento di gloria: Micene e Argo nel Peloponneso, Atene in Attica, Sparta ancora nel Peloponneso, Tebe in Beozia. Proprio da Tebe partì l’ascesa dell’“altra Grecia”, il regno di Macedonia. Ma chi erano questi parvenus che si affacciavano da neofiti sulla scena della Storia? Nessuno sa da dove venissero i Macedoni. Nessuno lo sapeva allora, e poco se ne sa oggi. Forse erano Greci che si erano separati dai loro “cugini” in epoca remota, oppure, come sostenevano gli Elleni, Sciti (“barbari” originari delle steppe del Mar Nero) governati da una dinastia, gli Argeadi, di provenienza peloponnesiaca, ovvero da Argo (nel sud del Peloponneso), che vantava una discendenza nientemeno che dall’eroe mitologico Eracle. Non si conosce molto del periodo antecedente al primo re storicamente accertato, Perdicca I, che nella prima metà del VII secolo a.C. amministrava il piccolo regno dalla sua capitale, Ege (oggi Verghina). Ma si sa che, nonostante le sue modeste dimensioni, la Macedonia riuscì a sopravvivere in forma indipendente durante le guerre tra le superpotenze del tempo, la Grecia e la Persia, barcamenandosi con un equilibrismo degno dei politici più trasformisti. Alessandro I, per esempio, si dichiarò vassallo di Dario di Persia ma ammiccò ai Greci, tanto da guadagnarsi il soprannome di “Filelleno”, mentre suo figlio Perdicca II evitò di schierarsi nella rivalità tra Sparta e Atene, durante la Guerra del Peloponneso. Era la fine del V secolo a.C. Morto Perdicca (intorno al 413 a.C.), la capitale fu trasferita a Pella (fondata da Archelao I) e dopo un interregno salì al trono Aminta III, che si schierò con decisione con Sparta. Ed eccoci così tornati a Tebe, da dove partì la svolta firmata Filippo.
L’altra
GRECIA
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Delle ORIGINI dei Macedoni non si sa quasi nulla. I Greci ritenevano la pace, e la forza con gli Illiri, sconfiggendoli in modo decisivo grazie al suo generale Parmenione. Il consolidamento delle frontiere era indispensabile per mettere il sovrano in condizione di perseguire il suo obiettivo, ovvero l’espansione. Scopo ultimo: rendere la Macedonia, da sempre parente povera della Grecia, più prospera. Per questo gli servivano uno sbocco al mare, una maggiore disponibilità finanziaria e un esercito efficiente. Riformò dunque le sue forze armate e si mise in competizione con Atene, alla quale soffiò Anfipoli e alcuni centri della Tracia (durante queste battaglie perse però un occhio). Poi conquistò le miniere d’oro più a sud, e i Greci diventarono i parenti poveri della Macedonia. Verso l’Attica. La fase finale dell’ascesa di Filippo non poteva che essere il dominio sulla Grecia, da sempre dilaniata da lotte intestine. Nel 354 a.C. Filippo intervenne nell’ennesimo conflitto ellenico, la cosiddetta Guerra sacra. Si schierò contro la coalizione guidata da Atene, senza però alcun successo. Non poté raggiungere la Grecia Centrale a causa del blocco posto dagli Ateniesi al passo strategico delle Termopili. Ripiegò allora sulla Tracia, dove continuò a guerreggiare contro Ate-
FALSE ORIGINI DIVINE
Olimpiade e Zeus in un affresco di Giulio Romano (1499-1546) a Mantova: dall’unione, per la leggenda, nacque Alessandro Magno.
SCALA
Ostaggio. Nella città della Beozia era tenuto in ostaggio uno dei figli di Aminta, il decenne Filippo, appunto, che lì ebbe modo di studiare le tattiche del generale tebano Epaminonda. Un condottiero capace di sconfiggere più volte la falange spartana, fino ad allora pressoché insuperabile. Aminta morì nel 370 a.C. e nel regno di Macedonia si scatenò una feroce lotta per la successione. Filippo era il terzo figlio del re, e la corona spettò al maggiore, Alessandro II, che però fu ucciso dal cognato. Prevalse Perdicca III, anche lui presto passato a miglior vita combattendo contro gli Illiri. Solo dopo 5 anni di lotte Filippo poté ascendere al trono e mettere in atto i suoi ambiziosi propositi. La dinastia degli Argeadi controllava a quel tempo un modesto territorio nella regione montuosa del Monte Olimpo. Il regno era sotto la costante minaccia delle incursioni delle tribù barbariche da nord, e all’interno dei suoi confini si viveva un’esistenza precaria. Fu questa situazione che il giovane volle sanare prima di ogni altra cosa, e prima ancora di essere riconosciuto re come Filippo II: consolidò immediatamente i confini nord-orientali usando la diplomazia con i Peoni, dai quali comprò
fossero una TRIBÙ degli Sciti, ma governata da una dinastia ellenica
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ne, ma con più profitto, espugnando Olinto e assumendo il pieno controllo della Penisola Calcidica. Ci vollero otto anni, ma alla fine Filippo costrinse l’avversario alla pace in Tracia. Il re obbligò Atene a cedergli la parte meridionale della regione. Inoltre il sovrano si fece nominare capo dell’anfizionia delfica (la più importante tra le leghe elleniche a carattere politico-religioso). Fu una mossa preliminare alla realizzazione dei suoi progetti. E i suoi erano progetti grandiosi. A Filippo quel che è di Filippo. Le idee che molti attribuiscono a suo figlio, Alessandro Magno (vedi articolo nelle pagine seguenti), furono quasi tutte un parto della mente di Filippo: tra queste, l’intuizione di approfittare del declino persiano, minato da guerre civili, spinte centrifughe e sovrani troppo deboli, ergendosi a campione della grecità. Quasi un revival delle Guerre persiane del secolo precedente. In realtà, gli Elleni non avevano alcuna smania di vendetta nei confronti dei Persiani; spesso si prestavano a fare da mercenari per i pretendenti al trono, e permettevano ai satrapi di
Filippi Ege
SIGNORE DEI BALCANI
CARTINA: MARCO PATERNOSTRO
Nella cartina, le tappe dell’espansione macedone (le date si riferiscono alla conquista). Sopra, una moneta d’oro di Filippo II, con un auriga con cavalli al galoppo.
TRACIA (343-342 a.C.)
Olinto 348 a.C.
TESSAGLIA
(352 a.C.)
Campi di Croco 352 a.C.
MOLOSSIA (342 a.C.) Ambracia
Termopili Cheronea 338 a.C. Olimpia
Bisanzio
Pella
MACEDONIA
Regno di Macedonia Regno di Tessaglia Territori neutrali Impero persiano Regno dei Molossi Territori controllati Membri della Lega di Corinto
Presidi macedoni Battaglie principali
entrare nelle beghe greche, con una buona dose di realpolitik. Inoltre, i Greci erano storicamente insofferenti nei confronti di ogni monarchia, e una alle porte di casa non poteva che risultare loro ancor più sgradita di quella asiatica. I Greci rifiutarono pertanto ogni forma di accordo e, grazie soprattutto all’intransigenza del loro leader Demostene (capofila degli antimacedoni), Atene guidò una nuova lega contro Filippo passando dalla diplomazia alle armi. Si ricominciò a guerreggiare in Tracia, dove il macedone non aveva mai cessato di brigare per estendere la propria area di influenza. Terreno di confronto divenne Bisanzio, già allora fondamentale crocevia tra Occidente e Oriente. Contestualmente, i due contendenti si sfidarono per guadagnarsi l’alleanza di Tebe, le cui forze sarebbero potute risultare determinanti nell’imminente conflitto. Filippo ricorse infine al suo ruolo di presidente dell’anfizionia delfica, che gli offrì il pretesto di accusare di sacrilegio i locresi di Anfissa, alleati di Tebe. Instancabile, abbandonò le operazioni contro le tribù barbariche sul Danubio per scendere in Grecia, passando le Termopili nel novembre del 339 a.C. per poi fermarsi ad attendere
MAR EGEO
Calcide Eretria Tebe Atene Corinto
ASIA MINORE
Smirne Efeso Mileto
Sparta
Rodi Creta
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Molti MERITI di Filippo II, primo fra tutti quello di essersi schierato le reazioni dei Greci, nella speranza che la sua sola discesa fosse sufficiente a indurli a più miti propositi. Ma Demostene era sempre più determinato a resistergli, e fu capace di guadagnare anche Tebe all’alleanza con Atene. A quel punto, il re si ritrovò la strada della Beozia sbarrata da un’armata congiunta di ateniesi e tebani. Conquistatori. Le schermaglie iniziali tra le due armate avevano visto prevalere i Greci, che si galvanizzarono credendo di rinnovare i fasti di un tempo, quando la democrazia ellenica era stata capace di sconfiggere la potenza di altri monarchi assoluti, gli Achemenidi di Persia, in ben due guerre. In effetti, la cattiva stagione favoriva chi stava in difesa, piuttosto che gli attaccanti. Così, Filippo non spinse davvero l’acceleratore dell’avanzata prima della primavera del 338 a.C., quando con uno stratagemma riuscì a entrare in Beozia e a costringere i Greci ad arretrare la loro linea a Cheronea. In quella località ebbe luogo una battaglia di importanza capitale, una di quelle in cui il testimone della Storia passa da una mano a un’altra: la tanto
celebrata falange greca, modello per i combattenti di pressoché tutti gli Stati del Mediterraneo, si rivelò superata di fronte al maggiore dinamismo di quella macedone (v. riquadro in basso). Quella vittoria fu talmente decisiva da permettere a Filippo di imporre ancora una volta la sua volontà ai Greci, convocando a Corinto un congresso panellenico; ne scaturì la creazione di una lega (“di Corinto”) della quale il re assunse il ruolo di capitano generale. E così come aveva largamente preannunciato, si fece promotore di una campagna per la liberazione delle città greche dell’Asia Minore, ancora sotto il giogo persiano. Giallo a corte. Filippo non passò mai all’azione su quel fronte. Morì assassinato poco prima dell’avvio della campagna d’Oriente, nel luglio del 336 a.C. Come Giulio Cesare dopo di lui, accoltellato prima di scendere in guerra contro i Parti. A tutt’oggi non è ancora chiaro chi sia stato il mandante del regicidio e se vi sia stato davvero qualcun altro dietro al gesto dell’ufficiale Pausania. A volerlo morto potevano essere in tanti: Dario III Codo-
FALANGE VINCENTE
Sotto, gli opliti macedoni, alleggeriti delle corazze e dotati di lance più lunghe (le sarisse) erano efficacissimi. A destra, un vaso d’argento, parte del corredo della tomba del sovrano macedone, a Verghina (Ege).
a DIFESA della “grecità”, furono poi attribuiti al figlio Alessandro
J.SHUMATE
F
ilippo, in campo bellico, scardinò concetti radicati da secoli nella mentalità militare greca e creò un esercito la cui efficacia è paragonabile solo a quella della legione romana. Nel mondo antico, non esisteva un esercito professionale di Stato: c’erano il cittadino, che serviva nell’esercito quando era necessario, e il mercenario. Filippo invece creò un esercito nazionale, che si addestrava anche in tempo di pace. Riformatore. Il condottiero rese la pesante e monoli-
tica falange greca più leggera, togliendo l’armatura a una parte degli opliti (i pezeteri) e dotandoli di una lancia molto lunga (la sarissa) che consentiva alle file posteriori di partecipare all’impatto con l’armata avversaria, moltiplicando così il potenziale della formazione. Queste innovazioni tecniche si accompagnarono a quelle tattiche: rese più mobile la falange e affidò lo sfondamento alla cavalleria pesante, creando l’effetto incudine (la fanteria) e martello (la cavalleria).
Andrea Frediani
FARETRA REGALE
La faretra dorata di Filippo II, oggi al Museo archeologico di Salonicco. Sotto, lo scrigno d’oro nel quale furono raccolte le ossa di Filippo II, dalla tomba reale.
DEA/SCALA
La super-armata di Filippo II
brillanti del genitore: di lui, infatti, aveva la capacità di usare la forza ma non quella di ricorrere alla diplomazia quando ve n’era bisogno. Ed entrambe erano necessarie per trovare il bandolo della matassa in un ginepraio come quello ellenico. Controstoria. Fu però proprio Alessandro a suggellare la gloria dell’“altra Grecia”. Allo storico rimane la curiosità di sapere come sarebbero andate le cose se fosse stato invece Filippo II il protagonista della più grande campagna di conquista nella storia dell’umanità, quella che avrebbe costituito, se pur per brevissimo tempo, un vastissimo impero che andava dalla penisola ellenica fino al Pakistan. Probabilmente Filippo avrebbe prevalso sul declinante Impero persiano con la stessa (relativa) facilità del figlio, e adesso parleremmo di Filippo Magno; ma altrettanto probabilmente si sarebbe fermato prima di Alessandro, accontentandosi dell’Impero achemenide – che già racchiudeva, e scusate se è poco, l’Asia Minore, l’Iraq, l’Iran, l’Afghanistan e l’Egitto – senza andare a cercar gloria (e guai) oltre l’Indo. •
BRIDGEMAN/ALINARI
THE ART ARCHIVE
manno, il re di Persia che poteva ritenere, uccidendo lui, di eliminare ogni minaccia al suo impero (questa fu la versione ufficiale della corte argeade); il partito antimacedone in Grecia; il figlio ambizioso Alessandro che, con il nuovo matrimonio del padre e la nascita di un fratellastro, vedeva in pericolo la successione; la sua consorte ripudiata Olimpiade, amata madre di Alessandro, messa da parte in favore della nuova sposa Cleopatra Euridice. Al di là del giallo della sua fine, Filippo merita di essere annoverato tra i più grandi uomini della Storia per il solo fatto di essere stato il primo, e per lungo tempo il solo, a riunire la Grecia. Se Alessandro Magno conquistò il mondo antico fu anche grazie a ciò che aveva appreso dal padre e dai suoi insegnamenti. Senza una Grecia unita alle sue spalle, quel ragazzo non si sarebbe mai azzardato ad affrontare un impero sterminato, seppure decadente, come quello persiano; probabilmente, senza un padre come Filippo, avrebbe trascorso la sua esistenza a cercare di imporre il proprio predominio sulla penisola ellenica, ma con risultati meno
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ARCHIMEDE - 287 A.C.
Ingegno e POLITICA Vita, morte e scoperte del più grande GENIO matematico dell’antichità. Un uomo che dedicò il suo TALENTO anche ai MONARCHI della sua città, SIRACUSA
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no invece quasi del tutto avvolte nel mistero, tanto che l’episodio su cui si hanno più notizie è proprio la morte. Su di essa, però, gli storici continuano a indagare: secondo una tesi recente, non fu causata dall’eccessivo zelo di un soldato, ma il frutto di un calcolo politico. E per capirne il motivo, occorre ripercorrere dal principio la vita del genio di Siracusa. Come racconta egli stesso nel suo libro Arenario, in base alla ricostruzione del filologo tedesco Friedrich Blass, Archimede era figlio d’arte: nacque nel 287 a.C. a Siracusa da un astronomo di nome Fidia. Visse quindi nel secolo di maggiore splendore dell’ellenismo, l’epoca iniziata nel 323 a.C. con la morte di Alessandro Magno e terminata con la Battaglia di Azio del 31 a.C., quando Ottaviano Augusto sconfisse Antonio e Cleopatra inglobando l’Egitto, l’ultimo Stato erede del grande impero di lingua greca creato dal condottiero macedone. Siracusa, fondata nel 734 a.C. da coloni di Corinto, era allora una monarchia: al tempo di Archimede era governata da Gerone II, salito al trono nel 270 a.C., prima da solo e poi, dal 240, in compagnia del figlio Gelone II. «Della vita dello scienziato, che Plutarco ci dice
PER MANO DI UN SOLDATO
La morte di Archimede in un dipinto del francese Thomas Degeorge (1786-1854): durante il sacco di Siracusa (212 a.C.) un soldato romano gli ordinò di seguirlo, ma lui si rifiutò. E il soldato lo uccise.
REGER VIOLLET/ALINARI
È
il 212 a.C. e Siracusa, una delle più ricche polis del Mediterraneo, è messa a ferro e fuoco dai Romani comandati dal console Marco Claudio Marcello. Gli ordini sono chiari: Marcello vuole avere a tutti i costi l’uomo più illustre della città, quel geniale Archimede che tanto lo ha fatto penare usandogli contro diaboliche macchine da guerra. E lo vuole vivo. A trovare l’anziano matematico è un soldato, che gli intima di seguirlo. Secondo la leggenda, lo studioso è chino a riflettere sulle figure geometriche che ha tracciato nella polvere: “Noli, obsecro, istum disturbare”, dice (“Non rovinare, ti prego, questo disegno”). Il soldato, invece, perde la pazienza e, contravvenendo agli ordini ricevuti, lo trafigge con la spada. Finisce così, tragicamente, la vita di Archimede di Siracusa, il più grande e “moderno” matematico dell’antichità, i cui studi sulle spirali, sugli specchi ustori e sulle leve – per fare solo qualche esempio – sono ancora oggi fonte di ispirazione per gli scienziati e gli ingegneri di tutto il mondo. Figlio d’arte. Se le opere del genio di Siracusa sono immortali, le vicende della sua vita so-
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ALINARI
A quarant’anni andò ad ALESSANDRIA d’Egitto: lì entrò in contatto COLPO DI GENIO
Sopra, Archimede mentre fa il bagno, in una xilografia del XVI secolo. Fu così che, secondo la leggenda, scoprì il celebre principio che porta il suo nome.
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parente e consigliere dei suoi sovrani, abbiamo pochissime notizie certe», spiega Lorenzo Braccesi, già docente di Storia greca all’Università di Padova. «Da Diodoro Siculo (uno storico del I secolo a.C.) apprendiamo che si trasferì ad Alessandria d’Egitto intorno al 243 e che tornò a Siracusa nel 240, quando Gerone non aveva più l’esclusiva del potere». In trasferta. Fu proprio in Egitto che Archimede fu proiettato alla ribalta della scena intellettuale del Mediterraneo, direttamente dal privilegiato palcoscenico del Museion (l’importante centro di ricerca scientifica di Alessandria) e della Biblioteca fondata nel III secolo a.C. «Verosimilmente lo scienziato andò ad Alessandria per motivi di studio», dice Braccesi. «Ma forse vi ci si era trasferito in seguito a un raffreddamento dei rapporti con Gerone, descritto dalle fonti come un despota». Di certo il viaggio fu proficuo. Tutte le opere che gli sono attribuite – dagli studi su cerchio, spirali e parabole, a quelle sulle sfere e sui poliedri – Archimede le produsse, infatti, al suo rientro in patria. Qui visse gli ultimi trent’anni della sua vita, mantenendosi in contatto con gli amici conosciuti in Egitto, come il geografo Eratostene di Cirene e gli allievi del matematico Conone di Samo, la
cui morte prematura Archimede rimpianse in diversi scritti. Vite miracolosa! Siracusa, anche se non poteva rivaleggiare con Alessandria, l’unico luogo dove Archimede potesse trovare interlocutori alla sua altezza, era una delle città più ricche, colte e popolose del Mediterraneo, al pari di Atene e Cartagine. Quando Gelone II affiancò Gerone II al potere, la polis siciliana conobbe una prosperità eccezionale, destinata a durare ininterrottamente fino al 212 a.C. E il fiore all’occhiello della sua raffinata corte fu proprio Archimede, che si prodigò per la gloria dei due tiranni e per il bene della comunità. Secondo Ateneo, scrittore greco vissuto tra II e III secolo d.C., il suo primo geniale contributo fu l’ideazione di una vite per pompare l’acqua necessaria all’irrigazione dei campi, spostandola dal basso verso l’alto: Archimede la realizzò perfezionando un meccanismo che aveva visto in Egitto. L’invenzione affascinò, tra gli altri, anche Galileo Galilei, che la definì “miracolosa” nel suo libro Le mecaniche (1599). E trova ancora oggi applicazioni nella tecnologia moderna. Sollevare la supernave. Altro fiore all’occhiello della produzione scientifica di Archimede
“Eureka!”. E corse nudo per strada...
Corona
d’oro puro, riempì un bacile fino all’orlo e vi immerse, prima l’uno poi l’altro, i due modelli. Nel secondo caso osservò che l’acqua che traboccava era tanto minore quanto l’oro era inferiore in volume all’argento, essendo quest’ultimo meno denso. Ripeté l’esperimento con la corona, constatando che traboccava più acqua di quanto succedesse con l’identico peso d’oro, ma meno rispetto a quello d’argento. La corona, dunque, era costituita da una lega: l’artigiano aveva sostituito un po’ dell’oro con argento. E fu smascherato. Principio. Da questo episodio deriverebbe dunque il Principio di Archimede, in base al quale le barche galleggiano, che nella sua forma moderna dice: “Un oggetto immerso in un fluido riceve una spinta verso l’alto pari al peso del volume del fluido spostato”.
ILLUSTRAZIONI G. ALBERTINI
Q
uando un avido tiranno chiede aiuto a un bizzarro genio, il truffatore è presto smascherato: lo dimostra una storia raccontata da Vitruvio, architetto e scrittore del I secolo a.C. Sospetti. Gerone II, volendo dedicare una corona agli dèi, consegnò a un artigiano l’oro per realizzarla. A lavoro finito, nonostante il peso fosse quello atteso, il sovrano intuì che qualcosa non andava. E, per vederci chiaro, si rivolse ad Archimede, che cominciò a pensarci su. Un giorno, mentre faceva un bagno, lo scienziato notò che quanto più si immergeva, tanto più il livello dell’acqua si alzava: fu questa osservazione a fornirgli la soluzione. Per l’entusiasmo, Archimede si precipitò nudo in strada gridando: “Eureka!“ (“Ho trovato!”). E subito si mise all’opera: preparò due masse dello stesso peso della corona, una d’argento e l’altra
Acqua Volume d’acqua spostato: è uguale al volume dalla corona.
SPOSTAMENTO DI VOLUMI
Il trucco usato da Archimede per determinare il volume, e quindi la densità, della corona. In tal modo scoprì che non era d’oro puro.
con i più grandi SAPIENTI dell’epoca TEORIA E PRATICA
Archimede in un’incisione ottocentesca. Il siracusano si occupò di matematica pura; ma progettò anche macchine per intrattenere i suoi sovrani.
ALBUM / CONTRASTO
è il principio della leva, alla base del funzionamento degli apriscatole e dei piedi di porco. Schematicamente, una leva è composta da un “fulcro” (il punto d’appoggio) che la divide in due “bracci”. E il principio afferma che, quanto più lungo è il braccio della leva su cui si esercita una forza, tanta più forza si riesce a esercitare sull’altro. Archimede dimostrò pubblicamente il principio con una stupefacente esibizione: attraverso una leva composta, riuscì tra gli applausi a innalzare una nave carica con la sola forza delle sue braccia. Stando al racconto di Ateneo, si sarebbe trattato della Siracusia, una delle imbarcazioni più imponenti dell’antichità (era lunga 55 metri) costruita, per volere di Gerone, da Archia di Corinto con la supervisione dello stesso Archimede. Una parte importante dell’attività dello scienziato fu comunque dedicata al diletto dei regnanti. L’esempio più spettacolare fu un planetarium, una sfera celeste che riproduceva i movimenti di Sole, Luna e pianeti con tanta esattezza da mostrare perfino le eclissi. Un altro esempio è l’aneddoto della corona d’oro, in seguito al quale lo scienziato arrivò a formulare il celebre principio passato alla Storia con il suo nome (v. riquadro qui sopra).
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ARMI TERRIBILI
L’assedio di Siracusa, con le armi ideate da Archimede contro i Romani. Sotto, le “mani di ferro” usate per ribaltare le navi nemiche. A destra, nel cerchio, gli specchi ustori.
Alla sua morte i SIRACUSANI lo scordarono e PERSONAGGIO SCOMODO
Archimede in un’altra incisione ottocentesca. Il matematico, legato al tiranno siracusano Gelone II, fu forse ucciso perché ostile a Roma.
Amico del tiranno. Non si sa molto, in realtà, dei rapporti tra Archimede e Gerone II, ma l’amicizia che lo legò a Gelone II appare indiscutibile. Lo testimonia il fatto che proprio a lui Archimede dedicò l’Arenario, un’opera sullo studio dei grandi numeri e in particolare sul calcolo della quantità di granelli di sabbia necessari a riempire l’Universo (che secondo le conoscenze dell’epoca era la sfera delle stelle fisse). «La mancata citazione di Gerone in quest’opera non può che essere voluta», argomenta Braccesi, «e denuncia una precisa scelta di campo tra due sovrani che non coltivavano gli stessi orientamenti politici: mentre Gerone era un fautore dell’alleanza con Roma, Gelone era infatti palesemente filo-punico». La sua politica matrimoniale, in effetti, sembra un manifesto di orgoglio ellenistico: nel 232 sposò Nereide, principessa figlia di Pirro, acerrimo nemico di Roma e discendente di Olimpiade, la madre di Alessandro Magno. Secondo Braccesi, quindi, Archimede era più vicino alle posizioni di Gelone, schierato contro Roma, che a quelle di Gerone. Mani metalliche. Già allora, infatti, doveva essere evidente la minaccia rappresentata dai “barbari” Romani, che attesero il 218 per sfidare di nuo-
Le sue invenzioni? Sono ancora attuali applicazione a Priolo Gargallo, a 15 km da Siracusa. Energia per tutti. Qui l’Enel ha aperto nel 2010 la centrale termodinamica Archimede, con 30mila m² di specchi che concentrano la luce solare per innescare un processo per dare energia a 4mila famiglie, garantendo un risparmio annuo di 2.100 tonnellate di petrolio
e 3.250 tonnellate di CO2. Il principio di funzionamento è quello degli specchi ustori, e la sua rielaborazione è del fisico Carlo Rubbia, secondo il quale un quadrato di specchi con lato di 200 chilometri basterebbe per sostituire tutta l’energia fornita dal petrolio su scala planetaria.
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e intuizioni di Archimede non smettono di ispirare tecnici e scienziati, come testimoniano due recenti applicazioni delle sue idee. Turbine reali. La prima è stata inaugurata nel 2011 dalla regina Elisabetta in persona. Si tratta di due turbine idroelettriche a “vite di Archimede”, approntate per alimentare il Castello di Windsor, la principale residenza ufficiale dei reali inglesi dopo Buckingham palace, e altre 300 abitazioni limitrofe. Le turbine, lunghe 12 metri e pesanti 40 tonnellate ciascuna, funzionano in realtà “al contrario” rispetto a quanto originariamente pensato da Archimede (v. disegno a destra): sfruttando un dislivello di 2 metri del Tamigi, ruotano a 22 giri al minuto e sono collegate a un generatore che produce 300 kWh di elettricità. La seconda idea ha trovato
IDENTICO PRINCIPIO
A sinistra, il principio della vite di Archimede in un’illustrazione del 1900: facendo girare la manovella, si porta l’acqua in alto. Sopra, un’applicazione moderna per drenare l’acqua a Kinderdijk, in Olanda.
dopo più di un secolo la tomba fu ritrovata tra i ROVI da Cicerone vo i Cartaginesi, uomini di stirpe fenicia ma di riconosciuta cultura greca. Nel bel mezzo della Seconda guerra punica fu il quindicenne Geronimo, morto il padre Gelone nel 216 e succeduto al nonno Gerone nel 215, a infrangere i legami con Roma, per scegliere l’alleanza con Annibale e provocare nel 212, di conseguenza, l’intervento del console Marcello. Plutarco, la cui Vita di Marcello rappresenta la nostra fonte principale, sostiene che, durante l’assedio, alla forza bruta di Roma la raffinata Siracusa non poté che opporre il genio di un vecchio. Archimede si dedicò infatti alla realizzazione di macchine belliche, tra cui la manus ferrea, un artiglio meccanico in grado di ribaltare le imbarcazioni nemiche, e gli specchi ustori (v. disegno in alto a sinistra), lamiere metalliche concave che riflettevano la luce solare concentrandola sui nemici. Galeno, il celebre medico del III secolo d.C., racconta che lo scienziato riuscì con questo sistema a incendiare numerose triremi romane. Ma la supremazia di Roma era troppo schiacciante. Plutarco narra che dopo la caduta della città Archimede sarebbe morto da incosciente, supplicando un ignorante soldato di non rovinare il suo disegno senza rendersi
conto che così facendo lo avrebbe esasperato, condannandosi a morte. Ma le cose andarono davvero così? Secondo Braccesi, la realtà è un’altra: «Nell’ora della resa dei conti tra Roma e Cartagine fu lo stesso Archimede a consigliare al giovane e inesperto Geronimo, di cui era stato maestro, di ribaltare le alleanze, schierandosi con Annibale. Marcello, che non poteva ignorarlo, ne ordinò così la morte, affidandosi al sicario di turno». Dimenticato. All’eliminazione fisica, seguì la rimozione dalla memoria: meno di un secolo e mezzo bastò ai siracusani per dimenticarsi di Archimede, la cui tomba finì abbandonata fuori della città. A identificarla, nel 75 a.C., fu Cicerone, seguendo le indicazioni contenute in un documento dove si diceva che sulla sua sommità era scolpita una sfera, inscritta in un cilindro. Il celebre oratore nato ad Arpino, nel Frusinate, non riuscì a trattenere il disappunto: “Così la nobilissima cittadinanza della Grecia, una volta veramente molto dotta, avrebbe ignorato il monumento del suo unico cittadino acutissimo, se non lo fosse venuto a sapere da un uomo di Arpino”. Cioè da un discendente dei rozzi Romani. • Federico Gurgone
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Consoli romani, imperatori persiani, generali macedoni. Alcuni furono acerrimi avversari degli Elleni, altri si guadagnarono il loro rispetto, altri ancora giunsero persino a combattere al loro fianco... A cura di Andrea Frediani
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CORBIS
CORBIS
DEI GRECI
I NEMICI
GLI ANTAGONISTI
Dario I
Serse I
Tissaferne
Chi era: imperatore persiano di un ramo cadetto della dinastia achemenide. Le sue conquiste appaiono piuttosto magre rispetto a quelle dei predecessori Ciro il Grande e Cambise. Succeduto a quest’ultimo nel 522 a.C. senza esserne il figlio, si consegnò alla Storia come grande amministratore. Divise i territori persiani in 20 satrapie (province) e avviò un efficiente servizio di posta veloce a cavallo, favorendo le comunicazioni. Iniziò i lavori per la splendida Persepoli, che divenne una delle cinque capitali del regno. Che cosa ha fatto: Dario non rinunciò ad ampliare i confini del regno. Estese il controllo agli Stati greci più orientali, come Bisanzio, Chio, Lesbo, Samo e fu il primo re persiano a mettere piede in Europa, con la costruzione di un ponte di barche sul Bosforo. Il suo obiettivo erano le tribù nomadi della Scizia Occidentale, che non riuscì a domare; tuttavia, la spedizione gli valse la sottomissione della Tracia e il riconoscimento della sovranità in Macedonia. L’Impero persiano raggiunse la massima espansione, dall’attuale Pakistan alla penisola balcanica, ma nel 499 a.C. gli Stati greci dell’Asia Minore gli si ribellarono. Dario ordinò una rappresaglia contro le città che li avevano sostenuti, Atene ed Eretria. La spedizione si risolse nella sconfitta di Maratona nel 490 a.C. L’imperatore morì 4 anni dopo.
Chi era: nipote di Ciro il Grande, figlio di Dario I, salì al trono alla morte del padre. Descritto nelle fonti greche come un esaltato, fu ossessionato dalla conquista della Grecia. Il nome con il quale è noto è la forma greca di Khshahyar-shan, ovvero “re dei re” o “gran re”. Realizzò quella che viene riconosciuta come la più grande operazione anfibia dell’antichità, trasportando in Europa nel 480 a.C. un esercito di quasi 200mila uomini; fece realizzare allo scopo un ponte di barche sull’Ellesponto (la cui preparazione prese 4 anni) e assicurò l’approvvigionamento delle armate grazie all’appoggio della flotta. Che cosa ha fatto: i suoi uomini penetrarono in Grecia Centrale sfondando alle Termopili ed espugnando Atene; ma la sua marina fu sconfitta a Salamina sotto i suoi occhi: “Tutti per timore di Serse si prodigavano e ognuno credeva che il re lo guardasse”, scrive Erodoto circa gli sforzi compiuti dai suoi uomini nella battaglia. La conquista si limitò perciò a un’occupazione parziale del territorio ellenico, il cui perfezionamento Serse affidò al solo esercito, per poi tornarsene in Asia. A Platea, nel 479 a.C., le sue truppe subirono dalla lega ellenica una pesante sconfitta, che sancì il fallimento della spedizione. Poco si sa di lui dopo di allora e fino al suo assassinio, avvenuto a Persepoli in seguito a una congiura.
Chi era: generale persiano, fu il satrapo al centro degli intrighi tra Grecia e Persia negli anni a cavallo tra V e IV secolo. Governò la Lidia e la Caria, e in tale ruolo fu abile nell’influire sulla politica greca. Che cosa ha fatto: durante la Guerra del Peloponneso tra Sparta e Atene, Tissaferne si legò inizialmente alla seconda, trovandosi però in contrasto con la politica del Gran re Dario II, che nel 408 gli tolse la Lidia a favore del figlio Ciro il Giovane. Il satrapo riuscì per qualche tempo a mettere il rivale in cattiva luce presso il nuovo re, Artaserse II, fratello di Ciro, ma il favore di cui godeva il principe presso la corte lo costrinse a rinunciare anche alla Caria. Tuttavia quando Ciro, ingaggiati 10 mila mercenari greci, marciò contro il fratello provocando la guerra civile, il re restituì fiducia a Tissaferne, affidandogli l’ala sinistra nella decisiva Battaglia di Cunassa del 401 a.C. La vittoria arrise alle truppe lealiste, Ciro fu tra i morti (Tissaferne si vantò di averlo ucciso egli stesso), ma i mercenari greci sopravvissero. Il satrapo tentò di neutralizzarli invitando a un abboccamento i loro capi, che massacrò; ma i Greci riuscirono a raggiungere in gran parte salvi il Mar Nero. Tissaferne, tornato alla guida delle sue satrapie, riprese la guerra contro Sparta, ma fu sconfitto. Accusato di incompetenza e tradimento, fu imprigionato e decapitato dai Persiani.
550 ca.-486 a.C.
519-465 a.C.
450 ca.-395 a.C.
ALINARI
Antìpatro
390 ca.-319 a.C. Chi era: generale macedone, fu luogotenente di Filippo II di Macedonia e poi di Alessandro Magno. Non seguì Alessandro nella sua campagna asiatica, perché il re gli assegnò la reggenza della Macedonia e della Grecia conquistata, un compito che il generale svolse con rimarchevole efficienza. Che cosa ha fatto: nel 331 pose fine all’autonomia spartana sconfiggendo a Megalopoli il re Àgide III, che cadde combattendo. Dopo la morte di Alessandro, le polis greche si ribellarono, iniziando la Guerra lamiaca che vide Antìpatro, abbandonato dalla cavalleria tessala, prima assediato a Lamia e poi vincitore a Crannone. Rifiutò di trattare la pace con ambasciatori della lega ellenica e pretese che i Greci stipulassero una pace separata. Scrive Diodoro Siculo: “Quando le città, atterrite, inviarono, ciascuna singolarmente, delegazioni a chiedere la fine delle ostilità, Antìpatro si comportò generosamente concedendo a tutte la pace. Di conseguenza, ogni città desiderò procurarsi singolarmente la salvezza e tutte ottennero in breve tempo la pace”. In seguito, si inserì nelle lotte di potere tra i Diàdochi, i successori di Alessandro: tentò di controllare l’intero impero alleandosi con Antìgono, che pose al comando degli eserciti d’Asia. Morì lasciando il figlio Cassandro a proseguire la lotta per l’egemonia sugli altri Diàdochi.
Tito Quinzio Flaminino 229-174 a.C.
Chi era: console romano, a trent’anni fu capo delle legioni impegnate nella Seconda guerra macedonica. “Poiché era molto ambizioso e avido di gloria”, afferma Plutarco, “voleva compiere personalmente le azioni migliori e più impegnative e teneva in maggior simpatia quelli che necessitavano del suo aiuto che non quanti erano in grado di aiutarlo. Ritenendo gli uni una sorta di campo per esplicare le sue virtù, gli altri avversari della sua gloria”. Che cosa ha fatto: valendosi dell’aiuto dei Greci, nel 197 inflisse al re di Macedonia Filippo V una decisiva sconfitta a Cinoscefale. L’anno seguente, durante i giochi istmici, come proconsole annunciò il decreto del senato che concedeva la libertà a tutti i Greci, guadagnando enorme consenso e addirittura monete con la sua effigie. Rimase però in Grecia con le truppe, ufficialmente per scongiurare aggressioni da parte del regno di Siria e per fronteggiare Nabide di Sparta. L’obiettivo era l’autonomia almeno nominale dei Greci, per evitare che si schierassero con i nemici di Roma. Creatosi una clientela nella penisola greca grazie alla politica filoellenistica, ne fece un uso spregiudicato, ma non poté impedire che, nella successiva guerra, la lega etolica si schierasse con Antìo co di Siria. Cadde in disgrazia a Roma e fu estromesso dall’agone politico.
Lucio Emilio Paolo
Lucio Cornelio Silla
Chi era: console romano, con alle spalle una lunga carriera, politica e militare, fu assegnato al comando delle truppe romane contro Perseo, nella Terza guerra macedonica, fino ad allora poco soddisfacente per i Romani. Morì povero, a prova della sua austerità, nonostante le ricchezze guadagnate in guerra. Pare che fosse solito dire: “Tre sono le cose che ogni soldato deve curare: il corpo per averlo al massimo dell’efficienza e della velocità, le armi sempre pronte, le razioni di cibo predisposte per gli ordini improvvisi; alle altre cose pensano gli dèi immortali e il suo comandante”. Che cosa ha fatto: il suo arrivo determinò un’inversione nelle sorti della guerra. Spronò le legioni demotivate, ristabilì la disciplina e conseguì una spettacolare vittoria a Pidna (168 a.C.). In seguito celebrò un fastoso trionfo a Roma, trascinando in catene il vinto Perseo e i suoi figli. Fautore e conoscitore della cultura greca, viaggiò a lungo per la penisola ellenica, fino al 161 da proconsole, trasferendo a Roma la grande biblioteca di Perseo. Si conformò solo per spirito di servizio alla politica senatoria, che impose la deportazione di migliaia di epiroti a Roma e trasformò in ostaggi uomini di spicco, tra cui lo storico Polibio, che di Lucio Emilio Paolo fornisce un ritratto lusinghiero. A Delfi un monumento ricorda la sua vittoria.
Chi era: fu il primo generale romano a marciare in armi sulla città capitolina, per far valere i propri diritti come console, che Gaio Mario, rivale dai tempi della Guerra giugurtina, gli aveva sottratto. Riguadagnò il comando della guerra contro Mitridate, re del Ponto, che combatté nella penisola ellenica. Che cosa ha fatto: con Silla i Greci, schieratisi in parte col sovrano asiatico, rimpiansero la moderazione dei precedenti conquistatori romani, Flaminino ed Emilio Paolo. Per pagare le truppe durante il conflitto, infatti, Silla non esitò a depredare i santuari di Epidauro, Olimpia e Delfi. Durante l’assedio di Atene, che si era schierata con il re del Ponto, i cittadini, ridotti all’antropofagia sui cadaveri, mandarono al condottiero una delegazione, che si perse nel racconto dell’antica gloria. Si dice che lui abbia risposto: “Tornate da dove siete venuti, cari, e portatevi dietro questi discorsi; se i Romani mi hanno mandato ad Atene non è perché mi istruisca, ma perché sottometta i ribelli”. Conquistò la città nell’86, spogliandola di ogni bene, poi sconfisse i generali di Mitridate, Archelao a Cheronea, Dorileo a Orcomeno; stipulata una frettolosa pace con il re del Ponto, riuscì ad asportare la biblioteca di Aristotele e tornare a Roma a combattere la guerra civile. Fu nominato dittatore (suo il regno del terrore) ma poi si ritirò.
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138-78 a.C.
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Erano maestri nell’arte e nell’architettura, precursori nella scienza e nella medicina. Grandi strateghi militari, inventarono la democrazia e la filosofia. Ecco gli uomini e le donne grazie ai quali la cultura greca lasciò un contributo inestimabile in ogni campo delle attività umane. A cura di Elena Ghidini
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SCALA
SCALA
I GR ANDI
ELLENICI
GLI ALTRI PROTAGONISTI
Omero
Milziade
Leonida I
Chi era: la tradizione lo volle poeta per eccellenza e ne tramandò l’immagine di “aedo” (il cantore) cieco. In realtà la sua esistenza storica non è certa. Sempre che si tratti di un unico autore, è probabile che raccolse e rielaborò varie composizioni orali precedenti, coagulando memorie storiche e mitologiche dell’età micenea. Che cosa ha fatto: scrisse, o meglio cantò, l’Iliade e l’Odissea, i massimi poemi epici della letteratura occidentale, ancora oggi un compendio di liricità e di fonti per la comprensione dei costumi delle popolazioni greche arcaiche. Il mondo greco considerò le sue opere prodigiose creazioni poetiche, fondamentali per la loro importanza morale, tanto che per secoli costituirono un modello. L’esaltazione dei valori dei suoi eroi mitologici divenne archetipo per caratterizzare i diversi tipi umani. La sua eredità: ebbe una fama senza paragoni sin dall’antichità. I suoi eroi, incarnando le aspirazioni più alte e le contraddizioni più forti dell’uomo, hanno avuto la capacità di essere moderni in ogni epoca. L’opera di Omero è un bestseller da 3 millenni. Dissero di lui: per Leopardi era “il padre e il perpetuo principe di tutti i poeti del mondo”, per Platone “maestro della Grecia”, per Aristotele “padre di ogni poesia”, e per Dante, che lo pose nel Limbo, era il “poeta sovrano”.
Chi era: generale e politico, fu governatore del Chersoneso, regione commercialmente strategica tra l’Europa Centrale e Atene. Ebbe grande influenza nella vita politica, la sua autorità era riconosciuta anche dai popoli stranieri. Un’unica sconfitta nell’assedio all’isola di Paro gli costò la carriera. Venne poi ingiustamente accusato di aspirare alla tirannide e di aver ingannato il popolo. Condannato a un’astronomica multa, non poté pagare e fu rinchiuso in carcere dove morì per le ferite di guerra. Che cosa ha fatto: fu lo stratega della battaglia di Maratona. I Greci al suo comando, pur in forte inferiorità numerica, sbaragliarono l’esercito persiano sino ad allora considerato invincibile. A battaglia conclusa, intuito il piano nemico, ricondusse i suoi uomini a marce forzate verso Atene riuscendo a scongiurare il saccheggio della città. Possedeva uno spiccato genio militare: fu il primo comandante ad applicare in battaglia il concetto di manovra tattica. La sua eredità: accrebbe la fiducia di Atene nella propria forza e ne rilanciò il prestigio; vedendo che era possibile battere i Persiani, le colonie ioniche assoggettate si sollevarono e ciò favorì la politica ateniese ponendo le basi per la sua egemonia. Dissero di lui: lo spartano Pausania lo riteneva “il più antico dei benefattori della Grecia”.
Chi era: re di Sparta, durante la Seconda guerra persiana si unì col piccolo contingente della sua guardia personale all’esercito greco che si batteva contro la conquista del continente ellenico da parte dell’imperatore persiano Serse I. Che cosa ha fatto: nel 480 a.C. al passo delle Termopili, alla testa di soli 300 spartiati (e del migliaio di alleati che rimase al loro fianco), oppose una strenua resistenza all’avanzata del nemico. Accerchiato, scelse di morire alla testa dei suoi per impedire l’invasione persiana. La difesa delle Termopili, passaggio obbligato verso la Grecia Centrale, non fermò l’avanzata di Serse, ma consentì ai Greci di riorganizzarsi e vincere un mese dopo a Salamina. Il suo sacrificio trasformò la battaglia nel simbolo del coraggio e in una metafora dell’affermazione della propria libertà, anche di fronte a sfide impossibili. La sua eredità: la sua resistenza senza speranza e la sua cieca fedeltà all’onore guerriero divennero valori che furono tramandati per secoli. Rafforzarono il mito del leggendario eroismo spartano, di colui che preferiva morire per Sparta combattendo, anziché regnare con disonore. Dissero di lui: il poeta greco Simonide, in un encomio ai caduti delle Termopili, di Leonida scrisse che “lasciò un grande ornamento di virtù e gloria imperitura”.
IX-VIII secolo a.C.
554-489 a.C.
VI secolo-480 a.C.
SCALA
SCALA
BRIDGEMAN/ALINARI
Aristide
Temistocle 530 ca.-460 a.C.
525 ca.-456 a.C.
Eschilo
Pausania
Chi era: politico e generale ateniese, si allineò col partito conservatore. Come arconte (magistrato) entrò in contrasto con Temistocle, fu ostracizzato (quindi mandato in esilio temporaneo) ma poi amnistiato all’incombere della minaccia persiana. Fu promotore di una linea filospartana in funzione della comune lotta contro i Medi. Che cosa ha fatto: durante le guerre persiane partecipò alle battaglie di Maratona e di Salamina; al fianco del condottiero spartano Pausania guidò l’esercito greco alla vittoria nella decisiva Battaglia di Platea (479 a.C.), condusse le navi ateniesi alla riconquista di Cipro e Bisanzio. Ispirò la costituzione della lega di Delo, una confederazione marittima in funzione antipersiana con a capo Atene. La coalizione mirava a sostenere le spese della guerra e, per la sua fama di uomo probo che gli valse l’appellativo di “giusto”, Aristide fu incaricato di raccogliere la quota che ciascuna città doveva versare ogni anno alla cassa federale. La sua eredità: la lega delioattica ebbe un ruolo decisivo nella politica imperialistica di Atene, riuscendo a contrastare la pretesa spartana di egemonia e diventando lo strumento attraverso il quale controllare gli alleati. Dissero di lui: “Morì così povero”, scrisse lo storico Cornelio Nepote, “che lasciò appena di che essere sepolto”.
Chi era: politico e generale, potenziò la flotta ateniese sia a fini strategico-militari sia per risolvere la crisi sociale, offrendo ai nullatenenti un’occupazione sui banchi delle nuove triremi. Fece armare le navi a spese dei cittadini ricchi e, costruendosi la fama di “uomo dei poveri”, si garantì il loro appoggio elettorale. La spregiudicatezza con la quale valutò l’eventuale alleanza con i nemici persiani gli costò la condanna alla pena capitale, la fuga e la morte in esilio. Che cosa ha fatto: fu l’artefice della schiacciante vittoria di Salamina (480 a.C.); da vero stratega, anziché dare battaglia in mare aperto, attirò le navi persiane all’interno di uno stretto dove si trovarono imbottigliate e incapaci di manovrare. Rese Atene la maggiore potenza navale dell’epoca facendo approntare navi da guerra di nuova concezione che le assicurarono il dominio sul mare. Fortificò la città e fece del Pireo il suo porto militare. La sua eredità: quando la flotta ellenica assunse il controllo dell’Egeo, ebbero straordinario impulso gli scambi commerciali lungo le rotte marittime; inoltre il numero e l’importanza dei marinai nella difesa delle polis alterò per la prima volta gli equilibri di classe nella formazione del potere politico. Dissero di lui: per lo storico greco Plutarco fu “l’uomo più attivo al raggiungimento della salvezza della Grecia”.
Chi era: drammaturgo ateniese, vinse più volte il premio nell’agone teatrale. Combatté in più occasioni contro l’invasione persiana riversando questa esperienza nelle sue tragedie. La leggenda vuole sia stato ucciso da una tartaruga lasciatagli cadere in testa da un’aquila in volo. Che cosa ha fatto: è unanimemente ritenuto l’iniziatore della tragedia greca. Oltre che autore fu regista delle proprie opere: aggiunse il prologo, diminuì le parti assegnate al coro e intensificò l’uso dei costumi, introdusse il secondo attore rendendo possibili i dialoghi. Portò un’intensità drammatica sino ad allora sconosciuta, sottolineata dagli effetti di messa in scena. Al centro del suo teatro mise le tematiche del dolore e della colpa, la cui eredità si tramanda di padre in figlio, della vendetta (che è dominante) e del castigo, visto come strumento per raggiungere l’autocoscienza. La caratteristica dei drammi è l’intensità del pathos con cui trattava il tema del male. La sua eredità: in vita ebbe grande successo, ma venne presto offuscato dal confronto con i più giovani Sofocle ed Euripide; dimenticato per lungo tempo, è stato riscoperto nell’800 dall’estetica romantica. Dissero di lui: per Victor Hugo “chi non comprende Eschilo è irrimediabilmente mediocre. Eschilo può dar la misura delle intelligenze”.
Chi era: condottiero spartano, nipote dell’eroe delle Termopili Leonida, alla morte di quest’ultimo resse il trono in nome del figlio. Guidò la flotta greca alla conquista di Bisanzio, dove si insediò; qui adottò stili di vita in contrasto con la sobria mentalità spartana e per sospetti rapporti politici con i persiani fu accusato di tradimento e condannato a morte. Per salvarsi si rifugiò in un tempio di Atena, luogo dove avrebbe dovuto essere inattaccabile. Ma vi fu murato dentro e morì di fame. Che cosa ha fatto: guidò l’esercito greco alleato durante la vittoriosa battaglia di Platea del 479 a.C. contro Serse. Pose l’assedio a Tebe dove si erano rifugiati i Persiani dopo la disfatta e la fece capitolare. Per la sua fama, a metà fra onore e infamia, la tradizione antica ne fece l’esempio dell’eroe che si lascia fuorviare dalla brama di gloria, fino a complottare contro la patria che aveva prima servito. La sua vicenda fu presa a monito per chi si allontanava dalle tradizioni. La sua eredità: dopo queste vicende Sparta divenne riluttante a inviare i suoi guerrieri lontano dalla patria per paura che i loro costumi potessero essere corrotti, come capitò a Pausania. Dissero di lui: per lo storico Cornelio Nepote “fu uomo grande, ma altrettanto volubile: come brillò per valore, così fu travolto dai vizi”.
ca. 540-461 a.C.
VI secolo-468 ca. a.C.
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SCALA
BRIDGEMAN/ALINARI
A. DE LUCA
Pericle
Fidia
Tucidide
Ippocrate
Chi era: statista ateniese tra i più carismatici, detenne il potere per oltre trent’anni amministrando saggiamente sia le finanze sia i consensi. Con lui Atene toccò l’apice della sua evoluzione politica, militare, economica e artistica, ma al contempo si alienò la fiducia delle altre città-Stato, entrò in guerra con Sparta e vide l’inizio della propria decadenza. Che cosa ha fatto: pose l’architrave del meccanismo democratico di Atene, introducendo il salario per coloro che si dedicavano ai pubblici uffici e ammettendo le classi inferiori all’effettivo governo della polis. In politica estera perseguì un aggressivo imperialismo. Dopo una disastrosa spedizione contro la Persia, firmò con questa una pace che mise fine ai suoi sogni di espansione in Oriente, rese inutile la Lega di Delo, costituita per combattere i Persiani, e porse il fianco al desiderio di rivalsa di Sparta. Si assicurò le risorse degli alleati per finanziare grandiose opere ad Atene, facendone la città più bella della Grecia. La sua eredità: la sua politica di progresso civile e l’incoraggiamento della cultura fecero fiorire la vita intellettuale e artistica di Atene, tanto che quel periodo è ricordato come l’Età di Pericle. Dissero di lui: secondo Plutarco “si dedicò al popolo, preferendo le cose dei molti e poveri a quelle dei ricchi e pochi, contro la sua natura che era per nulla democratica”.
Chi era: scultore e architetto, massimo esponente dello stile classico. Mostrò un’impronta particolarmente dinamica e plastica, che gli consentì di distinguersi in tutte le tecniche della scultura. In particolare, si deve a lui l’uso della tecnica del “panneggio bagnato”. Che cosa ha fatto: la sua opera più grandiosa fu la sistemazione dell’Acropoli. Ideò i propilei e il Partenone, concependone tutta la decorazione con una ricchezza che non si riscontra in nessun altro tempio greco, e scolpì la monumentale statua di avorio e oro della dea Atena. A Olimpia realizzò la statua più famosa dell’antichità, Giove olimpio (o gigante), una delle 7 meraviglie del mondo. La sua opera incarnava perfezione ed equilibrio ed esprimeva compiutamente lo spirito della Grecia classica, la ricerca dell’ideale di eterna bellezza. La sua eredità: la sua statuaria fu copiatissima, ed è grazie a queste riproduzioni di età romana che oggi conosciamo la sua opera che non ci è pervenuta in originale. Influenzò tutta la scultura greca della seconda metà del V secolo e quella che da allora si è ispirata al classicismo attico, così come Prassitele, il grande scultore del IV secolo a.C. Dissero di lui: Plinio il Vecchio scrisse che Fidia “è lo scultore più famoso fra tutti i popoli a cui giunge la fama di Giove olimpio”.
Chi era: fu uno storico ateniese, formatosi nelle scuole dei più celebri sofisti del tempo. Ebbe, da stratega, un ruolo di protagonista in importanti operazioni militari e fu testimone oculare della guerra che avrebbe descritto nelle sue opere. Conservatore moderato, auspicò una combinazione tra democrazia e autorità statale. Che cosa ha fatto: dedicò la vita alla Guerra del Peloponneso, accurato resoconto cronologico del conflitto fra Atene e Sparta, considerato il primo esempio di imparziale analisi storica. Teorizzò che il passato, non indagabile per mancanza di fonti certe, si possa arguire solo per indizi. Ritenne la Storia una conseguenza delle azioni (e delle risorse) degli uomini, escludendo l’intervento degli dèi. Evitando ogni giudizio morale, ebbe una visione razionale e disincantata della realtà umana e l’unico fattore esterno che accettò fu il destino. Concentrò la sua analisi sugli avvenimenti contemporanei mirando al fine pratico di ricavare dalla Storia insegnamenti utili alla vita politica per prevedere gli sviluppi del futuro. La sua eredità: stabilì i criteri ai quali uno storico doveva attenersi. Per il suo approccio oggettivo fu considerato il padre della storiografia moderna. Influenzò tutti gli scrittori posteriori. Dissero di lui: per Cicerone fu “uno storico degno di fede”.
Chi era: medico, conferì per la prima volta un carattere autonomo e specifico alla medicina, trasformandola da pratica empirica in tecnica fondata su un metodo “scientifico”. Fu il primo a volgere l’attenzione al malato più che alla malattia e ad auspicare il dialogo tra medico e paziente. La fama gli derivò anche dall’attività didattica: fondò una vera e propria scuola e, poiché riteneva che il medico dovesse possedere una conoscenza di tipo universale, scrisse una serie di trattati clinici raccolti nel Corpus hippocraticum. Che cosa ha fatto: sostenne l’innovativo principio che salute e malattia dipendono da condizioni umane e non dall’intervento degli dèi, capì l’importanza di osservare i sintomi e introdusse il concetto di prognosi. Elaborò la teoria umorale secondo cui a generare le malattie sono squilibri tra i fluidi organici all’interno del corpo. Le sue terapie furono diete, purghe, salassi e infusi vegetali. Intorno al 430 a.C. contribuì a debellare la peste ad Atene. La sua eredità: riconosciuto indiscusso padre della medicina, ebbe enorme influenza per secoli, non solo in ambito teorico ma anche morale. A lui è attribuita la formula che tuttora codifica l’etica dei medici, il giuramento di Ippocrate. Dissero di lui: Dante lo definì “sommo” e creato dalla natura “per gli uomini, gli esseri viventi che essa ha più cari”.
495 ca.-429 a.C.
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490 ca.-430 a.C.
460 ca.-395 a.C.
460 ca.-370 a.C.
ALINARI
A. DE LUCA
CORBIS
Aristofane
Senofonte
Platone
Aristotele
Chi era: commediografo, riteneva che il teatro avesse una funzione pedagogica. Si focalizzò su tematiche politiche senza disdegnare, però, una spietata satira letteraria. In alcune delle sue commedie riuscì a fondere elementi grossolani e scurrili con concetti più poetici, sottolineati dal lirismo del coro. Spesso gli episodi delle vicende da lui narrate risultano apparentemente scollegati e si collocano in una trama assurda, fatta di battute incalzanti, giochi di parole ed elementi mimici. Che cosa ha fatto: l’attualità fu un elemento essenziale nelle sue opere, come nell’occasione in cui denunciò i fautori della guerra contro Sparta. Gran parte della sua comicità nacque dal contrasto tra vero e fantastico, tra tradizione e novità. Col suo tono sprezzante e le invettive oltraggiose non risparmiò personaggi celeberrimi quali Euripide e Socrate. La sua eredità: scrisse circa 40 commedie, di cui solo 11 ci sono giunte, ma è comunque l’unico esponente della commedia attica di cui si conoscano opere complete. Il suo teatro documentò l’interesse degli ateniesi per la politica, la loro passione per il teatro e la filosofia. Dissero di lui: per il critico Francesco de Sanctis innalzò la commedia “al grado di poesia”. Secondo Voltaire, invece, usò un linguaggio da “miserabile ciarlatano, tutto battute oscene e ributtanti”.
Chi era: scrittore e storico ateniese, fu politicamente un conservatore. Ammirò Sparta, avversando la democrazia della sua città che lo esiliò. Subì il carisma di Socrate a cui dedicò tre testi detti, appunto, socratici. Che cosa ha fatto: nel 401 a.C. partecipò alla spedizione mercenaria ingaggiata da Ciro per detronizzare il proprio fratello imperatore di Persia. Quando tutti i comandanti greci furono uccisi con l’inganno, Senofonte guidò i famosi Diecimila greci in un’interminabile marcia di ritirata attraverso il territorio nemico. La memoria dettagliata di quella spedizione è contenuta nella sua opera più nota, l’Anàbasi: ciò fa di lui il più antico scrittore autobiografico. La sua eredità: nell’antichità il suo stile fu giudicato semplice ed elegante, nei secoli successivi fu invece ritenuto ingenuo e modesto. In realtà Senofonte si attenne volutamente a una prosa sobria dalla costruzione semplice; il suo lessico fuse vari elementi dialettali e letterari del mondo greco ed è considerato anticipatore della koiné, lingua antenata del greco moderno. Dissero di lui: lo storico greco antico Diogene Laerzio lo definì “uomo notevole in molti aspetti [...] come la predilezione per i cavalli, la caccia e l’arte militare; [...] un uomo che amava [...] conoscere le cose religiose, [...] fedele discepolo di Socrate”.
Chi era: filosofo, fu allievo di Socrate del quale approfondì le riflessioni. Ad Atene fondò la celeberrima Accademia dove insegnò usando il metodo dialettico del dibattito. Che cosa ha fatto: elaborò la “dottrina delle idee”, secondo la quale l’idea è la “base” universale e assoluta che fa esistere il mondo e consente di pensarlo; a essa si contrappongono i fenomeni sensibili, che sono un’imitazione imperfetta e transitoria. Solo gli dèi possiedono la conoscenza, mentre l’uomo può cercare la verità attraverso la “filo-sofia”, l’amore per il sapere. Affrontò la tematica religiosa (dove inserì l’“amor platonico” che cerca nell’amante i segni della moralità più elevata, disdegnando l’apparenza) e quella dell’organizzazione sociale (in Repubblica sostenne la dipendenza tra condotta individuale e politica). Per semplificare temi e significati complessi ricorse all’uso del mito in funzione allegorica. La sua eredità: col maestro Socrate e l’allievo Aristotele pose le basi della cultura occidentale influenzando le dottrine successive. Poiché considerò i numeri e le forme geometriche come enti reali, il suo pensiero è condiviso dalla matematica moderna. Dissero di lui: secondo il filosofo Vico “Platone (contemplò l’uomo) qual dee essere”. Per il filosofo tedesco Nietzsche “preferì l’illusione all’essere, e cioè la menzogna e l’escogitazione della verità”.
Chi era: filosofo e scienziato, si formò alla prestigiosa Accademia di Platone, di cui divenne anche insegnante. In seguito fondò la propria scuola, il Liceo, a cui dedicò tutta la vita. Per aver avuto rapporti coi Macedoni (fu tutore di Alessandro), fu accusato di empietà e costretto a fuggire da Atene. Che cosa ha fatto: tra le menti più innovative e influenti del mondo antico, entrò in confronto critico con Platone, cercando un principio eterno e immutabile che spiegasse la realtà. Studiò numerose discipline, a cui diede un carattere sistematico, creando una vera “enciclopedia del sapere”. Anticipò la filosofia analitica e introdusse lo studio della logica formale, con lo strumento del sillogismo, ritenuto valido fino al XIX secolo. La sua eredità: nella tarda antichità la sua dottrina fu osteggiata dalla Chiesa, mentre si diffuse nella tradizione islamica ed ebraica. Nel XII secolo Tommaso d’Aquino si rifece alle sue idee per fissare i dogmi della Scolastica decretando la rinascita del pensiero aristotelico in Europa. È considerato il precursore del metodo di ricerca empirica, basato sull’osservazione dei fatti. Dissero di lui: Dante lo indica come “maestro di color che sanno seder tra filosofica famiglia”. Secondo Ezra Pound “ancorò il pensiero umano per duemila anni”.
445 ca.-385 a.C.
430 ca.-354 a.C.
428 ca.-348 a.C.
384 ca.-322 a.C.
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CORBIS
A. DE LUCA
Demostene
Plutarco
Galeno
Ipazia
Chi era: il più grande oratore greco. Come leader politico dedicò tutta la sua carriera alla difesa della democrazia ateniese contro l’espansionismo macedone. Si rese protagonista di azioni sia militari sia diplomatiche, ricorrendo spesso alla sua caustica abilità oratoria. Ridotto all’esilio per evitare una condanna, fu richiamato ad Atene per riorganizzare la resistenza contro il successore di Alessandro Magno. Il conflitto però fu sfavorevole agli ateniesi. Condannato a morte, fuggì e si uccise avvelenandosi. Che cosa ha fatto: ebbe una notevole abilità nel conferire partecipazione emotiva ai suoi discorsi. Nelle sue orazioni (memorabili le tre Filippiche) sfruttava sapientemente gli artifici della retorica mascherandoli dietro un’apparente spontaneità; conquistava il favore dell’uditorio con un’accorta captatio benevolentiae ed esercitava un’implacabile azione di demolizione dell’avversario. La sua eredità: dopo la sua morte, la Biblioteca di Alessandria custodì i suoi scritti, che non smisero mai di essere studiati e commentati. I latini lo considerarono il retore per antonomasia e il suo nome è rimasto sinonimo di eloquenza. Dissero di lui: il re macedone Filippo II dichiarò: “Non temo i Greci, temo Demostene”. Cicerone lo definì un uomo “perfetto, a cui nulla fa difetto”.
Chi era: scrittore, storico, filosofo, tipico rappresentante dell’uomo greco erudito, dotato di conoscenza enciclopedica. Usando uno stile semplice, ma ricco di pathos, si interessò all’aspetto esemplare delle vicende, per l’insegnamento che il racconto poteva suscitare. Che cosa ha fatto: la sua produzione fu vasta, ma la sua fama è dovuta alle Vite parallele, dove Plutarco esamina 23 coppie di personaggi, ognuna composta da un greco e da un romano, di cui sottolinea analogie e differenze ponendo l’accento sulla reciproca integrazione delle due culture. In ossequio ai suoi molteplici interessi, scrisse trattati di argomento morale, politico, religioso, scientifico e letterario che vanno sotto il nome di Moralia. Anche se fece ricorso alla tradizione storiografica, si mostrò più interessato a cogliere i tratti distintivi delle personalità. Nei suoi saggi il ritratto dei personaggi è definito non solo dalle grandi imprese, ma anche da particolari minori e aspetti poco conosciuti della personalità. La sua eredità: il suo stile ispirò molti drammaturghi, tra cui Shakespeare. In Europa anche gli autori di biografie, fino al XIX secolo, risentirono della sua influenza. Dissero di lui: il poeta Vittorio Alfieri scrisse che “il libro dei libri per me [...] fu Plutarco. [...] Alcune di quelle (vite dei grandi, ndr), sino a quattro e cinque volte le rilessi”.
Chi era: viene considerato, con Ippocrate, fondatore della medicina antica. Approfondì le sue conoscenze sulla chirurgia e sul trattamento dei traumi dei gladiatori e praticò la dissezione degli animali a scopo di ricerca. Visse per molti anni a Roma, dove studiò la farmacopea e si creò una solida reputazione di anatomista, clinico e diagnosta. Che cosa ha fatto: si ispirò ai princìpi ippocratici, soprattutto alla teoria degli umori, che elaborò. Sosteneva che la cura dei “temperamenti” (stati del corpo derivanti dalla combinazione tra umori) si poteva ottenere con l’alimentazione e l’igiene del corpo. Teorico del salasso come rimedio universale, rifondò la medicina come sapere globale: sosteneva che il buon medico doveva essere anche filosofo e conoscere la logica, la fisica e l’etica. La sua eredità: la sua figura influenzò la medicina fino al XVII secolo e alcune delle sue intuizioni sono considerate corrette anche da un punto di vista moderno. Molto apprezzate nei Paesi islamici, le sue opere furono conosciute in Europa come traduzione latina dei testi arabi. Dissero di lui: Giovanni Boccaccio lo definì “iscienziatissimo uomo [...]. Fiorì ad Atene e poi in Alessandria e quindi [...] a Roma”. Il filosofo Francesco Bacone, fiero detrattore di Galeno, lo descrisse come “spirito gretto, vano e chiacchierone”.
Chi era: prima donna scienziata, fu allieva del padre, accademico di matematica e astronomia alla scuola di Alessandria, a cui succedette nell’insegnamento. Si dedicò con passione anche allo studio della filosofia. Le testimonianze la descrivono come bella, straordinariamente eloquente ma modesta, disponibile a insegnare – anche nelle piazze – a chiunque avesse voglia di apprendere. Alcuni cristiani fanatici, nel timore che la sua filosofia e la sua libertà di pensiero (che venivano ritenute pagane) potessero influenzare negativamente la comunità alessandrina, la massacrarono e ne bruciarono i resti. Che cosa ha fatto: per l’autorevolezza del suo pensiero filosofico fu posta a capo della scuola neoplatonica; i discepoli arrivavano da ogni luogo per seguire i suoi corsi. Poiché era donna, venne giudicata fin troppo libera e audace, suscitando invidie da più parti. La sua eredità: dopo la sua barbara uccisione, molti studenti abbandonarono Alessandria segnandone l’inizio del declino come centro culturale d’eccellenza. Da secoli Ipazia incarna il simbolo del pensiero scientifico laico e la figura della martire del fondamentalismo religioso. Dissero di lei: per l’astrofisica Margherita Hack, Ipazia è “simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza”.
384-322 a.C.
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50-121 ca. d.C.
130 ca.-200 d.C.
355 ca.-415 d.C.
SCIPIONE E ANNIBALE - III SEC. A.C.
GIGANTI
SCIPIONE
Scipione e Annibale, eterni RIVALI, si scontrarono nelle guerre 235 a.C. Nasce a Roma da una delle più antiche e potenti famiglie dell’Urbe. 218 a.C. A soli 17 anni salva suo padre (il console Publio Cornelio Scipione) durante la Battaglia del Ticino contro Annibale.
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211 a.C. Diventa proconsole di Spagna e negli anni successivi vi sconfigge più volte i Cartaginesi. 204 a.C. Ormai console, parte per l’Africa, sbarca a Utica e l’anno dopo sferra l’attacco decisivo alle forze di Annibale.
202 a.C. A Naraggara, nei pressi di Zama, sconfigge Cartagine. La città, però, verrà distrutta completamente soltanto alla fine della Terza guerra punica (nel 146 a.C.). 194 a.C. Viene rieletto console e partecipa alla repressione
di Galli, Liguri e alla sottomissione di popolazioni asiatiche. 183 a.C. Muore a Literno. Vi si era rifugiato amareggiato dopo un’accusa riguardo a un bottino di guerra, che aveva ritenuto ingiusta.
G. RAVA
CONTRO
SCONTRO AL VERTICE
Annibale guida i soldati all’attacco. In primo piano, a sinistra, Scipione.
ANNIBALE
PUNICHE. Ispirandosi alle tecniche MILITARI della Grecia antica 247 a.C. Nasce a Cartagine, figlio del condottiero Amilcare Barca. 221 a.C. Assume il comando supremo delle forze cartaginesi in Spagna. 218 a.C. Conquista Sagunto (Spagna), alleata di Roma. E
provoca così la dichiarazione di guerra dei Romani. Nello stesso anno varca le Alpi con 60mila uomini e decine di elefanti. 217 a.C. Arriva nell’Italia Centrale. 216 a.C. Consegue la vittoria di Canne (Puglia), massima
sconfitta di Roma e suo capolavoro tattico. 203 a.C. È richiamato in Africa, dove da un anno sono penetrati i romani e nel 202 a.C. subisce per mano di Scipione la sconfitta di Zama, che segna la fine della potenza cartaginese.
195 a.C. Lascia Cartagine, costretto all’esilio dai romani, e si rifugia da Antioco III in Siria. 183 a.C. Si avvelena in Bitinia, dove si era rifugiato, per non cadere nelle mani dei Romani che ne chiedevano la consegna.
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La BATTAGLIA di Zama, nell’attuale Libia, fu la WATERLOO di Annibale
C
L’AFRICANO A CARTAGINE
A. DE LUCA
Scipione e sullo sfondo Cartagine. La città fu distrutta nel 146 a.C.
CORBIS
hi si somiglia si piglia, ma qualche volta si accapiglia. E proprio questo è capitato a Scipione e Annibale, generali abilissimi e strateghi eccelsi che uno scherzo della Storia mise su fronti avversari. Annibale cartaginese, Scipione romano (soprannominato, a un certo punto della sua vita, “l’Africano), entrambi cultori dell’antica Grecia, andarono in rovina per colpa di una guerra che li vide rivali: Annibale perché fu sconfitto, Scipione perché vinse troppo. Ma non fu solo questo ad accomunarli. Entrambi persero infatti in battaglia i propri cari: Scipione il padre e lo zio, ammazzati in Spagna, Annibale due fratelli, uno caduto in Italia, l’altro morto durante la traversata per tornare a Cartagine, a causa delle ferite subite. Infine, li unì la Spagna che giocò un ruolo chiave nel destino di entrambi: possederla era fondamentale per vincere. Dopo averla conquistata, Annibale mosse le sue truppe contro Roma, passando per l’Italia nella famosa traversata delle Alpi con gli elefanti; quando invece fu Scipione a impadronirsi dell’Iberia, portò poi la guerra sul suolo africano. I due si scontrarono direttamente solo nella battaglia finale, il 202 a.C. a Zama (in Libia). Prima di allora cercarono solo di trasferire il conflitto nei reciproci territori. Avversari alla pari. Iniziamente il ruolo di Publio Cornelio Scipione rimase defilato, mentre Annibale (il suo nome significava “grazia di Ba’al”, divi-
nità fenicia) fu costretto dal padre Amilcare a giurare odio eterno ai Romani durante le operazioni militari in Spagna. Solo quando nel 219 a.C. Roma dichiarò guerra a Cartagine, il destino dei due – nessuno dei quali era ancora generale – fu segnato: l’uno doveva necessariamente avere la meglio sull’altro. E così avvenne, salvo morire entrambi, quasi per uno scherzo del destino, nello stesso anno (183 a.C.). Annibale e Scipione furono tanto arditi quanto innovatori. In un’epoca in cui i combattimenti si risolvevano in scontri frontali, loro adottarono nuove strategie con avvolgimenti e allungamenti del fronte e attacchi a sorpresa alle spalle. Di giorno combattevano e di notte si spostavano. Ma i due erano anche attenti osservatori e studiavano i grandi condottieri del passato per trarne ispirazione. Annibale, raffinato grecista, per esempio mise in atto, nella battaglia di Canne (in Puglia), le tattiche belliche che
Alessandro Magno aveva usato contro i persiani: la cavalleria che attaccava ai lati e le riserve utilizzate per riempire i varchi lasciati aperti. In più fece sua la straordinaria capacità di condurre alla perfezione manovre di aggiramento. Scipione però non fu da meno e osservata la tattica del nemico la apprese e gliela rivolse contro alla prima occasione: la guerra in Spagna. L’esercito romano si trovava in inferiorità numerica, ma grazie alle tattiche alla “greca” riuscì a vincere. In questo gioco di specchi in cui Scipione imitò Annibale, che a sua volta imitò Alessandro Magno, ebbero la meglio i Romani. Il risultato fu infatti che in meno di quattro anni i Cartaginesi furono cacciati dalla Spagna che da quel momento in poi diverrà provincia dell’Urbe. I contatti giusti. Ma poiché le guerre si vincono anche con la diplomazia, e le alleanze hanno lo stesso peso di un buon esercito, entrambi si improv-
G. RAVA
AVANTI TUTTA!
Annibale varca le Alpi (218 a.C.) con gli elefanti per impressionare il nemico.
MARY EVANS/SCALA
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La TRADIZIONE vuole che Scipione sia stato SEPOLTO a Literno (Napoli), non nella TOMBA di famiglia a Roma visarono anche fini negoziatori, impegnati a tessere rapporti di convenienza. Scipione attirò dalla sua gli Iberi, salvo poi reprimere nel sangue una ribellione contro i Romani che ovviamente non volevano liberarli ma sostituirsi ai vecchi dominatori, i Cartaginesi. Annibale non fu da meno: portò dalla propria parte gli Italici che si sollevarono contro i Romani. I nordafricani Numidi inoltre si divisero in due: Massinissa, principe dei Numidi orientali, stette con Scipione; Siface, re degli occidentali, fu invece fedele alleato dei Cartaginesi, per aver sposato Sofonisba, figlia di Asdrubale. La cavalleria di Massinissa ebbe un ruolo essenziale per determinare la vittoria romana a Zama. Uno scontro che alcuni storici hanno paragonato a Waterloo, non solo perché determinò le sorti di Annibale, come accadde per Napoleone, ma anche perché il condottiero cartaginese fu sconfitto nonostante una scrupolosa attenzione alla strategia e alla tecnica militare. Tracollo cartaginese. Proprio a Zama infatti, il cartaginese scelse il miglior modo possibile per schierare le truppe: in prima linea mise 80 elefanti per disorientare i nemici, due linee di uomini, in maggioranza cittadini, che avevano il compito di fiaccarli e successivamente una terza linea (composta dai veterani della campagna d’Italia) che avrebbero dovuto assestare il colpo definitivo. Scipione, da parte sua invece, aveva disposto i suoi su linee verticali, anziché a scacchiera, come era solitamente in uso, così da far passare gli elefanti nei varchi che si formavano tra i soldati. Ma poi accadde qualcosa di inaspettato: all’inizio della battaglia gli animali, spaventati dalle trombe e dalle frecce, sbandaro72
no sulla cavalleria cartaginese, invertendo così inesorabilmente le sorti e rendendo facile ai cavalieri di Massinissa caricarla. Da parte loro i cittadini, usati per la seconda linea, vennero presi dal panico e fuggirono, impedendo così ai veterani di intervenire. L’epilogo. Nonostante l’agilità di manovra che Annibale dimostrò in questa difficile situazione, Scipione ebbe la meglio, favorito dalla sua astuzia. I Romani e i loro alleati presero infatti la cavalleria cartaginese alle spalle e riuscirono a sferrare il colpo finale. La sconfitta fu sonora: Annibale, che fino a quel momento non aveva mai perso una battaglia, rientrò a Cartagine con il proposito di rimettere in sesto le finanze della città. Scipione invece, che da quel momento divenne l’Africano, dopo il trionfale ingresso a Roma nel 201, diventò l’uomo politico più autorevole dell’Urbe e fu eletto console. Eppure entrambi, uno da sconfitto e l’altro da trionfatore, furono costretti ad abbandonare il potere. Le loro abilità politiche scatenarono le gelosie degli avversari. Così se Annibale lasciò Cartagine e si rifugiò a Efeso, a Scipione fu impedito di partecipare ai combattimenti contro Antioco, re dei Siriani (presso il quale si era rifugiato Annibale): i suoi avversari politici non volevano che Scipione sottomettesse anche l’Asia, dopo l’Africa. Nel 183, Annibale si avvelenò a Libyssa (Turchia) per non cadere in mano ai Romani mentre l’Africano morì a Literno (Napoli) dove si era ritirato. Avvenne così che i due nemici furono accomunati anche nel giorno finale dalla stessa sorte: morire fuori dalla loro patria. • Alessandro Marzo Magno
IL GENERALE
Statua ritenuta di Annibale, sullo sfondo le rovine di Canne dove il generale ebbe la sua gloriosa vittoria sui Romani.
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CLEOPATRA - 69 A.C.
Non era la FATALONA che si racconta. Cleopatra parlava otto lingue,
I
L’ultima dei
l naso importante l’aveva ereditato dal padre, l’educazione raffinata dalla sua città, Alessandria d’Egitto. Il carattere invece se l’era forgiato negli anni, lottando fin dall’età in cui i ragazzi di oggi vanno alle medie, per difendersi dagli intrighi di famiglia. Di Cleopatra ci rimangono soprattutto le immagini di una donna mezza nuda, adagiata in pose languide, circondata da uomini. Ma la regina d’Egitto fu davvero solo un’astuta calcolatrice che sfruttò i suoi amanti per essere protagonista politica della Storia? Straniera. Sul carattere e le intenzioni di questa donna gli storici antichi e moderni sono divisi. Concordano però nel riconoscerle intelligenza, cultura e ambizione da vendere. Caratteristiche che la portarono a soli 18 anni sul trono e la aiutarono AI SUOI PIEDI
Cleopatra sventa un attentato facendo assaggiare il cibo avvelenato a prigionieri, in un quadro di Alexandre Cabanel del 1887.
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a tenerselo stretto per oltre un ventennio. Più di un mito cinematografico, di un’eroina da romanzo rosa o di una civettuola mangiatrice di uomini, l’ultima dei faraoni era una donna dai mille volti. Che, intanto, non era egizia. Nata nel 69 a.C. nei lussuosi appartamenti di una delle concubine del faraone Tolomeo XII, Cleopatra era macedone, come tutta la sua famiglia. Discendeva infatti da uno dei diadochi, i generali di Alessandro Magno che alla morte del condottiero greco si erano spartiti il suo grande regno. Fu la settima della dinastia cui venne affibbiato il nome di Cleopatra (che in greco significa “Gloria del padre”) e forse fu veramente l’unica gloria che quel faraone, soprannominato dal popolo l’Aulete (cioè il flautista), poté vantare. Tolomeo XII, figlio illegittimo di Tolomeo X, non aveva mai mostrato una grande propensione per il governo. Preferiva piuttosto i banchetti, durante i quali si ubriacava e si esibiva appunto come suonatore di flauto. Favorevoli alla parità dei diritti, i Tolomei adottarono l’antica legge dei faraoni: anche le donne di famiglia potevano salire al trono, ma solo come mogli dei loro fratelli. Cleopatra fece buon viso a cattivo gioco. Quando il padre morì, nel 51 a.C., sposò il fratellino di 10 anni (Tolomeo XIII) e iniziò a governare l’Egitto.
era SPIRITOSA e intelligente. E non fu un ASPIDE a ucciderla
CORBIS
FARAONI
Nell’ANTICHITÀ la ritrassero anche con VESTI DA UOMO, segno torica e se la cavava anche con la geometria, l’aritmetica, l’astronomia e la medicina. Non solo aveva una preparazione da far invidia ai letterati, ma sapeva anche dipingere, suonare la lira a sette corde, cantare e cavalcare. Cleopatra aveva ricevuto un’istruzione di tipo greco. Sempre secondo Plutarco conosceva almeno otto lingue e sicuramente parlava il greco, il copto e il latino. Per sua fortuna: come, altrimenti, avrebbe potuto incantare con i suoi discorsi i due uomini chiave della sua vita? Per quel che ne sappiamo, Cleopatra non ebbe mai altre relazioni oltre a quelle con i due condottieri romani Giulio Cesare e Marco Antonio. Che fosse amore sincero o meno, di sicuro la scaltra regina approfittò della loro disponibilità, tra le lenzuola e in politica, per salvaguardare gli interessi dell’Egitto.
ESTETISTA
Sotto, una scultura che ritrae la regina d’Egitto. In un saggio di cosmetica Cleopatra illustrò i rimedi contro la caduta dei capelli.
A. DE LUCA
DEA/SCALA
Lo fece con capacità, lungimiranza e totale autonomia, pur legandosi ai personaggi politici più influenti del tempo, e si comportò da mecenate accogliendo alla sua corte medici e scienziati. Bruttina ma colta. Le mancava però la folgorante bellezza che tanto avrebbero celebrato i posteri (nel Rinascimento la immaginarono persino bionda come una svedese). Plutarco, che fra gli storici antichi è la fonte più attendibile su Cleopatra, non ne elogia l’aspetto, ma l’intelligenza e la simpatia. Caratteristiche che di solito vengono attribuite a una donna per sopperire ad altre mancanze. Certo non le donava l’acconciatura con cui si fece ritrarre sulle monete, con i capelli (bruni) raccolti in una crocchia che metteva in evidenza profilo marcato e naso aquilino. In compenso, quanto a cultura non aveva rivali. La regina era cresciuta a pane e poemi, tragedie e commedie greche. Aveva appreso l’arte della re-
ARIE DA SNOB
Cleopatra sull’isola di File, lungo il Nilo, in un dipinto del 1896. Con Antonio, fondò un esclusivo “Club dei viventi inimitabili”.
di POTERE. Così qualcuno ha creduto che fosse un TRAVESTITO
A. DE LUCA
Il volto della regina Hatshepsut.
Al tappeto. Il suo regno era infatti la Svizzera del I secolo a.C.: ricchissimo e strategicamente importante. La regina scelse di percorrere la strada tracciata dal padre, cioè mantenere con i Romani, la superpotenza dell’epoca, un rapporto di collaborazione che lasciasse una certa autonomia al regno dei faraoni. E Giulio Cesare, che il 2 ottobre del 48 a.C. era sbarcato ad Alessandria per risolvere alcune grane politiche, capitò a fagiolo. Cleopatra ricorse a lui per difendersi dagli intrighi del fratello-sposo che, istigato dai suoi consiglieri, l’aveva costretta a lasciare la capitale. Accampata con un esercito di mercenari sulla frontie-
Il precedente di Hatshepsut
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iù di 1.400 anni prima di Cleopatra un’altra donna governò l’Egitto da sola. E senza coreggenze imposte a fianco di mariti o amanti: la regina Hatshepsut fu tra le prime donne della Storia con un potere assoluto. Immortale. Soffiò il trono al figliastro, Thutmosi III, che alla morte di lei, dopo aver aspettato vent’anni per governare, ricambiò la cortesia cancellando il nome della matrigna da tutti i monumenti ufficiali. Ebbe per amante un architetto, che le costruì una tomba spettacolare, ancora oggi
visitata da milioni di turisti nella Valle dei Re, a Tebe. Barbuta. Per 22 anni Hatshepsut rese prospero l’Egitto, riducendo al minimo le campagne militari e organizzando imponenti spedizioni commerciali. Come quella alla terra di Punt (l’odierna Somalia ed Eritrea) da dove importò incenso, mirra, ebano, avorio e animali esotici. Se la cavò così bene nei panni di uomo, che la sua immagine, all’inizio scolpita con tratti femminili, fu parificata a quella dei faraoni maschi. Con tanto di barba posticcia come attributo regale.
ra orientale dell’Egitto, era pronta a riconquistare il regno con la forza. Ma non servì combattere perché Cesare, forte delle sue legioni, risolse la lite familiare e convocò Cleopatra ad Alessandria, a palazzo. Lei si presentò avvolta in un tappeto e gli si sdraiò ai piedi, vestita semplicemente e senza tanti fronzoli. Fu un colpo di fulmine? Risposte sicure, dopo più di 2mila anni, evidentemente non si possono dare. Certo è che gli antichi non erano troppo diversi da noi: così come oggi ci sono ragazze che corrono dietro a uomini ricchi e potenti solo per raggiungere uno scopo o una posizione, Cleopatra può aver fatto più o meno lo stesso mossa da un evidente interesse politico. Cesare aveva molti più anni (52 lui, 21 lei) ma anche la fama e il fascino di un George Clooney d’altri tempi: la giovane regina gli cadde tra le braccia e lui non se la fece scappare. Poi, per compiacerla, le riconsegnò il trono e si stabilì a palazzo. Ma non vissero felici e contenti. Gli alessandrini, sobillati dal faraone-fratello spodestato, presero le armi contro i legionari stanziati in città. Nella concitazione della battaglia, oltre ad avere la meglio sull’inesperto Tolomeo XIII, pare che Cesare abbia dato fuoco alla famosa biblioteca mandando in fumo 40mila rotoli di papiro. Luna di miele. Cleopatra non poteva lamentarsi. L’odiata sorella Arsinoe IV in prigione, il marito-fratello-rivale morto, l’amante padrone dell’Egitto: per festeggiare si concesse una crociera sul Nilo in compagnia di Cesare, forse una fuga d’amore, certamente un modo per presentarsi ai sudditi in veste di sovrana. Nove mesi dopo Cleopatra diventò mamma per la prima volta e l’anno successivo accompagnò il primogenito, Tolomeo Cesare, detto Cesarione, a Roma da suo padre. Che fosse figlio di Cesare ci sono pochi dubbi: gli storici e le sculture dell’epoca li ritraggono rassomiglianti come due gocce d’acqua. I tratti del viso, il naso, persino le rughe: il ragazzo, crescendo, sarebbe diventato davvero un piccolo Cesare. Ma i Romani non si lasciarono intenerire. L’accoglienza per la signora d’Egitto fu ostile e le illazioni sulle mire sue e dell’amante si sprecarono. Non solo le matrone parteggiavano apertamente per la vera first lady, la moglie di Cesare Calpurnia, ma l’impressione diffusa era che il condottiero volesse diventare re di Roma facendo regina quella straniera. Non potremo mai sapere se si trattasse solo di pettegolezzi: Cesare infatti venne ucciso due anni dopo (44 a.C.). Cleopatra si affrettò a rientrare in Egitto, fece uccidere il secondo fratello e mise sul trono, accanto a sé, Cesarione. A Roma intanto si scatenò una guerra civile tra i sostenitori di Cesare e 77
THE ART ARCHIVE (3)
A Cleopatra il MATEMATICO Potino dedicò un suo TRATTATO. La REGINA aveva una grande PASSIONE per le scienze quelli dei tirannicidi. La questione fu risolta dal figlio adottivo del defunto, Ottaviano, e dal generale Marco Antonio, che poi, insieme al console Emilio Lepido, si spartirono il controllo dei domini romani. Ma la storia dell’Urbe stava per incrociare di nuovo quel faraone scomodo. Un nuovo amore. Dopo aver vendicato Cesare, nel 41 a.C. l’ex braccio destro del condottiero romano ormeggiò la sua flotta a Tarso (sulla costa dell’attuale Turchia) e convocò Cleopatra: probabilmente lo fece per interesse politico, perché voleva ottenere l’appoggio militare ed economico dell’Egitto, ma non si può escludere che quella di Antonio fosse una scusa per conoscere più da vicino l’orientale che aveva stregato il suo comandante. Stavolta Cleopatra non arrivò avvolta in un tappeto. Altri tempi, altri mezzi, ben altro stile: la regina giunse su un battello dalla prua dorata e dalle vele purpuree, sdraiata sotto un padiglione ricamato d’oro. Seguì un banchetto al lume di centinaia di fiaccole e la promessa del romano di mettere a morte Arsinoe in cambio dell’appoggio egizio alle manovre contro i Parti (gli abitanti degli attuali
Il mistero della tomba
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rima di uccidersi, Cleopatra chiese solo una cosa: di essere sepolta accanto a Marco Antonio. Si dice che Ottaviano l’abbia accontentata. Scavi in corso. Novità potrebbero arrivare dal famoso egittologo Zahi Hawass, che ha annunciato di essere vicino a una grande scoperta: avrebbe individuato la tomba della regina a Taposiris Magna, antico porto greco a 45 chilometri da Alessandria, sotto i resti di un tempio tolemaico. Dopo il ritrovamento di un torso di statua di Tolomeo IV, Hawass si è
convinto che una delle tre camere rilevate dal georadar alla profondità di 35 m possa ospitare i resti dei due amanti. Ma alcuni storici affermano che la mummia della regina sia già stata ritrovata: ad Alessandria d’Egitto agli inizi dell’Ottocento. Vilipesa. Trasportata al Museo del Louvre di Parigi, sarebbe stata trasferita nei sotterranei della Bibliothèque nationale nel 1871. Qui l’umidità l’avrebbe danneggiata, costringendo i francesi a disfarsene, seppellendola in un luogo imprecisato.
Iran e Iraq) che minacciavano i protettorati romani della Giudea. L’accordo fu siglato in camera da letto. E quando Cleopatra volse la prua verso l’Egitto, Antonio, cotto a puntino, la seguì ad Alessandria. Insieme ebbero tre figli: due gemelli (Cleopatra Selene e Alessandro Elios) e il piccolo Tolomeo Filadelfo. Non è improbabile che Cleopatra si fosse davvero innamorata di lui, ma gli antichi la accusarono di aver circuito il generale con filtri magici. Latin lover. In realtà Marco Antonio non si era fatto pregare più di tanto: era un bel pezzo d’uomo, un imponente soldato 42enne, fisico curato, risata contagiosa. Forse era un po’ rustico, ma dalla sua aveva la tempra, l’aspetto virile e un debole per il gentil sesso. Si racconta per esempio che avendo sentito parlare della bellezza di una figlia del re della Giudea, Erode, avesse chiesto un ritratto della ragazza, scatenando le ire di Cleopatra. La regina infatti non era immune dalla gelosia e sicuramente non la prese bene quando, tornato in Italia, Antonio sposò la sorella di Ottaviano, Ottavia, per sancire un nuovo accordo per la spartizione dei domini romani: Ottaviano si prese l’Occidente e Antonio l’Oriente. Così, mentre la moglie era incinta, ebbe la scusa per tornare da Cleopatra. Lei stavolta non perse tempo e lo ingabbiò in un matrimonio con rito egizio. Lui in cambio ottenne l’appoggio per una nuova grande spedizione contro la Persia.
COMPAGNI DI MORTE
Antonio morente condotto da Cleopatra, barricata nel suo mausoleo, in un dipinto tedesco del 1863. Il condottiero si sarebbe ucciso credendola morta. A sinistra, il profilo di Cleopatra “abbellito” su una moneta d’oro.
SERPE IN SENO
Cleopatra uccisa dall’aspide. Ma il serpente era un altro: un echide carenato.
Ma Ottaviano, che voleva governare da solo, non tollerava l’espandersi della potenza dell’alleato-rivale. Lo scontro (inevitabile) fu preceduto da una rissosa corrispondenza: “Antonio e Cleopatra passano il loro tempo ubriacandosi e facendo orge. Cleopatra è una maga e tiene Antonio in pugno”, scriveva Ottaviano. E Antonio, che non era proprio un lord, replicava seccamente: “Perché ti turba tanto che vada a letto con la regina? Non è forse mia moglie [...]? E tu, te la fai solo con Drusilla (la moglie di Ottaviano, ndr)?”. Intanto, a Roma, la violenta campagna anti-Cleopatra, che la dipingeva come una strega, arrivò all’apice. Invece di perdersi in chiacchiere, da donna pratica qual era la regina cominciò a mettere insieme un potente esercito navale e terrestre. Sesto senso femminile: Ottaviano non dichiarò guerra ad Antonio, ma a Cleopatra. Prendersela con lei era più facile, perché era una donna e per di più straniera. Gli stessi motivi per cui, secondo lo storico Dione Cassio (che però visse due secoli dopo i fatti), la regina abbandonò la sua flotta, seguita peraltro da Antonio, nello scontro finale sul mare di Azio, nel 31 a.C. Con Ottaviano ormai alle porte di Alessandria, Cleopatra ammassò oro, gioielli, profumi e si barricò nel suo mausoleo. Antonio, convinto che fosse morta, si tolse la vita da vero romano, gettandosi sulla propria spada. La regina si disperò e si strappò i capelli, ma, secondo alcuni, quando Ottaviano entrò a palazzo giocò il tutto per tutto e provò a sedurre anche lui. Non riuscendoci, si concesse l’unica libertà che le restava: il suicidio. Aveva 39 anni. L’ultima leggenda. Certo Cleopatra non si uccise per amore. Probabilmente preferì morire da regina invece che sfilare in catene come una schiava nel trionfo di Ottaviano a Roma. Qualcuno sostiene che si punse con uno spillone intinto in un potente veleno, ma la versione più accreditata dice che si fece mordere al seno da un serpente. Non poteva però essere l’aspide della tradizione, che si sarebbe fatta portare – narra Plutarco – nascosto in una cesta di fichi. Il vero aspide (Vipera aspis) non vive in Nord Africa; e l’altro candidato killer, il cobra d’Egitto sacro ai faraoni (Naja haje) è troppo grande per stare in una cesta. A finire in pochi attimi Cleopatra sarebbe stato invece l’echide carenato (Echis carinatus), non più lungo di 80 centimetri ma letale. Incancellabile. Con la regina morì anche il regno d’Egitto, ridotto a provincia romana. E, dopo aver eliminato Cesarione, a Ottaviano restò un’unica preoccupazione: far sparire il cadavere di Cleopatra, per cancellarne persino il ricordo. Ma non raggiunse il suo scopo: ancora cinque secoli dopo qualche nostalgico sacerdote egizio costruiva templi in onore di quell’ultimo, discusso, faraone. • Maria Leonarda Leone 79
GIULIO CESARE - 100 A.C.
ALAMY
Se Giulio Cesare fosse scampato alla CONGIURA nel 44 a.C. avrebbe forse REGNATO da Alessandria d’Egitto, SPOSO di Cleopatra. E l’ EREDE Ottaviano...
Cesare non deve
“
L’AGGUATO
Sopra, in un dipinto neoclassico di Vincenzo Camuccini, l’assassinio di Cesare sotto la statua di Pompeo, come descritta dalle fonti antiche. A sinistra, la statua di Cesare al Louvre, in un’opera del 1696 di Nicolas Coustou.
T
u quoque, Brute, fili mi”. “Anche tu, Bruto, figlio mio”. E così dicendo Giulio Cesare affondò il suo pugnale nella gola di Bruto. Chissà, forse sarebbe andata così la Storia, se il 15 marzo del 44 a.C., mentre si dirigeva alla Curia, la più famosa vittima di congiura dell’antica Roma avesse letto il papiro che il maestro greco Artemidoro di Cnido gli aveva passato per avvisarlo; o se un mese prima non avesse congedato le guardie ispaniche che gli facevano da scorta; o se, cosa più improbabile per un marito, avesse dato retta a sua moglie Calpurnia che, messa in allarme da un brutto sogno, gli aveva consigliato di non presentarsi ai senatori. Se solo uno di questi condizionali fosse stato un indicativo, Cesare sarebbe probabilmente sopravvissuto alle Idi di marzo e all’attentato organizzato da una sessantina di esponenti della nobiltà romana, preoccupati, a torto o a ragione, dell’atteggiamento autoritario assunto dal dittatore a vi-
SCALA
MORIRE
ta idolo delle masse. In questo caso, la storia di Roma e dell’impero avrebbe potuto avere svolte inaspettate. Punto di rottura. Cesare sarebbe partito per la programmata campagna contro i Parti? Avrebbe spostato la capitale dell’impero da Roma ad Alessandria? Cosa avrebbe riservato il futuro al più famoso e amato condottiero romano? «Un punto di rottura con le cerchie senatorie a lui ostili ci sarebbe comunque stato, magari qualche anno più tardi», afferma Luciano Canfora, filologo e storico del mondo antico. «Non è detto che tale rottura avrebbe preso la forma di una congiura, ma non è affatto escluso, dal momento che nella mentalità romana repubblicana la coniuratio diventa legittima se si è persuasi che il potere sia illegittimo». Ancora più facilmente, però, il tempo avrebbe giocato a favore degli scontenti: Cesare, infatti, non era più un ragazzino. Quando venne ucciso aveva 55 anni, un’età di tutto rispetto per un uo81
Il movente della CONGIURA era la DIFESA delle prerogative dell’aristocrazia del Senato. Se Cesare fosse scampato, la sua VENDETTA avrebbe colpito nomi illustri mo di quell’epoca. In più, non stava bene: lo scrittore greco Plutarco raccontava che soffriva di attacchi di mal di testa e, nei suoi ultimi anni di vita, di quello che gli autori latini definirono “morbus comitialis”. Oggi la chiameremmo epilessia ma, dicono i medici, poteva essere anche il sintomo di un male peggiore, come un tumore al cervello. Insomma, Cesare forse non aveva molto da vivere. Ma se fosse sopravvissuto alle pugnalate del 44 a.C. si sarebbe certamente tolto qualche sassolino dal sandalo. Tra i congiurati spiccavano non solo i nomi di nemici dichiarati come Caio Cassio, ma anche quelli di suoi presunti alleati e familiari: Trebonio, uno dei migliori generali cesariani, Decimo Bruto, un fedelissimo nominato persino nel testamento e parente di Marco Bruto, quel “fili mi” pupillo di Cesare e figlio di Servilia, amore giovanile del condottiero. Nella nostra storia alternativa, quando li vede stretti come un branco di pecore spaventate tra le lame dei soldati del generale Marco Antonio, Cesare prende la sua decisione: lascia al giudizio del popolo la fine dei congiurati. Tranne quella di Bruto, al quale taglia la gola sul posto. Cesare era stato sempre clemente con i suoi nemici, ma negli ultimi tempi si era fatto più restio a concedere la propria fiducia: il tradimento da parte del presunto figlio l’aveva ucciso senza togliergli la vita. Eliminati i congiurati, Cesare avrebbe forse indetto una nuova seduta del Senato e, come sarebbe dovuto accadere il 15 marzo, avrebbe ricevuto il titolo di rex delle terre soggette all’impero. Non di Roma e dell’Italia, però: così voleva Cesare, che preferiva non inimicarsi il popolo romano. Ancor più perché, con il consolato continuo, la dittatu-
ra perpetua, la prefettura dei costumi, il prenome di imperator, il cognomen di pater patriae e la sua statua posta tra quelle dei sette re di Roma, poteva già considerarsi un imperatore a tutti gli effetti. Verso l’Oriente. E dopo? Cosa avrebbe fatto il dictator sopravvissuto? Probabilmente sarebbe partito per l’Oriente, come preannunciato, per combattere i Parti, gli abitanti dell’antica Persia (l’attuale territorio di Iran, Iraq, Armenia, parte del Caucaso e Asia Centrale). Il pensiero fisso di Cesare era uno: recuperare le insegne militari e l’orgoglio persi nel 53 a.C. dal generale romano Crasso nella sconfitta di Carre, nell’attuale Turchia. Ed eguagliare in grandezza l’impero di Alessandro Magno. Ma la motivazione dell’ennesima difficile campagna militare avrebbe potuto anche essere un’altra. «Lo scrittore latino Cicerone sostiene che Cesare volesse tentare una spedizione in Oriente “per non ritornare più”, intendendo dire che avrebbe cercato una morte gloriosa in una campagna memorabile», sottolinea Canfora. E in effetti era stato proprio Cesare ad affermare di preferire una morte “rapida e improvvisa” a una lenta e sfinente vecchiaia. Ma queste potrebbero essere solo le illazioni di un detrattore. Cesare era un tipo egocentrico: anche volendo, forse alla fine non si sarebbe lasciato uccidere in battaglia da un parto qualsiasi. Non prima di aver celebrato l’ennesimo trionfo a Roma, vestito di porpora, sul carro tempestato di gemme. Poi, siccome l’appetito vien mangiando, una volta a casa si sarebbe imbarcato in qualche altro progetto. Magari quello paventato dai congiurati: il trasloco della capitale da Roma ad Alessandria.
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n largo Argentina, a Roma, più di duemila anni fa si trovava la Curia di Pompeo, sede provvisoria del Senato distrutto da un incendio. Qui il 15 marzo del 44 a.C. si consumò la fine di Cesare. Nonostante i presagi avversi e i tentativi di uno schiavo, del maestro Artemidoro di Cnido e dell’aruspice Spurinna di metterlo in guardia, il dictator si lasciò convincere da Decimo Bruto a presentarsi ai senatori. Stando alle fonti, alle 11 Cesare uscì
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di casa senza scorta e percorse la Via Sacra tra la folla acclamante. Le dinamiche. Una volta nella Curia, mentre Trebonio, un congiurato, tratteneva Marco Antonio con una scusa, il dictator venne circondato dai cesaricidi. Tullio Cimbro si gettò ai suoi piedi, come per implorarlo, tirandogli la toga: era il segnale. Publio Casca pugnalò il condottiero, ferendolo. “Scelleratissimo Casca, che fai?”, reagì lui, colpendolo a sua
volta. Poi gli altri congiurati gli furono addosso. Quando vide brillare la lama di Marco Bruto, Cesare cadde ai piedi della statua di Pompeo, suo nemico nella guerra civile del 49 a.C., e morì colpito da 23 coltellate. I senatori fuggirono in preda al panico e i congiurati si sparpagliarono per informare il popolo. Il corpo restò nell’atrio dell’edificio per ore, prima che tre schiavi lo caricassero su una lettiga per riportarlo a casa.
AKG/MONDADORI PORTFOLIO
La congiura: come andò veramente
SCONTRO EVITABILE
La Battaglia di Azio del 31 a.C., che oppose Marco Antonio e Cleopatra a Ottaviano. Senza la morte di Cesare, Antonio non sarebbe diventato l’amante della regina egizia e Ottaviano non avrebbe potuto legittimarsi come erede del dittatore assassinato.
Trame d’Egitto. «Una campagna a Oriente avrebbe accentuato lo spostamento a est dell’impero: il che poteva rientrare tra i piani a lungo termine del dittatore», ammette Canfora. «Non va dimenticato però lo sviluppo di Roma da lui pianificato». A che scopo, nell’estate del 46 a.C., mettere mano a grandi iniziative edilizie e a progetti importanti come una biblioteca bilingue modellata su quella d’Alessandria, il prosciugamento delle paludi pontine e l’apertura di una nuova strada per l’Adriatico attraverso gli Appennini, per poi andar via dall’Urbe? Soprattutto considerato che, con il padre di suo figlio ancora vivo, Cleopatra non avrebbe avuto fretta di lasciare Roma: anzi, ne avrebbe approfittato per preparare il figlio Cesarione a governare, con un po’ di speranza e di moine, tutto l’impero. «Il vincolo di sangue rappresentato da Cesarione era, così immaginava Cleopatra, un’arma nelle sue mani», spiega Canfora. E così sarebbe stato finché il condottiero fosse vissuto. «La regina avrebbe tutelato l’integrità dell’Egitto e Cesare non si sarebbe opposto: tanto più se puntava verso est, cioè contro il Regno dei Parti. Tenere in piedi l’ultima monarchia dell’impero di Alessandro sarebbe stato in ogni caso un gesto politicamente lungimirante», prosegue Canfora. Cesare non aveva commesso l’errore di trasformare l’Egitto in provincia romana, “temendo”, riporta Svetonio, “che un domani, nelle
mani di un governatore troppo audace e intraprendente, divenisse focolaio di rivolta”. Aveva preferito affidarlo a una figura politicamente debole nel suo Paese, com’era allora (e come sarebbe potuta essere anche dopo) Cleopatra. Cambio di eredità. E Marco Antonio? Con Cesare vivo e sempre più potente, difficilmente Cleopatra avrebbe posato gli occhi sull’eterno secondo. «Antonio, da tutti tranne che da Cesare ritenuto erede politico del dictator, sarebbe comunque, prima o poi, entrato in rotta di collisione con Ottaviano, erede designato per testamento», precisa lo storico. Cesare, dicono le malelingue, aveva avuto modo di apprezzare il pronipote sotto ogni punto di vista e pare che proprio per ricompensarlo della sua versatilità avesse deciso di adottarlo. Ma se il dittatore fosse morto di vecchiaia o in guerra, siamo sicuri che Ottaviano sarebbe diventato imperatore anche senza la scusa di voler vendicare il “padre della patria”? E se poi, ormai vecchio e malato, Cesare avesse dovuto assistere dal letto alla battaglia tra Antonio e Ottaviano? Allora avrebbe rimpianto amaramente la salvezza ottenuta quel 15 marzo del 44 a.C. Una scena che si sarebbe risparmiato se – controstoria per controstoria – mentre ritraeva il pugnale dalla gola di Bruto, Cesare avesse perso l’equilibrio e avesse battuto la testa sullo spigolo della statua di Pompeo, morendo sul colpo. • Maria Leonarda Leone
AUGUSTO - 63 A.C.
Di salute CAGIONEVOLE e di aspetto poco virile. Ma astuto, prudente e CARISMATICO. Così era AUGUSTO, il primo imperatore di Roma
L’uomo che fondò
L’IMPERO A
veva timore anche delle ombre, scrive di lui Cicerone (“Iste qui umbras timet”). Era cagionevole di salute, basso di statura, esile. Il contrario, si direbbe, del fascinoso capo carismatico. Eppure il sanguigno Mussolini, rifondatore dell’impero e del mito di Roma caput mundi, ne fece il proprio idolo d’elezione, fino a desiderare di essere sepolto nel suo mausoleo romano, a Campo Marzio. Ad Augusto e alla sua politica Mussolini si ispirò non solo per la marcia su Roma – Ottaviano ne aveva fatte addirittura due –, ma anche e soprattutto nella strategia del consenso, nelle manifestazioni propagandistiche: dalla grandeur urbanistica alle bonifiche, al culto delle tradizioni, alle adunate giovanili paramilitari. Eppure è difficile immaginare due dittatori più distanti per indole e atteggiamenti. Calcolatore. Gaio Ottavio, detto Ottaviano, lasciava pochissimo al caso. Era un calcolatore, un concentrato di astuzia, prudenza e riservatezza. Poco brillante come stratega e non molto portato a guerreggiare – anche a causa della salute malferma, che tuttavia non gli avrebbe impedito di raggiungere l’allora veneranda età di 77 anni – il princeps era molto meno robusto di come fu effigiato. Diafano, esile e freddoloso, era tuttavia molto bello. Biondo, fronte alta, naso importante, occhi cui non si poteva restare indifferenti: “Straordinariamente limpidi e penetranti e acuti… Più azzurri che grigi, anche se facevano pensare alla luce, non al colore”, li descriverà nel Novecento l’accademico e romanziere John Edward Williams nel suo Augustus. Possedeva doti comunicative, non solo diplomatiche. 84
Buona stella. Aveva visto la luce a Roma il 23 settembre del 63 a.C., accolto fin dal concepimento da fenomeni ritenuti soprannaturali e beneauguranti dagli indovini dell’epoca: dal serpente che si era insinuato sotto il corpo della madre addormentata in lettiga al fulmine che aveva abbattuto un pezzo delle mura di Velletri, la città paterna. Gaio Ottavio (il padre) apparteneva al ceto equestre ed era stato governatore della Macedonia. La madre, Azia, era nipote di Giulio Cesare. Dunque il futuro imperatore, per metà “parvenu”, era per l’altra metà imparentato con la stirpe che, secondo la leggenda, aveva fondato Roma: la gens Iulia. Cesare, che non aveva avuto eredi maschi – Cesarione, avuto da Cleopatra, non poteva essere riconosciuto come discendente legittimo in quanto figlio adulterino –, pensò di adottarlo e farne il suo successore. Ottaviano era allora un ragazzo assennato e riflessivo, ma da sgrossare. Non particolarmente colto, zoppicava in retorica e parlava il greco “in modo atroce”, sempre secondo il suo biograforomanziere John Williams, pur avendo scritto una tragedia (l’Aiace, in seguito rinnegata). Ascoltava i poeti che declamavano le loro opere – e se ne sarebbe circondato per tutta la vita – più per cortesia che per passione. Faceva colpo, invece, per maturità e morigeratezza. Usava poco la lettiga: preferiva raggiungere a piedi il Senato fermandosi a parlare con chiunque. Indossava di preferenza una ruvida toga tessuta dalle donne di casa. Sobrio verso se stesso, non lo sarebbe stato altrettanto nell’autocelebrarsi, una volta agguantato il potere. Ludi, feste e sfarzo architettonico: “Ho trovato una città di mattoni,
IL PRINCIPE DELL’URBE
Augusto loricato (che indossa cioè la lorica, l’armatura dei soldati romani): la statua, alta circa 2 metri, fu realizzata nell’8 a.C., dopo le campagne di “pacificazione” nelle province di Tiberio.
“
Ispirandosi ad Alessandro Magno, introdusse a Roma l’idea del sovrano divinizzato. Facendo di se stesso un mito già in vita
”
La lunga vita di Ottaviano 63 a.C. Ottaviano nasce a Roma, da Gaio Ottavio e Azia, nipote di Cesare.
44 a.C. Alla morte di Giulio Cesare rivendica i diritti di figlio adottivo e di erede.
44-43 a.C. Vittoria su Marco Antonio a Modena e secondo triumvirato. 42 a.C. Il triumvirato
sgomina le truppe dei cesaricidi Bruto e Cassio.
36 a.C. Ottaviano sconfigge Sesto Pompeo e controlla i territori di Roma. 31 a.C. Ad Azio sconfigge
Marco Antonio e Cleopatra e diventa console.
27 a.C. Assume il titolo di
Augusto e la denominazione di imperator.
20 a.C. Conclude una tregua con i Parti e accordi con altri sovrani orientali. 2 a.C. Diventa pater patriae,
un riconoscimento onorario, senza effetti giuridici.
si era fermato in preda a gravi disturbi intestinali.
A. DE LUCA
14 d.C. Muore a Nola, dove
Fu lui a introdurre, nell’8 a.C., il FERRAGOSTO. Il nome deriva infatti da FERIAE AUGUSTI, “riposo di Augusto” lascio una città di marmo”, si sarebbe vantato in età matura. Questa, però, era solo la facciata, se diamo retta ai suoi avversari, i quali malignavano che privatamente fosse un libertino depravato, che si era guadagnato il favore del prozio prostituendoglisi. Capricci. In prima fila nel diffondere tali dicerie c’era il suo antagonista Marco Antonio, di certo più virile di lui. Nella realtà, come molti giovani del suo ceto, Ottaviano fu probabilmente bisessuale. Si fece infatti la nomea di adultero matricolato: quando si incapricciava di un’ancella o di una matrona non guardava in faccia nessuno. Di certo, ha osservato lo storico Augusto Fraschetti, «tutta la vita del principe fu segnata da un fortissimo moralismo (forse non solo apparente) contraddetto però da passioni violente e irrefrenabili»; e «anche nel più maturo Augusto a una studiata e apparente freddezza sembrarono contrapporsi grandi coinvolgimenti»: alcuni «profondamente affettivi» (su tutti, il matrimonio con Livia), altri «più chiaramente erotici». Cesare, che l’aveva nominato prefetto urbano nel 47 a.C., aveva intuito in lui la stoffa del politico, ma non aveva fatto in tempo a saggiarne la tempra guerresca: era morto assassinato prima, nel 44 a.C. Ottaviano, che allora aveva 19 anni, fu una sorpresa per tutti. Accettò l’adozione con tutti i rischi connessi e si rivelò duttile e spregiudicato. Cercò dapprima l’appoggio di Cicerone, l’ex console che mediava tra i cesaricidi (appoggiati dalla vecchia oligarchia senatoria e invisi alla plebe e ai veterani) e i cesariani capeggiati dal miglior amico di Cesare, Antonio. Quest’ultimo, allora console, ambiva
a succedere al dictator perpetuus (Cesare). Alla fine, Ottaviano abbandonò al proprio tragico destino il vecchio “padre della patria”, appena ottenuta la carica di console. Poiché Antonio non voleva consegnargli l’ingentissimo patrimonio del padre adottivo, Augusto vendette alcune proprietà di famiglia: con i sesterzi ricavati, arruolò un esercito di veterani e si ingraziò il popolo distribuendo a pioggia doni e regalie. Per avere la meglio, alternò le maniere forti alla diplomazia in un andirivieni che rasentava il doppio gioco. In marcia su Roma. Quando Antonio s’allontanò inseguendo le armate dei cesaricidi Bruto e Cassio, Ottaviano ne approfittò per marciare su Roma e tentare il colpo di mano. Subito dopo, non riuscendo a spodestarlo, patteggiò e formò con lui e Lepido un nuovo triumvirato (43 a.C.) che in pratica si spartì l’impero: a lui l’Occidente, ad Antonio l’Oriente, a Lepido l’Africa. Si servì del rivale, che nel frattempo aveva sposato sua sorella Ottavia, per eliminare gli assassini del prozio (nella Battaglia di Filippi); si sbarazzò quindi, grazie al generale Agrippa, del pericoloso Sesto Pompeo che scorrazzava tra Sicilia e Corsica bloccando i rifornimenti di grano alla capitale; e, subito dopo, scaricò il terzo incomodo, Lepido. Infine sfruttò l’imprudenza di Antonio, che, espugnata l’Armenia, aveva conferito ai tre figli avuti da Cleopatra i nuovi territori conquistati e ripudiato la moglie Ottavia, per regolare i conti anche con lui. Ebbe gioco facile nel far passare i suoi atti per un’offesa mortale a Roma e all’Italia e poté serenamente dichiarare guerra a Cleopatra e all’Egitto.
LEGIONARIO DELL’IMPERO
A destra, particolare della statua di Augusto con la corazza imperiale, trovata a casa della moglie Livia Drusilla.
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ART RESOURCE/SCALA
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BPK/SCALA
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Divus come Giulio
C
Quando nacque si verificarono fenomeni ritenuti beneauguranti dagli indovini dell’epoca
”
A. DE LUCA
on un padre adottivo considerato dio, il Divo Giulio, Augusto brillava di luce divina riflessa. Poi divenne divus in proprio. Mentre Giulio Cesare era associato a Enea e Venere, Augusto veniva imparentato – da Virgilio nell’Eneide e da Ovidio nei Fasti – con altre divinità esportate dai troiani: Vesta, dea protettrice del focolare domestico, e altri dèi equivalenti ai nostri penati, protettori di Roma e del popolo romano. Il suo tempio d’elezione era quello dedicato a Vesta: un luogo in cui i culti privati della sua famiglia trascoloravano in culti pubblici. Ricorrenze. Per di più, nel 2 a.C. il princeps venne insignito del titolo di pater patriae, il che alimentò il suo culto. A Cuma (in Campania), si immolava una vittima ogni anno nel giorno del suo compleanno. In varie località si celebrava il giorno in cui aveva assunto la toga virile, la data (16 gennaio) in cui gli era stato conferito il titolo di Augusto e altre tappe della sua carriera. Ogni giorno, infine, in colonie e municipi si ricordava il giuramento di fedeltà con cui aveva trascinato le popolazioni italiche alla guerra contro Antonio e l’Egitto.
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Amici e nemici
RMN/ALINARI
ALBUM/CONTRASTO
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1 Giulio Cesare (100 ca-44 a.C.), generale romano e dittatore, padre adottivo di Ottaviano. 2 Cicerone (106-43 a.C.), scrittore e oratore, difese le istituzioni repubblicane. 3 Cleopatra (69-30 a.C.), ultima regina del regno tolemaico d’Egitto. Nota per aver sedotto sia Giulio Cesare che Marco Antonio.
4 Marco Antonio (82 ca.-30 a.C.), politico e generale, fu al fianco di Cesare. Alla morte di questi entrò in conflitto con Ottaviano per la successione, instaurò con lui e Lepido un triumvirato, poi fu sconfitto ad Azio. 5 Marco Giunio Bruto (85-42 a.C.), cesaricida, si uccise dopo la disfatta a Filippi.
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“
Padre del fascismo?
P
Sancì che gli uomini sotto i 60 anni dovevano sposarsi. E le donne dovevano stare a casa
er rinverdire i fasti romani, Mussolini saccheggiò a piene mani il repertorio autocelebrativo di Augusto. Il princeps aveva trasportato a Roma un obelisco sottratto a Eliopoli? Il duce fascista ne fece erigere uno nei Fori. L’imperatore aveva voluto il Pantheon e l’Ara Pacis, restaurato 82 templi arcaici, sistemato la Via Flaminia? Mussolini si impegnò nell’ammodernare il volto dell’Urbe: dai Fori all’Eur, a Cinecittà. Maestro. Il modello augusteo fu clonato soprattutto nel settore dell’educazione. Le adunate dei balilla si richiamavano esplicitamente ai collegia iuvenum e ai “campi augusti”, in cui i giovani tra i 9 e i 17 anni venivano temprati alla vita militare. I Littoriali della cultura e dello sport riecheggiavano invece lo spirito del Ludus Troiae, le parate con cui i giovani aristocratici raggiungevano il Circo per esibirsi in prove di abilità e di forza. Le esercitazioni ginnico-militari erano, ha sottolineato lo storico Antonio Spinosa, “uno dei capisaldi della politica augustea in difesa della razza romana”. Idem per il dittatore fascista.
A. DE LUCA
”
Mogli, figlie e amici
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4 Agrippa (63 a.C. ca. -12), genero di Ottaviano, fu lo stratega di molti suoi trionfi militari: il principale fu la vittoria navale ad Azio, in Grecia (31 a.C.). 5 Giulia (39 a.C.-14), unica figlia naturale di Augusto, avuta dalla seconda moglie Scribonia.
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NATIONAL GEOGRAPHIC
a.C.-29) terza moglie di Augusto: la sposò nel 38 a.C. 2 Giuba II (52 a.C.23), re di Numidia e Mauretania, giunse bambino a Roma, da prigioniero, poi collaborò con Augusto. 3 Tiberio (42 a.C.-37), fu adottato da Augusto nel 4 d.C. e salì al trono dieci anni dopo, alla morte di
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Ottaviano, continuando la politica augustea.
A. DE LUCA
1 Livia Drusilla (58
Restò al potere fino alla MORTE, a 77 anni. Soffriva di calcoli, ARTRITE, dolori intestinali e di una MALATTIA venerea
COMANDANTE BIONDO
A sinistra, busto di Augusto: il princeps era biondo con naso pronunciato e la fronte alta.
Padrone assoluto. Vinse ad Azio (nel 31 a.C.), il rivale si suicidò assieme alla regina egiziana e Ottaviano entrò da trionfatore in Alessandria d’Egitto il 1° agosto del 30 a.C. Non ebbe pietà del figlio bastardo del padre adottivo, Cesarione. La partita era vinta, ma Ottaviano seguitò ad alternare pugno di ferro e diplomazia, crudeltà e clemenza, finché non ebbe conseguito il suo vero scopo: succedere a Giulio Cesare nel ruolo di padrone assoluto. In questo passaggio fece il capolavoro: un miracolo d’astuzia, oltre che di spregiudicatezza. Senza darlo a vedere, ingannò le vecchie oligarchie: fece mostra di voler restaurare la repubblica mentre, in realtà, rifondava la dittatura. Fu un ottimo attore. Scelse il titolo di princeps, apparentemente più umile di quello di imperator o di divus, non chiese magistrature straordinarie, anzi trasferì formalmente la res publica dalla propria potestà all’“arbitrio del Senato e del Popolo” (parole sue). Il gesto gli valse, nel 27, l’appellativo di Augusto (“eccelso”). Un’autorità dall’aura sacrale. Pontefice. Il cerchio si chiuse nel 23, quando il Senato gli conferì la potestà tribunizia perpetua e l’imperio proconsolare, ovvero poteri eccezionali di veto e una potestà territoriale di fatto illimitata sulle province del nascente impero. Ottaviano completò l’en plein nel 12 a.C., assumendo anche la leadership in campo religioso, con la carica di pontefice massimo. Di fatto, era divinizzato come il prozio. A quel punto compì un ulteriore salto di qualità diventando un amministratore saggio e accorto.
Attuò riforme radicali: dopo quella agraria, quella fiscale, che alleggeriva l’imposizione sulle colonie; passò poi al riassetto urbanistico di Roma e delle province; irrobustì forze dell’ordine ed esercito. Accentrando il potere, debellò molte sacche di corruzione e parassitismo. Il moralizzatore. Alla restaurazione degli antichi valori repubblicani corrispose una campagna moralizzatrice. Nella quale Augusto si comportò, per i nostri canoni, da maschilista: proibì alle donne di fare politica, mise fuori legge l’adulterio e autorizzò mariti e padri delle fedifraghe a vendicare l’onta uccidendo i loro amanti. Non esitò a spedire in esilio la sua stessa figlia, Giulia, rea di spassarsela con troppi suoi oppositori. Ma si guardò bene dall’applicare la norma a se stesso: in terze nozze impalmò Livia, secondo alcune fonti ancora incinta del precedente coniuge, Tiberio Claudio Nerone, e secondo altre incinta di lui (che quindi ne fu l’amante). Voleva darsi una discendenza e, per risolvere la questione dinastica, creò un incredibile intrico genealogico. Il suo figliastro Tiberio, sposando sua figlia Giulia, divenne suo genero e il patrigno dei figli (suoi nipoti) che Giulia aveva avuto dal precedente marito, Agrippa: Gaio e Lucio. Già, perché, prima di rassegnarsi ad adottare Tiberio, Augusto aveva pensato di designare eredi i rampolli del suo migliore amico. Dopo 44 anni di principato scaltro e assennato Ottaviano rese l’anima agli dèi nell’agro di Nola (19 agosto del 14). E con la sua dipartita calò il sipario su una irripetibile età dell’oro. • Dario Biagi
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LESSING/CONTRASTO
SCALA
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VESPASIANO - 9 D.C.
L’imperatore MONTANARO Salì al TRONO a 60 anni e il suo nome è celebrato dai BAGNI pubblici. Ma Vespasiano fu il vero FONDATORE dell’impero
Il trionfo di Vespasiano e del figlio Tito dopo la campagna militare in Giudea, in un dipinto del 1537.
importanti: la stessa che legò il suo nome all’Anfiteatro Flavio, alias Colosseo. Ma quella non fu l’unica grande opera “firmata” dai Flavi. Magnificenza. «Il Colosseo è solo la più famosa», sottolinea Angelo Bottini, per anni soprintendente archeologo di Roma. «Allo stesso periodo risalgono anche il Campidoglio, il Tempio della Pace, uno stadio (oggi piazza Navona) e un’immensa reggia, costruita sul Palatino e perciò detta Palatium, parola poi adottata ovunque quasi immutata (palazzo, palace, palais) come sinonimo di edificio importante». Davanti a un tale “Rinascimento”, il poeta Marziale applaudì: “Roma è tornata se stessa”. Va detto però che i Flavi ebbero gioco facile, perché prima di loro l’impero era caduto così in basso che le cose potevano solo migliorare. Alla dinastia Giulio-Claudia, estintasi con Nerone, era subentrato un vuoto di potere diventato subito caos: il Senato era ridotto a una finzione, l’erario a una voragine;
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LESSING/CONTRASTO
PADRE E FIGLIO
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terminò gli ebrei, ma non si chiamava Adolf Hitler. Tentò di risanare il deficit statale a suon di tasse, tirandosi addosso i mugugni delle categorie colpite, ma non era un ministro delle Finanze. Distribuì a destra e a sinistra un umorismo impietoso (v. riquadro nelle pagine seguenti) con cui irrideva tutti, anche se stesso, però non si chiamava Maurizio Crozza. Infine, fu il vero fondatore dell’Impero romano, eppure non si trattava di Cesare Augusto. Il suo nome completo era Tito Flavio Vespasiano, ma di solito viene citato semplicemente come Vespasiano per evitare confusioni col figlio Tito, suo successore. Nacque venti secoli fa, il 17 novembre dell’anno 9, a Vicus Phalacrinae, un paesino sperduto sui monti di Rieti. E andò al potere 60 anni dopo, all’età in cui di solito si pensa solo ai nipotini e alla pensione. Fu il nono imperatore di Roma, il quarto dell’anno 69 e il primo della dinastia Flavia, una delle più
Spirito da caserma
URBANISTI
All’interno del Tempio della Pace fu esposta, all’inizio del III secolo, una mappa in pietra di Roma, la celebre Forma Urbis.
S
econdo il biografo latino Svetonio, Vespasiano fu “molto spiritoso, benché un po’ scurrile”. Rilette oggi, alcune sue uscite sembrano in realtà autentiche battute da caserma. Una volta, parlando di un uomo dagli attributi maschili molto sviluppati, disse che camminava “brandendo una lancia dalla lunga ombra”. Meno greve e più simpatica fu l’ironia che l’imperatore usò con se stesso. Durante il trionfo al ritorno dalla Giudea, annoiato per la lentezza del corteo, mormorò: “Sono giustamente punito perché sono stato così folle
da voler trionfare da vecchio”. Nota spese. Un’altra volta, avendo pagato una prostituta, al segretario che gli chiedeva come motivare la spesa nella contabilità ufficiale, rispose: “Per l’amore che Vespasiano ispira”. E quando gli proposero di farsi erigere un grande monumento, ribatté indicando il palmo della mano: “Certo, ecco la base!”. Il suo humor non venne meno neanche in fin di vita; infatti, sentendosi morire, Vespasiano commentò: “Credo che io stia per diventare un dio”. Poi si alzò dal letto, dicendo: “Un imperatore deve morire in piedi”. E spirò.
Vespasiano fu il primo IMPERATORE senza parenti in Senato. 10 quartieri della capitale erano bruciati nel famoso incendio del 64, mentre le varie legioni si erano auto-promosse a partiti armati dei numerosissimi aspiranti al potere. Il fondo si toccò nel 69, quando Roma registrò due record: un disavanzo senza precedenti del bilancio statale (40 miliardi di sesterzi) e un’inflazione di imperatori (quattro in 11 mesi, tutti militari, tutti l’un contro l’altro armati). Il primo dei quattro, Galba, incoronato dai soldati della Spagna, morì in un agguato a gennaio. Il secondo, Otone, leader dei pretoriani della capitale, si suicidò in aprile. Il terzo, Vitellio, sostenuto dalle legioni della Germania, fu sconfitto a dicembre da quelle della Siria, fedeli al quarto: Vespasiano, appunto, che rifondò l’impero a partire da quel bagno di sangue. Senza pietà. Lo storico latino Svetonio (I-II secolo), biografo di 12 imperatori, narra che a Vitellio, trovato nascosto in un pertugio, prima “furono legate le mani dietro la schiena”, poi “gli fu messa una corda al collo e gli furono strappate le vesti”, mentre “alcuni gli gettavano immondizie e lo bersagliavano con lo sterco”. Portato seminudo nel foro e dileggiato per i suoi difetti fisici (era obeso e claudicante) lo sconfitto fu infine “scorticato poco a poco e trainato nel Tevere con un gancio”. 92
Dopo quel trattamento, nessuno osò più opporsi al nuovo sovrano. Vespasiano affrontò in modo altrettanto deciso il problema erario. Svetonio, schierato a difesa dei contribuenti recalcitranti, riassunse tutto così: “Non pago di reclamare le imposte non pagate sotto Galba, di averne aggiunte di nuove e assai gravose, di aver aumentato, e talvolta raddoppiato, i tributi delle province, si diede anche a speculazioni disonorevoli per un semplice cittadino, acquistando merci all’ingrosso al solo scopo di rivenderle poi, più care, al dettaglio”. D’altra parte il deficit andava sanato. «Non sappiamo a quanto ammontasse il Pil dell’Impero romano, quindi non possiamo dire quanto rappresentavano 40 miliardi di sesterzi in rapporto alla ricchezza prodotta», commenta l’archeologo Filippo Coarelli, professore emerito all’Università degli studi di Perugia. «Possiamo però farci un’idea approssimativa del valore della somma in base al suo potere d’acquisto: si può dire che un sesterzio poteva valere circa un paio di euro». Insomma, a Vespasiano servivano entrate straordinarie pari a 80 dei nostri miliardi. Così l’imperatore inventò una tassa su tutt’altra “merce”: l’urina (v. riquadro nell’ultima pagina).
UOMO RUDE
Sotto, un busto in porfido dell’imperatore, nato in una valle appenninica dell’Alto Lazio.
R. MENEGHINI/INKLINK (2)
Per questo trattò con durezza l’antica ARISTOCRAZIA romana PACIFICATI
LESSING/CONTRASTO
Sopra, ricostruzione del Tempio della Pace, a Roma, inaugurato da Vespasiano nel 75 e ampliato e modificato in epoche successive.
Funzionò: il “tesoretto” ricavato sanò i bilanci e bastò per avviare un piano di edilizia pubblica che rimise in moto tutta l’economia. Plebeo. Ma chi era l’uomo che normalizzò Roma a suon di ganci, cantieri e pipì-tax? Antichi scultori ci hanno lasciato varie statue, che però sono così diverse fra loro da far pensare talvolta ad abbellimenti agiografici. Il busto ritenuto più attendibile è in Danimarca, alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen. Raffigura un Vespasiano lontano dalla ieratica maestà di Augusto e dal fascino torvo di Nerone: ha collo taurino, volto squadrato, testa calva, occhi troppo vicini per apparire intelligenti; più che un imperatore, sembra un omone più bravo a lavorare con le mani che con la testa. Perché stupirsi, in fondo? A differenza dei predecessori (tutti nobili), l’ideatore del Colosseo non vantava certo un pedigree di sangue blu. Suo padre Flavio Sabino aveva fatto l’esattore in Asia, poi l’usuraio in Svizzera. E suo nonno Tito Flavio Petrone era stato prima centurione di Pompeo (sconfitto da Giulio Cesare) poi cassiere di una casa d’aste e “caporale” di braccianti. Insomma, la gens Flavia era una normale famiglia dell’ordine equestre (il ceto medio dei Romani) “senz’altro oscura e priva di avi di rilievo”, secondo il solito Svetonio. L’albero genealogico non cambiava granché sul
fronte materno: Vespasia Polla, mamma del futuro imperatore, discendeva da una stimata ma provincialissima famiglia umbra (i Vespasii, appunto), il cui massimo vanto era aver dato il nome a una collina fuori mano tra Norcia e Spoleto. Con queste premesse, nessuno avrebbe scommesso un sesterzio sul futuro del giovane Vespasiano. Che infatti, prima di diventare militare, per campare si adattò a fare un po’ di tutto: dal mercante di bestiame (lo chiamavano “Mulattiere”) all’estorsore di tangenti. D’altra parte, Vicus Phalacrinae non offriva molte opportunità di carriera. Oggi il paese di Vespasiano si chiama Cittareale ed è un centro sciistico a 20 km da Amatrice, patria dei bucatini all’amatriciana. Ma allora di sci, di bucatini e di turismo non si parlava e se qualcuno citava Phalacrinae lo faceva per tutt’altri motivi: le sorgenti del Velino, che sgorgavano fuori porta; i lupi, che d’inverno calavano fin tra le case; infine un tempio a una dea montanara (Vacurea), che contava molti devoti nella valle ma nessuno altrove. Negato. Nemo propheta in patria (“Nessuno è profeta in patria”) dicevano i Latini. Ma Vespasiano non fu “profeta” neanche in trasferta, almeno da giovane. Prima traslocò a Cosa (oggi Ansedonia di Orbetello, Gr) e ad Aventicum (oggi Avenches, in Svizzera), incollato alle gonne di una zia e alla tu93
LESSING
Ad Alessandria d’Egitto lo chiamavano “ VENDITORE di bastoncini di PESCE”: aveva TASSATO anche quegli SPIEDINI nica del papà usuraio. Poi esordì nella vita pubblica a Roma; ma a un concorso per un posto di edile (una sorta di magistrato) arrivò sesto, cioè ultimo. E se poi ricoprì altri incarichi (pretore, console, proconsole d’Africa) fu grazie all’appoggio del fratello Sabino, più rampante di lui. Quel montanaro inurbato non sembrava davvero nato per l’arte sottile della politica. Nel 51, alla fine del mandato in Africa (che Svetonio giudicò “corretto” e Tacito invece “screditato e malvisto”), fu preso a rape in faccia dalla folla in tumulto ad Adrumento (Tunisia). Poco più tardi, introdotto alla corte dei Giulio-Claudi, collezionò una gaffe dopo l’altra: mentre Nerone declamava i suoi noiosissimi versi davanti a una claque compiacente, Vespasiano dormiva senza ritegno. “Perciò cadde totalmente in disgrazia”, riferisce Svetonio. In armi. Molto più che come politico, il parvenu di Phalacrinae ebbe fortuna come militare. Ai tempi dell’imperatore Claudio (41-54) combatté in Ger94
mania e poi in Britannia, dove il 33enne Vespasiano conquistò 20 città più Vectis, l’attuale Wight, nel canale della Manica: la stessa isola che 19 secoli dopo, all’epoca degli hippies, divenne la sede di leggendari raduni rock. Nell’immediato il futuro imperatore non ricavò granché dai suoi successi: l’onore del trionfo sui Britanni andò a Claudio, giunto in zona a operazioni quasi concluse. La fama di buon soldato guadagnata oltre Manica gli tornò però utile un quarto di secolo dopo, quando regnava Nerone e Roma era invischiata in una grana: il Vicino Oriente, infiammato dalla setta ebraica degli Zeloti, era in rivolta. Nel caso di Vespasiano, la vita cominciò davvero a 60 anni: “Nerone”, narra Giuseppe Flavio, storico ebreo romanizzato, “lo invitò ad assumere il comando delle forze in Siria dopo molti complimenti e attestazioni di stima, dettati dalla necessità di quel momento critico”. In Giudea. Nerone prendeva due piccioni con una fava: liberava la corte da un corpo estraneo
RASO AL SUOLO
Modello del Secondo Tempio di Gerusalemme (ricostruzione del Tempio di Salomone) nel 20 circa: 50 anni dopo fu distrutto dal figlio di Vespasiano, Tito.
GALBA
OTONE
VITELLIO
SCALA (4)
NERONE
ANARCHIA
Alla morte di Nerone, nel 68, in un anno furono proclamati tre imperatori (qui sopra). Galba, acclamato imperatore dai suoi legionari nel giugno del 68: fu ucciso dopo 7 mesi. Otone regnò dal 15 gennaio al 16 aprile del 69, quando fu deposto da Vitellio. Quest’ultimo, acclamato imperatore in Germania, fu sconfitto da Vespasiano nel dicembre 69.
imbarazzante e affidava il Vicino Oriente a un castigamatti di provata capacità. L’incarico era invece ad alto rischio per chi lo riceveva: i rivoltosi avevano già massacrato la guarnigione di Gerusalemme, risparmiandone il comandante solo a patto che si facesse circoncidere. Vespasiano, giunto alla fine della carriera militare, non aveva molto da perdere: così partì con suo figlio Tito, 5 legioni e una miriade di muli del natìo Appennino; invase Galilea e Giudea e prese varie città, ricambiando con l’interesse la ferocia degli Zeloti, senza fare troppi distinguo fra ribelli e civili. Un paio di anni dopo Gerusalemme era accerchiata. La tradizione ebraica ricorda quella spedizione come un incubo, superato solo dalle stragi dei crociati e dei nazisti. Proverbiale è rimasta la conquista di Giaffa, di cui Giuseppe Flavio parla così: “Caduti i combattenti, tutti gli altri furono trucidati all’aperto o nelle case, giovani e vecchi senza distinzione; nessun maschio fu risparmiato salvo i bambini, ridotti in schiavitù con le madri”. Fu allora che gli ebrei superstiti cominciarono a migrare dalla Palestina, disperdendosi nel mondo e dando vita alla cosiddetta diaspora.
E io metto una tassa sulla pipì
«
F
u un ottimo amministratore, disposto a cavare denaro anche dalle pietre pur di salvare l’impero dalla crisi economica». Il lusinghiero giudizio su Vespasiano è dello storico Filippo Coarelli, studioso dell’età dei Flavi. Ma più che dalle pietre, l’imperatore ricavò soldi da altre due fonti: gli ebrei e i fullones
(tintori-lavandai). Ai primi, dopo la caduta di Gerusalemme, fu imposto il fiscus iudaicus, una tassa sul culto. Sui secondi gravò invece una singolare “pipì-tax”, applicata ai gabinetti pubblici. Non olet. Spiegazione: all’epoca i fullones erano soliti raccogliere gratis l’urina dalle latrine per ricavarne ammoniaca. Ma Ve-
spasiano decise che quella “merce” andava pagata. Si narra che, criticato da Tito per quella tassa, mostrò al figlio i soldi ricavati e glieli fece annusare, commentando con una celebre frase: “Pecunia non olet” (“Il denaro non puzza”). In sua memoria, dall’800 e fino a pochi decenni fa, i gabinetti pubblici furono detti “vespasiani”.
Riscatto. A fine campagna (70 d.C.) Gerusalemme cadde, il Tempio di Salomone fu distrutto e il suo mitico tesoro finì a Roma per essere poi esposto nel sedicente Tempio della Pace. Ma quell’epilogo ebbe come protagonista solo Tito, perché già dall’anno prima Vespasiano era tornato in Italia a riscuotere il trionfo: morto Nerone, infatti, le sue truppe l’avevano acclamato imperatore, in antitesi a Vitellio. Inizialmente restìo, aveva accettato dopo aver saputo che il rivale aveva ucciso suo fratello. Iniziò così l’ultimo decennio di quell’“imperatore per caso”, che nella terza età riscattò con grande senso dello Stato gli anni precedenti, intrisi di rudezza provinciale e crimini di guerra. Monarchia. Oltre a realizzare opere pubbliche e risanare l’erario, il primo dei Flavi fu mecenate di artisti, poeti e insegnanti (ai quali assegnò una pensione). Ma più di tutto, a caratterizzare il suo regno fu una legge detta De Imperio Vespasiani: una sorta di Costituzione, incisa su due tavole di bronzo collocate in Campidoglio. Cosa c’era scritto? «In dettaglio non si sa», risponde Filippo Coarelli. «O meglio, si sa solo a metà, perché una tavola si è salvata ma l’altra no. Possiamo comunque dire che il De Imperio fissava i poteri dei vari organi dello Stato». Durante la precedente dinastia Giulio-Claudia, Roma si era basata sulla finzione che la repubblica fosse ancora viva e che l’imperatore fosse solo un magistrato straordinario, il “principe” di un Senato che restava formalmente detentore del potere. Da Vespasiano in poi non fu più così. Infatti, messa da parte ogni ipocrisia, col De Imperio Roma diventò ufficialmente una monarchia ereditaria. “A me succederanno i miei figli, o nessuno”, amava ripetere Vespasiano. E fu così: dopo di lui andò al potere Tito, poi l’altro figlio Domiziano. Non era solo un mutamento dinastico: «L’avvento al potere dei Flavi comportò la sostituzione dell’aristocrazia senatoria con esponenti di élites italiche esterne a Roma», osserva Bottini. Soltanto con il nono imperatore, dunque, era nato davvero l’impero. • Nino Gorio 95
ADRIANO - 76 D.C.
FOLLIE
d’amore A
PAZZO PER LUI
MUSEO NACIONAL DEL PRADO
La statua di Antinoo (110-130 d.C.), il giovane amante dell’imperatore Adriano, conservata al Museo del Prado di Madrid.
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Madrid, Museo del Prado, sala 74, c’è una scultura-capolavoro in marmo, che ricorda un irrisolto giallo d’epoca. È il busto di un giovane con capelli ricci e muscoli ben torniti, sotto a cui c’è una didascalia: Antinoo, 131-132 d.C., autor anónimo. Chi era costui? Un tizio nato in Bitinia (Turchia) e affogato nel Nilo nel 130 d.C. a vent’anni, non si sa se per suicidio, omicidio o incidente. Ma perché a un ragazzo di provincia fu dedicato un busto così, degno di un re? Il quesito è tanto più valido se si pensa che i ritratti di Antinoo sparsi nel mondo sono ben 135: lo Stato che ne ha di più è l’Italia (38), seguita da Vaticano (15), Germania (14), Grecia (12) e altri 16 Paesi, inclusi Canada e Algeria. Per capire tanti onori postumi, e forse anche per spiegare la fine di Antinoo, bisogna rileggere la storia di un altro personaggio, ben più potente del giovane “turco”. Cioè quella del quattordicesimo imperatore romano, nato in Baetica (Andalusia) da coloni di Atri (Te), rimasto orfano a 9 anni e allevato, anche se non adottato, da un parente, un militare destinato a grandi onori. Il nostro aveva 4 nomi (Publio Elio Traiano Adriano) ma è noto come Adriano e basta. Il parente, che ne aveva altrettanti, è ricordato come Traiano. Successione sospetta. Il racconto può partire dalla fine del primo secolo, quando Adriano aveva vent’anni o poco più. Erano tempi particolari, quelli: l’impero era quasi al culmine della sua espansione, in Oriente Parti ed Ebrei davano filo da torcere alle legioni e a Roma non regnava una vera dinastia, come quelle dei decenni precedenti (la GiulioClaudia e la Flavia). Infatti, estinti da poco i Flavi, iniziava l’era dei cosiddetti Antonini, coi quali il trono non fu più trasmesso dagli imperatori in carica ai figli, bensì a “eredi morali”, scelti per adozione. Il primo degli Antonini, nominato dal Senato nel 96 d.C., fu Nerva, da cui il potere passò poi a Traiano (98). Il quale (forse) indicò come erede Adriano, adottandolo sul letto di morte (117). Ma il “forse”
Salì al potere in modo SOSPETTO, ma poi divenne uno dei più grandi imperatori di ROMA. Fin quando morì il suo giovane AMANTE. E lui perse la TESTA
AL VERTICE DELL’IMPERO
A. DE LUCA
Busto di Adriano (76-138 d.C.) conservato ai Musei Capitolini. L’imperatore guidò Roma nel suo periodo d’oro. Ma quando morì il suo amante, Antinoo, perse la testa: lo divinizzò, perseguitò la moglie e ordinò uno sterminio di Ebrei.
Il VALLO che costruì in Gran Bretagna era lungo 120 KM ed era difeso da 9MILA soldati CON LA MOGLIE
Adriano e la moglie Vibia Sabina in una scultura di epoca romana conservata al Louvre. Rappresentano Marte e Venere.
è d’obbligo perché uno storico del III secolo, Elio Sparziano, tramanda un’altra versione: “Si mormorava che l’adozione fosse dovuta a una manovra di Plotina (l’imperatrice uscente, ndr), che quando Traiano era già morto avrebbe fatto parlare con falsa voce da morente un altro al posto dell’imperatore”. Il lugubre aneddoto è confermato da un altro storico antico, Dione Cassio, che precisa: “La morte di Traiano fu nascosta per alcuni giorni, perché si diffondesse prima la notizia dell’adozione”. Ma la truffa fu presto dimenticata, anche perché il neo-imperatore cercò subito di ingraziarsi tutti: l’esercito, cui raddoppiò una tantum la paga; il Senato, cui inviò una lettera di ossequi; il popolino, cui diminuì le tasse; persino il fantasma di Traiano, cui tributò un trionfo postumo, mettendo sul carro un ritratto del caro estinto. Arte e pace. Eppure, nonostante questi metodi clientelar-scaramantici, Adriano si caratterizzò presto per almeno tre dati positivi: in politica interna “diede prova di grande tolleranza”, all’estero promosse “una politica di pace universale fondata su antiche tradizioni”, infine in campo culturale tentò di convincere il mondo che “l’arte ha smesso di essere un lusso, è diventata una risorsa”. Le prime due frasi virgolettate sono del già citato Sparziano, la terza di una biografa moderna del sovrano, la belga Marguerite Yourcenar. In realtà la tolleranza sul fronte interno fu tale solo per i tempi, cioè relativa. Anzitutto, infatti, Adriano dispose una maxi-purga dell’apparato statale, per allontanare certi funzionari che erano più fedeli all’imperatore defunto che a quello in carica. Quindi fece giustiziare quattro patrizi, colpevoli di aver ordito una congiura contro di lui. E più tardi, nel 135, in Medio Oriente, dopo un’ennesima rivolta ebraica fece addirittura radere al suolo Gerusalemme (v. riquadro qui sotto). Ma allora la fama di tollerante da dove arriva? Soprattutto dalla politica garan-
Spietato con gli Ebrei
A. DE LUCA
P
acifista per lungo tempo, Adriano si macchiò negli ultimi anni di una delle più feroci repressioni della storia di Roma, culminata nella distruzione di Gerusalemme. Tutto iniziò nel 132, quando gli Ebrei (già reduci da due rivolte finite male, fra l’altro con la
demolizione del Tempio), saputo che Roma intendeva costruire un santuario a Giove sul Monte Moriah (l’attuale Spianata delle Moschee), si ribellarono per la terza volta e cacciarono i Romani dal loro territorio. Alla testa dei ribelli c’era tale Simone detto Bar Kokhba (“Figlio della
SGUARDO A ORIENTE
Tempio di Adriano a Efeso, in Turchia. L’imperatore rafforzò i confini in tutta l’Asia Minore.
BRIDGEMAN/ALINARI
SCALA
MURO A NORD
Il Vallo di Adriano, in Gran Bretagna. Una difesa contro Pitti, Briganti e Caledoni.
L’IMPERO AL TOP
L’estensione di Roma fra il 117 e il 135 d.C. Adriano, che regnava sull’intero Mediterraneo, consolidò i confini e la struttura dell’impero.
al suolo Gerusalemme e la sostituirono con una città di stile ellenistico, Elia Capitolina. Bar Kokhba fu catturato e presumibilmente ucciso. Dopo il fallimento della rivolta, il “messia” fu impietosamente ribattezzato Simon Bar Koseba (”Figlio della Menzogna”).
NEL NORD AFRICA
Le terme fatte costruire da Adriano a Leptis Magna, una città allora in espansione, in Libia.
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SCALA
Stella”), auto-dichiaratosi messia. Strage. La reazione imperiale arrivò 3 anni dopo e fu spietata: 80 mila soldati calarono sulla Giudea, fecero 580mila morti, distrussero 985 villaggi e 50 fortezze (i dati sono desunti dalla Storia romana di Dione Cassio). Poi rasero
RIFORMÒ la pubblica amministrazione, rendendola più efficiente. SUGGESTIONI D’ORIENTE
Cariatidi nel canopo di Villa Adriana a Tivoli, un bacino d’acqua ispirato all’omonima località nei pressi di Alessandria d’Egitto. Villa Adriana è ricca di richiami alla cultura ellenistica e a quella orientale.
tista usata verso gli schiavi e i cristiani. Sul fronte schiavi furono varate leggi “progressiste”: una vietava di vendere donne ai bordelli “senza motivo”, un’altra proibiva di uccidere uno schiavo in assenza dell’ok di un giudice. Quanto ai cristiani, poi, eloquente è una lettera del 122 a Caio Minucio Fundano, proconsole d’Asia, lettera che conosciamo perché fu poi inclusa in un testo di Eusebio di Cesarea, padre della Chiesa (265-340). Ecco il passo che interessa:“Se i cittadini della provincia sono in grado di sostenere apertamente l’accusa contro i cristiani, in modo da poter reggere un contraddittorio in tribunale, ricorrano a tale procedura e non a voci e congetture. Se infatti qualcuno vuole formalizzare un’imputazione, è opportuno istruire un processo. Insomma, se c’è chi li accusa e dimostra che essi stanno agendo contro legge, decidi secondo la gravità del reato. Ma, per Ercole, se qualcuno denuncia solo per calunniare, valuta la gravità dei fatti e puniscilo”. Rafforzare i confini. La lettera a Fundano era una doppia rivoluzione, perché forse per la prima volta si stabilivano due principi giuridici “illuministici”. Il primo: l’onere della prova spetta a chi accusa. Il secondo: non vanno punite le opinioni (vedi l’essere cristiani), bensì i fatti. Ma la rivoluzione più grossa avvenne in politica estera, dove Adriano, imperatore pacifista, interruppe il plurisecolare espansionismo di Roma, stabilì confini sicuri e pur di ottenerli ridusse volontariamente la superficie dell’impero, evitando conflitti inutili. Per capire la portata della svolta, occorre fare un passo indietro. Nei primi anni del II secolo Traiano aveva annesso l’Armenia (allora più vasta di oggi), la Dacia (Romania), la Mesopotamia (Iraq) e il regno dei Nabatei (Giordania e parte dell’Arabia), portando l’impero a dimensioni record: 5,5 milioni di chilometri quadrati, come un’Unione Europea moltiplicata per 1,3. Ma, salvo la Dacia, erano tutte conquiste fragili: per mantenerle bisognava prepa-
rarsi a nuove guerre. Per giunta altri confini barcollavano, dalla Britannia a nord alla Mauritania a sud. Ebbene: in Mauritania Adriano usò il pugno di ferro, ma sulle altre frontiere cercò soluzioni diverse. In Britannia costruì una “grande muraglia” (il famoso Vallo di Adriano), opera solo difensiva, che sanciva la rinuncia a invadere la Caledonia (Scozia). E in Oriente abbandonò gran parte delle conquiste di Traiano: restituì l’indipendenza all’Armenia, si ritirò dalla Mesopotamia, inaugurò relazioni coi Parti, nemici storici. Poi prese a viaggiare per tutto l’impero, per conoscere e farsi conoscere. Così finì per macinare migliaia di chilometri, più in stile da saccopelista che da sovrano. Narra Dione Cassio: “Si spostava sempre a piedi o a cavallo, non saliva mai su un carro”. Che piovesse o picchiasse il sole, non si copriva mai il capo. E una volta in Grecia seminò la scorta e sparì tra la folla. Uno stile così informale gli guadagnò simpatie: Sparziano scrive che anche “i re della Battriana (oggi Afghanistan, ndr) gli inviarono un’ambasciata chiedendo di stabilire buone relazioni”. Sposato, ma... Oltre a quelle simpatie afghane, i viaggi fruttarono ad Adriano almeno altre tre cose: una cultura sterminata, ignota ai predecessori, che spesso erano stati solo grezzi soldatacci; una sintonia profonda con il modo di vivere e di sentire del mondo ellenizzato; infine una grande storia d’amore. Che però aveva un dettaglio anomalo: l’oggetto del desiderio non era una donna, ma un altro maschio, un bellissimo ragazzo conosciuto in Cilicia. Cioè quell’Antinoo del busto esposto al Prado. Flash-back per chi ama il gossip: in gioventù Adriano aveva sposato una bis-nipote del suo tutore Traiano, tale Vibia Sabina; ma il matrimonio, celebrato per ragioni politiche, non era stato dei più felici, probabilmente anche perché il futuro imperatore non aveva mai nascosto la sua tendenza gay, o almeno bisex. Elio Sparziano parla maliziosamente di “giovanet-
A caccia, senza pietà
SCALA
Q 100
uasi sempre mite con gli uomini, Adriano non lo fu con gli animali. Infatti il suo hobby preferito era la caccia, meglio se a carnivori di grossa taglia. A cavallo. Secondo i suoi antichi biografi uccise di
sua mano diversi leoni, ma non si sa dove (più probabilmente in Medio Oriente che in Africa). Invece in Europa praticava la caccia al cinghiale: una volta, riferisce Dione Cassio, ne abbatté uno con un solo colpo di lancia.
Nelle sue battute venatorie l’imperatore usava sempre lo stesso cavallo, Boristene. E quando questi morì, gli fece costruire una tomba ad Apta Julia (Gallia Narbonense) con una colonna votiva e un’epigrafe, che si
E VIAGGIÒ, instancabile, in ogni angolo dell’ IMPERO
conserva tuttora. Invece in Bitinia, per ricordare una sua caccia a un’orsa, fondò addirittura una città (Adrianotera) dove l’animale era stato ucciso. Strage di felini. La bramosia di sangue
animale che Adriano nutriva non si limitò all’attività venatoria: negli spettacoli circensi vennero organizzate massicce stragi di felini (venivano uccisi anche cento capi a “spettacolo”).
PROSPERITÀ
Un’altra immagine di Adriano, questa volta di profilo. Il suo impero fu caratterizzato da pace, efficienza e fioritura di arti e cultura.
A. DE LUCA
ti tanto cari all’imperatore”, di “fanciulli sedotti a corte”, di “rapporti con uomini adulti” e – dulcis in fundo – anche di “adultèri commessi con donne sposate”. Le molte corna bipartisan di cui Vibia fu gratificata, devastanti per la coppia, ebbero però effetti positivi sulla Storia dell’arte, perché Adriano, come ogni marito che deve farsi perdonare qualcosa, usò verso la moglie una generosità esagerata. Infatti le donò uno dei monumenti più sontuosi dell’impero, la Villa Adriana di Tivoli, che dal 1999 l’Unesco tutela come “patrimonio dell’umanità”, giudicandola “un capolavoro che riunisce in maniera unica le forme più alte di espressione delle culture materiali dell’antico mondo mediterraneo”. Il mondo in una villa. Il giudizio non è eccessivo. A Tivoli, cioè a 28 km dalla capitale, Adriano creò uno specchio della sua cultura eclettica, copiando tutto ciò che lo aveva colpito di più durante i suoi viaggi: dalle cariatidi dell’Eretteo di Atene al Canopo, un porto vicino ad Alessandria; dalle Amazzoni del Tempio di Efeso a un coccodrillo di marmo cipollino, clone del dio egizio Sobek. Quel pot-pourri, dove la lupa di Romolo e Remo conviveva con una sfinge egizia e con statue simil-greche, doveva essere choccante per un romano medio. Ma l’imperatore che aveva ideato la villa ci teneva a lasciare tracce di sé più nella Storia dell’arte che in quella militare; quindi il pot-pourri di Tivoli diventò un paradigma trendy, perché era davvero a misura di Adriano. Il quale, curioso per indole e sprovincializzato per scelta, era attratto da tutto ciò che profumava di esotico. E soprattutto dalla cultura greca, tanto che fu tra i pochi romani iniziati ai misteri eleusini, i riti esoterici legati al culto di Demetra, dea delle messi, che si tenevano due volte l’anno a Eleusi, presso Atene. Nello sterminato complesso di Tivoli, che copriva un’area di 120 ettari, fra le cose che avevano colpito di più Adriano, ovviamente non poteva mancare Antinoo: anche perché in fondo quella love story
Si innamorò di un giovane, ANTINOO, che morì in circostanze MISTERIOSE. Disperato, lo divinizzò
SCALA
Il Pantheon di Roma. Distrutto da un incendio nell’80, fu ricostruito da Adriano.
FORZA MILITARE
Busto di Adriano in abiti militari, realizzato nel 117-118. È stato trovato a Villa Adriana, ma è conservato al British museum di Londra.
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era coerentissima con gli usi e la cultura greca, dove la componente omosex aveva radici profonde. Così l’imperatore, con una faccia di bronzo da manuale, piazzò nella villa donata alla moglie un busto del suo boyfriend: proprio quello del Prado di Madrid. Quanto durò la storia d’amore fra Adriano e Antinoo? Circa sei anni: iniziò forse nel 124 e finì nel 130, con la tragedia sul Nilo. E poiché Antinoo affogò quando era ventenne, matematica vuole che avesse iniziato la sua relazione con l’imperatore a 1314 anni. Se accadesse una cosa simile oggi, Adriano avrebbe seri guai con il codice penale, ma all’epoca nessuno ci badava. E il sovrano itinerante, che per quel ragazzo della Bitinia aveva un trasporto non ortodosso ma sincero, lo portò con sé in molti suoi viaggi. Morte misteriosa. L’aveva con sé anche sul Nilo, nei pressi dell’attuale El-Minya. Era il 30 di ottobre, giorno sacro al dio egizio Osiride. Qualcuno udì il tonfo di un corpo caduto nel fiume. Quando lo ripescarono, Antinoo era ormai cadavere. Cos’era successo? Una caduta accidentale? Un suicidio causa depressione? Un omicidio a sfondo passionale, magari per gelosia? Forse nulla di tutto ciò, ma qualcosa di più inquietante: un suicidio rituale, maturato in quell’area grigia che sta a metà strada tra magia, culti orientali e follia pura. Questa ipotesi, formulata già da Dione Cassio, fu poi rilanciata con più dettagli da Aurelio Vittore, un autore africano del IV secolo. In sintesi: Adriano aveva interrogato dei magi sul suo futuro. E quelli gli avevano risposto che sarebbe morto due anni dopo salvo che qualcuno si fosse ucciso al posto suo.
LESSING/CONTRASTO
IL TEMPIO DI TUTTI GLI DÈI
L’AMANTE DIVINIZZATO
Statua di Antinoo rinvenuta a Villa Adriana e conservata a Monaco di Baviera. Qui l’amante di Adriano è raffigurato come il dio egizio Osiride.
THE ART ARCHIVE (2)
DA TOMBA A CASTELLO
Il Mausoleo di Adriano, in seguito modificato e diventato Castel Sant’Angelo (a Roma).
Il povero Antinoo diventò così una vittima volontaria per allungare la vita del sovrano. Vero o no? Nessuno lo sa. Certo che l’imperatore fu sconvolto dalla morte del giovane: “Lo pianse come una donnetta”, dice Sparziano. Da quel momento Adriano non fu più lo stesso e precipitò in una spirale ossessiva, vicina al delirio. Prima fece deificare il ragazzo perduto; poi riempì di sue statue l’impero, tanto che Antinoo diventò l’uomo più effigiato della storia romana dopo Augusto; quindi gli dedicò una città in Egitto e disse di aver visto una nuova stella, che era lo spirito del defunto amante asceso in cielo; infine massacrò gli Ebrei e prese a maltrattare l’incolpevole Vibia Sabina. Tanto che la donna, narra Aurelio Vittore, “fu spinta a morte volontaria”. Disperazione e poesia. Poi l’ora del destino scoccò anche per Adriano. Che negli ultimi tempi, afflitto da un male invalidante, tentò tre volte il suicidio, ma invano. E dopo aver scritto un’autobiografia, purtroppo andata perduta, prese a comporre malinconiche poesie in stile ellenizzante, una delle quali iniziava così: “Animula vagula blandula / hospes comesque corporis / quae nunc abibis in loca / pallidula rigida nudula...” (“Animella smarrita e leggera, / ospite e compagna del corpo, / che ora partirai verso luoghi / sbiaditi, gelidi e spogli…”). L’animula di Adriano se ne andò il 10 luglio 138. Il corpo di cui era stata compagna per 62 anni fu sepolto in riva al Tevere, in un mausoleo colossale che fu poi trasformato in una fortezza: l’attuale Castel Sant’Angelo. • Nino Gorio
SETTIMIO SEVERO - 146 D.C.
Come, partito da Leptis Magna, il LIBICO Settimio Severo divenne IMPERATORE romano
Nelle mani del
RAÌS I
mmaginate che Roma sia senza governo e che un raìs nordafricano, abituato a “restare accampato e a vivere in tenda”, marci sulla città seguito da soldataglie armate prendendo il potere. Di più: immaginate che il raìs occupi il Palatino razziando le merci, trattando i luoghi di culto “come fossero stalle” e inaugurando “un’odiosa serie di atti di terrorismo”. Infine, immaginate che il raìs e i militari golpisti irrompano in Senato: lui per autonominarsi imperatore; loro soltanto per estorcere un po’ di soldi ai senatori. Niente paura: il quadro descritto sopra non è un incubo proiettato sul futuro ma quello vissuto in un’altra epoca dai Romani: tutto quanto abbiamo narrato, infatti, è già successo 18 secoli fa. Il raìs-imperatore si chiamava Settimio Severo, visse dal 146 al 211, regnò dal 193 alla morte e negli ultimi suoi anni si fece erigere due archi di trionfo, uno a Roma e uno in Libia. E le parole tra virgolette sono prese da una sua antica biografia in latino. Rese dei conti. Dice un noto adagio che dall’alba si conosce il giorno. E il “giorno”, cioè il regno, di Settimio Severo fu in linea con l’aurora violenta del Palatino. Negli anni del potere severiano, infatti, a Roma furono giustiziati senza processo almeno 41 personaggi eccellenti dell’aristocrazia; in Gallia furono sterminati i partigiani di tale Clodio Albino, un aspirante imperatore rivale, con tutti i loro fami104
NATIONAL GEOGRAPHIC STOCK
L’ALTRA SPONDA
TIPS IMAGES
Sopra, il teatro e le rovine romane di Leptis Magna (Libia) oggi tutelate dall’Unesco ma a rischio per la guerra civile in corso nel Paese. A sinistra, un busto di Settimio Severo, imperatore dal 193 d.C.
gliari; in Nord Africa infine furono perseguitati i cristiani. “Ciò accadde soprattutto ad Alessandria”, precisò un secolo più tardi il teologo Eusebio di Cesarea. Posta e annona. Eppure Settimio non portò solo sangue. In Libia rivoltò come un calzino la sua città natale (Lpqy, alias Leptis Magna) e ne fece una sontuosa metropoli. In Egitto concesse ad Alessandria di avere un senato autonomo. In Oriente e in Britannia rafforzò i confini, combattendo Parti e Caledoni. A Roma fondò un servizio postale gratuito e ristrutturò l’annona (il sistema di rifornimento degli alimentari), rendendola così efficiente che nel 210 la città aveva grano per 7 anni. Ovunque, infine, inaugurò un nuovo stile artistico, ricco di spunti esotici. Altre novità ci furono in politica. Infatti dopo il 193 a Roma mutarono tutti gli equilibri: il senato perse potere a favore dei militari, gli italiani a favore dei popoli delle province, che si videro aprire carriere prima precluse. Esempio: il corpo dei pretoriani, le guardie scelte di corte, da sempre riservato ai “romani de Roma”, fu sciolto e sostituito da soldati africani e illirici (leggi dalmati e albanesi). Era una rivoluzione: come se oggi in Vaticano le guardie svizzere fossero licenziate e sostituite con hezbollah libanesi o beduini cammellati. Nuovo corso. Quella rivoluzione salì fino all’Olimpo, dove Settimio introdusse una nuova divinità esotica: se stesso, autonominato in vita dominus ac
deus (“signore e dio”, caso senza precedenti in riva al Tevere). Un sussulto di megalomania? No, una scelta ponderata. Spiega lo storico Franco Cardini: «Sostenitore convinto di una visione religiosa del potere, Settimio Severo fu il vero iniziatore a Roma di un culto incentrato sull’idea di monarchia sacra, ereditata dall’Egitto e dalla Grecia tramite Alessandro Magno». A molti europei moderni l’idea di uno Stato che fa tutt’uno con Dio provoca immediate crisi di rigetto; ma alla fine del II secolo d.C., quando a Roma ogni certezza cominciava a scricchiolare, l’idea di Settimio era una trovata avveniristica, in grado di infondere sicurezza e destinata a durare fino al Medioevo: in fondo, il Sacro romano impero di Carlo Magno fu un pronipote dello Stato di Settimio. Chi fu dunque il raìs di Lpqy? Un bieco golpista o un precursore? Rivediamo tutto daccapo, partendo dalle fonti. A caccia di informazioni. A narrare del primo (non unico) imperatore africano di Roma sono vari testi latini. Ma quelli che contano sono solo due. Il primo si intitola De Caesaribus e fu scritto da Aurelio Vittore, uno storico del IV secolo di cui si sa poco. L’altro è noto come Storia augusta: una serie di biografie imperiali, di cui si ignorano sia la data (forse il V secolo) sia gli autori (la firmano sei nomi, ma forse sono tutti falsi). La parte su Settimio (24 capitoli) è di un presunto Elio Sparziano. Insomma, 105
MONDADORI PORTFOLIO/AKG
Quando, nel 193, Settimio Severo divenne imperatore, Leptis Magna superò i 100MILA abitanti e toccò il suo APOGEO SEVERI
Sopra, da destra, Settimio con i figli Geta (al centro) e Caracalla: quest’ultimo nel 212 fece assassinare il fratello coimperatore.
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le due principali fonti di notizie sono praticamente anonime e tarde. Di un terzo testo, più vicino ai fatti, la Storia romana di Cassio Dione, abbiamo solo brani monchi. Totalmente perduta, infine, è un’autobiografia che Settimio scrisse (o meglio fece scrivere, perché il suo latino zoppicava) alle soglie della terza età. Perché un testo così importante sia sparito nelle pieghe della Storia lo capiremo poi. Tirate le somme, molto non è. Fra l’altro, la Storia augusta non va presa per oro colato perché si dilunga su incantesimi, presagi e simili. Esempio: da giovane, una notte il nostro “sognò di succhiare il latte da una lupa, come Romolo e Remo”. Oggi chi facesse un sogno così si limiterebbe a giocare un terno al lotto: 33 (il latte), 88 (la lupa) e 64 (i gemelli). Invece Settimio ne dedusse che avrebbe regnato su Roma. E il sedicente Sparziano prese così sul serio la notizia che la tramandò ai posteri. Radici. Eppure, se sfrondata dalle suggestioni divinatorie, la Storia augusta sembra ben informata. Riferisce fra l’altro che Settimio nacque
l’8 di aprile; che da ragazzo il suo hobby preferito era “giocare al giudice” in finti processi ai coetanei; che suo padre (Geta) e sua madre (Fulvia Pia), benché residenti in Africa, venivano da famiglie con cittadinanza romana di lunga data; che lui comunque studiò latino e greco solo a scuola, come si fa con le lingue straniere; infine che “la sua gioventù fu piena di passioni, talvolta di veri e propri delitti”. Ma anche i precedenti penali contano poco se si hanno santi in paradiso. Settimio ne aveva solo uno, però potente: uno zio che era stato console e che lo presentò nientemeno che all’imperatore Marco Aurelio. Il quale lo prese in simpatia e lo avviò a una carriera-lampo nella pubblica amministrazione. Così Settimio a 25 anni divenne senatore e questore, poi fu governatore della Betica (oggi Andalusia) e della Sardegna, quindi proconsole in Africa, pretore e console a Roma, infine dux militare in Germania e Pannonia (oggi Ungheria). Fu proprio mentre era in Pannonia che decise di
Austero ma... cornuto
marciare su Roma e di prendere il potere assoluto con la forza. Lo scenario era favorevole: dopo che tre imperatori consecutivi (Commodo, Pertinace e Didio Giuliano) erano morti ammazzati, a Roma le istituzioni erano allo sbando, mentre i contingenti militari delle province scalpitavano, invocando la presa del potere da parte dei rispettivi raìs (o duces che dir si voglia). Settimio Severo giocò d’anticipo, battendo sul tempo tutti i colleghi-rivali. Col risultato che già conosciamo. A questo punto sorge inevitabile una domanda: ma Settimio Severo era un vero africano, o solo un colono di stirpe italica nato in Libia? Dubbio legittimo, se si pensa che i suoi genitori avevano la cittadinanza romana, che suo zio era un ex console, che il suo nome non era berbero e il suo curriculum poteva essere quello di un giovane rampante della Roma bene. D’altra parte, però, sappiamo che l’imperatore parlava male il latino, che amava l’arte e la cultura “provinciali” e che detestava certe istituzioni simbolo della romanità, vedi il senato. Vero africano o italiano d’Africa, dunque? Più verosimile la prima ipotesi, ma non cercate una risposta nella Storia augusta: non c’è. Più eloquenti sono le rovine di Leptis Magna, 130 chilometri a est di Tripoli, lungo la costa. Là, alla foce di un fiumiciattolo spesso semisecco (Wadi Lebdah), sorgono monumenti impressionanti, tutti taglia XL: templi, terme, un teatro, un anfiteatro, un mercato, una basilica, un viale colonnato e tre archi di trionfo, il più imponente dei quali è dedicato (ovviamente) a Settimio. Il tutto copre 150 ettari, due volte gli scavi di Pompei. Un tesoro archeologico, fra i più importanti dell’Africa (figura nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco), che purtroppo è a rischio per le condizioni di instabilità politica del Paese. Riscoperta. Può sembrare incredibile, ma solo un secolo fa di tutto ciò non si vedeva nulla: l’antica città era coperta di sabbia e il suo porto interrato. Riportare alla luce Leptis Magna fu un’impresa
imperatore-controfigura. Tollerante. Questo aneddoto su Settimio Severo è riferito, come tutte le notizie precedenti, dalla Storia augusta, testo latino che a volte scende al livello del puro gossip. Un esempio: riferisce che la seconda moglie dell’imperatore, la siriana Giulia Domna, era “famosa per i suoi adulteri”, ma lui “non la ripudiò”.
Busto di Giulia Domna, moglie di Settimio.
M. MEROLA
salute era cagionevole, perseguitato da un’artrite devastante. Per questa ragione, al suo ritorno da una guerra vittoriosa contro i Parti, rinunciò al trionfo dovutogli perché non riusciva a stare ben dritto sul carro; ma per non annullare la festa incaricò uno dei suoi figli di sostituirlo. Così il trionfo si celebrò – caso unico nella Storia – con un
quasi esclusivamente italiana: a iniziare, nel lontano 1911, fu Salvatore Aurigemma, primo soprintendente alle antichità della Tripolitania coloniale; ma a fare il lavoro maggiore, dal 1936 in poi, fu un suo successore, Giacomo Caputo, col sostegno politico di Italo Balbo, fascista anomalo, pioniere dell’aviazione e all’epoca governatore della Libia. Se Leptis rinacque a nuova vita, levatrice del parto fu proprio Balbo, che investì negli scavi somme immense, in parte ottenute con pubbliche sottoscrizioni dai toni commoventi (v. foto a destra e in basso). Perché tanto impegno, è chiaro: disseppellendo rovine romane in Libia (non solo a Leptis, ma anche a Sabratha e nell’ex Oea, l’attuale Tripoli) l’Italia coloniale voleva dimostrare di avere diritti storici sul Paese, quindi legittimarne l’occupazione. Ciò non solo nel periodo fascista, ma anche prima. C’è un film, che in Italia pochi hanno visto, dove tutto ciò viene descritto bene. Si intitola Il leone del deserto e fu realizzato nel 1981 dal regista ameri-
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La serie di cartoline emesse nel 1939 per finanziare la missione archeologica italiana in Libia. SCALA
N
ell’abbigliamento era sobrio: portava sempre “un ruvido mantello” sopra “una tunica ornata appena da un filo di porpora”. A tavola era quasi vegetariano, “ghiotto delle verdure della sua terra”. Di aspetto era “bello e imponente”, col volto incorniciato da una barba lunga e da capelli bianchi e riccioluti. Ma di
I turbolenti anni dei Severi
S SCALA
ettimio Severo non fu un breve “temporale” passeggero. Infatti la dinastia da lui fondata (detta dei Severi) regnò su Roma per 40 anni quasi ininterrotti, con cinque imperatori: il capostipite, i suoi figli Caracalla e Geta, il pronipote di sua moglie Eliogabalo e il cugino di questi Severo Alessandro. Ma il “fattore S” influenzò quasi tutto il III secolo, an-
che al di là dei discendenti diretti. Immigrati. Dopo Settimio l’incoronazione di imperatori non italiani si ripeté: nel 217 toccò a un altro africano (Macrino, originario della Mauritania), nel 235 a un trace (Massimino), nel 244 a un arabo (Filippo). Un altro effetto del “fattore S” fu l’uso dei golpe militari, che iniziò col raìs di Leptis Ma-
gna e nel III secolo divenne la norma: dei circa 30 imperatori (o co-imperatori) che si succedettero dalla morte di Settimio (211) all’avvento di Diocleziano (284), almeno due terzi furono scelti dai rispettivi soldati e poi assassinati da militari avversari, o a volte addirittura dai propri. Non a caso questo periodo è detto “dell’anarchia militare”.
Insieme a OEA (oggi Tripoli) e SABRATHA, nel III secolo LEPTIS MAGNA costituiva la TRIPOLITANIA Settimio, la moglie e i figli nel “Tondo severiano”: Geta fu cancellato dopo la sua morte.
TESORI QUOTIDIANI
Mosaico del II secolo d.C. raffigurante una coppia di pescatori. È conservato, come altri tesori dei siti romani dell’attuale Libia, nel Museo archeologico di Tripoli.
cano di origine siriana Mustapha Akkad con attori di prim’ordine, fra cui Anthony Quinn e Oliver Reed. In una scena di quel film, Oliver Reed nei panni di Rodolfo Graziani (lo spietato predecessore-successore di Balbo) mostra un antico sesterzio a un capo ribelle prigioniero (Omar Al-Mukhtar, interpretato da Anthony Quinn): “Vedi questa moneta?”, dice. “È stata trovata in Libia e dimostra che i miei avi vivevano qui prima dei tuoi”. L’episodio non è inventato: Graziani ne parla nelle sue memorie. Gli scavi di Leptis rispondevano alla stessa logica della moneta, anche se Balbo, più diplomatico del collega, non lo esplicitò. Inganni. Se oggi Graziani potesse visitare la città di Settimio Severo, dovrebbe rimangiarsi la sua aggressiva baldanza, perché a ben vedere le rovine di Leptis evocano l’Italia solo in apparenza. Anzitutto, la pianta della città non ha lo schema geometrico ti-
pico dei centri romani, ma si adatta al terreno, con tipica duttilità maghrebina. Inoltre presso il mercato c’è un tempio di Serapide, dio supremo di Alessandria d’Egitto. Infine, ovunque si incontrano lapidi con nomi tutt’altro che latini: Iddibal, Suphunibal, Annobal e addirittura Hannibal, come il nemico giurato di Roma. E non è finita. La scoperta più inattesa è che a Leptis Magna tutte le scritte pubbliche erano doppie, come oggi in Alto Adige: accanto alla versione in latino (lingua ufficiale) ce n’era una in punico (l’idioma di Cartagine, lingua corrente). Vendetta punica. Il dettaglio è illuminante: la patria di Settimio Severo, nata 700 anni prima di lui come porto fenicio e diventata poi cartaginese, era sopravvissuta alla distruzione di Cartagine (146 a.C.) e si era sottomessa a Roma; ma dopo oltre 3 secoli parlava ancora il punico e chiamava i suoi figli Hannibal. Ciò vale anche per la famiglia di Settimio: una sua sorella, immigrata a Roma, era così digiuna di latino che lui se ne vergognò e la rispedì subito a casa. E qui si torna al nostro quesito: Settimio Severo era un vero africano? Senz’altro sì: quand’anche avesse avuto avi in Italia, la sua cultura, la sua lingua, i suoi usi erano punici. Se invece che in Libia fosse nato in Algeria 18 secoli dopo, forse l’avrebbero definito pied noir, come i parigini chiamavano i coloni francesi del Maghreb, ormai avvezzi più al cous-cous che alle baguettes. Dunque Leptis Magna, con buona pace di Balbo & C., invece di provare presunti diritti romani sulla Libia rivela una realtà assai diversa: 339 anni dopo la fine delle guerre puniche e la distruzione di Cartagine, un neocartaginese conquistò Roma, umiliando la sua classe dirigente e usando le risorse dell’impero per fare di Lpqy, sperduto porticciolo di provinCORBIS
RIMOSSO
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cia, una Leptis bella, opulenta e soprattutto Magna. Era la vendetta di Annibale, in fondo. Non a caso, dice la Storia augusta, Settimio fu poi “venerato come un dio dagli africani”. Revisionismi. Ma il falso storico tentato dai colonialisti italiani è poca cosa di fronte alla manipolazione compiuta sulla pelle di Settimio Severo dai benedettini medioevali. I quali, trovandosi di fronte a vari testi relativi a quel sovrano controverso, duro e soprattutto anticristiano, scelsero di copiare e trasmettere ai posteri solo i libri che ne parlavano male. Tra questi c’era appunto la Storia augusta che, enfatizzando le “stragi innumerevoli” di Settimio, lo de-
finiva tout court “assassino senza scrupoli”, dotato di “rara ferocia” e di “carattere crudele”. Morale: la versione più antica della Storia augusta (il Codice Palatino 899, attribuito a monaci del IX secolo) è tuttora conservata con cura in Vaticano. Invece l’autobiografia dell’imperatore “cartaginese”, che dava tutt’altra lettura dei fatti e non rispondeva all’interesse della Chiesa, non fu trascritta e andò perduta. Forse Settimio presagì questa damnatio memoriae: prima di morire (in Britannia, durante una spedizione) lasciò per se stesso un amaro epitaffio: “Tutto ciò che ho fatto non è servito a nulla”. •
A ROMA
L’Arco di Settimio Severo nel Foro Romano, eretto nel 203 in onore dell’imperatore. Qui, in un quadro di Luigi Bazzani (1836-1927).
Nino Gorio
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“Si vis pacem para bellum”, scriveva Vegezio nel IV secolo d.C.: chi aspira alla pace prepari la guerra. Perché una cosa sapeva fare l’impero: dare battaglia. Per conquistare il mondo e imporre la “pax romana”, aveva collezionato nemici di tutto rispetto. Eccoli in questa carrellata. A cura di Lidia Di Simone
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DI ROM A
I NEMICI
GLI ANTAGONISTI
Porsenna
Brenno
Pirro II
Chi era: la leggenda vuole che Tarquinio il Superbo, dopo la sua cacciata, cercasse di rientrare a Roma con l’appoggio di Porsenna, re etrusco di Chiusi, ma nel 508 a.C. l’assedio della città fallì anche per opera delle azioni eroiche di Orazio Coclite, Muzio Scevola e Clelia. Invece, come sostiene la moderna storiografia, il lucumone (re) Lars Porsenna riuscì a invadere Roma, occupandola poi per molti anni. Perché odiava Roma: la città era solo una pedina al centro di un disegno più vasto, occupare la Campania. Vittorie: presa di Roma. Punti forti: impose a Roma un trattato che, consentendo la lavorazione del ferro solo per attrezzi agricoli, costringeva di fatto la città al disarmo. Punti deboli: la paura provata davanti alla prova di coraggio di Muzio Scevola (si bruciò la mano che aveva fallito l’obiettivo di ucciderlo). Ma questa è solo leggenda. Forse la sua fu debolezza paterna: si ritirò da Roma dopo che il figlio Arunte era morto in battaglia contro una coalizione di Latini. Si disse di lui: “Mai prima il Senato aveva provato un panico simile, tante erano allora la potenza di Chiusi e la fama di Porsenna” (Tito Livio, Ab urbe condita). Se fosse rimasto a Roma: la civiltà romana sarebbe stata una civiltà etrusca e noi ora parleremmo un’altra lingua.
Chi era: il gallo che conquistò Roma. Il nome (“corvo” in celtico) divenne sinonimo di “capo”. Nato dai Galli Senoni, invase l’Italia occupando le attuali Romagna e Marche e l’etrusca Chiusi. Nel 390 a.C. penetrò nell’Urbe, assediando il Campidoglio fino al pagamento di un riscatto. Secondo la tradizione, alle proteste romane Brenno buttò la sua spada sulla bilancia che doveva pesare l’oro, minacciando “Vae victis!” (guai ai vinti). Perché odiava Roma: i Celti avevano bisogno di terre e ricchezze che si procuravano attraverso periodiche migrazioni. Vittorie: battaglia del fiume Allia (il 18 luglio del 390 a.C., che nel calendario romano divenne giorno nefasto). Sconfitte: battaglie di Fiesole e Bergamo. Punti forti: secondo Tito Livio, i Galli “nella lotta si avvantaggiano più del terrore che non della forza”. Punti deboli: si suicidò sul fiume Brembo per aver perso un duello con il console romano Torquato. Si disse di lui: “Si accordarono per un riscatto di mille libbre d’oro: a tanto si comprava il popolo che tra breve avrebbe avuto il dominio del mondo” (Tito Livio, Ab urbe condita). Se fosse rimasto a Roma: l’ipotesi è improbabile, perché la tecnica di guerra dei Galli era basata sulla scorreria, non sulla conquista di ampi territori.
Chi era: sovrano dell’Epiro, fu cacciato dal suo regno e riparò in Italia per appoggiare Taranto nella guerra contro Roma (e le città della Magna Grecia contro Cartagine). Vinse a Eraclea (Basilicata) e ad Ascoli Satriano (Puglia), pagando però un pesante tributo di sangue (da qui la “vittoria di Pirro”). Perché odiava Roma: in realtà, il re epirota aveva nei suoi progetti la conquista dell’Italia, della “Sikelia (la Sicilia), isola ricca e popolosa”, dell’Africa e di Cartagine. Ma sulla sua strada incontrò i Romani. Vittorie: battaglia di Eraclea e di Ascoli d’Apulia. Sconfitte: battaglia di Maleventum, che i Romani ribattezzarono in Benevento. Punti forti: era uno studioso di strategia militare; all’esercito e ai suoi elefanti sapeva poi unire la diplomazia. Punti deboli: la grande ambizione. Come Alessandro Magno, si prefiggeva la conquista del Mediterraneo, ma sottostimò l’organizzazione di Roma e si fece un altro nemico, Cartagine. Si disse di lui: “(I Tarantini presero) Pirro come condottiero [...] dal momento che era quello fra i re che più ne aveva il tempo ed era il più abile generale” (Plutarco, Vite di uomini illustri). Se avesse vinto: probabilmente la Grecia avrebbe esteso nuovamente la sua influenza sull’Italia Meridionale.
fine VI secolo a.C.
V-IV secolo a.C.
319 ca.-272 a.C.
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Viriato
Giugurta
Mitridate VI
Spartaco
Chi era: il capo dei Lusitani, un pastore che inflisse pesanti sconfitte ai Romani capeggiando una federazione di tribù iberiche (è considerato il primo eroe spagnolo e portoghese). Perché odiava Roma: difendeva l’indipendenza della sua terra, passata dal dominio rapace dei Cartaginesi a quello duro dei Romani. Vittorie: formidabili azioni di guerriglia. Sconfitte: Quinto Fabio Massimo Emiliano lo costrinse a ritirarsi dalle principali città lusitane, Cepione gli decimò gli uomini. Punti forti: tattica, strategia, comando. In sette anni di lotte non ebbe un solo caso di indisciplina. Era l’eroe incorruttibile. Appiano nella Storia romana lo definì prima latronum dux, capo dei banditi, ma poi ammise che questo povero pastore “era riuscito a sollevare tante popolazioni in guerra da essere considerato il difensore della Spagna contro i Romani”. Punti deboli: non seppe prevedere il tradimento dei suoi, che sobillati dai Romani lo assassinarono nel sonno (ma non ci guadagnarono perché, disse il console, “Roma non paga i traditori”). Si disse di lui: “Amò così tanto la sua patria che, per difenderne la libertà, combatté contro i Romani fino alla morte” (Sesto Giulio Frontino, Stratagemata). Se avesse vinto: la Spagna non sarebbe stata un Paese latino.
Chi era: figlio adottivo del re di Numidia, sterminò gli eredi designati per conquistare il trono, provocando la reazione di Roma che gli mosse guerra. Vinse durante tutta la prima fase delle guerre giugurtine, ma si arrese a Gaio Mario. Perché odiava Roma: non doveva stimare troppo le istituzioni repubblicane, visto che Sallustio gli attribuisce la frase “Romae omnia venalia sunt” (a Roma tutto è in vendita). Vittorie: assedio e saccheggio di Cirta, battaglie in Africa contro Aulo Postumio. Sconfitte: battaglia del Mutule contro Cecilio Metello. Punti forti: la mancanza di scrupoli nel non tener fede ai patti, il gioco diplomatico mentre ordiva assassini e rappresaglie. La guerriglia in Africa gli valse il soprannome di “leone del deserto”. Punti deboli: avido di comando, esagerò con gli eccidi (ammazzò anche il cugino) e con la corruzione (l’oro di Giugurta pagò i generali). Si disse di lui: “Crebbe, pieno di forze, bello d’aspetto ma soprattutto di grande intelligenza, non si lasciò corrompere dal lusso o dall’ozio [...] feriva per primo ed era fra i primi a ferire il leone e le altre belve, faceva moltissime cose, ma parlava pochissimo di sé” (Sallustio, Bellum Jugurthinum). Se avesse vinto: non avremmo avuto il poemetto in latino di Giovanni Pascoli, ispirato alla sua morte.
Chi era: il re del Ponto. Contro di lui si schierarono nelle tre guerre mitridatiche generali del calibro di Silla, Lucullo e Pompeo. Perché odiava Roma: voleva diventare il padrone del Mar Nero e dell’Anatolia e si eresse a campione dell’ellenismo contro i valori di Roma sterminando tutto quel che ricordava il nemico (nei “vespri asiatici” massacrò 80mila mercanti romani rastrellati in Asia Minore). Vittorie: nella Seconda guerra mitridatica (83-82 a.C.) Lucullo ottenne successi, ma perse il comando. Sconfitte: nella Prima guerra mitridatica (88-84 a.C.) Silla lo cacciò dalla Grecia; lo batté Pompeo nella terza (75-65 a.C.). Punti forti: non aveva debolezze. Detronizzò la madre, imprigionandola, sposò la sorella e fece uccidere il fratello. Come racconta Appiano, assumeva un po’ di veleno al giorno per “fortificare se stesso contro il veleno di altri” (da qui il termine “mitridatismo”). Punti deboli: fu tradito dai figli Mancare e Farnace e trafitto dai suoi uomini. Si disse di lui: “Regnò su ventidue nazioni, amministrava le loro leggi in altrettante lingue [...] senza bisogno di interprete” (Plinio il Vecchio, Naturalis historia). Se avesse vinto: Roma avrebbe perso i suoi domini in Asia Minore, non ci sarebbe stato l’Impero bizantino.
Chi era: schiavo, sfidò Roma a capo di una rivolta nella Terza guerra servile. Nato da pastori traci, si era arruolato nell’esercito romano per poi disertare. Ridotto in schiavitù, fu venduto a una scuola di gladiatori e combatté contro umani e belve fino alla fuga sul Vesuvio, a capo di 70 ribelli. Perché odiava Roma: cercava vendetta contro chi lo aveva reso schiavo, devastando il suo Paese. Vittorie: battaglia del Vesuvio contro Glabro e del Saline contro Varinio; scontro con le legioni dei consoli Lucio Gellio e Gneo Cornelio Lentulo; vittoria su Mummio, spalla di Crasso. Sconfitte: battaglia del Sele contro Crasso, che annientò 60mila ribelli e crocifisse gli altri lungo la via Appia. I rimanenti li finì Pompeo. Punti forti: arrivò a radunare nelle campagne del sud oltre 100mila schiavi. Punti deboli: durante l’occupazione di Calabria e Lucania si lasciò sfuggire di mano il controllo dei ribelli, che saccheggiarono e stuprarono. Si disse di lui: “Bisognò adoperare tutte le forze dell’imperio per domar quello schermitore. [...] Si può dire che morisse come un vero general d’esercito” (Lucio Giulio Floro). Se avesse vinto: non avrebbe sovvertito lo schiavismo romano ma forse, dopo i plebei, al consolato avrebbe potuto arrivarci anche un ex schiavo.
180 ca.-139 a.C.
160 ca.-104 a.C.
132 ca.-63 a.C.
109 ca.-71 a.C.
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CORBIS
ALINARI
CORBIS
Vercingetorige
Arminio
Budicca
Decebalo
Chi era: capo dei Galli Arverni (insediati nella regione dell’Alvernia), guidò la ribellione contro Giulio Cesare, che infine lo batté e lo tenne prigioniero a Roma per 6 anni (per esibirlo nel trionfo del 46 a.C.) facendolo poi strangolare. Perché odiava Roma: suo padre fu ucciso dai nobili Galli, i Romani per lui furono una ragione per mobilitare il popolo e riprendere il suo rango, per di più facendosi proclamare re. Vittorie: assedio di Gergovia. Sconfitte: battaglia di Alesia. Punti forti: fu il primo a federare la maggior parte dei Galli, che all’epoca erano divisi, creando un fronte comune contro Roma. Per un po’ bloccò Cesare adottando la tattica della “terra bruciata” e costringendolo a lunghi assedi. Punti deboli: aspettava i rinforzi, ma l’assedio di Alesia ridusse i suoi alla fame e Cesare era un osso assai duro da rodere. Si disse di lui: “A Vercingetorige, all’unanimità, viene affidato il comando supremo. Ricevuto questo potere comanda a tutte le tribù di inviargli ostaggi [...] e soldati, stabilisce la quantità di armi che ciascun popolo deve produrre [...]. A questo suo zelo affianca una grande severità nell’esercitare il potere” (Giulio Cesare, De bello gallico). Se avesse vinto: avrebbe reso assai più difficoltosa la nascita dell’impero.
Chi era: il capo della tribù dei Germani Cherusci, che a neanche 30 anni annientò tre legioni romane nella selva di Teutoburgo. Perché odiava Roma: all’avversione innata univa un risentimento verso suo zio Segeste – alleato del governatore Varo – che gli aveva negato la mano della figlia. Vittorie: battaglia della foresta di Teutoburgo, dove sterminò “sino all’ultimo uomo”, scrisse Velleio, l’esercito romano guidato da Publio Quintilio Varo. Alla notizia, Augusto “scoppiò in un pianto dirotto”, scrisse Dione, e Svetonio aggiunse che per mesi “sbatteva la testa contro uno stipite”, gridando “Varo, rendimi le mie legioni!”. Sconfitte: fu battuto dall’allora console Germanico – che recuperò due delle tre aquile di Teutoburgo – nella piana di Idistaviso e presso il Vallo angrivariano. Punti forti: aveva servito nell’esercito romano e aveva ricevuto la cittadinanza. Punti deboli: fallì nel creare un’alleanza dei popoli germanici e fu ucciso dai suoi. Si disse di lui: per il carattere impetuoso Tacito lo definì “uno spirito pazzo, l’incendiario della Germania”. Se avesse vinto: conquistando la Germania, Roma mise un cuscinetto fra sé e i turbolenti barbari del nord. Perdendola non ci sarebbe mai stata la massima espansione dell’impero nel periodo adrianeo.
Chi era: la regina della tribù britannica degli Iceni (nota anche come Boudiga o Boadicea). Capeggiò la rivolta contro i Romani, che dopo la morte del marito Prasutago avevano invaso le sue terre e violentato le figlie. Perché odiava Roma: racconta Tacito che voleva “vendicare la perdita della libertà, riscattare il proprio corpo fustigato e il pudore violato delle figlie”. Vittorie: i saccheggi delle colonie romane di Camulodunum (Colchester), Londinium (Londra) e Verulamium (St Albans), provocando 70-80mila morti. Sconfitte: la battaglia della strada Watling contro Svetonio Paolino, dove perse 80mila uomini (secondo Tacito) e si suicidò. Punti forti: la sete di vendetta. Incitava i suoi uomini ricordando loro che non era la prima donna a guidarli in battaglia e faceva leva sul risentimento contro la durezza dei dominatori romani. Punti deboli: la superiorità tattica di Roma. Si disse di lei: “Era una donna molto alta e dall’aspetto terrificante. Aveva gli occhi feroci e la voce aspra. Le chiome fulve e [...] mentre parlava, teneva stretta una lancia che suscitava terrore” (Cassio Dione Cocceiano, Storia romana). Se avesse vinto: i Romani avrebbero perso prima del tempo la Britannia. Lei divenne comunque il simbolo dell’indipendenza dell’isola.
Chi era: ultimo re dei Daci, popolo bellicoso stanziato alla sinistra del Danubio. Decebalo governava un regno vasto e potente che comprendeva anche i popoli dell’ovest. Perché odiava Roma: difendeva l’indipendenza della Dacia (l’attuale Romania) e voleva anche estendere il suo potere sulle regioni già sotto il controllo romano. Vittorie: nell’89, sebbene sconfitto, stipulò un accordo molto vantaggioso con Domiziano: la pace, il mantenimento delle terre e una sorta di sussidio a patto di rispettare la frontiera del Danubio. Sconfitte: nel 101 Traiano invase la Dacia. Dopo la vittoria dei Romani a Sarmizegetusa nel 102, seguì la sconfitta definitiva di Decebalo nel 105. Nel 106 si tolse la vita. Punti forti: era astuto e abile dal punto di vista militare. Punti deboli: sottovalutò Traiano e, venendo meno ai patti, lo costrinse a una nuova guerra che si rivelò fatale. Si disse di lui: “Decebalo, venuto a sapere dell’arrivo di Traiano, ebbe paura, poiché egli sapeva che in precedenza aveva sconfitto non i Romani ma Domiziano, mentre ora si sarebbe trovato a combattere sia contro i Romani, sia contro Traiano” (Cassio Dione). Se avesse vinto: la Dacia non sarebbe diventata provincia romana, non si sarebbe “latinizzata” e ora non si parlerebbe il rumeno, lingua di derivazione latina.
80 ca.-46 a.C.
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18 ca. a.C.-19 d.C.
33-61 ca. d.C.
I secolo-106 d.C.
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Sapore I
Alarico
Attila
Genserico
Chi era: re dei Sassanidi, il persiano Sapore (o Shapur) collezionò vittorie scontrandosi con tre imperatori: il giovane Gordiano III nel 244, Filippo l’Arabo nel 248 e infine Valeriano, che catturò. Non era mai accaduto che un imperatore fosse fatto prigioniero con l’esercito! Perché odiava Roma: i Persiani non amavano l’ovest... Vittorie: invasione della Mesopotamia (provincia romana); Battaglia di Mesiche (Falluja) dove sosteneva di aver ucciso Gordiano III; presa di Antiochia; cattura di Valeriano a Edessa (260). Sconfitte: battaglia di Resena; vittoria partica di Valeriano, prima della cattura. Punti forti: la cavalleria pesante persiana, i famigerati catafratti che con le loro cariche sbaragliavano la fanteria romana, mentre gli arcieri finivano gli uomini in rotta con nugoli di frecce. Punti deboli: formidabili in campo aperto, i Persiani lo erano meno di fronte alla rete di città fortificate che i Romani avevano a guardia dei confini orientali. Sapore non riuscì a invadere in profondità il territorio romano. Si disse di lui: Lattanzio scrisse, nella Morte dei persecutori, che Sapore usò Valeriano come sgabello per salire a cavallo, lo fece poi scuoiare e lo appese in un tempio. Se avesse vinto: la civiltà orientale avrebbe prevalso su quella occidentale.
Chi era: il primo re dei Visigoti, famoso per il sacco di Roma. Combatté sotto il generale romano Stilicone, poi ruppe l’accordo e invase l’Impero romano d’Oriente guidato dal debole Arcadio. Perché odiava Roma: si era battuto al fianco dei Romani nella battaglia del fiume Frigido (Isonzo) senza poi ottenere la promessa carica di magister militum. In più, dopo la morte di Teodosio e la divisione dell’impero, i suoi Visigoti erano stati rispediti nella Mesia, sul Mar Nero, senza ricompensa. Vittorie: invase l’Italia e assediò Roma una prima volta nel 408, ottenendo un riscatto; la seconda volta la saccheggiò per tre giorni (agosto del 410 d.C.). Sconfitte: battaglie di Pollenzo (402) e Verona (403), contro il generale Stilicone. Punti forti: la debolezza dell’imperatore d’occidente Onorio e del suo collega d’oriente Arcadio, due bambini – o quasi – sul trono. Punti deboli: il vero avversario di Alarico fu Stilicone, uno degli ultimi grandi generali romani. Si disse del sacco: “lo scempio orrendo” fu meno grave del previsto. Nel fatto che Alarico avesse risparmiato case e basiliche gli storici cristiani (e persino sant’Agostino) videro una prova che la mano di Dio aveva protetto l’Urbe. Se fosse rimasto a Roma: avrebbe accelerato la dissoluzione della sua civiltà.
Chi era: il “flagello di Dio” che mise in scacco i Romani fu l’ultimo re degli Unni e governò un vasto impero che si estendeva dall’Europa Centrale al Mar Caspio e dal Danubio al Baltico. Perché odiava Roma: in realtà voleva solo riempire un varco lasciato libero. Vittorie: assedio di Costantinopoli, presa di Aquileia, conquista di Milano. Sconfitte: battaglia dei Campi Catalaunici (vicino l’odierna Chalôn-en-Champagne) dove Ezio, l’ultimo dei grandi generali romani (anche se romano non era), lo costrinse al ritiro. Punti forti: riuscì a dare al suo popolo una forma di organizzazione statale, seppe parlamentare con i grandi, arrivò quasi a sposare la sorella di un imperatore, ebbe un esercito imponente (tra 300 e 700mila uomini). Punti deboli: l’incontro con papa Leone I sul Mincio (452) che scongiurò la marcia su Roma. Ma forse fu sopravvalutato dalle fonti. Si disse degli Unni: che sfoggiavano terribili cicatrici sul volto. E ancora che “mangiano radici di erbe e carne semicruda, emanano un fetore insopportabile [...] vivono costantemente in groppa al cavallo” (Ammiano Marcellino). Se avesse vinto: qualcuno ha detto che cambiando l’esito della battaglia dei Campi Catalaunici oggi gli europei discenderebbero in linea diretta dalle orde dei barbari.
Chi era: re dei Vandali e degli Alani, dalla Betica (Spagna del Sud) dove risiedeva il suo popolo passò in Africa invadendo Mauritania, Numidia e Africa Proconsolare. Espugnò Cartagine, si impadronì di parte della flotta romana e la usò per invadere Sicilia, Sardegna e Corsica, costringendo l’imperatore Valentiniano a dargli la sovranità sui domini africani. Perché odiava Roma: da federati, i Vandali rivendicavano terre e potere. Genserico mirava a tutto. Vittorie: conquista di Cesarea e assedio di Ippona (430), la città di sant’Agostino. Con il sacco di Roma del 455 umiliò l’impero. Sconfitte: insignificanti. Punti forti: in pochi anni trasformò un popolo barbarico in una delle maggiori potenze mediterranee. Punti deboli: l’episodio di papa Leone Magno, che lo induce a risparmiare la popolazione di Roma, fu edulcorato dalla storiografia cristiana, ma in effetti non vi furono da parte dei Vandali (a discapito del nome) né eccidi né devastazioni. Si disse di lui: “Fece vela per Cartagine, senza trascurare né il bronzo né qualunque altra cosa di valore [...]. Spogliò anche il tempio di Giove Capitolino e si portò via metà del tetto, che era fatto di bronzo” (Procopio, Le guerre). Se avesse vinto: conquistato il sud, stava puntando al resto dell’impero.
215 ca.-272 d.C.
370 ca.-410 d.C.
407 ca.-453 d.C.
390 ca.-477 d.C.
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ZENOBIA - 242 D.C.
242 d.C. Presunta data di nascita di Zenobia. Nulla si sa sulla sua infanzia. 267 Muore suo marito Odenato, principe di Palmira. Zenobia sale al trono. 269-270 Zenobia prende l’Asia Minore e arriva fino ad Alessandria d’Egitto. 270 A Roma sale al potere Aureliano, che inizialmente non ostacola Palmira. 271 Risolti i problemi in Italia, Aureliano decide di ristabilire il controllo in Asia. 272 L’imperatore riconquista i territori di Zenobia e anche Palmira si arrende. Autunno 272 Zenobia è fatta prigioniera e portata a Roma. 273 Le legioni romane saccheggiano Palmira dopo una ribellione. 274 La regina sfila a Roma in catene d’oro, e viene relegata a Tivoli fino alla morte.
BELLA, dotta e SPREGIUDICATA, per molti aspetti simile a Cleopatra: ecco chi era la regina di PALMIRA (in Siria), che conquistò l’Egitto e osò sfidare Roma
La regina
RIBELLE
L’ultimo sguardo della regina Zenobia su Palmira (opera di Herbert Schmalz, 1856-1935). In basso a destra, il Tempio di Baal a Palmira. La città (oggi in Siria) era il centro politico del territorio governato dalla regina.
UIG VIA GETTY IMAGES
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N
on c’è donna che non abusi del potere che è riuscita a ottenere”, scrisse nel ’700 Pierre Choderlos de Laclos nel romanzo Le relazioni pericolose. E Zenobia non fece eccezione, anche se dai libertini francesi la separavano 15 secoli. Non possiamo sapere se furono le passeggiate lungo la grandiosa via colonnata, tra le statue dei potenti della città di Palmira, a suggerirle i primi sogni di gloria. Fatto sta che su una di quelle colonne, nel 271 d.C., fu scritto il suo nome, accompagnato dal titolo di basilissa. La “regina” di Palmira diceva di discendere da Cleopatra, da Didone e da Semiramide. E come erede di tutte le grandi donne d’Oriente si comportò, percorrendo con determinazione la strada difficile e, a posteriori, poco proficua, che aveva scelto per sé, per il figlio e per il proprio regno. Come Cleopatra offrì al proprio Paese un ultimo momento di gloria. E come lei fece una brutta fine, osando troppo contro Roma. Senza volto. Su di lei le notizie storiche scarseggiano e le poche fonti spesso contrastano, per eccesso o difetto di zelo. Di certo c’è che Zenobia era diventata regina nel 267, alla morte di suo marito Settimio Odenato, come reggente del figlio Vaballato. Alcuni dicevano che fosse figlia di un commerciante di Palmira, ma diversi storici moderni sostengono che suo padre fosse Iulius Aurelius Zenobios, un personaggio politico cui i palmireni dedicarono una statua intorno al 240-242, gli anni in cui è probabile sia nata la futura regina. Bet-Zabbai, il nome in aramaico di Zenobia, significherebbe tra l’altro “figlia di Zabbai”, un suo antenato. Per gli antichi questa donna era una leggenda, ma nessuno ne ha mai descritto l’aspetto: bellezza senza volto, gli autori della Historia Augusta la de-
finirono “straordinariamente avvenente”, casta, carismatica e generosa. Possedeva inoltre quelle doti virili richieste a una regina: partecipava infatti alle battaglie, a cavallo o sul carro da guerra, e la sua prestanza le permetteva di percorrere a piedi anche tre o quattro miglia. Era inoltre appassionata di caccia e di vino, al punto da riuscire a mantenersi sobria anche quando gli altri avevano ormai ceduto all’ebbrezza. Zenobia era colta, dotata in campo politico e poliglotta: conosceva, oltre all’aramaico, la sua lingua madre, anche l’egiziano, il greco e un po’ di latino. Esempio di virtù, era amata dai suoi sudditi e manteneva una corte fastosa, frequentata da intellettuali e filosofi. Tutto vero? «È l’immagine retorica e altamente idealizzata di una sovrana di cultura ellenistica-orientale, forte e illuminata», spiega Eugenia Equini Schneider, docente di Archeologia delle province romane
CORBIS
L’ADDIO A PALMIRA
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all’Università La Sapienza di Roma, nel suo saggio sulla regina. «E le suggestioni che la associano a Cleopatra sono fortissime». Eppure nell’antichità non mancavano le voci discordi: tra gli storiografi a lei ostili, il greco Zosimo, autore della Historía néa, diceva che era superba. Lo confermavano gli ebrei, che raccontarono delle sue maniere sprezzanti nei confronti di due rabbini venuti a chiederle la liberazione di un correligionario imprigionato in Galilea. Pare che Zenobia avesse troncato la discussione così: “Viene insegnato che il vostro creatore adopera miracoli per coloro che si dedicano al suo servizio”.
Voglia di libertà. In realtà, Zenobia trattava con tolleranza gli ebrei e favoriva l’integrazione e la convivenza di culture e religioni diverse: Palmira era infatti un importante centro carovaniero sul fiume Eufrate, nel deserto siriano. La vivace città sorgeva in una vasta e lussureggiante oasi ed era quindi un punto di incontro di mondi diversi: quelli dei mercanti d’Oriente e d’Occidente. La sua posizione l’aveva favorita anche nei rapporti con l’Impero romano, permettendole di conservare una certa autonomia. Per i Romani era importante tenersi buona la regi-
Si faceva chiamare “IMPERATRIX”, combatteva a cavallo o sul carro di guerra e si presentava in pubblico avvolta in un MANTO purpureo
Sopra, le due facce di una moneta romana (antoniniano) con la rappresentazione di Zenobia.
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NELL’ARTE
A destra, rilievo raffigurante Ishtar e Tyche con le sembianze della regina Zenobia e della sua ancella (III sec.). In basso a sinistra, arringa di Zenobia ai suoi soldati (dipinto di Giovanni Battista Tiepolo, 1730).
na, perché il suo regno faceva da cuscinetto tra le province orientali e l’Impero dei Parti, da sempre ostile a Roma. Con i loro movimenti di conquista, i Parti infastidivano anche i palmireni, che si erano visti precludere diverse vie commerciali: forse per questo, più che per fare gli interessi dell’Impero romano, il marito di Zenobia si era dato da fare a metter loro i bastoni fra le ruote. Ma Odenato era ben consapevole delle potenzialità politiche e militari di Palmira e delle difficoltà di Roma a gestire una terra così remota. Tanto più che il suo controllo sulle province orientali e sulla Siria era diventato effettivo una volta ottenuto dall’imperatore Gallieno il titolo di “coreggente di tutto l’Oriente”. Se avesse voluto, il re avrebbe potuto tentare ormai il colpaccio: il distacco completo dall’Impero. Non si conoscono le sue intenzioni, ma di certo i rapporti di Palmira con i Parti si fecero meno tesi quando, nel 267, il re fu ucciso insieme al figlio di primo letto Septimius Herodianus. Sui mandanti dell’omicidio esistono molte ipotesi: alcuni puntano il dito contro Zenobia, altri contro Gallieno. In ogni caso, a fare quel che Odenato non aveva fatto ci pensò sua moglie. La regina voleva rendersi autonoma da Roma e riunire sotto di sé l’Asia Minore e l’Egitto, regioni che nominalmente erano parte dell’Impero romano, ma che in realtà sfuggivano al suo controllo. E cominciò stipulando un accordo con i Parti per garantire la pace alle carovane in transito. Gallieno, che sarebbe volentieri partito in quarta contro di lei, fu però fermato dai Goti che avevano invaso la Penisola. Agli inizi del 270, quando gran parte del territorio siriano doveva già trovarsi sotto il controllo di Palmira, Zenobia prese l’Arabia (provincia romana corrispondente a un territorio centrato più o meno nell’attuale Giordania). In tale occasione le truppe palmirene massacrarono una guarnigione romana, arruolando poi i superstiti tra le proprie file. Orgoglio di madre. La conquista dell’Arabia era un passaggio obbligato per la successiva fase: la presa dell’Egitto. «Inizialmente Zenobia e Vabal-
Mar Nero REGNO DI PALMIRA
GRECIA
PALMIRA Mar Mediterraneo
SIRIA
EGITTO I territori controllati da Palmira nel periodo di massima espansione, in seguito alle conquiste di Zenobia.
Un’eroina che piace a poeti e scrittori
L
a regina di Palmira era già nell’antichità una leggenda, ma furono Petrarca e Boccaccio a creare la sua moderna fama letteraria. Il parallelo tra Zenobia e le grandi regine d’Oriente, come Semiramide e Cleopatra, colpì infatti l’immaginazione dei letterati e
comparve in varie opere, prima fra tutte Il trionfo della fama di Petrarca, che fece della regina un concentrato di virtù. Gran mix. Nel suo De claris mulieribus, invece, Boccaccio creò un mix delle fonti antiche. Così la donna ispirò altri autori, tra cui Geoffrey Chaucer,
che ne raccontò la storia nei Racconti di Canterbury alla fine del Trecento, e William Painter, che nel XVI secolo parlò di lei nella 14ma novella del Palace of pleasure. Dramma. Alla fine del Cinquecento, però, i legami storici si allentarono e prevalse la fantasia. Come
nel dramma seicentesco Gran Zenobia di Calderón de la Barca e nella storia romantica e lacrimosa, datata 1785, di Aldemario Tegisto (Zenobia, regina di Palmira), costruita su un arbitrario parallelo tra l’amore di Antonio e Cleopatra e quello, inventato, di Aureliano e Zenobia.
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La RESA dei conti giunse quando PROCLAMÒ suo figlio Augusto: Roma non la perdonò e la IMPRIGIONÒ in Italia lato non contrastarono apertamente il potere di Roma: si affiancarono invece al partito filoromano di Alessandria, per legittimare formalmente il controllo palmireno sull’Egitto. Si proposero come baluardo della legalità dell’impero facendo apparire Aureliano come un usurpatore», scrive Equini. Aureliano, che era diventato imperatore nel 270, aveva riconosciuto a Vaballato i titoli di vir clarissimus rex e di imperator dux Romanorum: ma Zenobia osò troppo proclamando suo figlio Augusto. Questo segnò la rottura con Roma. Risolti i problemi che aveva in Italia, all’inizio del 272 l’imperatore decise di ristabilire il controllo in Oriente. La riconquista della Siria e dell’Egitto fu rapida: alla fine dell’estate del 272 Palmira si era arresa. Zenobia, che aveva tentato la fuga verso l’Impero dei Parti con suo figlio, fu catturata e condotta a Roma. In catene. Anche sulla sua fine esistono più versioni. La maggior parte degli storici antichi concorda sul fatto che Vaballato morì durante il viaggio, mentre lei fu costretta a sfilare in catene d’oro per le strade dell’Urbe nel 274, come preda di guerra nel trionfo dell’imperatore. Alcuni dicono che l’imperatore “la unì onorevolmente a un membro della classe senatoria”, altri che le concesse una villa a Tivoli, dove visse da regina fino alla fine dei suoi giorni. Secondo un’altra versione, la donna si lasciò morire di fame ancor prima di arrivare a Roma, sopraffatta dal dolore. In ogni caso aveva perso tutto, tranne la fama di regina che osò ribellarsi all’impero. •
QUI SI INCONTRARONO
Teatro romano. Era costruito nei pressi del foro.
Il tempio del dio mesopotamico Nebo. C’era anche un tempio per la divinità fenicia Baal.
Arco monumentale d’ingresso.
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Maria Leonarda Leone Medaglione con il ritratto di Aureliano, l’imperatore che riprese Palmira.
Da capitale a rovina: il destino dell’antica Tadmor
O
ggi visitarla è impossibile, a causa della guerra in corso in Siria. Ma a chi vi giunge appare come un miraggio, tra le sabbie del deserto, una distesa di splendide rovine vicino
alla moderna città di Tadmor: è Palmira. Dopo la resa ad Aureliano, i palmireni non subirono ripercussioni, ma la città fu saccheggiata in seguito a una nuova ribellione e le sue mura furono
Il tetrapilo, composto da 4 gruppi di 4 colonne in granito rosa proveniente dall’Egitto.
La celebre via colonnata. Lunga 1.200 metri, era il fiore all’occhiello di Palmira.
Terme di Diocleziano.
UNA MERAVIGLIA NEL DESERTO
Nel disegno, la ricostruzione di Palmira nel suo periodo di massimo splendore, attorno al 270 d.C., quando la città era la capitale del regno di Zenobia.
abbattute. Abbandonata, tornò a essere un piccolo villaggio e divenne una base militare per le legioni romane. Riscoperta. Dopo la conquista araba, avvenuta nel 634, Palmira andò progressivamente in rovina, finché nel 1678 qualcuno
cominciò a interessarsi di nuovo a lei. Alcuni mercanti inglesi, infatti, decisero di tentare di scoprire la collocazione delle splendide rovine nel deserto descritte da diversi racconti arabi. La prima spedizione fallì, ma la seconda, nel 1691, fu un
successo, anche se ci vollero altri sessant’anni perché una comitiva di disegnatori, guidata da due inglesi, visitasse le rovine. Nel 1753, venne pubblicato un blocchetto di schizzi, Les Ruines de Palmyra, autrement dite Tadmor au dèsert, che attirò
l’attenzione degli studiosi. E, verso la fine del XIX secolo, il sito cominciò a essere studiato in modo scientifico: prima vennero copiate e decifrate le iscrizioni, poi cominciarono gli scavi archeologici, oggi interrotti dal conflitto.
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L. TARLAZZI
ORIENTE E OCCIDENTE
Palmira era un antico centro carovaniero. Poi i Romani vi aggiunsero terme, monumenti, un teatro e una lunghissima via colonnata, divenuta simbolo della città.
AKG/MONDADORI PORTFOLIO
COSTANTINO - 274 D.C.
SANTO per forza Si attribuì il merito di aver LEGALIZZATO il culto cristiano 120
DONAZIONE
SCALA
Testa colossale di Costantino I, del 330 circa. A fianco, affresco nella Basilica dei Santi Quattro Coronati a Roma (XIII secolo) con l’imperatore che dona a papa Silvestro I la tiara del potere: l’atto di donazione è un falso dell’VIII secolo.
guadagnandosi un posto tra i GRANDI della Chiesa. Invece... 121
La LEGGENDA narra che Costantino VINSE a Ponte Milvio dopo aver visto una CROCE nel cielo
I
cristiani ortodossi lo venerano come santo. I cattolici no, ma quasi: un antico vescovo, Eusebio di Cesarea, padre della Chiesa (265340), scrisse di lui ogni bene, definendolo, nella sua Storia ecclesiastica, “imperatore discendente da imperatore, uomo pio discendente da uomo piissimo e in tutto assennatissimo”. Eppure quel campione di virtù visse sempre da bravo pagano, eresse templi agli dèi dell’Olimpo, ammazzò un bel po’ di gente e si convertì al cristianesimo soltanto sul letto di morte. Di più: a battezzarlo fu un vescovo “eretico”. Si chiamava Flavio Valerio Aurelio Costantino, con l’aggiunta di una quindicina di appellativi accessori, quasi tutti a ricordo di imprese militari vittoriose: Pio, Felice, Invitto, Massimo, Gotico, Dacico, Medico, Persico, Germanico, Sarmatico, Adiabenico, Arabico, Armenico e Britannico. Ma nonostante questo lungo elenco tutti lo ricordano come Costantino e basta, al massimo come Costantino I il Grande. Visse dal 274 al 337, 122
regnò sull’Impero romano per 31 anni e fondò una nuova capitale sul Bosforo: Costantinopoli, l’odierna Istanbul (Turchia). Se Costantino è venerato come un quasi-santo, però, non è per quella sontuosa città, ricca di chiese (e di templi), ma per un famoso decreto, con cui l’imperatore “piissimo” e “assennatissimo” sancì la libertà di culto, legalizzando il cristianesimo, che fino a pochi anni prima era stato represso. Quel testo, noto come Editto di Milano, ha poco più di 1.700 anni: infatti fu varato nel febbraio del 313 nell’attuale capoluogo lombardo, allora capitale imperiale d’Occidente. Contemporaneamente un editto identico entrava in vigore in Oriente. Questa, almeno, è la versione corrente dei fatti, scritta su tutti i libri di scuola. «È una versione che distorce la verità», obietta Pier Luigi Guiducci, docente di Storia della Chiesa alla Pontificia università salesiana e alla Pontificia lateranense. «A Milano, nel 313, non accadde praticamente niente e non fu promulgato alcun editto: il cristianesimo era già stato legalizzato due anni prima; Costantino
GRANDE COSTRUTTORE
Mosaico di Santa Sofia (Istanbul), con Costantino (a destra) che dona la città da lui fondata alla Vergine. A sinistra, l’imperatore Giustiniano (VI secolo) offre la Basilica di Santa Sofia.
La sua donazione? Fuori tempo massimo
“A
tini, che per secoli la Chiesa usò appunto per supportare la legittimità dei propri poteri terreni. Ma il documento era un falso, creato nell’VIII secolo. Lo sospettarono acuti pensatori come Arnaldo da Brescia e Nicolò Cusano, ma a denunciare l’apocrifo fu un prete-filologo del Quattrocento, Lorenzo Valla, che accusò il Papato di aver diffuso “favole inventate e ingannevoli, che fanno ingiuria grande a Dio”. Processato dall’Inquisizione, Valla si salvò dal rogo; ma il suo libro, in cui smascherava il falso storico evidenziandone le incongruenze linguistiche, finì all’Indice.
SCALA (2)
LESSING/CONTRASTO
hi Costantin, di quanto mal fu matre / non la tua conversion ma quella dote / che da te prese il primo ricco patre!”. I tre versi sono tratti dal Canto XIX dell’Inferno, nel quale Dante accusa Costantino di essere responsabile del potere temporale della Chiesa e dei guai derivati. L’invettiva nasceva dalla credenza, nel Medioevo molto accreditata, secondo cui l’imperatore aveva lasciato in eredità i suoi beni e i suoi poteri temporali al papa dell’epoca, Silvestro I. Falso storico. A presunta prova della donazione si citava un “testamento”, detto Constitutum Constan-
PONTE FATALE
Sopra, i tetrarchi, gruppo in porfido oggi a Venezia e prelevato dai crociati a Bisanzio nel 1204. A destra, bassorilievo romano che inneggia alla Battaglia di Ponte Milvio del 312.
si limitò a confermare e applicare disposizioni altrui». L’affermazione è sorprendente: su cosa si basa? Rivediamo tutto, partendo da zero. I tetrarchi. Quando Costantino aveva vent’anni l’impero era retto dalla cosiddetta tetrarchia, un’architettura politica inventata nel 286 da Diocleziano. Lo Stato era diviso tra 4 imperatori: due di rango superiore (augusti) e due “vice” (cesari). Roma restava solo un punto di riferimento ideale: il potere vero era altrove. Infatti anche le capitali erano quattro: Milano e Nicomedia (oggi Izmit, in Turchia) per gli augusti; Sirmio (oggi Sremska Mitrovica, in Serbia) e Augusta Treverorum (oggi Treviri, in Germania) per i cesari. Quell’acrobazia istituzionale, che lottizzava il mondo conosciuto fra i vari partiti militari che si contendevano il potere, garantì la pace interna per più di un decennio. Ma nel 305 Diocleziano, augusto d’Oriente, e Massimiano, suo collega d’Occidente, abdicarono. E la lotta per la successione generò una serie di guerre civili che continuò fino al 123
SCALA
L’impero al suo tempo 286 d.C. Diocleziano divide l’Impero romano in quattro settori, affidati a tetrarchi. 293 Costantino viene nominato cesare dall’imperatore Massimiano. 306 Le legioni di Britannia acclamano augusto Costantino, figlio di Cloro. 312 Il 28 ottobre, a Roma, Costantino sconfigge il rivale Massenzio. 313 L’impero è diviso in due: l’Occidente sotto Costantino, l’Oriente sotto Licinio. 324 Costantino batte Licinio ad Adrianopoli e Crisopoli, lo cattura e lo fa uccidere. 330 Da imperatore unico, fonda Costantinopoli sul luogo dell’antica Bisanzio. 336 Fonda Sant’Irene, prima chiesa cristiana a Costantinopoli, e Santa Sofia. 337 Il 22 maggio Costantino muore, ricevendo il battesimo in punto di morte.
Come altri IMPERATORI dell’epoca, non aveva ALCUN DIRITTO al TRONO. Ci arrivò per le sue doti MILITARI 313, quando l’impero trovò un nuovo (incerto) assetto con due imperatori: a Oriente Licinio, un militare di origini contadine, nato nell’odierna Bulgaria; a Occidente appunto Costantino il Grande. Generalissimo. Il neoaugusto, nato a Naissus (oggi Niš, in Serbia), non aveva alcun diritto al trono. Figlio naturale di Costanzo Cloro, cesare di Treviri e poi per breve tempo augusto d’Occidente, si sarebbe dovuto mettere in lista di attesa dietro un manipolo di altri candidati: i figli legittimi di suo padre e quello dell’ex imperatore Massimiano se si fosse applicato il principio dinastico; oppure un certo Flavio Valerio Severo se si fosse scelto di rispettare la volontà di Costanzo Cloro, che aveva nominato successore costui, ignorando i parenti. Ma nella Roma del IV secolo il diritto ereditario era un optional, utilizzato con la stessa frequenza 124
di una gomma da neve in Sahara. E così prevalse la forza bruta: Costantino, acclamato imperatore in Britannia dai suoi soldati, e secondo Eusebio “molto prima da Dio stesso, sovrano universale” (lo scrive nella sua Storia ecclesiastica), calò a sud con un’armata di 100mila barbari e si fece strada a suon di macelli. L’ultimo scontro, poi celebrato come “battaglia di Ponte Milvio”, fu combattuto nel 312 alle porte di Roma contro Massenzio, figlio di Massimiano. Da qui in poi l’epopea costantiniana diventa un mito, dove è difficile distinguere il vero dal falso. Gli autori cristiani, che ce ne hanno tramandato il racconto quasi in esclusiva, anzitutto demonizzano la figura di Massenzio. Eusebio di Cesarea lo definisce “tiranno di Roma”, lo accusa di essere un affamapopoli, un maniaco sessuale e uno stregone sanguinario: “Per scopi magici sventrava don-
VENERABILE BIZANTINO
Sopra, Costantino in un monastero della Cappadocia (Turchia): per gli ortodossi è santo.
Mamma Elena: l’eminenza grigia
BPK/SCALA
RIVALE SCONFITTO
Il dio orientale Mitra: il mitraismo era il culto più diffuso nell’impero prima del cristianesimo. A sinistra, una moneta emessa durante il regno di Costantino.
ne incinte, esplorava viscere di neonati, sgozzava leoni, componeva indicibili invocazioni ai dèmoni”. Eroe buono. Specularmente, negli stessi autori Costantino si trasfigura in una sorta di angelo giustiziere, che fa trionfare il Bene sul Male. Nota a tutti è la leggenda, tramandata dallo stesso Eusebio, della visione che il nostro avrebbe avuto prima della battaglia: una luce in cielo avrebbe disegnato una croce con la scritta In hoc signo vinces (“Con questo segno vincerai”). Allora Costantino fece incidere simboli cristiani su tutte le insegne, attaccò il rivale e lo sbaragliò. Massenzio morì fuggendo, affogato nel Tevere sotto il peso dell’armatura. Era il 28 ottobre 312: da questa data il mondo cristiano fa iniziare la sua marcia finale verso la vittoria. Ma qui occorre mettere alcuni puntini sulle i.
risultato lo ottenne, ma a volte per troppo zelo prese delle cantonate, come quando credette di identificare il Monte Sinai di Mosé nel Jebel Moussa o Gebel Musa (Egitto), dove fondò un monastero che esiste tuttora. Visse dal 248 circa al 329 e non ebbe una vita privata felice: Costanzo Cloro nel 293 la abbandonò per sposare, per motivi politici, una figliastra dell’imperatore Massimiano, Teodora.
SCALA (2)
E
ra cristiana, ma per vent’anni visse more uxorio con Costanzo Cloro, futuro imperatore, formando con lui una coppia di fatto che la morale cattolica di oggi condannerebbe. Era nata forse in Bitinia (Turchia) ma diventò romana, anzi la donna più autorevole del mondo romano, capace di influenzare le scelte del suo potentissimo figlio, Costantino. Venerata come santa dalla Chiesa (nella foto), fu probabilmente lei l’eminenza grigia che ispirò la svolta pro-cristiani del 313. E senza il “probabilmente” fu l’inventrice dell’archeologia religiosa. Pellegrina. Nel 327-28 infatti viaggiò in Medio Oriente, cercando di individuare luoghi e reliquie della vita di Gesù e dell’Antico Testamento. Qualche
Miti da sfatare. Va precisato anzitutto che la famosa battaglia non avvenne al Ponte Milvio (anche famoso per la moda dei lucchetti dell’amore). «In realtà», precisa Guiducci, «lo scontro ebbe luogo a Saxa Rubra, sulla via Flaminia, dove oggi si trova il centro di produzione della Rai. Ponte Milvio c’entra solo perché lì morì Massenzio in fuga». In secondo luogo va detto che non tutti gli autori antichi sono pronti a giurare sull’apparizione della croce in cielo. Lattanzio, scrittore afro-latino dell’epoca, cristiano, sostiene che l’uso di croci sulle insegne fu deciso dopo un semplice sogno. Lo stesso Eusebio ha dubbi sulla versione da lui riferita. E un contemporaneo dei due, Zosimo, bizantino pagano, parla a sua volta di un segno premonitore, ma di natura molto più terrena: prima della battaglia “un numero sterminato di civette volò a raccogliersi sulle mura”. In terzo luogo occorre osservare che la marcia trionfale della croce fu cristiana più di nome che di fatto. Infatti Costantino vittorioso non applicò certamente la legge del 125
SCALA
Probabilmente Costantino fu BATTEZZATO dal vescovo ariano Eusebio di Nicomedia, quando era in PUNTO DI MORTE perdono: esordì sterminando con metodo tutti i figli del rivale sconfitto, sia legittimi che naturali; continuò con la moglie e le concubine; e finì con i consiglieri e gli amici. Poi, dopo due mesi di questa macelleria, lasciò Roma e si insediò a Milano, già capitale dell’augusto Massimiano, dove nel febbraio 313 si incontrò col collega Licinio, imperatore d’Oriente. Editto matrimoniale. Ed eccoci al famoso editto. «Editto presunto», ribadisce Guiducci. «I due imperatori si incontrarono non per concedere la libertà di culto ai cristiani ma per celebrare un matrimonio politico. Licinio prese in moglie Costanza, la sorella di Costantino, come pegno di pace fra i due imperi. In quell’occasione, ma solo incidentalmente, i due si accordarono per confermare un decreto già in vigore, promulgato da un altro augusto d’Oriente, Galerio, che aveva legalizzato il cristianesimo nel 311». Galerio? Chi era mai costui? I libri di scuola non ne parlano quasi. Eppure si tratta di un personag126
gio importante dell’Impero d’Oriente, dapprima cesare subordinato a Diocleziano, poi subentrato a questi come augusto. I cristiani lo odiavano perché lo ritenevano il regista dell’ultima e più dura campagna repressiva contro di loro, quella iniziata nel 303 e passata alla Storia col nome improprio di persecuzione di Diocleziano. Eppure fu proprio l’odiatissimo Galerio a concedere in punto di morte libertà di culto ai cristiani. Il suo decreto (del 311) è detto usualmente Editto di Nicomedia, ma fu firmato a Sardica (l’odierna Sofia, in Bulgaria), dove Galerio giaceva a letto, colpito da una cancrena. Di quell’orribile agonia il cristiano Lattanzio ci dà una descrizione impietosa, parlando di “arti inferiori tutti corrotti”, di “visceri putrefatti”, di “corpo mangiato dai vermi” e di “un fetore che non invadeva solo il palazzo, ma la città”. Fu in quelle condizioni che l’ex boia dei cristiani si arrese al loro Dio. Il solito Eusebio racconta la svol-
MALATO IMMAGINARIO
Un altro episodio agiografico della vita di Costantino: lebbroso (ma poi guarito da papa Silvestro con il battesimo) conforta le donne.
SCALA
A ORIENTE E A OCCIDENTE
L’Arco di Costantino a Roma, eretto per celebrare la vittoria contro Massenzio.
ta così: “Galerio capì ciò che aveva osato infliggere ai fedeli di Dio. Quindi, raccoltosi in se stesso, anzitutto rese grazie al Dio dell’universo; poi, chiamati quanti aveva intorno, ordinò di cessare subito la persecuzione dei cristiani e di spronarli con una legge e un decreto imperiale a edificare chiese e a compiervi le cerimonie d’uso, pregando per l’imperatore”. Galerio morì un mese dopo aver dato questi ordini. Costantino e Licinio ne seguirono le orme solo due anni più tardi. Ma allora, se le cose stanno così, perché Costantino è ricordato come un eroe dell’epopea cristiana? «Perché a scrivere la Storia sono sempre i vincitori», risponde Guiducci. «E Galerio era un perdente, figlio di un mondo al tramonto. Anche Licinio fu un perdente, perché un anno dopo essere diventato cognato del collega di Milano entrò in conflitto con lui e fu sconfitto in battaglia. Così Costantino, vincitore a 360 gradi, ormai sovrano unico dell’impero, fu accreditato come l’artefice di una svolta che in realtà non era sua». Senso pratico. Certo che, anche se non fu il primo alfiere della libertà di culto ma solo il secondo (ex-aequo con Licinio), Costantino favorì i cristiani in ogni modo: rendendosi conto che la nuova religione era ormai radicata e inestirpabile, restituì i luoghi di culto confiscati, concesse al clero esenzioni fiscali, integrò il più possibile la Chiesa con lo Stato, arrivando a convocare di persona un Concilio ecumenico (a Nicea, nel 325). Pose la prima pietra di quella confusione tra potere civile e religioso che dilagò poi nel Medioevo.
Religione a parte, Costantino caratterizzò il suo regno con almeno tre dati: la fondazione di Costantinopoli, l’aumento della spesa pubblica e la redistribuzione dei militari sul territorio (dai confini alle città, con compiti di ordine pubblico). Quest’ultima scelta gli valse le critiche del già citato Zosimo, che scrisse: “Occupò città che non avevano bisogno di protezione, privò di aiuto quelle minacciate dai barbari e procurò a popolazioni tranquille i danni causati dalla soldataglia”. Finale ambiguo. Anche in età avanzata fu spietato come era stato da giovane coi figli di Massenzio: fece giustiziare vari parenti, fra cui il primo figlio Prisco e la seconda moglie Fausta, accusandoli di avere una relazione. E si convertì solo in zona Cesarini, cioè da moribondo. Si fece battezzare da un vescovo in rotta con la Chiesa cattolica, omonimo del suo biografo di Cesarea: Eusebio di Nicomedia, eretico ariano. Dopo la morte di Costantino l’impero fu spartito tra i figli maschi superstiti (Costantino II, Costanzo II e Costante I) e un nipote (Dalmazio). Fra gli eredi fu subito guerra: a volte teologica (Costante era “niceno”, cioè cattolico; Costanzo II ariano), altre volte sul campo (Costantino II fu ucciso in battaglia dai soldati di Costante) o scandita da congiure di palazzo (nel 337 la famiglia fu decimata per una faida interna). Tutti i protagonisti di quegli eventi avevano croci sulle insegne e un motto comune: “Con questo segno vincerai”. • Nino Gorio 127
GALLA PLACIDIA - 392 D.C.
O I Z N I B E M
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SCALA (2)
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DISCENDENTE di imperatori, prigioniera e poi REGINA dei Visigoti, tornata in patria non esitò a mandare A MORTE i rivali per RIPRENDERE il potere
D I PE R F
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MADRE DI RE
A sinistra, medaglione del III secolo che si vuole raffiguri Galla Placidia (a destra) e i suoi figli, Valentiniano III e Giusta Grata Onoria. Il ritratto è incastonato nella Croce di Desiderio (Brescia, Museo di Santa Giulia). Sotto, i Visigoti di Alarico saccheggiano Roma nel 410, in un’incisione del XIX secolo.
veva la bocca piccola e ben modellata come Monica Bellucci, i capelli neri a treccine come Menem, la “santa” dei rasta, e uno sguardo seduttivamente strabico come Nicola Warren, attrice ignota a tutti salvo che ai fan di Tinto Brass. Se fosse vissuta ai nostri giorni, qualcuno l’avrebbe di certo definita un sex symbol; ma Giordane, storico goto di 15 secoli fa, non sapeva l’inglese e la prese un po’ alla larga: si limitò a dire che il marito Ataulfo era “attratto da lei per la nobiltà della stirpe, per la bellezza delle forme e per l’integra castità”. La donna capace di tante doti coniugali si chiamava Galla Placidia: visse dal 392 (circa) al 450 della nostra era e per 12 anni (425-437) guidò l’Impero d’Occidente: non come “moglie di” ma in prima persona, anche se solo in attesa che crescesse suo figlio, Valentiniano III. Che aveva ereditato la corona all’età di 6 anni, quando non sapeva neppure mettere una firma su una pergamena altrui. Placidia non fu la prima né l’ultima donna ai vertici imperiali, ma fu senz’altro la più carismatica, la più colta, talvolta la più crudele.
Arte e potere. Molti la ricordano solo per il mausoleo, decorato da mosaici fiabeschi, che ha lasciato a Ravenna. Ma la mamma di Valentiniano III fu ben più che protettrice delle arti. Fu uno specchio a tutto tondo di tempi turbolenti, che tra congiure politiche, fanatismi religiosi e terremoti etnici preannunciavano il passaggio dall’era romana al Medioevo “barbarico”. Nessuno più di Placidia incarnò quella fase ibrida, lei che, nata bizantina, diventò poi sia imperatrice di Roma sia regina dei Visigoti, che della Città Eterna erano stati i saccheggiatori. Un personaggio pirandelliano? Sì, ma in linea con lo scenario sullo sfondo. Basti dire che in quei decenni il mondo romano, messo alle corde da invasioni continue, riusciva a difendersi dai barbari solo assoldando altri barbari. E che il cristianesimo, diventato da poco religione di Stato, applicava la legge del perdono organizzando vendette contro i pagani. Oppure basti notare che sul trono imperiale sedevano spesso dei bambini, eredi precoci di corone soltanto nominali, mentre il potere vero era in mano a reggenti o a ministri.
Secondo la leggenda, il padre TEODOSIO I morente affidò Galla a SANT’AMBROGIO, vescovo di Milano
INTERPHOTO/ALINARI
Placidia fu parte di questo scenario: anzitutto quando diventò reggente, poi quando, benché nominata “nobilissima” e “augusta” (massimi titoli per il sangue blu romano), continuò a usare come bodyguard dei fidati pretoriani visigoti. E lo fu ancora quando, pur essendo cristiana devota, uccise in modo spietato chi si metteva sulla sua strada. Ma il giudizio di Giordane – che la definì nobile, bella e casta – rifletteva la realtà o nasceva solo dalla “venerazione etnica” di un goto verso la regina dei Visigoti? Al triplice quesito è necessario dare una risposta articolata. Che Galla Placidia fosse votata alla castità, non si può dire: infatti ebbe due mariti (il già citato Ataulfo, re visigoto, e Costanzo III, generale e poi imperatore romano) più forse una relazione extraconiugale con tale Bonifacio, comandante militare della provincia d’Africa. Che fosse bella, invece, sembra vero: oltre a Giordane lo afferma anche un altro autore antico, il bi-
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zantino Zosimo, non sospettabile di piaggeria perché era paganissimo, quindi avversario dell’imperatrice. Che fosse “nobile di stirpe” è pure fuor di dubbio: anzi, se all’epoca fosse esistito il Guinness dei primati, le sarebbe stato assegnato il record del sangue blu di tutti i tempi, e non solo per via dei titoli “nobilissima” e “augusta”. Infatti, sfogliando il suo albero genealogico, tra i parenti stretti si possono contare ben 10 imperatori: il padre (Teodosio I), il nonno materno (Valentiniano I), due zii (Graziano e Valentiniano II), due fratellastri (Arcadio e Onorio), un marito (Costanzo III), un figlio (Valentiniano III) e due nipoti (Teodosio II e Elia Pulcheria). Cattolica convinta. In questa parata di teste coronate, il personaggio più importante fu senz’altro Teodosio I (347-395), detto da alcuni “il Grande” per due motivi. Primo: il papà di Galla Placidia fu l’ultimo sovrano che riuscì a tenere unito l’Impe-
PRIGIONIERA
Dopo il sacco di Roma, Alarico muove verso la Sicilia portando con sé in ostaggio Placidia.
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AUTOREVOLE
Testa marmorea di donna del IV-V secolo: probabilmente l’imperatrice romana.
ro romano, destinato alla sua morte a dividersi definitivamente in due settori, l’Occidente e l’Oriente, retti dai suoi figli Onorio e Arcadio. Secondo: con Teodosio i culti pagani finirono fuorilegge e il cristianesimo, nella sua versione nicena (cioè cattolica), diventò religione di Stato. Una svolta epocale. Placidia, nata a Costantinopoli, conobbe solo di sfuggita suo padre, che visse a lungo lontano da casa, causa guerre continue, e che morì a Milano quando lei aveva tre anni o poco più. Ma fin da bambina la futura imperatrice respirò a pieni polmoni l’atmosfera politico-culturale che Teodosio aveva ispirato. Così da adulta fu poi una strenua sostenitrice dell’unità dell’impero e un’interprete intransigente del cattolicesimo più integralista, che non tollerava la presenza di pagani nell’apparato statale e si dava da fare per cacciarli. Quanto la figlia di Teodosio fosse cattolica lo dicono le lodi che le tributò l’allora vescovo di Ravenna, Pietro Crisologo, autore di una raccolta di 176 Sermones. Al sermone 130 Placidia è citata co-
me “madre dell’impero cristiano perenne e fedele, che nella sua fede, nell’opera di misericordia, nella santità segue e imita la beata Chiesa in onore della Trinità”. Vito Antonio Sirago, biografo moderno dell’imperatrice ed ex docente di Storia romana all’Università di Bari e in altri atenei europei, è più sintetico: «La sua fede», commenta, «rasentava il fanatismo». La tesi di Sirago si basa su vari aneddoti, ora pii e ora feroci, tramandati da fonti antiche. “Di notte si prosternava sul pavimento a effondere orazioni a Dio e si attardava a pregare in lacrime finché i suoi occhi resistevano”, narra Cassiodoro (ca. 490-580), uno degli scrittori più autorevoli dell’epoca romano-barbarica. E Olimpiodoro, storico bizantino del V secolo, riferisce che nel 421 Placidia pretese dal suo secondo marito l’uccisione di un indemoniato, tale Libanio, un mago-piazzista alla Vanna Marchi che vendeva talismani antibarbari. Ma chi educò Placidia a questo cristianesimo estremo, da Inquisizione ante litteram? Non suo padre, morto troppo presto. E nemmeno sua madre (Galla, della nobile dinastia dei Valentiniani) scomparsa ancora prima. Per quanto se ne sa, l’orfanella crebbe all’ombra di Serena, una cugina più anziana, intrigante e ambiziosa, che apprezzava il cristianesimo soprattutto in quanto “partito” vincente. E che perciò amava esibirsi in plateali sfide antipagane: un giorno, narra Zosimo, scippò una collana a una statua di Giunone e se la mise al collo. Parenti serpenti. Questa Serena, che la ragion di Stato aveva dato in sposa al generale Stilicone (un mezzosangue vandalo, “raìs” dell’Impero d’Occidente), sulla scia del marito fece il bello e il cattivo tempo nel mondo romano per 12 anni: intrecciò alleanze di potere, tenne rapporti ambigui con Alarico, re dei Visigoti, combinò matrimoni d’interesse (due anche per Onorio, che era impotente). Ciò mentre lo stesso imperatore d’Occidente si rintanava a Ravenna, promossa capitale solo perché difesa da paludi infestate dalla malaria. In questa sarabanda di giochi di potere, Serena trovò un fidanzato anche per Placidia: suo figlio Eucherio, un ragazzetto di appena 11 anni. Ma la diretta interessata (8 anni) che ne pensava? «Fin
Tardo impero: il potere tinto di rosa
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alla Placidia, imperatrice-mamma, aveva avuto un precedente in sua nonna Giustina, che 50 anni prima di lei si era ritrovata nella sua stessa situazione, cioè vedova in giovane età e madre di un imperatore-bambino (Valentiniano II, incoronato nel
375 a soli 4 anni). Cristiana ariana, quindi eretica, questa Giustina era stata nemica-amica di sant’Ambrogio. Si era, infatti, scontrata col vescovo di Milano per questioni religiose, ma poi aveva fatto causa comune con lui contro un usurpatore della corona, Magno Massimo.
Tutto rosa. Il fenomeno dell’impero al femminile dilagò poi nel V secolo: se in Occidente dominò Galla Placidia, a Oriente il potere reale fu prima di sua cognata Elia Eudossia, nominata “augusta” nel 400, e poi di sua nipote Elia Pulcheria, che in teoria fu solo reggente
dal 414 al 416 (per conto del fratello Teodosio II) ma di fatto guidò l’impero fino al 453. Negli anni di potere, Pulcheria si contraddistinse per la sistematica epurazione dei pagani dall’apparato statale; perciò cattolici e ortodossi la venerano come santa.
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dall’infanzia», risponde Sirago, «deve aver provato un preciso rifiuto per quanto si tramava sotto i suoi occhi da parte di una cugina adulta che mirava con chiarezza a rinsaldare le radici del suo casato ai danni degli eredi diretti di Teodosio». Ma l’erede diretta, cioè Placidia, era destinata a vincere la gara, anche se per vie tortuosissime. A dare una prima svolta alla vita della futura imperatrice fu un golpe militare, che nel 408 depose e poi portò al patibolo Stilicone, accusato di essere troppo tenero coi Visigoti che scorrazzavano per l’Europa. Da allora gli eventi precipitarono: dopo Stilicone fu ucciso suo figlio Eucherio; Alarico approfittò del caos che seguì e calò su Roma; il Senato accusò Serena di averlo chiamato e la processò per tradimento. Ed ecco un colpo di scena, il primo di molti: Placidia, chiamata nel collegio giudicante, votò la condanna a morte di sua cugina. Perché una scelta così dura e ingrata? Forse per dare spazio a Onorio, che regnava solo sulle zanzare delle paludi. O forse per una rivincita covata da tempo su una tutrice soffocante. O solo perché Placidia fa rima con perfidia, cioè per un’innata tendenza alla cattiveria della nostra eroina. In ogni caso, la “giustiziera” di Serena non ricavò vantaggi dal suo tradimento. Infatti Alarico attaccò tre volte Roma, la terza la saccheggiò (410) e quando se ne andò, diretto in Sicilia, nel suo bottino c’era anche Placidia prigioniera. E quello fu il secondo colpo di scena. Salva per amore. In Sicilia però Alarico non arrivò mai: morì in Calabria, fu sepolto lì (v. riquadro qui sotto) e lasciò la corona a un cognato alto e biondo, Ataulfo. Che risalì l’Italia, puntò sulla Gallia e strada facendo – terzo colpo di scena – si innamorò della bella prigioniera. Lei ricambiò. Finale della favola: nel 413, giunti in Provenza, i due si sposarono e lui le regalò cento vassoi di oro e di
SCALA
Durante le nozze ATAULFO restituì alla sua SPOSA parte del BOTTINO del sacco di Roma
pietre dure, frutto del sacco di Roma. Fu così che la sorella di un imperatore romano in carica diventò regina dei Visigoti. Di solito, le fiabe si chiudono con un “e vissero tutti felici e contenti”. Ma per le storie vere non è così: infatti il sogno d’amore di quella strana coppia, che era anche un sogno politico d’integrazione romano-barbarica, finì male. L’unico bimbo nato dal matrimonio, primo goto della Storia a chiamarsi Teodosio, morì in fasce. E Ataulfo fu ucciso nel 415 da connazionali estremisti, contrari alla convivenza col mondo romano. Giordane racconta che a Bisanzio l’assassinio di Ataulfo fu salutato da grida di giubilo. Una nuova vita. Rimasta vedova, Galla Placidia ripiombò per un po’ nella condizione di prigioniera, ma poi fu rimandata al fratellastro Onorio nel 416. Per la regina dei Visigoti iniziava una nuova vita, in una nuova città (Ravenna), presto anche con un nuovo marito (il futuro imperatore Costanzo III) e nuovi figli (Onoria e Valentiniano). Tutto
LO ZIO IMPERATORE
Una testa marmorea forse di Valentiniano II, imperatore dal 375 al 392 e zio di Placidia.
Il mistero della tomba di Alarico
C
“
upi a notte canti suonano / da Cosenza sul Busento, cupo il fiume gli rimormora / dal suo gorgo sonnolento”: inizia così La tomba nel Busento, ode del tedesco August von Platen (1798-1835), tradotta in italiano da Giosuè Carducci. A ispirare quei versi era il
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funerale di Alarico, il re visigoto che trattò Galla Placidia come preda di guerra. Secondo la tradizione, per seppellire il sovrano i soldati goti deviarono per una notte il fiume Busento, in Calabria; poi scavarono una fossa nel suo letto e vi calarono la salma del re a cavallo, oltre a
25 tonnellate d’oro e 150 d’argento. La ballata racconta tutto in questo modo: “Dove l’onde pria muggivano / cavan, cavano la terra; / e profondo il corpo calano / a cavallo, armato in guerra”. Caccia grossa. Da secoli archeologi e tombaroli cercano di
localizzare il sepolcro di Alarico, e ogni tanto qualcuno crede di averlo trovato. Fra questi i fratelli Natale e Francesco Bosco, secondo cui il re sarebbe sepolto a Mendicino, vicino a Cosenza. Finora però la Soprintendenza di Reggio Calabria ha negato i permessi di scavo.
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Nel disegno in basso, Ataulfo, re dei Visigoti e cognato di Alarico, chiede la mano alla bella prigioniera romana. Qui sotto, moneta d’oro, chiamata solido, emessa dalla zecca di Ravenna nel V secolo con l’effigie di Galla.
pitale e infine lo decapitò in un circo. Mai Placidia aveva fatto tanto rima con perfidia. Un trionfo a Roma e l’incoronazione di Valentiniano III, imperatore-bambino, conclusero l’impresa. Dopo la lugubre fine di Giovanni, Galla Placidia restò al potere per 25 anni, i primi 12 ufficialmente, in nome di suo figlio minorenne, gli altri 13 come eminenza grigia che operava dietro le quinte. Durante il suo regno riempì Ravenna di chiese (come quella di San Giovanni Evangelista), assistette all’invasione dei Vandali in Africa, tentò invano di tenere uniti l’Oriente e l’Occidente e fece fronte a vari militari che cercavano di rubarle fette di potere. Morì e fu sepolta a Roma nel 450, un quarto di secolo prima che l’Impero d’Occidente si spegnesse a sua volta (476), dopo una lunga agonia. La salma dell’imperatrice non tornò mai a Ravenna: nel mausoleo a cui era destinata – e che probabilmente lei stessa si era fatta costruire – da quasi 16 secoli un pacifico Buon Pastore, dall’alto di un mosaico murale, fa la guardia a sei pecorelle e a un sarcofago vuoto. Sorride e par che dica: Sic transit • gloria Gallae. Nino Gorio
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MATRIMONIO MISTO
pareva avviarsi alla normalità, ma non fu così: Costanzo, che Placidia non amava, morì dopo 5 anni di matrimonio e dopo solo 7 mesi di governo in tandem con Onorio. Era di nuovo sola: anzi, sempre più sola perché nel 423 Onorio, convinto che la sorella tramasse contro di lui, la esiliò dall’Italia. Lei prese i figli, si imbarcò e si rifugiò presso i parenti di Bisanzio. Ma l’esilio durò poco, perché (nuovo colpo di scena) l’“imperatore delle zanzare” morì di idropisia pochi mesi dopo e il Senato di Roma elesse suo successore uno dei più stimati notai della città, Giovanni Primicerio. Subito, dal lontano Bosforo, Galla Placidia rivendicò la corona per suo figlio Valentiniano e giurò vendetta contro l’“usurpatore”. L’ex orfanella era giunta all’ultima tappa della lunga strada verso il potere assoluto. Tornò in Italia alla testa di un esercito, piazzò il suo quartier generale ad Aquileia e inviò a Ravenna un ufficiale, Aspare, per catturare Giovanni vivo. Poi, narra l’egiziano Olimpiodoro, tagliò al rivale la mano destra, lo legò su un asino, lo fece sfilare così per le vie della ca-
GIUSTINIANO - 482 D.C.
Con lui l’Impero d’ORIENTE toccò il massimo splendore. Ambizioso, spietato e INTELLIGENTE, rese più fastosa COSTANTINOPOLI e riconquistò parte dell’Occidente.
Sopra di lui
SOLO DIO N
FLORIDO E LONGEVO
LESSING/CONTRASTO
A sinistra, mosaico dell’imperatore Giustiniano nella Basilica di San Vitale a Ravenna (VI secolo). A destra, moneta d’oro imperiale.
é alto né basso, di aspetto piacente, florido, con un bell’incarnato. Così assicura lo storico Procopio, principale fonte sulla vita di Giustiniano. E in effetti, a guardarlo, ormai cinquantenne, nel famoso mosaico nella Basilica di San Vitale a Ravenna (vedi foto a sinistra), drappeggiato in una sontuosa clamide e circondato dal suo staff imperiale, con le guance rubiconde e i grandi occhi vigili, sembra un giovanotto. Un giovanotto con l’aureola della divinità. Indistruttibile. A quel tempo Giustiniano sedeva da cinque anni sul trono imperiale di Bisanzio, cui era asceso in età matura. E il suo regno era ancora lontano dall’epilogo. Di certo, gli va riconosciuta una forte fibra: regnò a lungo, dal 527 al 565, ne combinò di tutti i colori – si ammalò pure di peste, nel 542 – e raggiunse comunque la veneranda età di 83 anni. Era uno stakanovista e un asceta. Dormiva una o due ore per notte. Il suo cervello era in perenne ebollizione, malgrado seguisse una dieta poverissima, vegetariana: pinzimonio e poco altro, secondo il suo tendenzioso biografo. Un suo funzionario, Giovanni Lido, lo definì per questo “il più insonne di tutti gli imperatori”. E Procopio, che lo detestava ma era costretto a elogiarlo nelle cronache ufficiali, quando poteva sbottonarsi, come nei suoi Anekdota, si sfogava dipingendolo, anche per questo suo iperattivismo, come il diavolo in persona. Altri osservatori ce lo descrivono invece equilibrato, gentile, poco incline agli eccessi, persino ti-
mido. Ciò non toglie che fosse un autocrate, spietato e vendicativo, capace di feroci repressioni. Riformatore compulsivo, fece e disfece in tutti i campi, dal diritto alle campagne militari, alla teologia, al fisco, all’edilizia. Tutti concordano nel dire che fu uno degli ultimi grandi interpreti della grandeur romana: un capo ambiziosissimo, che osò laddove nessuno dei predecessori aveva osato, talvolta con lungimiranza. Flavio Pietro Sabbazio Giustiniano era nato nel 482 (o nel 483) da una povera famiglia di contadini dell’Illirico, a Tauresium, in una regione che allora si chiamava Dardania e oggi Macedonia. Di lui si prese cura lo zio Giustino, alto ufficiale dell’esercito e poi imperatore dal 518. Giustino, che non aveva eredi, puntò tutto sul nipote. Ne seguì un’adeguata formazione intellettuale, la carriera militare, l’apprendistato a Costantinopoli, metropoli multietnica. Il giovane campagnolo ne fu talmente affascinato, che praticamente non si mosse più di lì, dal palazzo di Hormisdas e poi dal Gran Palazzo, al contrario della futura consorte, l’inquieta Teodora, che fin da giovane aveva girato il mondo con animo da avventuriera. Teologo e giurista. Non sappiamo con certezza quali siano stati i suoi studi, ma l’università e la biblioteca di Bisanzio erano già molto quotate a quei tempi e possiamo dedurre, dalla passione che Giustiniano mostrò per tutta la vita per le discussioni giuridiche e dottrinarie, che si sia formato in ambito giuridico e teologico. «Sua arena e palestra», ha scritto lo storico Giorgio Ravegnani, furono «i testi 135
di obar Long
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RICONQUISTE
Franchi
Bavari
Burgundi
Avari Bulgari Gepidi
ti go tro Os
Visigoti
Vandali
Nella cartina, le riconquiste di Giustiniano (fra parentesi le date in cui avvennero) che hanno ridisegnato i confini dell’impero (sottolineati dalla linea rossa).
Ponto Illirico
Asiana
Vandali
ILLUS. M. PATERNOSTRO
Impero all’avvento di Giustiniano (527)
Egitto
Ex Regno dei Vandali (533-534) Ex Regno degli Ostrogoti (535-554) Parte del Regno iberico dei Visigoti (533) Altri territori Impero alla morte di Giustiniano (565)
Era un legislatore RAFFINATO. E passava intere NOTTI a Bizantinismi
LESSING/CONTRASTO
B
izantinismo è oggi sinonimo di cavillosità, di ragionamento fumoso e ozioso. Ma, se c’è qualcosa che davvero non possiamo rimproverare all’operazione giustinianea di riscrittura del diritto e, in generale, alla mentalità imperiale tardoantica, è l’indulgere ai cosiddetti bizantinismi, specie quelli giuridici. È un luogo comune da sfatare, «una falsa credenza che ha due matrici», spiega Silvia Ronchey. «Da un lato nasce dalle maldicenze del papato e del mondo cattolico medievale, in polemica con lo Stato bi-
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zantino che fu laico e aveva estromesso la Chiesa dal potere secolare per undici secoli». Propaganda. «Li si dipingeva come machiavellici, capaci di tendere tranelli ed essere doppi. Dall’altro lato, il concetto di bizantinismo torna in auge con la cultura decadente dell’800 francese e italiana, come atmosfera mentale ed estetica. È un mito fin-de-siècle. Ma la legislazione giustinianea è tutt’altro che cavillosa: i suoi obiettivi sono molto concreti e pragmatici», conclude la bizantinista.
Vai col greco
S
e oggi la lingua liturgica dei cristiani ortodossi è il greco e non il latino, si deve in parte a Eraclio I (575641). Di cultura greca, figlio di un generale
CENSURATO
Sotto, il palazzo di Teodorico nella Basilica di Sant’Apollinare in Classe (Ravenna): Giustiniano fece coprire con i tendaggi i personaggi della corte ostrogota. Restano alcuni particolari sfuggiti alla “censura” (nel tondo).
e generale a sua volta, prese il potere nel 610 dopo aver assediato Costantinopoli, sostenuto dalla popolazione contro il rivale Foca. Avviò una riforma dello Stato
imponendo il greco come lingua ufficiale: da allora l’imperator e Augustus assunse il titolo di basileus, impiegato prima dai Persiani, che lui sconfisse.
degli storici, le raccolte di rescritti (pareri legali, ndr) imperiali e il patrimonio legislativo e giuridico romano». Sappiamo anche che al greco, lingua dominante nell’Impero d’Oriente, preferiva il latino. Nel 521raggiunse il rango di console e cominciò a prepararsi alla successione al trono. Aveva 38 anni ed era ancora scapolo. Ma proprio in quegli anni conobbe la donna di cui si innamorò e che avrebbe sposato: Teodora. Di quasi vent’anni più giovane, attrice (dunque una poco di buono per la morale di allora) ed ex meretrice, non avrebbe potuto aspirare al patriziato e tantomeno alla corona imperiale. Ciò dimostra che l’asceta frequentava anche bassifondi e
teatri, che aveva dunque costumi da parvenu: pur inurbato da anni, il futuro dominus non si era ancora integrato con l’élite. Per sposare Teodora riformò la legge sui matrimoni, che vietava agli uomini di alto rango di sposare serve o attrici. Per compiacerla, abolì i lupanari e prese altre iniziative a favore delle donne. Insieme formarono una coppia di ferro. «In pratica, una diarchia», dice la bizantinista Silvia Ronchey. Forse l’ex teatrante non si immischiava nelle questioni di politica estera e tributaria, ma su tutto il resto interveniva eccome. Legge vivente. Giustiniano operò nel solco di Diocleziano, Costantino e Teodosio I, con dedizione al potere assoluto. A dire il vero, sognò ancora più in grande: volle ricostituire l’unità dell’Impero romano e affermare la restaurazione degli antichi dominii (restitutio) attraverso un cesaropapismo estremo. L’autorità dell’imperatore divenne volontà di Dio: nessun’altra poteva superarla, nemmeno quella del vescovo di Roma. Le leggi dell’imperatore erano ispirate da Dio e Giustiniano divenne la fonte di tutta la legge, una “legge vivente”. Anche l’espansionismo bellico trovò una giustificazione nella fede: si trattava di estendere anche
discutere sui dogmi TEOLOGICI. Eppure impose la fede con la forza
La riforma più duratura: il diritto
L
’impresa più importante e immortale di Giustiniano è, assieme alla fondazione dell’architettura bizantina, il riordino e la razionalizzazione dei vari codici giuridici promulgati prima di lui: una riforma che pone le basi del diritto moderno europeo. Poco dopo essere stato eletto imperatore, nel febbraio
138
del 528 d.C., insediò una commissione presieduta dal giurista Triboniano con l’incarico di operare una scelta ragionata ed emendata delle costituzioni (le disposizioni imperiali) ancora vigenti classificate per soggetto. Il codice dell’impero. A una prima edizione, il Codex Iustinianus, apparso
nel 529, fece seguito, nel 534, una seconda stesura revisionata e integrata con le nuove leggi (le Novelle) emanate sempre da lui (in tutto ne promulgò 150): era il Corpus iuris civilis, che divenne nel tempo una pietra miliare della civiltà europea. «Attraverso Bisanzio», argomenta la bizantinista Silvia Ronchey,
«sopravvisse il diritto romano, che altrimenti sarebbe decaduto. E che invece fu utilizzato per amministrare una sorta di commonwealth ante litteram sviluppatosi proprio attorno al diritto romano. Persino l’Impero ottomano lo manterrà, come diritto consuetudinario».
alle terre riconquistate la religione cristiana liquidando ogni forma di dissenso. Coerente con l’obiettivo di riunificare l’impero nel nome del cristianesimo, Giustiniano rielaborò e razionalizzò i codici del diritto romano (una giungla di leggi) con una riforma in due tempi. Fu la più epocale delle sue riforme (v. riquadro in basso a sinistra). All’unità nel diritto doveva corrispondere quella della fede e Giustiniano perseguì l’obiettivo con le buone e, più ancora, con le cattive. Perseguitò pagani, ebrei ed eretici, ricorrendo alla pulizia etnica. Si mostrò più tollerante solo con i monofisiti, i seguaci della dottrina secondo cui Cristo ha una sola natura, quella divina; ma solo perché li proteggeva sua moglie. Praticò alla fine una sorta di realpolitik di coppia, favorita da un amore coniugale che non venne mai meno (Teodora lo precedette di molto nella morte e lui la pianse e onorò sino alla fine). Nel contempo si impegnò a sacralizzare la sua figura, moltiplicando le immagini in cui si assimilava a Cristo, assumendo il titolo di philochristos (“Amico di Cristo”) e rendendo opulento e solenne il cerimoniale di corte. Ma la sua megalomania e il culto della personalità si espressero al massimo nell’edilizia. Architetto. Giustiniano fece edificare 96 chiese, prima fra tutte la nuova Basilica di Santa Sofia, sopra le macerie lasciate dalla rivolta popolare del 532, che distrusse l’intera città. Esempio insuperato di magnificenza, aveva i soffitti rivestiti d’oro zecchino e la sua cupola è considerata la madre di tutte le cupole, l’inizio di un nuovo stile architettonico. Ma le spese di realizzazione, unite ai costi delle campagne belliche, dissanguarono l’impero. Bisanzio si svenò per sottrarre l’Africa ai Vandali, riconquistare la Spagna ai Visigoti e riprendersi l’Italia MARITTIMI
L’ingresso del porto di Classe, fin dal tempo di Augusto il più importante sull’Adriatico, nei mosaici di Ravenna.
Sotto tortura
G
iustiniano disciplinò anche torture e menomazioni nel suo Corpus legislativo. I prigionieri di guerra si potevano torturare con l’abbacinamento (le vittime, private delle palpebre, erano esposte al sole pieno fino ad accecarle). Basilio II (imperato-
re bizantino a cavallo di fine millennio) sottopose a questo trattamento 10mila bulgari! Gli stessi imperatori potevano subire la stessa sorte: succedeva che, se venivano deposti, per escluderne il ritorno venissero mutilati di occhi, naso, lingua.
Ricostruzione del cantiere per i mosaici ravennati, realizzati fra V e VI secolo.
NATIONAL GEOGRAPHIC STOCK
LESSING/CONTRASTO
Si narra che durante l’edificazione di SANTA SOFIA Giustiniano distribuisse MONETE nel cantiere per invogliare gli operai a LAVORARE più alacremente
ostrogota. Sbilanciato sul fronte occidentale, l’impero si espose agli attacchi dei Bulgari e soprattutto dei Persiani. Solo il genio e la pervicacia di condottieri come Belisario e Narsete evitarono all’imperatore cocenti disfatte. In bancarotta. Né le numerose riforme amministrative, né la finanza creativa del geniale ministro Giovanni di Cappadocia bastarono a compensare l’aumento delle spese e il calo delle entrate dovute a clientelismi, privilegi e corruzione. I cataclismi naturali, le carestie, le epidemie di peste che flagellarono Costantinopoli e i territori balcanici in quei decenni incrinarono definitivamente l’immagine sacra dell’Augusto. Erano interpretati come segni di avversità celeste dalle superstiziose popolazioni dell’epoca. E contribuirono alla sollevazione del 532 che portò alla distruzione di Bisanzio. In quel momento Giustiniano pensò di darsela a gambe: fu Teodora a richiamarlo a un comportamento più consono alla dignità imperiale. Ma la sua figura, tra luci e ombre, resta associata a un progetto fragile, destinato a dissolversi in fretta, come difatti avvenne dopo di lui. • Dario Biagi 139
Generali valorosi, intellettuali, politici illuminati (e non), ma soprattutto cittadini. “Civis romanus sum” era la frase ripetuta con orgoglio, per dichiarare uno status sociale, ma anche il senso di appartenenza a quella civiltà che avrebbe saputo conquistare il mondo intero. A cura di Andrea Frediani
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ALAMY
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I GR ANDI
ROMANI
GLI ALTRI PROTAGONISTI
Menenio Agrippa
Catone il Censore
Tiberio e Gaio Gracco
Chi era: eletto console nel 503 a.C., trionfò sui Sabini. Nel 494 a.C., a Roma, la tensione tra patrizi e plebei esplose nella rivolta della plebe, che si asserragliò sul Monte Sacro, ma Agrippa riuscì a sedare gli animi. Perché ha influenzato la storia di Roma: nel suo celebre apologo rivolto alla plebe paragonò l’ordinamento sociale romano al corpo umano, dove ogni singola parte deve collaborare con l’altra per il buon funzionamento dell’insieme. Raccontò come le membra, indispettite perché lavoravano in funzione del ventre – che si limitava a consumare senza produrre – non fecero più arrivare il cibo alla bocca, ma poi furono prese da sfinimento. Agrippa dimostrò così che il ventre (il senato) non era inutile, perché ridistribuiva quel che riceveva dando vigore alle membra (il popolo). Successi: ristabilì la concordia tra patrizi e plebei. Insuccessi: la sua opera di mediatore ebbe un successo solo temporaneo. Punti forti: doti oratorie. Punti deboli: come tutte le figure semileggendarie, appare fin troppo idealizzato. Si disse di lui: “Ugualmente caro al patriziato e alla plebe” (Tito Livio). Se avesse raggiunto il suo scopo: le tensioni tra senato e plebe non sarebbero riesplose in seguito, portando alle guerre civili di fine repubblica.
Chi era: Marco Porcio Catone raggiunse il consolato nel 195 a.C. attraverso i suoi successi militari in Spagna e il relativo trionfo. Ricoprì la carica di censore (184 a.C.) rivelandosi un inflessibile moralizzatore, avversò gli Scipioni e i fautori della diffusione della cultura greca, contrastando ricchezza e lussi e propugnando una vita austera e frugale. Perché ha influenzato la storia di Roma: la sua difesa dei costumi degli antichi contribuì ad attenuare l’influenza greca e orientale che prendeva sempre più piede nell’Urbe, assicurando la sopravvivenza di un’identità romana. Successi: convinse i senatori che Cartagine andava distrutta, cosa che avvenne tre anni dopo la sua morte. Insuccessi: non riuscì a impedire che la cultura greca si diffondesse in tutti i livelli della società romana. Punti forti: una grande dirittura morale. Punti deboli: non faceva nulla per rendersi bene accetto, esponendosi ad accuse di tirchieria e di maltrattamenti degli schiavi. Si disse di lui: “Catone dichiarava con inestinguibile odio che Cartagine doveva essere distrutta, anche quando si deliberava su un altro argomento” (Floro). Se avesse raggiunto il suo scopo: Roma sarebbe rimasta impermeabile agli influssi stranieri.
Chi erano: loro madre era Cornelia, figlia di Scipione l’Africano. Tiberio, da tribuno della plebe (133 a.C.) fece approvare una legge per la redistribuzione delle proprietà terriere e del demanio ai contadini. Finì linciato in Campidoglio. Il suo programma politico fu ripreso dal fratello minore, Gaio, che anch’egli da tribuno della plebe (123 e 122 a.C.) propose più ampie riforme. Non rieletto per un terzo mandato, una volta persa l’inviolabilità fu eliminato come nemico dello Stato. Perché hanno influenzato la storia di Roma: per la prima volta il senato perse il monopolio del potere a Roma. Successi: portarono il tribunato della plebe al vertice delle cariche dello Stato. Insuccessi: le loro idee rimasero in parte sulla carta. Punti forti: grandi oratori e demagoghi. Gaio, ben più del fratello maggiore, mostrò spiccate doti politiche. Punti deboli: radicali, furono accusati di tirannia. Si disse di loro: “Questa conclusione della vita, questa conclusione della morte ebbero, per aver fatto cattivo uso della loro superiore intelligenza” (Velleio Patercolo). Se avessero raggiunto il loro scopo: lo strapotere del patriziato sarebbe stato ridimensionato e gli altri popoli italici avrebbero conseguito la cittadinanza romana senza bisogno di una guerra.
fine VI secolo-493 a.C.
234-149 a.C.
163 ca.-133 a.C. / 154-121 a.C.
ALINARI
ALINARI
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Gaio Mario
Pompeo Magno
Cicerone
Mecenate
Chi era: si fece strada a gomitate nella politica romana, percorrendo l’intero cursus honorum fino a conseguire per sette volte la carica di console. I ripetuti trionfi militari lo spinsero a contendere a Silla il comando della guerra in Asia contro Mitridate. La guerra civile che ne derivò lo costrinse a fuggire. Tornò in assenza del rivale ed espugnò Roma dopo un duro assedio, rendendosi protagonista di massacri che terminarono solo con la sua morte. Perché ha influenzato la storia di Roma: a Mario è attribuita la riforma dell’esercito che consentì ai nullatenenti di accedere alla carriera militare, sostituendo forze armate professionali alla milizia temporanea cui era obbligato ciascun cittadino romano. Successi: pose fine alla lunga guerra giugurtina; inflisse sconfitte decisive ai Germani Cimbri e Teutoni. Insuccessi: perse il confronto a distanza con il suo avversario politico Silla. Punti forti: fu il campione del popolo contro l’oligarchia aristocratica. Punti deboli: fu un politico scarsamente dotato e un uomo privo di moderazione. Si disse di lui: “Non sarebbe facile dire se sia stato più utile in guerra o più rovinoso in tempo di pace” (Tito Livio). Se avesse raggiunto il suo scopo: avrebbe anticipato la dittatura di Silla e di Giulio Cesare.
Chi era: militare e politico, è stato prima alleato poi avversario di Cesare. Fu un generale precoce e celebrò il trionfo già a 25 anni. Conseguì vittorie in Spagna sui ribelli guidati da Sertorio, sugli schiavi di Spartaco e sui pirati. In Oriente chiuse la partita con Mitridate e ingrandì enormemente il territorio di Roma. Fu ucciso da oscuri cortigiani in Egitto. Perché ha influenzato la storia di Roma: risolse il secolare problema della pirateria e Roma divenne florida perché lui rese il Mediterraneo “mare nostrum”. Successi: vittorie su tutti i fronti, dall’Africa all’Oriente, spesso sfruttando il lavoro di chi lo aveva preceduto (Metello, Lucullo e Crasso). Insuccessi: si rivelò inferiore a Cesare mancando il colpo risolutivo a Durazzo e finendo sconfitto a Farsalo. Punti forti: grande competenza militare e ottime capacità organizzative. Punti deboli: ricercava l’approvazione accontentandosi di essere apprezzato, senza esercitare la sua autorità. Si disse di lui: “I capelli [...] e gli occhi conferivano al suo sguardo una somiglianza, più supposta che reale, con [...] Alessandro Magno. Perciò molti [...] si riferivano a lui con questo nome” (Plutarco). Se avesse raggiunto il suo scopo: se avesse sconfitto Cesare, forse la repubblica sarebbe stata afflitta da guerre civili ancora per lunghi decenni.
Chi era: avvocato e oratore, come console (63 a.C.) difese la repubblica dalla minaccia di Catilina. Si rifiutò di sostenere il primo triunvirato e durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo si barcamenò tra le due fazioni. Morto Cesare, entrò in contrasto con Marco Antonio che, accordatosi con Ottaviano e Lepido nel secondo triunvirato, ne pretese la morte. Finì ucciso a Formia dagli scagnozzi di Antonio. Perché ha influenzato la storia di Roma: i suoi scritti sono divenuti la pietra di paragone con cui si sono misurati gli intellettuali romani delle epoche successive. Creò un lessico latino in ambito filosofico. Successi: contribuì alla diffusione della cultura, quella greca in particolare. Fece fallire la congiura di Catilina e mandò all’esilio il corrotto governatore siciliano Verre. Insuccessi: non riuscì a impedire la deriva monarchica. Punti forti: intelligenza e cultura superiori, eccezionale arte oratoria. Punti deboli: troppo prudente, vanitoso e ondivago. Si disse di lui: “La morte di Cicerone suscita anzitutto compassione; un vecchio pauroso trasportato su e giù dai servi, un vecchio che per sfuggire alla morte cerca di nascondersi da chi gli dà la caccia e [...] poi gli taglia la testa” (Plutarco). Se avesse raggiunto il suo scopo: Roma sarebbe rimasta una repubblica.
Chi era: amico e consigliere di Augusto, fu quasi un ministro della propaganda dell’imperatore, il primo che si ricordi. Creò un circolo letterario con i maggiori esponenti della cultura dell’epoca, che trasformò in cantori della gloria di Roma e della famiglia imperiale. Agì come reggente di Augusto quando questi era lontano. Perché ha influenzato la storia di Roma: favorì l’affermazione di poeti come Virgilio, Orazio e Properzio, fu fondamentale per consolidare il potere di Augusto. Il suo atteggiamento verso le arti costituì un modello per i secoli futuri, tanto da essere definito “mecenatismo”. Successi: come diplomatico favorì il temporaneo accordo tra Ottaviano e Antonio durante la guerra civile. Insuccessi: si cimentò nella composizione di opere letterarie ma, a quanto pare, con scarso successo. Punti forti: grandi capacità diplomatiche e amministrative. Punti deboli: era ciarliero, e questo gli costò, negli ultimi anni, l’amicizia di Augusto. Si disse di lui: “Si era guadagnato l’affetto di Augusto, nonostante si trovasse a doverne contenere l’impulsività, ma era benvoluto anche da tutti gli altri [...] non perse mai il senso dell’equilibrio” (Dione Cassio). Se avesse raggiunto il suo scopo: forse Augusto avrebbe avuto un amico negli ultimi amari anni di regno.
157-86 a.C.
106-48 a.C.
106-43 a.C.
68 ca. a.C.-8 d.C.
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SCALA
SCALA
Seneca
Agrippina Minore
Traiano
Aureliano
Chi era: spagnolo, raggiunse una notevole influenza già durante il regno di Caligola, dal quale venne esiliato. Fu richiamato e nominato precettore di Nerone. Divenne ministro e consigliere dell’imperatore, prima di cadere nuovamente in disgrazia e ritirarsi a vita privata. Tre anni dopo l’uscita di scena fu raggiunto dall’accusa, forse ingiusta, di aver cospirato contro Nerone, e costretto al suicidio. Perché ha influenzato la storia di Roma: esercitò a lungo il controllo sulla natura instabile di Nerone. Successi: contribuì non poco alla guida dello Stato. Insuccessi: l’invadenza lo rese inviso all’imperatore. Punti forti: la sua produzione letteraria, soprattutto in ambito filosofico, è vastissima, e imprescindibile nell’apparato culturale dell’antica Roma. Punti deboli: l’intraprendenza politica troppo spiccata per un uomo di lettere. Si disse di lui: Caligola “disprezzava lo stile alquanto sottile ed elegante, tanto da arrivare a dire che Seneca, allora particolarmente in auge, scriveva pure e semplici ‘prove da concorso’ e che le sue opere erano costruzioni di ‘sabbia senza calce’” (Svetonio). Se avesse raggiunto il suo scopo: forse Nerone avrebbe compiaciuto il senato mantenendo il trono ed evitando la guerra civile che portò al potere i Flavi.
Chi era: figlia di Germanico e di Agrippina Maggiore, sposò Domizio Enobarbo e venne poi esiliata perché sospettata di congiurare contro l’imperatore Caligola, suo fratello. Riabilitata, si sposò di nuovo, eliminando, si disse, il marito per ereditarne i beni. Convolò a nozze anche con lo zio, l’imperatore Claudio, che spinse ad adottare il figlio Nerone. Poiché il legittimo erede al trono era il figlio di Claudio, Britannico, Agrippina avvelenò il consorte aprendo a Nerone la strada per la successione. Ma il figlio, insofferente per la sua invadenza, la eliminò, celebrandone poi la scomparsa con grandi feste. Perché ha influenzato la storia di Roma: nel favorire l’ascesa di Nerone, provocò indirettamente la fine della dinastia Giulio-Claudia. Successi: fu lei a controllare l’impero durante la minore età del figlio. Insuccessi: Nerone le sbarrò la strada in ogni modo. Punti forti: l’assenza di qualsiasi scrupolo. Punti deboli: un’eccessiva ambizione, che la privò del senso della misura. Si disse di lei: “Toh, non mi ero mai accorto di aver avuto una madre così bella!” (Nerone, nell’osservare il cadavere della madre appena fatta uccidere). Se avesse raggiunto il suo scopo: sarebbe stata lei la vera monarca di Roma. Pur negativa, fu una figura femminile importante.
Chi era: imperatore dal 98 d.C., portò l’impero alla massima espansione conquistando la Dacia e l’Impero partico, le province di Assiria, Armenia, Arabia e Mesopotamia. Fu grande condottiero e statista. A Roma, molte opere architettoniche e ingegneristiche portano il suo nome: mercati, foro, acquedotto e terme. Perché ha influenzato la storia di Roma: conquistando la Dacia (Romania), ne condizionò lingua e usi. Successi: sconfisse Decebalo, uno dei più determinati nemici dei Romani. Insuccessi: la conquista della Mesopotamia si rivelò effimera. Alla sua morte, l’impero era squassato da numerose rivolte. Punti forti: equilibrio, senso dello Stato e capacità di farsi benvolere da tutti. Punti deboli: secondo i cronisti, era incolto, dedito al vino e ai ragazzi. Si disse di lui: “Non era invidioso, né fece assassinare alcuno, ma onorò ed esaltò tutti gli uomini buoni, senza eccezione, e per questo non temette né odiò alcuno. Ai calunniatori prestò scarsissima attenzione e non era schiavo dell’ira” (Dione Cassio). Se avesse raggiunto il suo scopo: arrivato all’estremo limite orientale dell’Impero partico dichiarò che, se fosse stato più giovane, avrebbe seguito le orme di Alessandro Magno, arrivando fino in India.
Chi era: umile provinciale balcanico, fece una rapida carriera nell’esercito sotto Claudio II, diventando imperatore nel 270. In 5 anni di regno condusse un’instancabile attività bellica da un capo all’altro dell’impero per arginare i barbari (Iutungi, Goti, Franchi, Marcomanni, Alamanni, Eruli) e spegnere rivolte (Zenobia di Palmira, Firmo in Egitto e Tetrico in Gallia). Ucciso da una congiura, lasciò a Roma una nuova cinta muraria. Perché ha influenzato la storia di Roma: arginò il declino dell’impero. Aprì la strada al monoteismo con il culto del Sol Invictus. Successi: scongiurò la secessione dello Stato di Palmira e della Gallia. Insuccessi: sconfitto dai Marcomanni a Piacenza, rischiò di lasciare aperta ai barbari la strada per Roma. Punti forti: era dotato di una volontà inflessibile e di uno straordinario coraggio (ebbe premi al valore prima di divenire imperatore). Punti deboli: fu severo oltre ogni misura, chiamato “Mano alla spada” per le punizioni che infliggeva. Si disse di lui: “Dopo la disgraziata vicenda di Valeriano, dopo il malgoverno di Gallieno, il nostro Stato sotto Claudio aveva ripreso a respirare; ma era stato Aureliano [...] a ricondurlo all’antico splendore” (Historia augusta). Se avesse raggiunto il suo scopo: avrebbe ritardato il crollo dell’impero.
4 ca. a.C.-65 d.C.
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15-59 d.C.
53-117 d.C
214-275 d.C.
LETTURE ll mito di Elena. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi
Maurizio Bettini e Carlo Brillante (Einaudi) Digressione attorno alla figura di Elena, regina spartana di straordinaria bellezza il cui rapimento fu all’origine della Guerra di Troia narrata nell’Iliade. Elena è tra i personaggi più celebri di tutta la letteratura classica, tanto da ispirare nel corso dei secoli numerosi racconti e leggende.
Saffo. Liriche e frammenti
Saffo (SE) Il libro raccoglie l’opera della poetessa greca del VI secolo a.C. Saffo di Lesbo, le cui struggenti liriche – alcune delle quali tradotte da Salvatore Quasimodo – erano imperniate sulla passione amorosa e la cui produzione è andata purtroppo in gran parte dispersa.
Storie
Erodoto (Mondadori) In due volumi, l’opera presenta il lavoro storiografico con cui Erodoto – considerato il “padre della Storia” poiché fu il primo ad analizzare i fatti di per sé, sottraendoli a ogni visione mitica – celebrò nel V secolo a.C. la resistenza opposta dai Greci ai Persiani.
Socrate
Günter Figal (Il Mulino) Il volume ricostruisce il pensiero del grande filosofo ateniese del V secolo a.C. e le sue lucide riflessioni sui temi della politica, della religiosità e del vivere quotidiano. Da queste pagine affiora la sua vicenda umana culminata in una condanna che egli affrontò con la serenità del saggio.
Alcibiade. Un avventuriero in una democrazia in crisi
Jacqueline de Romilly (Garzanti) Dettagliata biografia di Alcibiade, pupillo di Socrate, amico di Pericle e carismatica figura politico-militare dell’Atene del V secolo a.C., la cui tumultuosa vita fu condita da scandali finanziari e sessuali, complotti politici e condanne all’esilio.
Filippo il Macedone
Giuseppe Squillace (Laterza) Il volume ripercorre le gesta del carismatico sovrano di Macedonia che, prima di venir messo in ombra dal figlio, riuscì a modernizzare e rafforzare il proprio regno coagulando attorno a esso il traballante mondo greco. Spianò in tal modo la strada alle future conquiste dello stesso Alessandro.
Alessandro Magno
Pietro Citati (Adelphi) Il racconto della vita del grande condottiero macedone e degli eventi che ne segnarono l’ascesa. La forza di Alessandro Magno stava nella sete di conoscenza e nella brama di conquista che lo condussero alle porte dell’India, lasciando dietro di sé un’aura mitica.
Il grande Archimede
Mario Geymonat (Sandro Teti) Le imprese di uno degli scienziati più originali della Storia, vissuto nel III secolo a.C. a Siracusa, una tra le maggiori città del Mediterraneo, e ammirato dai grandi eruditi del suo tempo, sbalorditi di fronte alle sue molteplici intuizioni matematiche e ingegneristiche.
Annibale
Giovanni Brizzi (Rai Eri) Il volume offre un avvincente ritratto della figura di Anniba-
A cura di Matteo Liberti
le, il generale cartaginese protagonista della Seconda guerra punica che si distinse per le sue intuizioni strategiche, per la padronanza delle concezioni tattiche più raffinate e per il forte ascendente sulle truppe.
Scipione e Annibale. La guerra per salvare Roma
Giovanni Brizzi (Laterza) Con ritmo da romanzo, il saggio ripercorre le tappe dell’intreccio tra la vita di due eterni nemici: il cartaginese Annibale e il romano Scipione, universalmente noto come l’Africano per le folgoranti vittorie ottenute in quella che diverrà la provincia romana d’Africa.
Giulio Cesare. Il dittatore democratico Luciano Canfora (Laterza) Un saggio che scandaglia la vita di uno dei personaggi più noti e importanti del mondo romano, il dictator Giulio Cesare che seppe avviare il transito dalla repubblica all’impero.
Giulio Cesare
Martin Jehne (Il Mulino) Agile volume che ripercorre rapidamente le tappe dell’ascesa di Giulio Cesare al ruolo di dittatore, rimarcandone la particolare capacità di sfidare le istituzioni.
Cleopatra. La regina che ingannò se stessa
Antonio Spinosa (Mondadori) Il volume analizza la breve ma intensa vita dell’ultima regina dell’Egitto tolemaico, donna scaltra e seducente. Temutissima da Roma, Cleopatra nel I secolo a.C. si servì del proprio fascino a fini politici intessendo torbide relazioni con i romani Giulio Cesare e Marco Antonio.
Augusto e il potere delle immagini
Paul Zanker (Bollati Boringhieri) Spaziando tra archeologia, storia, arte e letteratura, l’autore di questo interessante saggio analizza l’abilità propagandistica di Augusto. L’imperatore seppe sfruttare immagini e simbologie per restituire una piena identità ai Romani dopo la crisi dell’età tardo-repubblicana.
Augusto
Augusto Fraschetti (Laterza) Storia dell’ascesa al potere del primo imperatore romano, il quale, pur non stravolgendo le vecchie strutture repubblicane e fornendo ai cittadini una progressiva stabilità economica e politica, definì una nuova vita civile e nuovi culti fino a imporsi quale unica auctoritas.
L’imperatore dalle umili origini. Titus Flavius Vespasianus
Pietro Nelli (Lulu) Ricostruzione della vita dell’imperatore Vespasiano, fondatore della dinastra Flavia. Cresciuto in campagna, si distinse come eccellente finanziere e accorto amministratore. Lo ricordiamo, tra le altre cose, per un’originale tassa sui gabinetti pubblici e per la frase pecunia non olet.
Adriano
Yves Roman (Salerno) Saggio incentrato sulla personalità poliedrica dell’imperatore Adriano, la cui biografia, tra intrighi e mirabili imprese come l’edificazione del celebre Vallo, viene ricostruita attraverso un accuratissimo lavoro sulle fonti.
LETTURE Le monete di Roma. Settimio Severo
Daniele Leoni (Dielle) Monografia dedicata alla vita dell’imperatore Settimio Severo – nato a Leptis Magna, nella provincia romana d’Africa – e a quella dei maggiori personaggi che gli orbitarono attorno. A corredo dell’opera, varie cartine e una serie di immagini delle monete battute sotto il suo regno.
Leptis Magna
Oriana Dal Bosco (Ananke) Arricchito da una vasta documentazione fotografica, il volume ripercorre la storia di Leptis Magna, in Libia, città fenicia che conobbe grande sviluppo grazie all’imperatore Settimio Severo e che è considerata una delle aree archeologiche più affascinanti di tutto il Nord Africa.
Costantino il Grande: un falso mito?
Massimiliano Nuti (Mattioli 1885) Volume che analizza le molte ambiguità del primo imperatore cristiano di Roma, personaggio tra i più controversi della Storia che, a seconda delle fonti, appare come esempio di moralità oppure come criminale senza scrupoli, pronto ad abbracciare il cristianesimo al solo fine di espiare le proprie colpe.
Galla Placidia
Antonio Collaci (Ugo Mursia Editore) Saggio sulla vita di Galla Placidia, figlia dell’imperatore Teodosio I – e nipote di altri tre imperatori – cresciuta alla corte di Costantinopoli e protagonista di un’avventurosa esi-
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stenza che contribuì, anche per la carenza di fonti, ad ammantare la sua figura di un alone di leggenda.
Giustiniano
Mischa Meier (Il Mulino) Il volume ripercorre la turbolenta epoca – il VI secolo – in cui Giustiniano fu al potere come imperatore bizantino, cercando di imporre l’ortodossia cristiana e portando a termine un’importante risistemazione del diritto romano culminata nel celebre Corpus Iuris Civilis, ancora oggi alla base del nostro diritto civile.
Spartaco. Le armi e l’uomo Aldo Schiavone (Einaudi) Ricostruzione della rivolta servile guidata dall’eroico Spartaco, lo schiavo proveniente dalla Tracia che, dopo aver calcato le arene degli anfiteatri come gladiatore, ebbe il coraggio di sfidare la Repubblica romana.
Tiberio o la spirale del potere
Lidia Storoni Mazzolani (La Conchiglia) Volume che ricostruisce la vicenda dell’imperatore Tiberio soffermandosi non solo sulla sua torbida psiche, ma innanzitutto sulle sue operazioni militari e sulle sue scelte culturali, evidenziandone la funzione storica di traghettatore del principato verso l’impero e l’assolutismo.
Cicerone
Wilfried Stroh (Il Mulino) Abile sintesi della poliedrica storia di Cicerone, avvocato, filosofo, oratore e poeta in grado di esercitare una grande influenza sulla tradizione culturale di tutto l’Occidente, tanto da costituire tuttora un punto di riferimento intellet-
tuale per schiere di pensatori e studiosi.
La grande storia di Roma
Antonio Spinosa (Mondadori) Il racconto delle vicende che segnarono la nascita, l’ascesa e il declino di Roma. Un libro di facile leggibilità che restituisce un volto e un’anima alle schiere di re, imperatori, consoli, condottieri, donne e sacerdoti che resero immortale il ricordo dell’Urbe.
Una giornata nell’antica Roma. Vita quotidiana, segreti e curiosità
Alberto Angela (Mondadori) Viaggio alla scoperta della vita quotidiana della Roma imperiale, tra curiosità e dettagli inediti, passando dalle strade alle dimore private fino a entrare nel Colosseo, nel bel mezzo dei combattimenti tra gladiatori.
I grandi nemici di Roma antica
Le grandi battaglie dell’antica Grecia
Andrea Frediani (Newton Compton) Celebre per i suoi artisti, intellettuali e filosofi, l’antica Grecia fu senza dubbio la culla della civiltà occidentale, ma in questo volume scopriamo anche l’eredità lasciata dalle poleis greche nell’arte della guerra, ripercorrendo una fitta cronaca militare costellata da cruente battaglie.
Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana Domenico Musti (Laterza) Il saggio descrive l’intera parabola storica del mondo greco, dal tempo dei palazzi micenei alla nascita della polis fino alla dominazione romana, evidenziando l’emergere delle istanze di libertà e democrazia.
Philip Matyszak (Newton Compton) Incontro con i personaggi che, in nome della libertà o per il gusto della sfida, da eroi o da assassini, osarono sfidare il potere di Roma: da Giugurta e Vercingetorige, catturati ed esibiti in trionfo, ad Annibale e Cleopatra, che finirono i loro giorni suicidi.
Sparta e Atene. Il racconto di una guerra
Il guerriero, l’oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo classico
La battaglia delle Termopili. La vera storia dei 300 guerrieri diventati leggenda
Giovanni Brizzi (Il Mulino) Partendo dai guerrieri omerici e passando poi allo studio delle battaglie e degli armamenti dell’antichità, il volume ricostruisce l’evoluzione della figura del soldato in Grecia e a Roma, evidenziando in quest’ultimo caso le trasformazioni avvenute in età monarchica, repubblicana e imperiale.
Sergio Valzania (Sellerio) Volume dedicato alla Guerra del Peloponneso, scontro per l’egemonia sul mondo greco che nel V secolo a.C. vide opposte Atene e Sparta. Particolare attenzione è data all’analisi del sistema geopolitico nel quale prese corpo la cruenta lotta tra due protagoniste della stessa civiltà.
Raffaele D’Amato (Newton Compton) Ricostruzione della celebre battaglia delle Termopili, dove nel 480 a.C. i soldati greci si opposero al mastodontico esercito persiano (composto da migliaia di uomini) riuscendo a frenarlo grazie anche al co-
GRECIA E ROMA
raggio del re spartano Leonida e dei suoi 300, straordinari guerrieri.
La Persia antica
Josef Wiesehöfer (Il Mulino) Volume che, basandosi sullo studio diretto di fonti persiane, ricostruisce la storia della società e della cultura dell’antica Persia, dalla sua ascesa a grande potenza sotto i sovrani achemenidi, acerrimi rivali delle poleis greche, fino all’avvento dell’Islam.
Socrate
Giovanni Reale (Bur) Con un attento lavoro sulle fonti – Socrate non lasciò nulla di scritto e quel che sappiamo su di lui lo dobbiamo ai suoi discepoli – l’autore di questo saggio traccia il ritratto di un pensatore che sfidò la morte per non rinnegare le proprie idee, evidenziando le novità travolgenti del suo pensiero.
Pericle. L’inventore della democrazia
Claude Mossé (Laterza) La vita e le storiche imprese di Pericle, il grande politico ateniese descritto da Plutarco come l’inventore della democrazia e sotto il quale Atene raggiunse nel V secolo a.C. l’apice del proprio splendore culturale e della propria potenza.
Ipazia d’Alessandria
Gemma Beretta (Editori Riuniti) Il volume ripercorre la vita e il pensiero di Ipazia di Alessandria, filosofa e scienziata che fu caposcuola del platonismo e che mostrò doti straordinarie nei campi dell’astronomia e della matematica, prima di morire linciata da una folla di cristiani...
La tragedia greca. Forma, gioco scenico, tecniche drammatiche
Massimo Di Marco (Carocci) Volume che ci guida alla scoperta dei segreti tecnici e teorici di quel grande genere che fu la tragedia. Creazione originale dei Greci, raggiunse la sua perfezione con le produzioni di Eschilo, Sofocle ed Euripide, i cui drammi costituirono un modello per molte generazioni di drammaturghi.
Akropolis. La grande epopea di Atene
Valerio Massimo Manfredi (Mondadori) Da una delle firme più famose del romanzo storico, un prezioso saggio che ricostruisce le varie fasi dell’affermazione di Atene quale potenza egemone del Mediterraneo, alla scoperta di poeti, filosofi e condottieri artefici di un’età irripetibile di tragedie, splendori e libertà.
Ritratti d’autore. Vite a confronto, oltre la storia e il mito Paola Scollo (GB EditoriA) “La Storia è fatta dagli uomini e gli uomini sono il risultato della Storia”: partendo da questa consapevolezza il saggio ripercorre la vita e le imprese dei maggiori personaggi della storia greca e romana, rivelandone lati inediti e ricercando in primis la loro “umanità”.
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Periodico associato alla FIEG (Federaz. Ital. Editori Giornali)
Codice ISSN: 2280-1456
OGGI E DOMANI
La nostra EPOCA ha “prodotto” grandi personaggi, ma al momento non c’è nessuno in grado di fronteggiare la CRISI che stiamo vivendo
Siamo ancora
GRECO-ROMANI? I ICONE MODERNE
THE LIFE PICTURE COLLECTION/GETT
GETTY IMAGES (2)
John Kennedy, Albert Einstein, Gandhi: anche la nostra epoca ha “prodotto” grandi personalità.
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canoni di bellezza, le conoscenze mediche e scientifiche, l’architettura... molto di quel che appartiene alla cultura occidentale deriva dalle civiltà e dai saperi che presero forma oltre duemila anni fa in Grecia e a Roma. «Il mondo greco-romano ci ha lasciato un’eredità sconfinata», sottolinea Dario Palermo, docente di Archeo logia classica all’Università di Catania. «Si pensi, tra le altre cose, alla moderna storiografia, nata nell’alveo del mondo classico, o all’importanza rivestita dal teatro antico, forma d’arte tuttora viva ed evolutasi anche nel cinema e nella televisione. Il debito si estende anche all’ambito scientifico, all’etica, al diritto: i concetti di città, democrazia e dibattito politico non li abbiamo inventati noi». I “nostri” grandi. Impregnato di cultura classica, il nostro mondo ha conosciuto non a caso molti personaggi di spicco paragonati ai grandi del passato. Qualche esempio? Einstein, per le sue geniali intuizioni, è stato assimilato ad Archimede; la filosofia non violenta di Gandhi è stata avvicinata a quella di Socrate; l’abilità oratoria di Kennedy e il suo idealismo democratico ne hanno fatto secondo alcuni un moderno Pericle; i grandi registi cinematografici, abili a raccontare e a criticare il presente, sono stati visti alla stregua dei commediografi dell’antichità; e lo stesso web con i suoi frequentatissimi social forum non sarebbe altro che una riproposizione dell’agorà greca o del foro romano. Con un impatto certamente di entità diversa. «Oggi la comunicazione imperversa grazie ai nuovi media, ma ricordiamoci che, fatte le debite proporzioni, era
fondamentale già nelle società antiche. Persino le arti figurative avevano spesso funzioni comunicative di matrice politica: basti pensare alla colonna Traiana, monumento in cui vengono narrate – a fine propagandistico – le vicende delle guerre di conquista della Dacia», commenta Palermo. Un mondo in crisi. Un altro paragone “facile” è fra l’odierna crisi vissuta dall’Occidente e quella del tardo impero romano: la recessione economica, la decadenza morale, la pressione esercitata da popoli stranieri sui confini dell’occidente. Analogie sensate? «Qualsiasi paragone tra il presente e il passato rischia di risultare “forzato”», avverte Palermo. «Ogni periodo storico è infatti diversissimo da quelli precedenti. A differenza dell’epoca greco-romana, per esempio, oggi abbiamo a che fare con uno scenario geopolitico “globale” il cui baricentro gravita fuori dai confini europei. E se è vero che la Storia è magistra vitae non significa che si ripeta immutabile; tutt’al più possono esserci orientamenti di fondo che tendono ad assomigliarsi. E comunque, al momento, non sembrano profilarsi all’orizzonte “grandi uomini” capaci di opporsi ai fattori di decadenza che stiamo vivendo». Ma se le grandi personalità scarseggiano, qualcos’altro si è fatto strada negli ultimi anni: è il nuovo “grande personaggio collettivo” costituito dalla comunità degli internauti. “Personaggio” che nel 2006 si è guadagnato il titolo di Person of the Year secondo la rivista americana Time. Accanto a papa Francesco, Bill Clinton o Barack Obama, insomma, oggi ci siamo noi. • Matteo Liberti
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