LA VITA QUOTIDIANA
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arlo Magno ha inventato la scuola. E il punto di domanda: sapevate che il simbolo dell’interrogativa non è altro che la stilizzazione grafica di “qo”, sigla della parola latina “quaestio”? I copisti dovevano metterla alla fine di ogni frase interrogativa; la q con il tempo venne posta sopra la o, e quest’ultima si ridusse a un puntino. La punteggiatura è stato uno degli escamotage adottati dagli studiosi per trovare una scrittura chiara e comune a tutti gli europei. A fini meno nobili, ma pur sempre utili, va fatta risalire l’invenzione del primo wc (water-closet), mentre dal solo Rinascimento italiano scaturirono le idee più brillanti in fatto di moda (lo stile “personale” nasce nelle corti più raffinate dell’epoca), giochi (calcio, biliardo), progettazioni urbanistiche (la città ideale!) e modelli culturali esportati poi in tutto il mondo. Piccole grandi rivoluzioni che cambiarono per sempre, se non i fatti della grande Storia, i piccoli riti della vita quotidiana. Quelli che riguardano davvero tutti da vicino. Studiare come vivevano i nostri antenati è anche un modo per trovare le risposte a domande che magari non ci si era mai posti. Ma non per questo sono meno interessanti. Buona lettura! Emanuela Cruciano, caporedattore
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L’EREDITÀ DEL RINASCIMENTO
Rappresentazione di un torneo della Civetta (1440). Un uomo tiene distanti i contendenti con le sue gambe, mentre i due si danno colpi mirati, cercando di schivarsi l’un altro.
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Il tempo libero e l’ossessione per il look: anche questo ci hanno insegnato uomini e donne vissuti in Italia 500 anni fa.
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Ecco come si studiava 1.200 anni fa nella prima scuola pubblica, voluta dal re dei Franchi.
LE CIVILTÀ IN BAGNO
Luigi XIV di Francia ci teneva i cuscini, i Romani “la facevano” in gruppo...
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BAULI, CAPPELLIERE E BEAUTY CASE
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C’ERAVAMO TANTO AMATI
IL POPOLO DELLE CAMPAGNE
Come vivevano (e mangiavano) i contadini nel Medioevo.
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PRIMA DEI CASTELLI
Gli antenati dei castelli medioevali erano le “motte”: borghi cintati e autosufficienti.
UN GIORNO IN COMUNE Ventiquattro ore nella Perugia del Trecento. Tra botteghe, mercati e pubbliche esecuzioni.
Quando non c’erano gli “alimenti” e il divorzio era un tabù, ci si lasciava così.
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I PIACERI DELLA CARNE L’Età di mezzo sotto le lenzuola.
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Dalle bisacce alla 24ore, dalle valigie di cartone al trolley: così si è evoluto il bagaglio nei secoli.
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A SCUOLA CON CARLO MAGNO
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L’ARMA SEGRETA DEL MEDIOEVO
La folgorante carriera dei formaggi: dal grana alle forme usate come moneta sonante.
COPERTINA ©LESSING/CONTRASTO
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LA VITA QUOTIDIANA A.D. 1500
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Gli italiani al tempo di Leonardo.
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Fino all’800 valsero i princìpi della “pedagogia nera”: i bambini disubbidienti erano puniti a suon di botte e frustate.
CHI PUÒ ESSER LIETO SIA
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Il Rinascimento fu un’epoca di prosperità e spensieratezza? Solo per pochi...
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IL SECOLO DEI GIOCHI
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Ecco come ci si divertiva tra il Quattrocento e il Cinquecento.
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Il Palazzo ducale di Urbino, vera cittadella dentro la città, è un capolavoro del Rinascimento.
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ALLA CORTE DEL MORO
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La vita a Cusco, capitale del Perù nel Cinquecento. Quando gli indios furono cristianizzati e ridotti in schiavitù.
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Nei teatri di Londra, quattrocento anni fa, succedeva un po’ di tutto: dalle lotte tra animali agli spuntini alle ostriche.
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SPOSTARSI IN CARROZZA
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La realtà disumana delle fabbriche, dove si sfruttavano persino i bambini, e dei quartieri proletari dell’Ottocento che fece indignare Marx (e non solo).
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Come si lavorava secoli fa? Per scoprirlo, interpretiamo gli indizi disseminati dagli artisti nei loro quadri.
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NEGLI ANNI DEL BOOM
Fu una rivoluzione: chi si trasferiva in città, chi scopriva il tempo libero... Per anni l’Italia rimase sospesa tra passato e modernità.
NELLA FILANDA DELL’OTTOCENTO
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QUANDO NON C’ERA IL WEEK-END
Sono passati poco più di settant’anni, ma i nostri nonni passavano il (poco) tempo libero in modo diverso da noi. Ecco come...
SCHIAVI DEL LAVORO
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LANA DI LATTE E CAFFÈ DI CICORIA
La necessità aguzza l’ingegno: guerre, crisi economiche e sanzioni dietro all’invenzione dei surrogati.
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Se all’improvviso veniste trascinati sulle strade del XVIII secolo, sapreste cavarvela? Sì, grazie a queste istruzioni per l’uso...
IL TEMPO DEI GELONI
Le condizioni sanitarie dei nostri nonni, tormentati dal freddo e minacciati da tisi, malaria e sifilide.
SHAKESPEARE DAL VERO
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TRA NONNI E NIPOTI
Da patriarchi a compagni di giochi: come è cambiata la figura familiare più amata.
L’OMBELICO DEL NUOVO MONDO
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LA CITTÀ DI DICKENS
Come si viveva in una grande città come la Londra dell’età vittoriana? Dickens racconta nei suoi libri tutte le contraddizioni dell’Inghilterra dell’Ottocento.
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Un’incursione nel cuore del Rinascimento lombardo, guidati da un poeta di corte.
INFANZIA PERDUTA
Essere un bambino nell’Inghilterra vittoriana dell’800 era una disgrazia: la scuola (a suon di bacchettate) era per i ricchi, tutti gli altri a lavorare.
UNA CASA A PALAZZO
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CATTIVI MAESTRI
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LETTURE
PRESENTA
LE PIÙ GRANDI BATTAGLIE DELLA STORIA.
QUARTO VOLUME
DA MARENGO A KABUL (1800-1897)
Dall’inizio del XIX secolo, segnato dai trionfi di Napoleone e dalla sua caduta a Waterloo, passando per i moti del ’48, le vicende belliche dell’Ottocento sembrerebbero relegate ai campi di battaglia della vecchia Europa. E invece, ecco che la guerra si sposta in Oriente, verso la Crimea, approda sul suolo americano, e poi arriva a toccare terre lontane, come l’Africa e l’Afghanistan. E gli echi si sentono ancora oggi.
IN EDICOLA IL QUARTO VOLUME DELLA NUOVA COLLANA DI FOCUS STORIA WARS DEDICATA ALLE GRANDI BATTAGLIE DELLA STORIA
INTERVISTA
Il TEMPO LIBERO e l’ossessione per il LOOK: anche questo
L’EREDITÀ DEL
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BRIDGEMA/MONDADORI PORTFOLIO
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olte delle nostre abitudini quotidiane sono nate tra ’400 e ’500, durante quell’epoca che siamo soliti chiamare Rinascimento e che fece da “ponte” tra Medioevo ed Età moderna. La nuova consapevolezza dell’uomo – posto dall’Umanesimo al centro dell’universo e protagonista giustappunto di una sorta di “rinascita” – produsse infatti più di un cambiamento. Quali erano i valori di riferimento dell’epoca? Le differenze tra poveri e ricchi erano ancora evidenti? E quelle tra città e campagna? Come erano i rapporti tra i sessi? E ancora, come si passava il tempo libero? Qual era l’importanza rivestita dal divertimento? E quella del cibo? A rispondere a queste e ad altre domande è un esperto di storia culturale, Alessandro Arcangeli, docente di Storia moderna all’Università di Verona. Per iniziare: la fioritura artistica, culturale ed economica tra il XV e il XVI secolo cambiò la vita quotidiana italiana ed europea? Sì, anche se fu coinvolto un numero ristretto di persone. D’altronde la stessa arte era appannaggio di pochi: i dipinti che oggi ammiriamo nei musei pubblici erano all’epoca appesi sulle pareti di palazzi privati o al limite nelle chiese. Bisognò attendere il ’700 per veder nascere i primi musei moderni. È vero però che, grazie all’introduzione della stampa a caratteri mobili, a partire dalla seconda metà del ’400, molti si avvicinarono alla cultura, e in un periodo di fermenti religiosi come quelli legati alla riforma protestante di inizio ’500 poteva capitare di ascoltare brillanti e vivaci discussioni anche tra la gente comune. Anche grazie ai mercanti e alle nuove rotte commerciali, molti dei modelli culturali e degli stili di vita elaborati in Italia, patria del Rinascimento, si propagarono nel resto del continente.
ci hanno insegnato uomini e donne vissuti in ITALIA 500 anni fa
RINASCIMENTO
IMPARANDO L’ARTE
Ricamatrici ritratte nel ’400 da Francesco del Cossa nel salone dei Mesi del Museo Schifanoia a Ferrara. Il ruolo della donna cambiava ma per una vera emancipazione la strada era lunga.
Partiamo dal nucleo base di ogni società, la famiglia: com’erano i rapporti al suo interno? Nelle campagne e tra i nobili dominava il modello di famiglia ampia, “allargata”, mentre i cittadini conoscevano già la cosiddetta “famiglia nucleare”, antesignana della nostra e composta solo da genitori e figli. Quanto alle relazioni tra uomo e donna all’interno dei nuclei familiari, rimasero a lungo squilibrate a svantaggio della componente femminile. Per molti aspetti, si registrò addirittura un arretramento nella condizione sociale della donna rispetto alle epoche precedenti. Con alcune eccezioni: nei ceti medio-alti le donne avevano per esempio un più facile accesso alla cultura. Regine e principesse vantarono prestigio e una parziale emancipazione. Rimanendo in tema di donne, queste avevano accesso al mondo del lavoro? E con quali prospettive? Le donne lavoravano eccome, soprattutto quelle dei ceti popolari. Il punto, casomai, era che avevano accesso solamente ai lavori più umili e mal remunerati. Qualche opportunità in più, anche dal punto di vista imprenditoriale, si apriva per le vedove, a cui era concesso di portare avanti le attività dei mariti scomparsi. Passando ad altro, in che modo le città cambiarono volto divenendo “moderne”? I cambiamenti dei centri urbani riguardarono sia i singoli edifici, con il sorgere di splendidi palazzi fatti costruire dai ricchi signori per mano dei maggiori architetti, sia l’intero assetto delle città. In molti centri si modificarono le alte mura difensive medievali, e in altri ci furono massicce operazioni di riorganizzazione urbanistica, come accadde per esempio a Ferrara per volontà del duca Ercole I d’Este. Questi, sul finire del ’400, raddoppiò lo spazio urbano facen-
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SCALA (2)
do realizzare una nuova area edificata secondo uno schema razionale, in cui abbondavano grandi viali e spazi aperti distribuiti seguendo un ordine geometrico. Fu così superato lo schema dei centri medioevali, ricchi di viuzze strette e tortuose e spesso privi di piazzali. Ciò contribuì a ridefinire il modo stesso di percepire e vivere lo spazio cittadino, perseguendo quel concetto di “città ideale” rappresentato tra l’altro da un celebre dipinto anonimo della fine del XV secolo. I nuovi schemi urbani rinascimentali, ereditati in parte dal mondo romano, contrassegnarono poi quasi tutte le città moderne, incluse molte grandi metropoli dei nostri giorni. Nei centri abitati i contrasti tra ricchi e poveri erano più evidenti? Sì, bastava anche solo guardare la qualità delle abitazioni. Inoltre, seppure non fossero previste “segregazioni spaziali” in base al ceto, c’era la tendenza a concentrare alcune attività artigianali in determinate vie, caratterizzate così dal proliferare di case-bottega. I cittadini più emarginati venivano relegati nei pressi delle cinte murarie se non oltre. Un po’ come avviene oggi nelle periferie delle grandi città. Nelle campagne, dove viveva e lavorava la stragrande maggioranza della popolazione, le trasformazioni sociali e culturali erano molto meno visibili.
È vero che si cominciò a giocare e a divertirsi? Sì, mentre nel Medioevo il divertimento era spesso associato all’idea di peccato, nel Rinascimento assunse un ruolo di primo piano. I passatempi più diffusi? Le carte e i dadi, che spesso sfociavano nel gioco d’azzardo suscitando le preoccupazioni di autorità e predicatori religiosi. Ci si svagava anche con la musica e la danza, e non mancavano gli sport come il calcio fiorentino, antenato del nostro football, e la pallacorda, praticata con passione da intraprendenti regnanti e da abili professionisti che ci si guadagnavano da vivere. Più in generale, furono “ludici” molti atteggiamenti e usi allora in voga, spaziando dai rebus presenti nei manoscritti di Leonardo da Vinci fino ad arrivare a certe esuberanze nel vestiario, che indussero le autorità a promulgare le cosiddette leggi suntuarie, per frenare gli eccessi del lusso e della moda. Si può dire che si stesse definendo il concetto di “tempo libero”? C’è chi dice, forse esagerando, che sia stato addirittura “inventato” proprio in
quest’epoca. Certamente nel corso del Rinascimento – in primis tra le élite – si registrò una crescita qualitativa del tempo a disposizione. I ceti alti lanciarono tra l’altro la moda della “villeggiatura”. I veneziani furono i primi a ritirarsi in splendide ville fatte costruire proprio per riposarsi e distrarsi. Come? Con feste, giostre, spettacoli e tornei, sapendo che l’organizzazione di questi divertimenti – che coinvolgevano anche il popolo – avrebbe avuto ricadute in termini di immagine e popolarità. A proposito di mondanità, quali novità riguardarono l’abbigliamento e la cura del corpo? Alcune radici della moda come la conosciamo oggi risalgono al tardo Medioevo: donne e uomini cominciarono a vestire diversamente, si introdussero decorazioni pregiate e sfarzose e il modo di vestire si personalizzava, almeno per chi se lo poteva permettere. Nel Rinascimento, il cambiamento iniziava dalle corti. Come nella Mantova di inizio ’500, dove Isabella d’Este ideò acconciature e sperimentò profumi che attirarono un’attenzione di portata europea.
SI VA IN VACANZA
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In questa pagina, in villeggiatura a Venezia: proprio i veneziani furono i primi a inventarsi la casa delle vacanze nel ’500. Nella pagina accanto, ci si svaga con musica e scacchi in un manoscritto del XV secolo e (a destra) sfarzo e alta moda nel ritratto di Eleonora di Toledo con il figlio realizzato da Agnolo Bronzino nel 1545.
All’epoca cosmetici ed essenze profumate sopperivano a un’igiene del corpo ancora ben lontana dai nostri canoni. Il lavarsi di frequente non era infatti cosa né diffusa né raccomandata, nonostante i progressi scientifici e medici dovuti agli studi di illustri personaggi come Leonardo da Vinci e il fiammingo Andrea Vesalio, che nel 1543 pubblicò il De humani corporis fabrica, prima opera scientifica sull’anatomia umana. E a tavola che cosa cambiò? Innanzitutto ci fu un arricchimento dei menù, dovuto all’influenza culinaria araba e ai nuovi prodotti giunti dall’America, anche se in principio patate e pomodori furono visti con sospetto. Per le élite i pasti diventarono un’opportunità di esibizione di lusso e raffinatezza: si nutrivano con alimenti di prima qualità – dalla cacciagione alle paste ripiene – preclusi invece ai ceti inferiori, la cui dieta era a base di pane e cereali. Una situazione che durerà fino al XX secolo, quando lo sviluppo dell’industria alimentare rese più accessibili numerosi prodotti. In ambito sessuale quali furono invece le tendenze del tempo? E che percezione si aveva dell’omosessualità? Aumentò la preoccupazione morale nei confronti della sessualità, soprattutto da parte cattolica. Il vizio capitale più pericoloso divenne la lussuria, e ad
Si cominciò ad ABITARE in città ordinate, con PIAZZE e spazi APERTI. I più poveri però erano emarginati in PERIFERIA allarmare le autorità civiche fu la sodomia: Firenze e Venezia istituirono apposite magistrature per reprimerla. Un’ossessione scatenata da una crescente liberalizzazione dei costumi che spianò il terreno alla moderna percezione “laica” della sessualità. Com’era il “perfetto uomo” e la “perfetta donna” dell’epoca? Un modello lo tratteggiò l’umanista lombardo Baldassarre Castiglione nel Libro del Cortegiano (1528): descrive un uomo che è allo stesso tempo d’arme e di lettere, prestante e di bella presenza, esperto di tutte le arti. La donna doveva essere espressione di grazia e bellezza ma avere anche tutte le peculiarità maschili, eccezion fatta per le capacità militari. Proprio Il Cortegiano è da molti riconosciuto come il primo testo di larga circolazione a superare il pregiudizio misogino della cultura occidentale, anche se la battaglia, come detto, sarebbe stata ancora lunga. Veniamo a giorni nostri: che cosa abbiamo ereditato? La percezione del tempo libero o la ricercatezza nel vestire sono certamen-
te abitudini figlie di quel tempo. Ma c’è un aspetto della realtà rinascimentale che presenta tratti di assoluta modernità. Si tratta dell’acquisita consapevolezza, soprattutto da parte dei ceti alti, dell’importanza che rivestiva la presentazione di sé in pubblico. Lo stesso Baldassarre Castiglione utilizzò il termine “sprezzatura” per definire la qualità più importante che doveva avere un uomo di corte, ossia la disinvoltura, l’equilibrio e il controllo di sé nelle occasioni sociali. Sempre più persone iniziarono a investire in strategie per imparare a muoversi con successo nelle relazioni interpersonali e a presentarsi bene nelle occasioni pubbliche. Oggi siamo ormai abituati a considerare la nostra un’età dell’immagine, dove quel che conta è troppo spesso “apparire”, ma a ben vedere 500 anni fa le cose non andavano diversamente. • Matteo Liberti
ALESSANDRO ARCANGELI
Docente di Storia moderna all’Università di Verona, è esperto di cultura e società europea e autore di vari saggi sul tema, tra i quali Passatempi rinascimentali. Storia culturale del divertimento in Europa (secoli XV-XVII) (Carocci).
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IGIENE
LE CIVILTÀ IN LUIGI XIV di Francia teneva dei cuscini nella VASCA, ma i suoi sudditi si LAVAVANO POCO. I Romani “la facevano” in GRUPPO e gli inglesi inventarono lo SCIACQUONE
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ome si spiega che il bagno, dopo il gran lavarsi del mondo antico, sia stato relegato a una penitenza monastica nel Medioevo, a poco più di una bizzarria nel Seicento (Luigi XIV teneva dei cuscini nella vasca!), e nel secolo dei Lumi sia stato completamente dimenticato? In realtà, la storia della “civiltà in bagno” non segue la logica di un progresso graduale dalla sporcizia all’igiene, come si potrebbe pensare. Ha, piuttosto, un percorso pieno di contraddizioni, stranezze e pregiudizi. Naturali. L’uomo primitivo viveva per necessità quanto più vicino all’acqua e a un certo punto scoprì che il fiume, oltre a dissetare, poteva spazzare via gli escrementi e rinfrescare il corpo. Andò anche oltre: a Skara Brae, il più importante villaggio neolitico ritrovato in Europa, nelle isole a nord della Scozia, all’interno delle capanne in pietra sono stati scoperti scarichi rudimentali che partono da nicchie nelle pareti e confluiscono in un torrente (che oggi non c’è più). Gli Assiri che, come i Babilonesi, vivevano anche loro vicino a grandi fiumi, si lavavano solo nelle grandi occasioni. Ma facevano uso di cosmetici e profumi. Altrettanto raffinati, ma più puliti, gli Egizi: il faraone si bagnava ogni giorno nel Nilo e sembra che i suoi sudditi lo imitassero versandosi l’acqua addosso, con un vaso. Le vasche erano un’eccezione: straordinaria dunque quella della regina di Creta che risale a 3.600 anni fa, nel Palazzo di Cnosso: non una bagnarola rudimentale, ma una splendida vasca di terracotta 10
LA VASCA, QUESTA SCONOSCIUTA
La visione romantica del bagno del pittore belga Alfred Stevens (18231906). Fino agli inizi del Novecento la vasca era una rarità: per riempirla ci voleva troppa acqua.
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BAGNO
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CAVALLERIA
Lancillotto, cavaliere della Tavola rotonda, aiuta una donna al bagno in un manoscritto medioevale.
A OGNUNO IL SUO LAVAGGIO
LESSING/CONTRASTO (2)
Sotto, su un vaso greco del V secolo a.C., atlete spartane si lavano: per rimuovere lo sporco si usava un raschietto, detto strigile. A destra, nel Palazzo di Cnosso, a Creta (Grecia), si è conservata la vasca dipinta di una regina della civiltà minoica: ha circa 3.600 anni.
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dipinta. Dopo questa fuga in avanti, la vasca, però, scompare per secoli e secoli. Fino ai Greci classici, che erano amanti della pulizia. Docce gelate. Per gli Elleni le terme rappresentavano il completamento della ginnastica, ma ci si lavava velocemente, con acqua fredda. Il bagno caldo, considerato effeminato e vizioso, si diffuse solo durante la decadenza, sotto la dominazione romana. Era l’epoca delle latrine comuni che si vedono a Pompei e altrove: un gelido sedile di calcare su un orifizio a forma di toppa, al di sotto del quale si poneva il vaso, o un sedile di legno poggiato su due supporti di mattoni. Nell’Urbe, nonostante i 13 acquedotti e le tante terme colossali, gli antichi Romani persero la loro battaglia contro i parassiti. È quanto ha recentemente sostenuto l’antropologo Piers Mitchel dell’Università di Cambridge: pulci, pidocchi e vermi intestinali erano diffusi nell’Impero romano tanto quanto lo erano al tempo dei Vichinghi o
nello “sporco” Medioevo. La causa? Forse lo scarso ricambio d’acqua dei bagni (insieme al concime utilizzato per fertilizzare i campi e all’uso di particolari salse fatte con interiora di animali). Scandalose tinozze. Il Medioevo, dicevamo, rifuggiva dall’acqua e dalla pulizia. I bagni pubblici, eredità romana nonché luoghi promiscui e occasione di licenziosità, furono messi al bando perché seminaria venenata, “focolai del vizio”. Privatamente ci si lavava in tinozze di legno rotonde od ovali in cui sedevano due o più persone, spesso l’intera famiglia, ospiti compresi. Quanto al gabinetto si chiamava allora in vari modi: “luogo necessario”, ritirata o, più spesso, garderobe. Era per lo più scavato nello spessore della parete con il pozzo di scarico verticale al di sotto del sedile, in legno o di pietra. Al Castello di Chillon, sul lago di Ginevra, come altrove nel XIII secolo, le latrine furono costruite nel vano di una torretta a picco sul lago: un ca-
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A PORTATA DI MANO
Orinatoio portatile a forma di orice (una gazzella) proveniente dall’antico Egitto (1543-1292 a.C.).
polavoro d’igiene. Sono arrivate a noi intatte anche le latrine di Palazzo Davanzati, casa gentilizia fiorentina del Trecento: ce ne sono a ogni piano, collocate in piccolissime stanzette affrescate, sotto una finestra. Talvolta il garderobe veniva ricavato nel vano del camino per garantire l’espletamento dei propri bisogni al caldo, come nel Castello di Winchester in Inghilterra (lo scarico era accanto alla canna fumaria). Nelle case modeste, si andava meno per il sottile: era sovrano il vaso da notte, di vetro, metallo o terracotta verniciata, e il contenuto finiva regolarmente in strada. Dei gabinetti pubblici ci fa invece un’accurata descrizione Boccaccio nel Decamerone: una latrina a cul di sacco fra due case in un vicoletto, coperta da un assito di legno. Nel Trecento comincia la produzione commerciale del sapone, ideata in Inghilterra. Compaiono anche catini di pietra infissi nel muro, dotati, grazie a un gancio sovrastante, di serbatoi metallici forniti di maniglie che venivano riscaldati sul focolare e poi collocati sopra il catino. Trattamenti da papa. Il Rinascimento non fu un’epoca di maggiore pulizia: il bagno si faceva, con cadenza “biblica”, nella tinozza di legno. Fa eccezione la splendida sala da bagno di Castel Sant’Angelo voluta da papa Clemente VII de’ Medici, che risale al 1530. Decorata con marmi e affreschi del Romanino, era provvista di acqua calda e fredda e di un sistema di riscaldamento ad aria calda simile a quello dei Romani. Persino un genio come Leonardo da Vinci si sbizzarrì in questo campo: per Isabella d’Aragona progettò un impianto di miscelazione dell’acqua calda con la fred-
Nel corso del Medioevo il gabinetto si chiamava “LUOGO NECESSARIO” o, in francese, GARDEROBE Stravaganze da bagno
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ono celeberrime le storie di Poppea, la moglie di Nerone, che faceva il bagno solo nel latte d’asina e quelle di Maria Antonietta, regina di Francia, che esigeva una bagnarola nuova ogni volta che si lavava. Ma non sono le uniche stravaganze. Il dottor Sanctorius, vissuto in Veneto nel ’600, inventò per esempio un bagno curativo con acqua
calda da fare seduti sul proprio letto: era una specie di borsa che si chiudeva intorno al collo del paziente con una corda. Mentre lui stava lì impacchettato, l’acqua entrava in un imbuto vicino alla spalla (era necessario un collaboratore) per scaricarsi poi in un catino ai piedi del bagno-borsa. Elettrizzante. Nel 1776 un certo conte di Milly realizzò un
bagno nel quale, con un complicatissimo meccanismo, si poteva mantenere l’acqua in movimento: era l’antenato dell’idromassaggio. E che dire del bagno elettrico, delizia ottocentesca? Qui il malcapitato sedeva con un polo del magnete attorcigliato intorno all’alluce, mentre l’altro polo veniva applicato ad altre parti del corpo con una spugna bagnata.
A destra, bidet ottocentesco in legno e porcellana: apparteneva alla principessa Sissi, imperatrice d’Austria dal 1854 al 1898. A sinistra, vasca e bidet in marmo, con interno in rame dorato, nella Reggia di Caserta: furono usati nel ’700 dalla regina Maria Carolina d’Asburgo.
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ABITUDINI PRINCIPESCHE
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NAPOLEONE BONAPARTE amava farsi il bagno, ma ancora nell’ 800 lavarsi era considerato un VEZZO per eccentrici
Sotto, una pubblicità francese dell’800 che lancia un detergente per il bagno. Il sapone fu commercializzato in Inghilterra nel Trecento.
panneggi. Il popolo, da parte sua, continuò a rovesciare in strada il contenuto dei vasi. Nel Settecento le cose andarono pure peggio: si pensava che il bagno fosse fonte di malattie e lo stesso lavamani che entrò in voga allora, con molte varianti estetiche, consisteva di una brocca e di un catino così piccoli da consentire solo abluzioni sommarie. In compenso, in Francia comparve il bidet (dal francese antico bider “trottare”) che gli inglesi relegarono a “sconvenienza continentale”. Un esemplare famoso è quello conservato alla Reggia di Caserta, in marmo e rame, appartenuto alla regina di Napoli, Maria Carolina d’Asburgo. Per la vasca si usò il rame e lo stagno per rivestire poltrone allungate adorne di drappeggi che avevano una funzione soprattutto erotica: Giacomo Casanova ne possedeva addirittura una portatile, a due piazze. Ma mentre imperversava la seggetta, nel 1755 fu richiesto il brevetto per un gabinetto a valvola e sciacquone, il water-closet, inventato in Inghilterra da un certo Alexander Cummings che non faceva l’idraulico, ma l’orologiaio. Da lì non si tor-
SCALA
PROFUMATO RELAX
da per una stanza da bagno alla Corte Vecchia; al castello di Amboise, in Francia, ideò gabinetti con acqua corrente e condutture nascoste nel muro, però mai realizzati. Quanto al garderobe, nel Rinascimento fu sostituito dalla “seggetta” o comoda, piccola cassa portatile col coperchio che nascondeva un vaso. Il sedile era imbottito e il rivestimento in stoffa poteva essere più o meno lussuoso. L’oggetto regnò sovrano per due secoli, benché alla fine del ’500, in Inghilterra, Sir John Harington avesse ideato un water-closet quasi moderno: chiusura a valvola e sciacquone. Ma i tempi non erano maturi e l’invenzione fu dimenticata. Passo indietro. La seggetta rimase in voga per tutto il ’600: lo stesso Re Sole dava udienza seduto lì sopra. Intanto il vaso da notte si ingentilì: si cominciò a utilizzare il rame, il peltro, l’oro e l’argento. Il cardinale Mazarino ne aveva uno di vetro ricoperto di velluto con una fascia d’oro e cordoni di seta. Nella corte di Versailles erano disponibili 264 seggette, di cui 208 ricoperte di damasco rosso, cremisi o blu, le restanti camuffate da cassetti e
EVOLUZIONI
THE ART ARCHIVE
A sinistra, il water degli antichi Romani era in pietra, ma quasi mai singolo come quello qui sopra, di Dougga, in Tunisia. Sotto, in legno e richiudibile quello da viaggio di Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria dal 1848.
PER SOLI RICCHI
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Sotto, zampe da leone e marmo rosso: questa toilette con schienale utilizzata nella Roma barocca, oggi è esposta al museo Louvre di Parigi. . RMN/ALINARI
nò più indietro. I primi water furono in piombo e metallo, poi in ceramica smaltata. Nella prima metà dell’Ottocento si scoprì il miracoloso effetto del vapore e dell’acqua calda sulle malattie: improvvisamente tutto si poteva curare in questo modo, dalle palpitazioni ai reumatismi, dall’orticaria alla sterilità. Però il bagno di pulizia quotidiano rimase un’eccentricità: chi lo praticava – Napoleone Bonaparte (per lui fu costruito in Palazzo Pitti a Firenze nel 1813 uno splendido bagno con la vasca di marmo), l’imperatrice Elisabetta d’Austria, per citare i più famosi – era considerato un fanatico. Passi avanti. Comunque la pulizia avanzava: il bidet divenne uno status symbol per la nuova borghesia – ma non approdò mai in Inghilterra – e il lavamano si ingrandì: divenne un piccolo tavolo col piano di marmo, un catino e una brocca che poteva contenere fino a cinque litri d’acqua. La vasca, dimenticando le frivolezze settecentesche, si trasformò in una bagnarola di lamiera smaltata o laccata, destinata soprattutto alle donne: per gli uomini era segno di effeminatezza. La vasca come la conosciamo oggi si chiamava “bagno generale” e fino agli inizi del Novecento fu una rarità perché per riempirla era necessaria molta acqua. Dal 1850 in poi ci si preoccupò anche di trovare un sistema di riscaldamento: con l’avvento del gas, si installarono fiammelle direttamente sotto la vasca, causa peraltro di vari incidenti domestici. Fortunatamente, si passò allo scaldabagno alimentato con antracite o legna e, poi, a quello elettrico. Agli inizi del ’900 arrivò l’acqua corrente e la vasca trovò finalmente fissa dimora in una stanza a lei dedicata, insieme a lavandino, bidet e water-closet. Da qui in avanti la storia della civiltà in bagno la conosciamo tutti. •
ARRIVA LO SCIACQUONE
In un catalogo di fine ’800 l’illustrazione di un gabinetto moderno con tanto di cassetta per scaricare l’acqua.
Franca Porciani
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asta lavarsi le mani per salvare molte vite. Lo scoprì, seguendo un’intuizione, Ignác Semmelweis, un medico nato a Budapest nel 1818, che lavorava nella prima divisione di ostetricia dell’ospedale di Vienna, dove le donne dopo il parto morivano come mosche. Solo nel mese di gennaio del 1846 la mortalità raggiunse il 40 per cento. Il flagello si chiamava “febbre puerperale”: pochi giorni di febbre altissima,
dolori lancinanti e il decesso. L’ostetricia a Vienna era costituita da due padiglioni: nel primo lavoravano i medici e gli studenti, nel secondo le ostetriche. Ma, stranamente, nel secondo, la percentuale di morti per febbre puerperale era molto più bassa. I medici all’epoca facevano molte autopsie senza alcuna protezione, lavaggio o disinfezione per poi occuparsi delle partorienti, infettandone una gran parte.
Rivoluzione semplice. Il medico intuì che fra i due fatti c’era una connessione e impose che i medici, gli studenti e le infermiere si lavassero le mani con cloruro di calcio prima di toccare una puerpera e che venissero cambiate spesso le lenzuola. Le morti diminuirono fino all’1%. Semmelweis aveva inventato la sterilizzazione e i primi rudimenti di antisettica in un’epoca in cui l’idea dei germi patogeni era di là da venire.
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La scoperta... dell’acqua calda
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COSTUME
Dalle BISACCE alla 24 ore, dalle valigie di CARTONE al trolley: così è cambiato il BAGAGLIO nei secoli. E con lui il nostro modo di viaggiare
BAULI, CAPPELLIERE E BEAUTY CASE 16
ALTRI TEMPI
Sopra, una famiglia attende il treno, con scatoloni e pacchi usati come valigie, alla stazione centrale di Milano nel 1947. A destra, una valigia e una cappelliera in cuoio degli Anni ’50.
Nel Medioevo, per esempio, i nobili si facevano costruire mobili smontabili perché fosse possibile trasportarli negli spostamenti da un feudo all’altro. Nel ’700 non c’era famiglia aristocratica che non intraprendesse un viaggio con carrozze stracariche di bauli e cappelliere. Ultimo viaggio. La storia della valigia comincia... dalla fine. Uno dei più antichi bauli scoperti avrebbe dovuto infatti accompagnare durante il suo ultimo viaggio, quello nell’aldilà, il faraone Tutankhamon (XIV secolo a.C.). «Nella tomba del sovrano egizio sono stati ritrovati oltre 50 cofanetti e casse contenenti stoffe, cosmetici e una grande varietà di oggetti di uso quotidiano», spiega lo scrittore e sto-
GENTILE CONCESSIONE “IL TUCANO EDIZIONI”
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ALINARI
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i sono lo scrittore polacco Ryszard Kapuściński, l’attrice inglese Liz Taylor e il patrono d’Italia san Francesco. Vicino a loro, tre bagagli. Il primo comprende una padella e una cassa di libri. Il secondo un cucchiaio, una ciotola di legno e una bisaccia. Il terzo 110 valigie con dentro abiti, cosmetici e ogni altro ben di Dio. Indovinello: associate i “colli” al giusto personaggio. A ogni tipo di viaggiatore corrisponde infatti un diverso tipo di bagaglio (dal francese bagage, termine che indicava il convoglio carico di equipaggiamenti al seguito degli eserciti). L’evoluzione dei bagagli permette così di ricostruire il modo in cui si viaggiava in passato e soprattutto lo spirito con cui lo si faceva nelle diverse epoche.
Nel ’500, dopo la scoperta dell’America, nelle grandi CITTÀ c’erano
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Container. Diversi, invece, i bagagli che a fine Ottocento portavano con sé gli emigranti europei diretti verso l’America. «Erano per lo più ceste, fagotti e balle in iuta o canapa», spiega l’esperto. A queste tipologie si sono aggiunti i bagagli degli emigranti “di lusso”, tecnici e funzionari che si spostano per lunghi periodi: noleggiano interi container in cui mettono persino i mobili di casa. Del resto il bagaglio dell’emigrante contiene da sempre i simboli della propria identità: foto di famiglia, cibo e indumenti portati da casa.
Una toilette da viaggio con astuccio in cuoio del 1890 circa. Baule in legno di fine ’800, in stile coloniale.
THE ART ARCHIVE
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eri il fagotto, oggi il sacchetto di plastica. Da sempre il bagaglio degli indigenti si è contraddistinto per la povertà, anche dei materiali. Ma a entrare nel nostro immaginario come simbolo di emigrazione è stata la valigia di cartone, spesso legata da un semplice spago e utilizzata nel secondo dopoguerra dagli italiani emigrati dal Mezzogiorno verso il Nord Italia o la Germania. «A renderla celebre furono i film del Neorealismo come Rocco e i suoi fratelli (1960), di Luchino Visconti. E gli scatti di grandi fotografi», spiega Paolo Novaresio.
Illustrazione per una pubblicità del 1957.
SCALA
Cartone e sacchetti: bagagli da migranti
IL RAGAZZO CON LA VALIGIA
Baule-libreria appartenuto a un viaggiatore inglese del Cinquecento.
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Famiglia di emigranti italiani sbarcata a New York nel 1905.
rico delle esplorazioni Paolo Novaresio. «Da allora il baule è stato tra i bagagli più comuni. Se ne servirono Greci e Romani durante i loro lunghi spostamenti per mare o per terra, caricandoli sui carri. Si trattava di cofani di legno e bronzo, spesso decorati con avorio e metalli preziosi. Essendo oggetti di grandi dimensioni, erano adatti a essere stipati sulle navi mercantili e spesso venivano utilizzati anche come panche o letti durante le lunghe ore di navigazione». I bauli privilegiavano la praticità a scapito dell’eleganza. Il coperchio piatto e la forma squadrata servivano proprio a questo: a impilarli uno sopra l’altro come piccoli container. Questo standard arrivò al Medioevo. Sulle navi vichinghe tra il IX e il XV secolo, i rematori dei drakkar sedevano su casse di legno con forme e misure codificate e utili anche per dormirci sopra. Niente a che vedere con il bagaglio dei pellegrini che percorrevano a piedi le strade d’Europa e della Terrasanta in quello stesso periodo. I globetrotter dello spirito si mettevano in marcia con bagagli ridotti all’osso: una bisaccia con sandali di ricambio, un libro di preghiere, la borraccia ricavata da una zucca, un bastone e, se la meta era Santiago de Compostela, la conchiglia-lasciapassare dei pellegrini.
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ARTIGIANI specializzati nella realizzazione di BAULI da viaggio
A BORDO!
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Sopra, una tuta con valigia per “aeroturisti” ideata dall’artista futurista Thayaht, nel 1922. Sotto, imbarco con zaini e valigie per il viaggio inaugurale del transatlantico Queen Mary, nel 1936.
In tour. «Con la scoperta dell’America, nel 1492, l’intensificarsi delle esplorazioni e l’invenzione della stampa che favorì la diffusione delle guide di viaggio (le prime furono scritte proprio per i pellegrini diretti a Santiago de Compostela), il concetto di viaggio e di bagaglio subì una rivoluzione», prosegue Novaresio. Ma fu nel ’700 che il bagaglio divenne più simile a quello che abbiamo in mente oggi. Era il secolo del Grand tour, un viaggio di formazione attraverso l’Europa che era un must per i giovani aristocratici, soprattutto inglesi e tedeschi. L’esperienza durava mesi, anche più di otto, durante i quali ci si portava al seguito scorte alimentari, indumenti, libri, lettini avvolgibili, passaporti, lettere di credito (una sorta di travellers-cheques), guide, medicinali. Coloniali. Tra ’700 e ’800 diventarono quasi routine anche le traversate oceaniche. «Funzionari, commercianti, missionari o semplici avventurieri si recavano nelle colonie americane o asiatiche per lunghi periodi, accompagnati da un equipaggiamento vario e complesso. Questi passeggeri, antesignani del turista moderno, non viaggiavano certo come avrebbero fatto gli emigranti del XIXXX secolo, con semplici valigie di cartone (v. ririquadro nella pagina a sinistra). La navigazione po-
teva durare mesi e il loro corredo da viaggio prevedeva il letto, materiale da cucina, ingenti scorte di cibo e di bevande», spiega Novaresio. Lo storico francese Pierre Chaunu quantificava in 8-900 chilogrammi il peso del bagaglio di chi si imbarcava alla volta delle Indie: almeno una trentina di colli tra casse, ceste, sacchi, botti, masserizie e gabbie con animali vivi. Molto più “leggero” (si fa per dire) il bagaglio di chi andava oltreoceano come missionario: il frate domenicano Jean-Baptiste Labat (1663-1738), in partenza per le Antille, ci ha lasciato una rara testimonianza della dotazione allora considerata indispensabile per attraversare l’Atlantico. Escludendo vettovaglie, paramenti e altri “strumenti del mestiere”, la lista annoverava tra l’altro “un materasso, un traversino, un paio di lenzuola, una coperta, sei camicie, altrettante mutande, dodici fazzoletti e un ugual numero di berretti da notte, di paia di calze di tela e calzini, un cappello, tre paia di scarpe”. Il tutto trasportato con i soliti bauli. Diversi tipi. Secondo Chaunu, «fino alla diffusione degli aerei, che imposero limiti di peso al bagaglio, i bauli rimasero la “borsa da viaggio” per antonomasia. Ce n’erano di diversi modelli: esisteva il “baule-farmacia”, dove si tenevano chinino (contro
I bauli da MONGOLFIERA erano
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oggi può viaggiare con “appena” 15 kg di zaino, anticamente non era così. La borsa in cuoio di un legionario romano, comprensiva di borraccia, pentola, mantello arrotolato, pali da tenda, coperta di lana e sacchetto con gli immancabili fichi secchi, leggeri e nutrienti, pesava intorno ai 30 kg. Ma al seguito, in sacchi e bauli su carri e animali, c’erano altri 20 kg tra vettovaglie e arnesi da cucina. Grosso modo lo stesso bagaglio dei cavalieri medioevali, che per di più dovevano portarsi appresso (o far portare allo scudiero) almeno 25 kg di armatura. ALINARI
partire dalla Seconda guerra mondiale il bagaglio dei soldati si è alleggerito. Almeno per quanto riguarda gli alimentari. Il merito è soprattutto della Razione K, il pasto individuale giornaliero messo a punto dal fisiologo americano Ancel Keys e adottato dall’esercito dal 1942. Nella prima versione era un sacchetto sottovuoto con all’interno alimenti per colazione, pranzo e cena, oltre a pastiglie per disinfettare l’acqua, frutta secca, latte condensato, integratori alimentari e fiammiferi. Affardellati. Se il soldato medio di
Portazaino improvvisato con due fucili nel 1890.
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Il pesante fardello del soldato
QUANDO C’ERA IL FACCHINO
Roma, 1962: un facchino alla stazione Termini.
la malaria), piante officinali come la gialappa (un lassativo), garze e pastiglie per affrontare le traversate in mare o il deserto. C’erano poi il baule-biblioteca e il baule-letto. Ma anche bauli ideati per essere caricati su mongolfiere o quelli con appendiabiti interni, a cassetti o con bauletti più piccoli». Per ottimizzare gli spazi si usavano bastoni da passeggio che all’occorrenza diventavano forchette, coltelli e persino saliere. E se un viaggio aristocratico nel ’700 prevedeva almeno 30 o 40 bauli stipati in più carrozze, nell’800 la rivoluzione dei trasporti a vapore (treni ma anche navi più veloci) favorì la nascita di un nuovo tipo di viaggio: quello turistico. «A metà ’800 nacquero le agenzie turistiche», raccontava Chaunu. «La prima in assoluto vide la luce in Inghilterra: era la Thomas Cook & Son. Come viaggio inaugurale, nel 1841, propose l’escursione in treno Leicester-Loughborough (una ventina di chilometri): vi parteciparono 570 persone, con un limite di bagaglio di 90 kg per persona». In carrozza! La prima agenzia di viaggio italiana esordì solo nel 1897. L’Italia unitaria investì enormi risorse nello sviluppo di una rete ferroviaria e nell’arco di un ventennio gli spostamenti furono molto facilitati. L’avvento della locomotiva rese il viaggio alla portata di tutti, dando l’avvio al turismo di massa (o quasi). Non senza polemiche, se è vero che nel 1892 un generale, Luigi Giannotti, annotava in un suo libro “un vecchio conte di Ca-
in materiale IMPERMEABILE, in caso di AMMARAGGIO del Lingotto a Torino (1922), che riunì in una sola fabbrica l’intero ciclo produttivo (importando anche da noi il modello della catena di montaggio introdotta negli Usa da Henry Ford), favorì il progressivo passaggio di tanti italiani alle quattro ruote. E i bagagli dovettero adattarsi. «I bauli squadrati e piatti erano pensati per i treni, erano di dimensioni medie e soprattutto sovrapponibili. Lasciarono presto il posto a valigie più piccole, facilmente caricabili sulle automobili», prosegue Novaresio. Così il termine baule passò a indicare il vano dell’auto dedicato al carico dei bagagli. «I viaggi si fecero brevi. E gli oggetti da portare diminuirono, come pure le dimensioni delle valigie», continua l’esperto. «L’esperienza del viaggio diventò così comune che la Società delle Nazioni (l’antenata dell’Onu, ndr) nel 1937 ufficializzò i termini “turista” e “turismo” identificandoli come sinonimi di “chi viaggia per periodi di oltre 24 ore”». E in quegli anni debuttò la ventiquattr’ore destinata al businessman. Baule addio. Il requiem per i gloriosi bauli arrivò con la fine degli Anni ’50, quando negli Usa si affermò definitivamente il trasporto aereo a scopo civile e le valigie di pelle, capienti ma leggere, ne presero il posto. A dire il vero, dieci anni dopo, l’invenzione della valigia rigida in polipropilene reinventò il baule. Al quale nel 1988, con il primo trolley brevettato da un ex pilota dell’americana Northwest airlines, Robert Plath, spuntarono le rotelle. Le dimensioni però rimasero ridotte. Anche per questo, forse, Liz Taylor fu costretta a suddividere i suoi abiti in 110 valigie. Se avesse avuto un bagaglio più minimal, a base di libri come quello di Ryszard Kapuściński, gliene sarebbe bastata una. Ma difficilmente avrebbe potuto emulare san Francesco, che si accontentava della bisaccia. • Giuliana Rotondi
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BAULE FIRMATO
Sotto, il bagaglio di Robert Wilson, artista in tour mondiale nel 1910, con baule griffato della ditta di Louis Vuitton, che inventò la borsa da viaggio. A destra, bauletto con cassetti decorato in oro (XVII-XVIII secolo).
salmonferrato trovava strano, anzi indecente, che ora tutti arrivino insieme a destinazione, cioè tanto lui signor conte di prima classe, quanto il modesto viaggiatore di seconda e il povero diavolo di terza. Rimpiangeva i bei tempi passati quando egli viaggiava con quattro cavalli e due postiglioni, mentre rideva di coloro i quali viaggiavano con la diligenza”. «A fare la differenza», precisa Novaresio, «non era più il mezzo di trasporto, ma proprio il bagaglio. Nacque non a caso in quegli anni quello di marca. Nel 1896 Louis Vuitton lanciò il primo baule griffato. E qualche decennio dopo, nel 1924, la prima borsa floscia, anticipazione del bagaglio moderno». Ma altri cambiamenti erano dietro l’angolo. A quattro ruote. Tra le due guerre mondiali un nuovo fenomeno rivoluzionò il bagaglio: il successo dell’automobile. Ultimata e potenziata la rete ferroviaria, gli investimenti si concentrarono sulle strade, in parte già valorizzate da Napoleone all’inizio dell’Ottocento. Adesso, però, a percorrerle non erano più carrozze e cavalli, ma automobili. Al termine della Grande guerra la Fiat era la terza impresa italiana: la costruzione dello stabilimento
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SOCIETÀ
C’ERAVAMO TANTO
AMATI
Quando non c’erano gli “alimenti” e il DIVORZIO era un tabù, ci si LASCIAVA così
CONTRATTO STRACCIATO
Lo scioglimento del contratto matrimoniale in un dipinto settecentesco di Etienne Jeaurat: grazie alla Rivoluzione francese il divorzio divenne legge.
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PRO O CONTRO?
Sopra, due locandine pro e contro l’abrogazione della legge sul divorzio (del 1970) in occasione del referendum del 1974 promosso dalla Democrazia cristiana.
Q
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“
uando si trova un coniuge ammazzato, la prima persona inquisita è l’altro coniuge: questo la dice lunga su quel che la gente pensa della famiglia”, affermava lo scrittore inglese George Orwell (19031950). Eppure per secoli il mantra è stato: giù le mani da questa istituzione. Esaltata, svilita, banalizzata, ma sempre in piedi. Pilastro esclusivo della società. Con i suoi equilibri indiscussi, sbilanciati a favore dell’uomo. E i suoi rituali arcaici, figli di culture patriarcali prima, borghesi poi. Difesa anche al prezzo di mascherare ipocrisie oppure oltraggiata a volte solo per pregiudizi ideologici, fino a diventare nel secondo Novecento terreno di scontro: è stato quando la legge sul divorzio (1970) ha diviso gli italiani che nel maggio di quattro anni dopo sono andati in massa a votare il referendum per dire se volevano o no la sua abrogazione. Vinsero i “no”, i cattolici incassarono il colpo e il divorzio rimase legale. Una rivoluzione copernicana per il Paese, soprattutto per il cosiddetto sesso debole che vide riconosciuto il diritto di scegliere come e con chi vivere. Ma prima, come ci si separava? E la donna, dopo la separazione, come campava? “Gran dote, gran baldanza”. La possibilità di separarsi c’è sempre stata, fin dai tempi degli Egizi per intenderci. Nell’antichità, però, a far da padrona era la dote. Una donna passava dalle mani del padre a quelle del marito con parte dei suoi beni: terreni, case, in alcuni casi anche schiavi. Più ricco era il premio in palio, più alte erano le possibilità di contrarre un buon matrimonio. Come diceva un proverbio, “le belle senza dote trovano più amanti che mariti”. Se anticamente divorziare, nei casi previsti dalla 23
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IL RIPUDIO DI ABRAMO
Abramo (II millennio a.C.) scaccia Agar, schiava della moglie Sara, con cui ebbe il suo primo figlio Ismaele. Nella Bibbia il ripudio è previsto solo in alcuni casi specifici.
Lui e lei, chi ci ha perso di più nei secoli?
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a risposta potrebbe sembrare scontata, eppure non lo è. Almeno se diamo uno sguardo al passato: le donne dell’antico Egitto per esempio godevano degli stessi diritti degli uomini e potevano essere portate in giudizio proprio come loro. Ecco come si sono evoluti gli equilibri tra le parti nei secoli.
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ANTICO EGITTO Durante l’Antico regno (2700-2192 a.C.) le donne godevano di una certa indipendenza: quando si sposavano continuavano a disporre dei loro beni e li mantenevano anche in caso di divorzio. Davanti alla legge avevano gli stessi diritti e i medesimi doveri rispetto agli uomini.
GRECIA In tutte le poleis le donne occupavano una posizione subordinata rispetto agli uomini (a Sparta un po’ meno): dovevano il massimo di obbedienza al padre e al marito. Venivano date in spose bambine a uomini spesso più vecchi di loro e in caso di divorzio tornavano sotto la tutela del padre.
ROMA Nella Roma arcaica e per tutta l’epoca monarchica e repubblicana la donna latina fu priva di diritti. In caso di divorzio rientrava sotto la patria potestà con parte della dote. La Lex Iulia de adulteriis coercendis di Augusto (15 a.C.) non le diede di certo più tutele: il padre poteva uccidere la figlia adultera.
Il primo divorzio in USA fu nel 1639. Lei SCOPRÌ che il marito era BIGAMO: ottenne tutti i beni e lui fu ESILIATO
MEDIOEVO Il divorzio non era concesso a nessuno, a meno che il matrimonio risultasse non consumato o se uno dei due intendeva ritirarsi a vita religiosa. L’adulterio era punito con un’ammenda o con un rituale di espiazione pubblico. Ma la donna, in caso di adulterio, perdeva anche la propria dote, che restava al marito.
SETTECENTO Con la Rivoluzione francese (1789) alla donna in caso di divorzio vennero riconosciuti gli stessi diritti dell’uomo. Per un breve periodo s’introdusse l’uso dell’assegno di mantenimento e la comunione dei beni. La donna non poté però mai avere la facoltà di gestire il patrimonio del marito.
o se uno dei due decideva di ritirarsi a vita religiosa. «La donna continuò però a essere sottomessa all’autorità del padre prima, del marito poi», aggiunge la storica. Se abbandonata o ripudiata, aveva due possibilità: tornare a casa o chiudersi in convento. A meno di essere lei la fedifraga – in quel caso veniva cacciata senza un soldo – o di essere figlia di un papa, come Lucrezia Borgia. In quel caso non solo era concesso divorziare (fu annullato il primo matrimonio avallando la falsa accusa di impotenza del marito), ma anche risposarsi. Per tutti gli altri il divorzio era impossibile. Se ne accorse anche il re d’Inghilterra Enrico VIII, che nel XVI secolo, in mancanza di un erede maschio, fece carte false per far dichiarare nulla la sua prima unione con Caterina d’Aragona, arrivando a proclamare lo scisma dal mondo cattolico.
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DIVORZI DA RE
A sinistra, una stampa del Medioevo in cui re Baldovino I ripudia la moglie. A destra, un dipinto col divorzio di Enrico VIII d’Inghilterra da Caterina d’Aragona.
legge, era quindi possibile, la separazione si risolveva per lei in un cambio di padrone. «Se l’unione veniva meno, la donna tornava sotto la potestà paterna, con i suoi beni, unica fonte di sostentamento», spiega Chiara Maria Valsecchi, docente di Storia del diritto di famiglia all’Università di Padova. Ovviamente a patto che non avesse grilli per la testa: se colta in flagrante adulterio, infatti, era rispedita a casa, e senza la dote. Il principio rimase inalterato almeno fino all’anno Mille, con pene e tutele più o meno aspre in base ai periodi. Nella Roma repubblicana, per esempio, i matrimoni duravano un battito di ciglia: Silla, Pompeo, Cesare, Cicerone, Bruto, Antonio divorziarono più volte per motivi spesso futili. Anche per questo Augusto diede un giro di vite, disciplinando la restituzione della dote: la donna adultera era punita con la confisca della metà della dote e la relegazione su un’isola, l’amante con la confisca della metà del patrimonio e con uguale relegazione su un’isola, ovviamente diversa. Le regole si inasprirono con il diffondersi del cristianesimo, sotto Costantino prima e con Teodosio I poi. E se Carlo Magno, nel IX secolo, poté avere cinque mogli e svariate concubine fu solo perché visse un paio di secoli prima che si affermasse in pieno l’ortodossia cattolica, avvantaggiandosi ancora di costumi germanici. In famiglia, per sempre. Con il cristianesimo, in Europa dilagò la “lieta novella”: il matrimonio non era più atto civile, ma un rito sacro, compiuto al cospetto non solo della comunità, ma di Dio. E in quanto tale era indissolubile. Non solo: l’unione non era più disciplinata dallo Stato, ma dal diritto canonico. Il divorzio a questo punto non aveva più ragione di esistere, fatte salve alcune eccezioni: se non veniva consumato il matrimonio, per esempio,
FASCISMO Mussolini sottoscrisse i Patti lateranensi (1929) con la Chiesa, ribadendo l’indissolubilità del matrimonio. Il Codice penale Rocco (1930) prevedeva il delitto d’onore, con attenuanti nel caso in cui l’uomo avesse ucciso la moglie in flagrante adulterio. La disposizione rimase in vigore in Italia fino al 1982.
DOPOGUERRA La legge sul divorzio (la 898) arrivò in Italia nel 1970, dando a uomo e donna pari diritti. Negli stessi anni anche in Europa si discuteva del tema: nel ’75, in Francia, Valéry Giscard d’Estaing promosse una legge avanzata. Il 26 maggio 2015 nel nostro Paese è entrata in vigore la cosiddetta legge sul “divorzio breve”.
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SICURI SICURI?
Tentativo di riconciliazione di due coniugi che vogliono divorziare in una stampa repubblicana francese (fine XVIII secolo).
Al referendum per ABROGARE la legge sul divorzio del 1974 votò più dell’80% degli italiani. Il NO vinse con il 59% Gli anglicani vantarono così il primato nell’introduzione del divorzio, anche se «la differenza di atteggiamento in questi anni rispetto al mondo cattolico non è così netta come si potrebbe pensare», precisa la storica. «Una diversa interpretazione di un passo evangelico infatti condusse i protestanti ad ammettere il divorzio, ma solo in caso di adulterio e di impotenza. Quindi la casistica non risulta particolarmente alta, anche perché, per ragioni di onore, dichiarare pubblicamente di aver subìto adulterio spesso non era una strada considerata praticabile: si preferiva evitare». L’età dei mangiapreti. Non fu Enrico VIII insomma e nemmeno Lutero a far vacillare l’ortodossia cattolica, quanto la Rivoluzione francese, mangiapreti e, secondo l’iconografia cattolica, anche mangia famiglie. Fu grazie ai padri del libero pensiero infatti che la tendenza antidivorzista ebbe una battuta d’arresto: “Il divorzio risale probabilmente alla stessa epoca del matrimonio. Ritengo, comunque, 26
che il matrimonio sia più antico di qualche settimana”, disse un tagliente Voltaire. Per un breve periodo, nei giorni di entusiasmo giacobino seguito alla rivoluzione del 1789, si raggiunsero vette libertarie che per i secoli successivi rimasero una chimera: «Si poteva divorziare per semplice incompatibilità di carattere o per una separazione di fatto durata sei mesi», aggiunge la storica. «Con una serie di leggi successive, tra il 1792 e il 1794 le cause di divorzio si estesero sempre di più secondo il principio che nessuno può essere obbligato a rimanere legato a una persona quando non lo voglia: era il trionfo della libertà individuale proclamato dalla rivoluzione. Si sancì anche il principio della comunione dei beni e dell’assegno di mantenimento, mentre la dote rimase come opzione alternativa». Uno dei primi a sperimentare la comunione dei beni fu Napoleone, che inserì il divorzio nel suo codice civile. Diede anche il buon esempio: divorziando dalla moglie Giuseppina Beauharnais
CONTRASTO FOTOTECA GILARDI
(1809) – abbandonata per sposare Maria Luisa d’Austria – le lasciò in proprietà niente meno che il castello di Malmaison, vicino a Parigi. E fu semIn alto a destra, Marco Pannella, leader dei pre lui a introdurre anche nei regni italiani il suo radicali attivi nella codice che liberalizzava la pratica. Secondo le crocampagna referendaria nache però con poco successo: vi fecero ricorso sosul fronte del no (1974). Qui sopra, una copertina lo in tre. Sia perché il divorzio rimaneva impopodi Gente del 1962, con i lare e i giudici erano minacciati di scomunica da retroscena del divorzio parte della Chiesa, sia perché la legge era farragidi Liz Taylor da Eddie nosa: per il divorzio consensuale occorreva il conFischer, lasciato per Richard Burton. senso non solo dei genitori, ma anche dei nonni; se defunti bisognava presentarne l’atto di morte. Chiesa, patria, famiglia. Fatta la legge, direbbe il Manzoni, trovato l’inganno. Ma a onor del vero i governanti inventarono anche qualcosa di più di un semplice trucchetto: morto Napoleone abrogarono infatti il suo codice. Ritennero infatti che in Europa i tempi non fossero maturi per un modello di famiglia borghese così emancipato e libertario. Con la Restaurazione (1815) ci fu un ritorno all’ordine e la famiglia tornò a essere considerata il perno della società. E il divorzio l’ostacolo per eccellenza. Un filosofo del tempo, Louis de Bonald, parlò addirittura di tre princìpi – re, Chiesa e padre – che dovevano rappresentare i valori eterni a cui tutti dovevano ispirarsi, anche le famiglie, organizzate secondo il modello assolutistico dell’ancien régime. Preservare l’istituzione divenne così un imperativo con cui anche le ali più laiche e liberali dei governi non poterono non fare i conti. Così, nell’Italia appena unita si risolse in nulla il tentativo di far approvare un disegno di legge da Giuseppe Zanardelli nel 1883 (padre dell’omonimo codice penale) che prevedeva il divorzio in caso di sevizie e adulterio. Fu bocciato con 400 voti sfavorevoli e 13 a faC’È CHI DICE NO
vore. «A mio parere», spiega Chiara Maria Valsecchi, «ci sono motivazioni sostanziali che spiegano il fallimento di tutti questi tentativi: si pensava al matrimonio come a un’istituzione chiave della società. E il bene della società veniva prima della libertà di scelta del singolo». Ancora di più durante il fascismo. Benito Mussolini, firmati i Patti lateranensi con la Chiesa cattolica (1929), si guardò bene dal rompere con l’ortodossia religiosa sul tema dell’indissolubilità del matrimonio. Lui, che voleva le donne come angeli del focolare dedite all’allevamento dei figli e i mariti come rappresentanti del gagliardo spirito italico sotto le lenzuola. Di quale casa non importava. Il codice Rocco l’anno successivo introdusse anche il delitto d’onore (v. riquadro alle pagine precedenti). Arrivano gli alimenti. Come si è giunti allora all’epoca delle Liz Taylor, l’attrice che vanta nel suo curriculum otto matrimoni, facendo impallidire sovrani del calibro di Carlo Magno, che a fronte delle sue cinque mogli dovette aspettare la morte di almeno tre di loro prima di potersi risposare? In mezzo c’era stata una rivoluzione copernicana: quella industriale, che introdusse nella cultura di massa nuovi valori e stili di vita più emancipati, soprattutto per le donne, recuperati a piene mani dai tempi della Rivoluzione francese. Insieme non si sta più per dovere, ma per amore. E quando questo finisce ci si lascia. A patto che un coniuge aiuti economicamente quello più debole, assicurando lo stesso tenore di vita. Una pratica fantascientifica rispetto al passato. Ma consolatoria, se la si pensa come l’attrice tedesca Marlene Dietrich, amante di grandi uomini, che constatò: “Quando l’amore finisce gli alimenti colmano il vuoto”. • Giuliana Rotondi 27
VISTI DA VICINO MODELLO BASE
Ricostruzione di una motta della Francia Settentrionale, del tipo diffuso intorno al Mille.
PRIMA PONTE LEVATOIO
L’accesso alla fortezza rialzata era possibile solo attraverso un ponte mobile che univa la motta alla bassa corte.
CASA E TRIBUNALE
L’edificio più imponente della bassa corte ospitava la “sala grande” (o “aula”) dove veniva amministrata la giustizia e dove si tenevano i banchetti e le cerimonie ufficiali. Qui vivevano i padroni e si alloggiavano gli ospiti.
DIFESA RIALZATA
Alla sommità della collinetta artificiale (la “motta”) c’era una torre di guardia, di solito a pianta quadrangolare, in legno o in pietra. Era circondata da una palizzata, talvolta con un camminamento di ronda in cima. La torre ospitava i soldati della guardia e veniva utilizzata come estremo rifugio in caso di attacco.
DOPPIO FOSSATO
Sia la motta artificiale, sia la bassa corte erano circondate da un fossato riempito d’acqua.
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È PRONTO!
Le cucine e gli alloggi degli abitanti della bassa corte erano in un unico grande edificio basso.
DEI CASTELLI AUTARCHICI
G. ALBERTINI
La motta era un insediamento pressoché autosufficiente. Aveva infatti una propria fornace, l’armeria e laboratori artigianali.
Gli antenati dei castelli MEDIOEVALI erano le “motte”: borghi cintati e autosufficienti. Che in qualche caso sono diventati CITTADINE
TUTTI A MESSA
Spesso nella corte bassa c’era una chiesetta, in qualche caso diventata poi una chiesa più grande.
IN PIAZZETTA
Nella bassa corte si svolgeva la vita quotidiana. Nell’ampio cortile fortificato c’erano il pozzo e le strutture adibite alle abitazioni, ai servizi e ai lavori agricoli.
BESTIE E CRISTIANI
Stalle e magazzini, oltre che a merci e animali, erano destinati ai servi. Che spesso trovavano posto nel fienile.
P
rima che possenti castelli in pietra punteggiassero con i loro profili merlati valli e pianure, tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo spuntarono, prima in Francia e poi altrove in Europa, borghi fortificati costruiti in legno. Caratterizzato da un terrapieno artificiale alto dai sei ai quindici metri, questo tipo di incastellamento si chiamava appunto “motta” (nel senso di “montagnetta”). Alla normanna. Rovine di questi sistemi difensivi si trovano ancora oggi in abbondanza nel Nord Europa, soprattutto in Inghilterra e nella Francia Settentrionale, dove la dominazione normanna fu più marcata. La motta a pianta circolare era infatti un’invenzione dei Normanni. Tanto che nel celebre arazzo di Bayeux, che rappresenta la battaglia di Hastings (Inghilterra) combattuta nel 1066 fra Normanni e Anglosassoni, se ne vedono ben cinque. La collina artificiale veniva costruita ammucchiando terra e pietre (per esempio blocchi di gesso) ricavate nelle vicinanze dell’insediamento. Si usava anche il materiale di riporto dello scavo del fossato circostante. La motta era sempre collegata a un piccolo villaggio fortificato, non sopraelevato, anch’esso protetto da un fossato: la “bassa corte”. Potere locale. Come i successivi castelli (che sono una loro evoluzione) le motte nacquero da una doppia esigenza: militare e residenziale. E come i castelli divennero i simboli della potenza e dell’autorità dei signori locali, che da lì governavano i loro territori. Con l’arrivo dei Normanni le motte si diffusero anche nell’Italia Meridionale. A poco a poco, in tutta la Penisola il termine arrivò a definire un rialzo di terra, non necessariamente di forma circolare, con una fortificazione alla sommità. In Lombardia, Veneto e Piemonte esistono ancora toponimi che ricordano l’origine di molte località da insediamenti di questo tipo: Motta Visconti (Mi), Motta di Livenza (Tv) o Motta Vagnoni (To). • Giorgio Albertini 29
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ISTRUZIONE
A SCUOLA CON CARLO MAGNO Ecco come si studiava 1.200 ANNI FA nella prima scuola pubblica. Quella voluta dal re dei Franchi in una RIFORMA senza precedenti
M
“
BUON MAESTRO
Carlo Magno guida la mano di uno scolaro in un’illustrazione ottocentesca (in realtà il re non sapeva scrivere). In alto a sinistra, il suo testamento (814) nella scrittura minuscola carolina, da lui introdotta. A destra, il suo monogramma: KaRoLuS.
agno” non è un epiteto da tutti. Se il re dei Franchi Pipino il Breve doveva il suo nomignolo alla bassa statura, il figlio Carlo divenne per tutti “il Grande” per le sue numerose qualità. E non solo perché fu un valoroso condottiero, che sconfisse Àvari, Longobardi e Sassoni fino a fondare il Sacro romano impero, e nemmeno soltanto perché fu magnanimo con i nemici e aperto verso le culture diverse dalla sua. Uno dei suoi meriti fu anche quello di aver risvegliato l’Europa dal letargo culturale in cui era piombata dopo la caduta dell’Impero romano. E di avere istituito, con una riforma senza precedenti, la prima scuola pubblica. Cominciare dalle basi. Carlo Magno si trovò ad affrontare il difficile compito di governare una realtà politica inedita, non più circoscritta al Regno dei Franchi, ma neppure somigliante al precedente Impero romano. Si trattava di un vasto territorio costituito da gruppi etnici e culturali molto diversi, anche nella lingua: francesi, germanici, italiani. Per mettere ordine nel suo regno disponeva di due strumenti formidabili: la lingua latina e la religione. La prima, però, non era più l’idioma di tutti i giorni ed era conosciuta male anche dagli ecclesiastici. Nemmeno la fede cristiana era la stessa per tutti: l’interpretazione delle Scritture cambiava da regione a regione e qua e là persistevano riti pagani, soprattutto nelle zone rurali. Per dare unità alle sue terre, insomma, bisognava iniziare dalle fondamenta. Cioè dalla scuola, che a quel tempo significava dai monasteri, roccaforti del sapere. Ma ai tempi di Carlo il livello culturale del clero, purtroppo, era molto vicino all’analfabetismo: nel 780 il sovrano fece divulgare una lettera agli eccle-
siastici del regno, alla quale seguirono diversi “capitolari” (cioè ordinanze) che fissarono, svilupparono e uniformarono la questione fondamentale dell’istruzione. Era il primo passo di quella che verrà poi definita renovatio o “rinascita carolingia”. La squadra. Per il suo progetto il sovrano chiamò a corte intellettuali di grande talento. Come l’inglese Alcuino di York, insegnante di grande fama e con una vocazione per la pedagogia, o come l’italiano Pietro da Pisa, il primo studioso a entrare nella corte come maestro di grammatica per i giovani nobili (e per lo stesso Carlo, semianalfabeta). C’erano poi Eginardo, esperto di grammatica latina e abile architetto (fu lui a progettare il palazzo di Aquisgrana), e Teodolfo d’Orléans, vescovo ma soprattutto poeta. Il re convocò anche lo storico, naturalista e studioso di greco Paolo Diacono, membro di una famiglia longobarda non assoggettata dai Franchi, a testimonianza della grande apertura mentale del sovrano. Se da un lato Carlo voleva centralizzare il governo del regno, infatti, dall’altro sapeva valorizzare le differenze. W la schola! L’idea di creare un sistema d’istruzione comune in tutto il territorio fu accolta con entusiasmo da vescovi, abati e prelati. Quanto fosse spontaneo non si sa, visto che era stato un decreto del 797 a imporre loro di fondare scuole di vario grado in cattedrali, abbazie e villaggi. Ma chi poteva frequentare quelle scuole? Tutti, considerati gli standard dell’epoca, ovvero anche giovani di media o bassa estrazione sociale. Il modello era la Schola palatina di Aquisgrana, capitale del regno. Inaugurata già dai sovrani merovingi e restaurata dal padre di Carlo, aveva inizialmente lo scopo di formare la classe di scrivani e contabili di palazzo sotto la guida di Alcuino. 31
SEMBRA che lo stesso Carlo Magno partecipasse ad appassionanti sfide di logica con ALCUINO DI YORK e i membri della sua corte Una sorta di scuola di alta amministrazione ante litteram. Di cui il re voleva estendere i benefici a tutto il regno. Il maestro. Dotato di un talento naturale per l’insegnamento (lui stesso era solito paragonare il suo zelo educativo all’azione di colpire una pietra focaia per produrre la scintilla), Alcuino importò nella scuola carolingia i metodi già sperimentati in Inghilterra. La struttura di questa università primordiale era basata sulle sette arti liberali: il trivium (grammatica, retorica e logica) e il quadrivium (geometria, aritmetica, astronomia e musica). Come pedagogo Alcuino era all’avanguardia: era convinto che la trasmissione del sapere non doves32
se avvenire mediante l’apprendimento mnemonico e le punizioni, bensì lavorando sulle innate capacità dell’alunno. Proprio per stimolare la vivacità di pensiero dei suoi alunni, ogni giorno proponeva loro problemi matematici e logici. Il famoso problema del contadino che deve traghettare una capra, un lupo e un cavolo sulla riva opposta di un fiume (v. il secondo riquadro nella pagina a fianco) nacque proprio tra le mura del palazzo di Aquisgrana. Caccia all’errore. Un potente alleato della riforma carolingia fu l’ordine benedettino. Lo scriptorium (il luogo dove si copiavano i manoscritti) di ogni monastero e abbazia divenne di fatto il primo
BIBLIOFILO
Carlo Magno riceve Alcuino di York che gli presenta alcuni manoscritti dei suoi monaci, in un dipinto ottocentesco.
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E
SISTEMATICI
cco un frammento di dialogo tra Alcuino (A) e il giovane principe Pipino (P) di cui era precettore: i metodi di insegnamento del monaco ricordano l’associazione d’idee della psicologia. P: Che cos’è una lettera? A: Il guardiano della storia. P: Che cos’è una parola? A: La traditrice della mente. P: Cosa crea la parola? A: La lingua. P: Che cos’è la lingua? A: Qualcosa che frusta l’aria. P: Che cos’è l’aria? A: La protezione della vita. P: Che cos’è la vita? A: La gioia dei beati, il dolore dei peccatori, l’attesa della morte. P: Che cos’è la morte? A: Un evento inevitabile, un viaggio incerto, il dolore dei vivi, la conferma del testamento, il ladro dell’uomo. P: Che cos’è l’uomo? A: Lo schiavo della morte, un viaggiatore di passaggio, l’ospite di un luogo.
Due pagine tratte da codici della scuola carolingia: il metodo per contare di Rabano Mauro (a destra) e la suddivisione dei Vangeli sinottici (sopra).
Il metodo Alcuino 2
P
er stimolare l’intelligenza degli allievi Alcuino usava anche enigmi logici. Uno dei più famosi – notissimo ancora oggi (ha dato origine all’espressione “salvare capra e cavoli”) – è il seguente. Un contadino deve traghettare sulla riva opposta di un fiume una capra, un lupo e un cavolo, potendo portare sulla barca solo un elemento per volta, e senza poter lasciare incustodite sulla sponda la coppia lupo e capra (il lupo mangerebbe la capra) e la coppia capra e cavolo (la capra mangerebbe il cavolo). Come fa? Soluzione logica. Il contadino deve attraversare il fiume con la capra (il lupo non si mangia il cavolo), quindi può tornare a prendere il cavolo: lo porta sull’altra sponda e ricarica la capra sulla barca portandola indietro. Quindi può scaricare la capra e caricare il lupo: lo porta dall’altra sponda e torna indietro a riprendersi infine la capra.
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Il metodo Alcuino 1
esempio di scuola pubblica europea. Il libro, considerato un mezzo di conservazione del sapere e della fede, acquisì un’enorme importanza anche come strumento didattico. Nella lettera del 780 ai prelati, Alcuino si lamentava così: “Se la loro capacità di scrittura è così ridotta, così anche la loro capacità di comprendere con esattezza le Scritture è di gran lunga inferiore a quanto converrebbe”. Non era più ammesso non saper scrivere. Fino ad allora le missive che arrivavano a corte erano infarcite di errori, praticamente illeggibili. La scrittura era considerata un’attività secondaria e spesso chi sapeva leggere non sapeva scrivere. Alcuino rivoluzionò queste abitudini, esaltando la grammatica e demonizzando gli errori ortografici. Osservò, per esempio, che era sufficiente anteporre una h alla parola latina ara per trasformare “un altare in un porcile” (in latino, hara). 33
CARI MONACI...
Una lettera firmata da Carlo per l’abbazia francese di Saint Denis.
34
Padre d’Europa. La “riforma scolastica” (che fu anche politica) di Carlo Magno è da molti considerata il primo tentativo di unificazione europea. Riuscito grazie all’apertura mentale di un sovrano illetterato ma abbastanza umile da andare lui stesso a scuola e da prendere il meglio di culture anche diverse dalla propria. Una lezione, per la fragile Europa di oggi. Di cui resta un’eredità tangibile: col tempo abbandonata, la minuscola carolina fu riscoperta nel Quattrocento dall’umanista italiano Poggio Bracciolini, che ne fece un modello per i primi stampatori. I quali a loro volta la usarono per forgiare i loro caratteri, antenati diretti di quelli che usiamo ancora oggi sui nostri computer. • Marco Barberi
CARLO, COLTO COMMITTENTE
Sopra, una miniatura dall’evangelistario di Godescalco (781) commissionato da Carlo Magno e dalla moglie Ildegarda. A sinistra, Eginardo, biografo di Carlo Magno, allo scrittoio in una miniatura del XIV secolo.
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I puntini sulle i. La diffusione delle scuole e la necessità di stabilire regole comuni fece nascere una nuova scrittura. Doveva essere uniforme e sobria, ma soprattutto precisa e ben leggibile, con tanto di punteggiatura. Fu per esempio introdotto il punto interrogativo, stilizzazione grafica della sigla qo, che stava per quaestio (“domanda”). I copisti dovevano metterla alla fine di ogni frase interrogativa: la q con il tempo venne posta sopra la o, e quest’ultima si ridusse a un puntino. Il “papà” della nuova scrittura, detta poi minuscola carolina, pare sia stato uno scrivano di nome Adalberto, del monastero benedettino di Corbie, in Francia. Ma è quasi certo che dietro ci fosse Alcuino, dal 796 a sua volta abate in Francia, nell’Abbazia di San Martino, presso Tours. Caratterizzata dalla forma regolare delle lettere e dalla riduzione delle abbreviazioni (prima così complesse da essere incomprensibili), la “carolina” imitava i caratteri classici, addolciti dall’influsso delle lettere arrotondate tipiche della scrittura minuscola greca. Immagini parlanti. L’apprendimento (che al tempo significava essenzialmente lettura dei testi sacri) fu facilitato da un altro strumento didattico fino ad allora sottovalutato: la miniatura. Uno splendido esempio è costituito dal Vangelo di Carlo, del 795, realizzato a uso personale del sovrano. Lì, come in altri testi della scuola carolingia, furono definitivamente abbandonate le codificate figure bizantine e longobarde che ormai avevano perso significato per la gente del tempo. La creatività dell’artista cominciò a unire, a quelli simbolici, elementi realistici. La figura umana acquistò slancio e vitalità, mentre i volti presentavano realisticamente le fattezze dei personaggi ritratti.
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Per alcuni storici il PROGETTO di Carlo, se ATTUATO fino in fondo, avrebbe potuto cambiare le SORTI dell’Europa
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SESSUALITÀ
Dai tabù alla POLIANDRIA (più mariti per una moglie), dalle SITUAZIONI imbarazzanti alle POSIZIONI più peccaminose: l’Età di mezzo sotto le LENZUOLA
I PIACERI DELLA CARNE
VITE INTIME
Un bordello nella miniatura di un manoscritto del tardo Medioevo. A sinistra, una coppia nell’intimità della camera da letto. Allora la donna era “ufficialmente” desiderabile solo per la funzione riproduttiva (e la contraccezione era condannata).
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to generato, nel peccato mi ha concepito mia madre”. La lista dei nemici medioevali del sesso è lunga. Papa Leone Magno (V secolo) riteneva che “presso tutte le madri di questa terra il concepimento non è senza colpa”. Un secolo più tardi il vescovo francese Cesario di Arles (VI secolo) ammoniva: chi si fosse accoppiato nei giorni festivi avrebbe generato figli lebbrosi e indemoniati. E papa Gregorio Magno, un secolo dopo, rincarava la dose: l’unione coniugale è immune da colpa solo se c’è l’intenzione di avere figli. Per lui, “il piacere non può essere mai senza peccato”. Infine un altro pontefice, Nicola I (e siamo arrivati al IX secolo), raccomandava di astenersi da ogni piacere della carne e dalla contaminazione del corpo nei giorni di festa. Un’indicazione ereditata dagli insegnamenti ebraici ma vanificata, nel secolo successivo, dai papi protagonisti della cosiddetta “pornocrazia”, l’epoca in cui attraverso un ben poco casto viavai alcune “papesse” (come la bellissima Marozia) governarono di fatto Roma. Grazie ai piaceri che sapevano dare. Ai ripari. A partire dal XII secolo, il sesso divenne materia da teologi del calibro di Pietro Lombardo, sant’Alberto Magno e san Tommaso d’Aquino. Erano tutti d’accordo su un punto: per chi proprio non sapeva resistere alla tentazione del sesso c’era pur sempre il matrimonio e le nozze erano l’unico LUISA RICCIARINI/LEEMAGE
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esso? No, grazie! Fin dai primi secoli il Medioevo guardò con sospetto all’intimità fra uomo e donna, diventando presto un’epoca sessuofobica. Non fu così per tutti gli uomini e le donne medioevali, i quartieri a luci rosse esistevano anche allora e a quell’allergia al sesso si arrivò solo per gradi. Ma resta il fatto che nel mondo cristiano la morale sessuale era stabilita da papi, vescovi, monaci e teologi. In materia all’inizio si adottò, travisandola, la visione del filosofo greco Socrate. Per il maestro di Platone non bisognava fare nulla per puro piacere. Di conseguenza, san Girolamo (347-420) diceva che una donna cessava di essere tale e poteva essere chiamata uomo se sceglieva di servire più Cristo che il mondo: fuor di metafora, voleva dire che la funzione della donna era solo la riproduzione. Del resto, fu lui a condannare per primo la contraccezione, bollandola come una forma di omicidio. Chi è senza peccato? E pensare che tra i Padri della Chiesa gli ex libertini, che di sesso dovevano intendersene, non mancavano. Uno per tutti, sant’Agostino (morto nel 430), che si convertì dopo una gioventù dissoluta; forse per questo considerava il sesso lo strumento della trasmissione del peccato originale. Per farlo, arrivò a forzare il significato di questo salmo biblico: “Nella colpa sono sta-
LA TOP-FIVE DELLE POSIZIONI
Il vescovo tedesco sant’Alberto Magno (1206-1280) si prese la briga di redigere una lista delle posizioni dell’amplesso, ordinandole dalla più consona alla più peccaminosa.
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“Missionario”
Da dietro
Per prepararsi agli INCONTRI sessuali le DONNE puntavano sulla rimedio per la concupiscenza. Il Dottore Angelico, come fu chiamato d’Aquino, affermò che “nel rapporto l’uomo diviene simile alla bestia”, che l’unione carnale “ha sempre in sé qualcosa di vergognoso e causa il rossore”, che solo chi arriva vergine alla morte ottiene il paradiso al cento per cento, mentre gli sposati si fermano al trenta (lo racconta nel suo trattato di teologia). Naturalmente, aggiungeva che l’uomo è sempre trascinato al peccato dalla donna. Ma i teologi non furono tutti così bacchettoni. Almeno uno, Pietro Abelardo (1079-1142), fece eccezione. Abelardo osò sostenere che nessun piacere naturale (sesso incluso) può essere peccato. La pagò cara. Sopportò di essere odiato da Bernardo da Chiaravalle e zittito da papa Innocenzo II, che lo condannò nel 1141. Finché una brutta notte qualcuno lo evirò, di sorpresa. La sua colpa? Avere amato carnalmente la bella Eloisa, di cui era l’istitutore. Abelardo si fece monaco e anche Eloisa (allieva, amante e sposata in segreto) finì in convento. Loro, di sicuro, alla passione avevano dato sfogo, come dimostrano alcune bollenti missive. Questa, per esempio: “Col pretesto delle lezioni ci abbandonammo completamente all’amore, lo studio delle lettere ci offriva quegli angoli segreti che la passione predilige. Aperti i libri, le parole si affannavano di più intorno ad argomenti d’amore che di studio, erano più numerosi i baci che le frasi; la mano correva più spesso al seno che ai libri”. 38
AMORE E PERVERSIONE
Il dono del mattino. Ma come lo facevano, quando lo facevano, le coppie medioevali? La donna si preparava a un incontro sessuale pettinando la sua attaccatura dei capelli in modo da alzarla il più possibile, per mostrare la fronte. Era questo l’ideale di bellezza del tempo. Si ritirava poi in un bagno pubblico e si cospargeva con profumi a base di olii, fiori e spezie. Le coppie si fidanzavano formalmente intorno all’età di dieci o undici anni, ma si incontravano soltanto cinque o sei anni più tardi. Dopo aver fatto sesso per la prima volta, l’uomo spesso si presentava alla sua sposa con il “dono del mattino,” per ricompensare la compagna della per-
Qui sopra, una donna frusta il marito sotto lo sguardo di un’altra coppia di sposi. In alto a sinistra, Gli amanti defunti: è il titolo dell’opera di Matthias Grünewald (1450-1528) che rivisitò così il tema del peccato originale. A sinistra, Eloisa e il suo precettore Abelardo in una miniatura del ’400. Ebbero una relazione che finì in tragedia: lei entrò in convento, lui si fece monaco (ma solo dopo essere stato evirato).
pettinatura: mostrare la FRONTE era infatti considerato molto SEXY A CACCIA DI PECCATORI
LEEMAGE/MONDADORI PORTFOLIO (3)
Sopra, alti e bassi della vita coniugale nell’affresco di Memmo di Filippuccio. Sotto, nell’affresco di Benozzo Gozzoli, san Tommaso con papa Sisto IV. Nel Medioevo i Padri della Chiesa davano disposizioni sulla vita sessuale.
dita della verginità. Una piccola scatola decorativa in cambio di quella che spesso era un’imbarazzante prima esperienza sessuale. E chi aveva rapporti al di fuori del matrimonio? Veniva bollato come fornicatore, e punito pesantemente, se scoperto. A dire il vero più per ragioni pratiche che morali: i nobili temevano infatti le pretese di eventuali figli illegittimi. Un inconveniente contro il quale c’erano solo insicuri preservativi di origine naturale (vesciche animali, da legare con un filo di spago) e riutilizzati più e più volte oppure, appunto, il carcere (quando non la morte).
Filippo IV di Francia (1268-1314), per esempio, scoprì che la nuora aveva relazioni clandestine. Ricorse ai suoi poteri e fece sventrare pubblicamente gli amanti di lei. Quanto alle adultere, subivano la rasatura dei capelli ed erano condannate all’ergastolo. Zero fantasie. Poco spazio, almeno a giudicare dalle fonti dell’epoca, era lasciato alle fantasie sessuali. La posizione canonica era quella del missionario: lui sopra e lei sotto, il più possibile vestiti. L’unica deroga era ammessa in caso di obesità. Il sesso orale, invece, era punito con tre anni di reclusione. C’era poi la spinosissima questione dell’omosessualità. Non furono pochi i grandi personaggi medioevali che preferivano compagni del proprio sesso. Riccardo Cuor di Leone era gay e, pare, coinvolto in una relazione appassionata con il re Filippo II di Francia. Il tutto tenuto segretissimo, perché l’omosessualità era considerata un peccato mortale. Nel Duecento, Edoardo II d’Inghilterra e il suo amante Peter Gaveston dovettero affrontare non solo l’astio, ma anche le lame dei baroni inglesi a causa della loro relazione. Una relazione che Gaveston pagò con tre esili e l’uccisione a tradimento. Un altro tema su cui i teologi avevano le idee chiare era la masturbazione. La Chiesa era d’accordo con Tommaso d’Aquino, che considerava la masturbazione un “vizio contro natura”, e quindi rigorosamente vietata. Al contrario, le autorità 39
LE TAVERNE, SOSTE PREDILETTE DEI VIAGGIATORI I cibi erano appesi per evitare gli assalti dei topi.
Musicisti itineranti allietavano le serate.
Le lucerne erano a olio.
Il vino era spesso allungato.
V
Il riscaldamento si limitava a un grande camino.
G. ALBERTINI
Le prostitute esercitavano nelle taverne.
Tra gli alimenti base, la zuppa di cereali.
Il denaro si teneva nella scarsella (borsellino) alla cintura.
I mendicanti erano una presenza fissa.
Uomini e donne indossavano cuffie di stoffa.
Tra i clienti migliori c’erano i mercanti, che viaggiavano per affari.
iaggiare sulle strade medioevali poteva essere faticoso e la sera niente era più rilassante di un piatto caldo a base di zuppa d’orzo e un bicchiere di vino gustati nel tepore accogliente di una taverna. Questi locali non erano come i nostri bar: i pericoli qui abbondavano. Le osterie erano l’unico luogo dove trascorrere il tempo libero. Durante i giorni di festa ospitavano canti e balli sfrenati che però spesso degeneravano in violenza. Di lusso o equivoche. Ogni città o borgo aveva almeno un’osteria: erano ben segnalate da vessilli colorati e presidiate da un banditore, una sorta di “buttadentro” che decantava ai viaggiatori i prezzi vantaggiosi e la qualità del vino. C’erano però anche osterie non blasonate. Quelle prive di cartello erano di cattiva fama, ritrovi abituali di briganti e gente di malaffare, qui era più facile trovare donne che si prostituivano.
L’ADULTERIO non veniva accettato nel Medioevo. La CHIESA però lo tollerava se a TRADIRE era il maschio (MEGLIO se con una donna ancora NUBILE) mediche (che si ispiravano agli insegnamenti della Scuola Salernitana) pensavano che la masturbazione fosse un modo essenziale per sbarazzarsi di “umore seminale”, e quindi mantenere l’equilibrio degli umori corporei, dal quale si pensava dipendesse la salute. Poligamia germanica. Se il matrimonio era dunque l’unico ambito dove il sesso era consentito, c’erano parti dell’Europa medioevale, specie nei primi secoli, in cui la ribellione serpeggiava fra le lenzuola. Per esempio in Germania. La poligamia veniva regolarmente praticata, da secoli, dai tedeschi, come eredità delle tradizioni dei Germani antichi. Sull’argomento, sant’Agostino aveva giustificato soltanto la poligamia dei profeti dell’Antico Testamento. Il fatto che avessero più mogli non era segno di desiderio smodato, bensì della necessità del popolo di Israele, all’alba del mondo, di riprodursi e popolare la Terra. Siccome però il mondo era ormai ampiamen40
te abitato e il giorno del giudizio nel V secolo era considerato prossimo, Agostino giudicò più che sufficiente una moglie sola. E fu così che, a differenza dei Romani e dei Germani in precedenza, il cristianesimo si diede un unico standard sessuale: la monogamia. Nella pratica, però, la Chiesa medioevale finì per considerare accettabile anche l’adulterio ma solo per il marito, non certo per la moglie. In alcune regioni d’Europa, un uomo era considerato adultero solo se aveva avuto rapporti sessuali con una donna sposata, non se l’amante era nubile. O meglio, avere rapporti con una donna non sposata era sì ritenuto peccato, ma meno grave. Una moglie veniva invece accusata in ogni caso di adulterio se aveva avuto rapporti sessuali fuori dal matrimonio. E siccome la donna sposata veniva punita più duramente, l’adulterio era un caso rarissimo tra le mogli. • Giorgio Nadali
CROCI E DELIZIE
A destra, il Giardino delle Delizie di Jeronimus Bosch (1450-1516): per alcuni il dipinto rappresenta la fugacità dei piaceri carnali.
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Una moglie, tanti mariti (ma solo in Oriente)
L
a poligamia (un marito con più mogli) era abbastanza comune tra i popoli germanici e rimase a lungo diffusa nel Nord Europa. Da lì si è tramandata ai movimenti apostolici protestanti che ancora oggi (per esempio in alcune zone degli Stati Uniti) la praticano. Quasi sconosciuta nell’Occidente patriarcale fu invece la poliandria (una moglie con più mariti).
Altri mondi. In epoca medioevale l’unica forma di poliandria conosciuta è quella del buddhismo tibetano. Si tratta della cosiddetta poliandria adelfica, nella quale una donna viene sposata anche dai fratelli del primo marito. E di poliandria si parla, sempre in Oriente, nel poema epico induista Mahabharata (nella foto, scene erotiche su un rilievo indiano dell’XI secolo).
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CITTÀ DEL MEDIOEVO
Ventiquattro ore nella PERUGIA del ’300. Dove L’UOMO medioevale trovava la propria dimensione umana e soprattutto SPIRITUALE
UN GIORNO IN
COMUNE
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i dice che il mattino abbia l’oro in bocca. Nel Trecento prima dell’oro, in bocca, c’era però il Signore. E gli si rendeva onore fin dal primo rintocco delle campane. Quando, scesi dai pagliericci – i grandi letti su cui dormiva tutta la famiglia – ci si faceva il triplice segno della croce (uno per il Padre, uno per il Figlio e uno per lo Spirito Santo), per poi recarsi in Chiesa, per la messa di inizio mattina. La prima campana riecheggiava alle sei: partiva dalla cattedrale nella piazza del comune e, a ruota, era seguita dalle altre. Nel frattempo si aprivano le porte lungo le mura, attorno alle quali si animavano i quartieri cittadini. Solo dopo, a messa conclusa e a colazione fatta, il centro prendeva vita. Commercianti, studenti, uomini d’arme camminavano per gli stretti vicoli di origini etrusco-romane, al fianco di mendicanti, contadini carichi di frutta e verdura, signori, pellegrini e predicatori. Ma anche tra porci, galline, pecore, asini o cani randagi. Cominciava così una giornata a Perugia. Avremmo potuto scegliere altri comuni dell’Italia del Trecento: Napoli, Padova o la Siena descritta nel ciclo di affreschi Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti, le cui immagini (del 1338-39) illustrano questo servizio. Lavora, produci, prega. Alle nove, in città si iniziava a lavorare. Le donne, nelle prime ore del giorno, rimanevano in casa a fare il bucato, a curare i figli – ogni famiglia ne aveva in media tre o quattro – o a pulire le abitazioni. Gli uomini invece si davano ai commerci: aprivano i negozi ed esponevano le proprie mercanzie in un’aria non proprio “provenzale”. Dal suolo salivano anzi olezzi di liquame e rifiuti: la pulizia era affidata al buon cuore di ognuno. E solitamente si limitava alla soglia di casa o del42
la propria bottega. Ma se il regolamento comunale non vietava di scaricare i rifiuti in strada, proibiva di mettere i bancali lungo le vie. «La piazza deputata al mercato era solo quella centrale: quella con la Fontana maggiore e il Palazzo dei priori», spiega Franco Mezzanotte, storico medievista. «Lo statuto prevedeva infatti che le tortuose vie del centro rimanessero sgombre, per permettere ai cittadini di passare agevolmente, se serviva anche con i propri muli carichi di materiale, e recarsi in bottega». Quanto ai negozi, non c’era che da scegliere: «C’era chi lavorava la lana, chi vendeva stoffe, chi metalli o chiodi, molto richiesti in anni di espansione urbanistica. E poi c’erano orefici, panettieri, ciabattini, carpentieri, notai. Basti pensare che le corporazioni delle arti nel XIV secolo erano più di 40, per una città di circa 20-25mila unità», precisa lo storico. I piccoli venditori itineranti si davano invece appuntamento nella piazza: un gigantesco bazar aperto sette giorni su sette, perché non potendo conservare i cibi in frigorifero era necessario fare la spesa ogni giorno. C’era chi vendeva pesci freschi pescati nel lago Trasimeno. O carni conservate sotto sale o sotto spezie. E non mancavano prodotti dal sapore esotico, essendo Perugia meta di passaggio obbligata per i traffici che dall’Oriente arrivavano al porto di Ancona e raggiungevano poi Firenze o Siena. Colpevoli, in cielo e in terra. Chi si sedeva sulle panche in pietra, incastonate in molte case, poteva osservare alle finestre, ai balconi o nelle logge le donne intente a lavorare o a curare la loro capigliatura, tra panni stesi e pittoresche gabbie di uccellini dondolanti vicino a mensole con vasi di erbe, profumi e spezie. O veder passare i medici che andavano nelle case a controllare lo stato di salute dei malati: «Gli ospedali, come li intendiamo noi, erano ancora
LARGHE INTESE
Nobili a cavallo nell’affresco Gli effetti del buon governo, di Ambrogio Lorenzetti, a Siena. Gli aristocratici erano tra i “poteri forti” con mercanti, artigiani ed ecclesiastici. A mantenere l’equilibrio cittadino si introdusse il podestà, che comandava anche l’esercito.
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PUBBLICA GOGNA
Cavalieri condannati: la giustizia era amministrata da consoli (o priori) che aggiornavano regolarmente lo statuto, con nuove leggi e nuove sanzioni. Le pene, oltre che amministrative, spesso erano fisiche e avvenivano sulla pubblica piazza.
Le case? Bilocali con soppalco
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n centro abitavano soprattutto i nobili e i commercianti più ricchi, con le loro casetorri. Molti piccoli artigiani si stabilivano invece nei quartieri immediatamente fuori le mura, i sobborghi, che erano separati dai contadi limitrofi da fossati e muretti. C’era però anche chi, tra i commercianti, aveva optato per una “casabottega” dormendo con la famiglia vicino al proprio negozio.
Multipiano. Le case (nella foto, quella di Dante a Firenze) erano per lo più a due piani collegati da scale di legno. La camera da letto era ai piani superiori, al piano inferiore poteva esserci la bottega e la cucina con un soggiorno, separato da un muro in legno. Le camere da letto erano composte da un letto comune e da una cassapanca, unico mobile in cui tenere i vestiti. Le case
C. BALOSSINI
un’eccezione: a Perugia ce n’erano una decina, ma erano grandi stanze gestite dalle corporazioni, che davano ospitalità ai pellegrini o ai mercanti: il più antico è in porta Sant’Angelo ed è del 1218», precisa Mezzanotte. A pranzo si rientrava a casa a mangiare e, fatta una breve siesta, si riprendeva il lavoro. Quando i banditori a cavallo suonavano la tromba, però, c’era poco da stare allegri. Per lo più attiravano l’attenzione dei cittadini chiamati ad ascoltare le parole degli araldi comunali che rendevano esecutivi i provvedimenti del podestà. «Un tetro spettacolo era la pubblica punizione dei condannati, esposti nei migliori dei casi al dileggio e agli insulti degli astanti, ma spesso condannati a pene assai dure, come gli adulteri quando non atrocemente torturati perfino nel tragitto verso la morte perché le loro grida, i loro spasimi, si imprimessero bene nelle menti dei cittadini», scrivono Chiara e Arsenio Frugoni nella loro Storia di un giorno in una città medievale (Laterza), cogliendo uno degli aspetti forse più rappresentativi dell’epoca: la suggestione. Comuni, piccole patrie. Mancando scuole – Perugia aveva un’università che accoglieva studenti da tutta Europa ma il tasso di scolarizzazione era bassissimo – la società era tenuta insieme da riti (pene ed esecuzioni pubbliche, ma anche processioni e cerimonie) e visioni politiche a breve raggio. Ogni cittadino trovava la sua ragione d’essere nell’appartenenza al proprio comune. E siccome la città era considerata un “corpo mistico” al pari di quello divino, orientato al bene comune, il cerchio si chiudeva. Il cittadino aveva infatti due certezze: la propria realizzazione passava attraverso la città e lo spirito. Nel primo caso doveva rispettare le leggi comunali, nel secondo quelle divine. Nessuna coscienza individuale e nessuna mobilità sociale. I poteri forti. Perugia fu sempre guelfa, tanto che il podestà veniva regolarmente scelto tra i filopapali. Il suo ruolo era centrale: mediava i conflitti tra ceti nobiliari, mercantili, imprenditoriali e religiosi. La piazza del comune – ampia per ospitare adunate cittadine – esprimeva bene questo equilibrio tra “poteri forti”. Vi si affacciavano i palazzi delle famiglie aristocratiche, quasi tutte discendenti dai vecchi milites (cavalieri) di età feudale. «I nobili spesso si riunivano in consorterie: le famiglie con un medesimo avo abitavano cioè tutte nello stesso quartiere. Ed erano sempre in guerra tra loro per il primato sulla città, indebolendosi così progressivamente. Su tutte ebbe la meglio a Perugia la famiglia dei Baglioni che si impose sulle altre, con il passaggio alla Signoria»,
ALINARI
I comuni si finanziavano con le TASSE. Nasce così L’AZZARDO di Stato: i COMUNI mettevano una gabella sul gioco dei DADI
dei ricchi avevano la facciata sulla strada principale, a volte con un porticato. Sul retro il cortile, l’orto o la stalla, con forno, legnaia e fontanili per il bucato.
SCALA
TRAFFICO CITTADINO
Una strada di Siena all’ora di punta con uomini al lavoro e donne con la spesa. Per spostare le merci si usavano gli asini, che contribuivano a rendere le strade della città maleodoranti. Alle finestre, appesi alle stanghe, vasi, tappeti e, spesso, gabbie con gli uccellini.
aggiunge lo storico. «Inoltre contribuivano con i loro “reparti corazzati” di cavalleria a rimpinguare le file degli eserciti, sempre in guerra con le città vicine come Assisi, Gubbio e Todi». Sull’altro lato c’erano il Palazzo dei priori, espressione del potere economico e commerciale, e la cattedrale, costruita nel ’200 e riedificata successivamente. Si ricordava così ai perugini che in città comandavano sì i priori, ma anche il partito guelfo. Il popolino e il cosiddetto “popolo magro” in piazza invece non contavano nulla. Avevano case per lo più fuori le mura (v. riquadro a sinistra), ingrandendo quei sobborghi che successivamente saranno inglobati nella città. Tutti a casa. Col crepuscolo anche Perugia imbruniva. A illuminarla, in mancanza di luci pubbliche, c’erano i ceri delle cappelle lungo le strade. E più calava il sole, più aumentavano i rischi di imbattersi in malintenzionati. Anche per questo, alla
spicciolata, ognuno tornava alla propria casa: gli ultimi predicatori si rintanavano nei conventi, i padri di famiglia rientravano a casa. Mentre i “senza Dio” si chiudevano nelle taverne a giocare ai dadi, bere e bestemmiare. Sordi anche alla campana di fine giornata, quella che annunciava che i giochi erano conclusi. Suonava per ordine del podestà, per fugare ogni dubbio sull’ora (non c’erano orologi). Doveva suonare tre volte e almeno tanto a lungo da esser sicuri di riuscire a tornare a casa da qualunque parte della città ci si trovasse. Quando la campana grossa batteva cinque colpi si spegneva il fuoco. Il da farsi a quel punto lo consigliava un aureo libretto dei tempi: “Mangiate poco la sera e liberatevi d’ogni pensiero terrestre e mondano e non pensate più a nulla se non che all’indomani, di buon mattino, andrete a sentire la vostra messa”. • Giuliana Rotondi 45
VITA RURALE
IL POPOLO DELLE
CAMPAGNE
Come si viveva (e si MANGIAVA) nel Medioevo, quando in Europa quasi nove PERSONE su dieci si dedicavano all’AGRICOLTURA
MERITATO RIPOSO
CAMILLO BALOSSINI (7)
Nella foto grande, la ricostruzione di una pausa pranzo di un gruppo di contadini durante il Medioevo. In alto a sinistra, una donna intenta a lavorare al telaio. In alto a destra, la raccolta della frutta: una coltura che non piaceva ai contadini perché era un alimento riservato esclusivamente ai signori e toglieva spazio ai cereali che rendevano di più e sfamavano più persone.
L
a notte è già inoltrata ma nell’ampio salone dedicato ai banchetti la cena del signore del castello deve ancora entrare nel vivo. I servi stanno facendo rosolare sugli spiedi le prede della battuta di caccia appena conclusa: un cervo, un capriolo, fagiani e lepri. Decine di torce illuminano la grande mensa dove fanno bella mostra di sé grandi pagnotte, cesti di frutta di stagione e di primizie dell’orto, dolci al miele, mandorle e noci. Quanto agli ospiti, mentre attendono le carni fanno onore ai migliori vini delle cantine del castello. Questo è il Medioevo che ci piace immaginare, ma di fatto un banchetto così riguardava soltanto pochi privilegiati. Il resto della popolazione? Era impegnato a lavorare sodo per produrre quelle prelibatezze. Oltre l’85% della forza lavoro in Europa era infatti costituito da contadini, contro il 3-4% circa della popolazione italiana attuale.
Solo i signori potevano cenare a lume di candela
La vita degli agricoltori era molto diversa da quella delle classi privilegiate, e le distinzioni cominciavano a tavola. Intanto, i contadini non cenavano mai troppo tardi, la sera. In genere sedevano a mensa prima del tramonto, sia per approfittare della luce, sia perché all’alba dovevano andare a lavorare. E anche i loro pasti erano molto diversi da quel47
La CACCIA, il pane bianco e la FRUTTA erano riservati ai signori. li dei ricchi: anziché frumento, riservato ai signori, mangiavano pane nero di segale o di altri cereali “inferiori” (cioè meno apprezzati, ma più semplici da coltivare), una minestra di miglio, nei casi più fortunati qualche ortaggio. Da bere, vino di pessima qualità e poi a letto con le galline. «In alcuni casi», spiega Gabriella Piccinni, medievista all’Università di Siena, «la famiglia contadina viveva al centro di una terra coltivata e non era costretta a spostarsi per prendersene cura. In tal caso l’impegno lavorativo era più equamente suddiviso tra tutti i componenti, uomini, donne e bambini. Ma c’era anche chi doveva muoversi di molti chilometri: il lavoro diventava perciò prerogativa esclusiva degli uomini, che lasciavano il nucleo familiare per giorni o per intere stagioni. Mentre il primo modello era più diffuso nel Nord Italia, il secondo caso si verificava più spesso al Sud, e ciò ha rappresentato nei secoli un retaggio culturale che ha a lungo escluso le donne dal mondo del lavoro». La giornata era scandita dal ciclo solare. E d’estate si lavorava di più Era il sole a regolare il ciclo di lavoro, e per settimane, d’estate, si arrivava a faticare anche 13-14 ore consecutive per portare a termine operazioni di mietitura e trebbiatura che oggi le macchine svolgono in mezza giornata. Quando si trebbiava, anche donne e bambini erano chiamati a collaborare: si battevano i covoni di grano disposti a terra percuotendoli con bastoni o facendovi camminare sopra gli animali da soma. Una tecnica ancora diffusa, in alcune regioni italiane, nel secolo scorso. La resa del terreno era un altro problema cruciale. Mentre oggi un seme di frumento produce mediamente 30 volte il suo peso, nel Medioevo la resa era, al meglio, dieci volte inferiore. La semina era dunque un azzardo per l’agricoltore, che per ogni raccolto doveva versare la terza parte al suo signore e conservare un terzo dei semi raccolti per l’anno successivo: siccità, grandine o altre calamità naturali bastavano a condannare lui e la sua famiglia alla fame. La differenza tra la mensa dei signori e quella dei contadini si rifletteva anche nella scelta delle colture. Nei campi si seminavano sia cereali invernali (frumento, segale, avena, orzo, farro), sia primaverili (sorgo, panico, miglio) e leguminose (fave, fagioli dall’occhio, piselli, ceci, cicerchie), ingredienti per zuppe e semole. Gli ortaggi erano coltivati in piccoli appezzamenti per il consumo casalingo, mentre diffusi erano gli alberi da frutto, fonte però di discordia: «I contadini preferivano coltivare i ce48
reali, perché hanno più resa e possono sfamare più persone», spiega Piccinni. «Il padrone era invece più interessato ai prodotti ortofrutticoli perché valevano di più sul mercato: due opposte esigenze che potevano sfociare in conflitto, con i contadini che arrivavano a tagliare di nascosto gli alberi da frutto per recuperare superficie da coltivare a cereali».
I popolani non indossavano abiti colorati, perché erano troppo costosi
Il legame con la terra condizionava ogni aspetto della vita rurale, anche il vestiario, che era con-
LA CONCIA DELLA PELLE
Un artigiano che si dedica alla concia delle pelli di pecora per le pergamene. Professioni come questa nacquero nel mondo contadino.
I contadini si nutrivano di LEGUMI e cereali come segale e farro Macello di maiali in una miniatura francese del XII secolo.
Il mestiere più ambito? Quello di porcaro
I
l contadino medioe vale doveva essere in grado di svolgere innumerevoli mansio ni, ma all’interno della comunità agraria vi erano alcune figure specializzate: tra que ste un ruolo di primo piano era detenuto dal porcaro. A peso d’oro. Il maiale non offriva solo la car ne più consumata, an che perché si poteva conservare meglio per lunghi periodi grazie alla salagione, ma anche setole, lardo e strutto. L’animale ave va un’importanza tale che a partire dal VII secolo diventò l’unità
PAZIENZA E DEDIZIONE
Nell’immagine la rievocazione storica di una donna che svolge un lavoro di ricamo, un’attività considerata un lusso all’epoca.
cepito quasi esclusivamente come abito da lavoro. Gli uomini indossavano sempre una semplice camicia di lana grezza, una tunica a coprire i fianchi e le brache, una sorta di pantaloni stretti in vita da una cintura. L’abbigliamento delle donne non era molto dissimile: sopra la camicia indossavano una lunga veste e si coprivano il capo con il velo. Tutti calzavano zoccoli in legno o rudimentali scarpe in pelle e per ripararsi dal freddo si coprivano con un mantello. I vestiti erano sempre di un indefinito colore grigio-giallastro, poiché le operazioni di tintura erano costosissime. Per contro gli abiti
di misura di boschi e selve, cui veniva dato un valore in base al numero di suini che vi si potevano allevare. Il porcaro aveva perciò una rilevanza spe ciale all’interno della comunità: già l’Editto di Rotari del 643 assegnava al magister porcarius il valore più alto tra tutti i servi casati, pari a quello di un artigiano, e in caso di assassinio impo neva un pagamento compensativo pari a 50 scudi d’oro, mentre un pastore di capre, pecore o buoi veniva “risarcito” con soli 20 soldi d’oro.
erano troppo spesso infestati da pulci e zecche, anche perché i contadini non avevano né la possibilità né tantomeno il desiderio di lavarsi spesso e possedevano generalmente due soli abiti: quello da lavoro – macchiato, sdrucito, continuamente rattoppato – e un vestito della festa. L’abito festivo, che per le donne poteva essere adornato con nastri e gioielli modesti, non era solo questione di vanità; ma, indossato in occasione della messa, delle feste religiose o per celebrare mietitura e vendemmia, rafforzava il senso di partecipazione alla comunità. «Le feste», evidenzia Piccinni, «erano però 49
Era una VITA DURA: ci si lavava poco, gli abiti erano INFESTATI temute dai proprietari perché sapevano che quando i contadini si riunivano, ben vestiti e magari dopo aver ecceduto con il vino, si sentivano più forti, pronti a portare avanti contestazioni e rivendicazioni. Avvicinato da solo, spossato dal lavoro nei campi, il contadino non poteva invece che risultare più remissivo».
D’inverno, per combattere il freddo, si dormiva con gli animali
Il focolare era il cuore pulsante delle modeste abitazioni rurali, realizzate in legno, argilla e paglia, più raramente in pietra, composte da un unico stanzone dove la famiglia mangiava su una rozza tavolata apparecchiata con ciotole e cucchiai, svolgeva piccoli lavori di artigianato (come la produzione di cesti e vasellame, la manutenzione degli attrezzi e il rattoppo degli abiti) e dormiva. Tutti erano ammassati in un unico letto in paglia, insieme agli animali, per resistere al freddo. In media una vita non durava più di 35-40 anni, ed era insidiata da malattie come malaria, tisi e lebbra. Anche la mortalità infantile era alle stelle. In queste condizioni, l’ultima cosa che veniva in mente era un sentimento moderno come “l’amore per la natura”. «I contadini la natura non l’hanno amata mai», mette bene in chiaro Piccinni. «L’hanno sempre dovuta combattere perché non prendesse il sopravvento, ma in questa lotta hanno imparato a conoscerla e a rispettarla per affrontarla al meglio. Il bosco per esempio era un nemico, perché insidiava il campo, faceva ombra al grano e gli impediva di crescere, ma era anche una fonte di cibo,
ricco com’era di piccoli animali da cacciare, frutti spontanei e radici. Era indispensabile per la sopravvivenza e quindi non andava distrutto se non quando strettamente necessario». Il contadino medioevale insomma puntava al sodo, a mettere qualcosa sulla tavola per sé e per la propria famiglia. Per farcela sfruttava al meglio il suo ingegno, la sua operosità e la sua esperienza. Ben sapendo che prelibatezze come i formaggi, le carni arrostite, la frutta e la verdura di stagione, il pane bianco e i vini pregiati erano destinate esclusivamente alle mense dei signori. • Roberto Roveda
Quando non c’erano i pomodori
SCALA
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Fornaio al lavoro nel Tardo Medioevo.
ulle tavole medioevali mancavano molti cibi che oggi sono comuni: «Né contadini né signori potevano infatti assaporare pomodori, patate e barbabietole, prodotti originari del continente americano», racconta la Piccinni, «e neppure melanzane e albicocche, alimenti che raggiungeranno l’Europa solo in epoca successiva, con l’intensificarsi degli scambi con l’Estremo Oriente». Olio di noce... Anche l’ulivo ha avuto una grande diffusione solo a partire dalla fine del
Medioevo. Molto più comune era invece il noce, il cui frutto rappresentava una risorsa preziosa non solo come alimento, ma anche per ricavarne olio per l’illuminazione. ...e pane di ghiande. Il pane, piatto forte dell’epoca, era diverso da quello che consumiamo oggi. Sulle tavole più ricche venivano spezzate pagnotte bianche sempre fresche e fragranti. Nel pane duro e scuro che finiva sotto i denti dei contadini, invece, non era raro trovare fave, castagne o addirittura ghiande.
ROBERTO AQUARI
da PULCI e zecche, si MORIVA di tisi, MALARIA e lebbra
SCENE DI VITA QUOTIDIANA
A sinistra, un calzolaio indossa un paio di occhiali, una delle invenzioni medioevali. A destra, un banchetto di nobili all’interno di un castello. Sotto, un gruppo di contadini che si reca nei campi per la raccolta del fieno in una giornata estiva.
LEEMAGE
ALIMENTAZIONE
L’ARMA SEGRETA
DEL MEDIOEVO La folgorante carriera dei FORMAGGI: dal GRANA inventato dai MONACI alle forme utilizzate come MONETA sonante
N
POPOLARE
Mangiatori di ricotta in un dipinto di Vincenzo Campi (15361591). I contadini consumavano formaggio come sostituto della carne: i bovini non si macellavano (erano più utili nei campi) e la selvaggina era riservata ai nobili.
egli Anni ’60 Charles De Gaulle, presidente della Repubblica francese, una volta sbottò: “Come si può governare un Paese che ha 246 varietà differenti di formaggio?”. Si sbagliava: le varietà sono più del doppio. La Francia infatti conobbe, come l’Italia, un’autentica “moltiplicazione dei formaggi” grazie al boom caseario del Medioevo. Andato a male. Che i “secoli bui” siano stati un’epoca luminosa per i latticini è presto dimostrato. Il termine “formaggio” si affermò in Italia nel corso del XIII secolo, dall’antico francese formage, a sua volta derivato dal latino tardo formaticum (“messo in forma”). Si preparava così il gorgonzola, che la leggenda vuole sia nato per caso tra il X e il XII secolo nei pressi dell’omonima cittadina a est di Milano: da una forma di stracchino andata a male. Ovvero dal formaggio fresco di latte (cagliato) delle vacche stracche (in lombardo “stanche”, perché ogni autunno dovevano tornare dagli alpeggi ai pascoli di pianura). E pensare che a quel tempo si guardava con sospetto alla fermentazione e alla coagulazione del latte, paragonate alla putrefazione. La celebre scuola medica salernitana, nel XII-XIII secolo, teneva sul formaggio un atteggiamento ambiguo. Lo considerava “cibo freddo e indigesto”, ma ne vantava le virtù se assunto con moderazione: “Solo il formaggio mangiato a piccole dosi non fa male alla salute” (un consiglio tutto sommato condiviso dai medici di oggi). Contadini e pastori (che non leggevano trattati ma avevano fame) continuarono però a mangiarne in gran quantità: per loro era un cibo energetico e a buon mercato. «Si consumava in particolare nelle zone di montagna, come sostituto o complemento della carne», spiega Massimo Montanari, medievista e storico dell’alimentazione. «Se si considera la frequenza con la quale il formaggio è citato nei documenti, dovevano essere rare le famiglie che non possedevano l’attrezzatura necessaria alla caseificazione». Monacale. A trasformare il formaggio in risorsa continentale furono però i monaci. «La rinuncia al consumo di carne, proibita in modo più o meno ri-
goroso da quasi tutte le regole, veniva egregiamente compensata dal ricorso al formaggio», spiega lo storico. Per di più, i latticini avevano il pregio di essere un cibo “povero”, ma soprattutto erano un buon modo di conservare il latte. La nascita del grana si fa risalire proprio a questa necessità. In un periodo imprecisato dopo il 1135, anno di fondazione dell’Abbazia di Chiaravalle, a sud di Milano, i monaci cistercensi intrapresero un’imponente opera di disboscamento e bonifica. Introducendo il sistema delle marcite (prati irrigati con canalizzazioni) riuscirono a ottenere foraggio fresco in ogni periodo dell’anno. Come conseguenza, allevarono più mucche e si trovarono con più latte. «I bovini del Medioevo venivano impiegati come forza lavoro, raramente per la carne», chiarisce Montanari. «E il latte veniva utilizzato di rado come bevanda: quasi sempre diventava formaggio». I monaci di Chiaravalle, già gran produttori di formaggelle, pensarono di ottenere – con una cottura della cagliata più lunga (vedi sequenza nella pagina seguente) – una pasta più densa che si potesse stagionare e conservare. Nacque così il caseus vetus (“formaggio vecchio”), ossia il grana. Nello stesso modo nacque il tête de moine ovvero “testa di monaco”. Si tratta di un formaggio stagionato svizzero inventato da un anonimo monaco-casaro del Monastero di Bellelay, nel Giura bernese. Si trova citato – con altra denominazione – per la prima volta in un manoscritto del 1292, ma prese il suo nome attuale all’inizio dell’800, dopo la soppressione dei monasteri. Fu allora che i soldati napoleonici ne scoprirono le forme nelle cantine del monastero e impararono a gustarlo raschiandolo con un apposito attrezzo, chiamato girolle. L’aspetto della forma raschiata ricordava la testa dei monaci, con la tonsura. Prelibati. La carriera dei formaggi stagionati fu inarrestabile. A metà ’400 l’umanista e gastronomo Bartolomeo Sacchi, detto “il Platina”, scrisse: “Due sono le varietà di formaggio che si contendono il primato. Il marzolino, come lo chiamano i toscani, che si fa in Toscana nel mese di marzo; e il parmigiano delle 53
IL GIRO DEL FORMAGGIO
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MUNGITURA I prodotti caseari erano ottenuti più frequentemente da latte di capra o di pecora (come testimonia questa miniatura da un trattato del Duecento).
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DAL CASARO La caseificazione: il caglio (enzimi degli stomaci ovini) aggiunto al latte cotto dava la cagliata. Il grana fu “inventato” prolungandone la cottura.
PANINO
Il formaggio veniva mangiato con il pane (di segale).
SENZA BURRO Il latte si beveva di rado. Il burro si diffuse solo dal ’500.
COTTO
La cottura: più durava, più la pasta (“cacio”) ottenuta induriva.
LEEMAGE
INTERO Il latte munto non veniva scremato, ma usato puro.
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IN OGNI CASA Gli utensili del casaro comprendevano filtri e mestoli.
IN FORMA A seconda del tipo di pasta ottenuta dalla cottura il prodotto si metteva in contenitori di vimini (per i formaggi freschi) o in forme di legno.
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FORMAGGIAI Per secoli i formaggi furono prevalentemente freschi. Nel Medioevo si diffusero quelli stagionati, specialità delle abbazie.
BOTTEGA
IN FAMIGLIA
FORME
Dal Medioevo si diffusero i banchi dei formaggiai.
Alla lavorazione partecipava tutta la famiglia.
BRIDGEMAN/ALINARI
GETTY IMAGES
La pasta ottenuta veniva posta in forme (da cui “formaggio”).
LEEMAGE/MONDADORI PORTFOLIO
LATTE E CAGLIO Dallo stomaco ovino si otteneva anche il caglio.
RICOTTA
Il siero della cagliata, con una seconda cottura, diventava ricotta.
A PESO
La stadera si usava per la vendita a peso dei formaggi stagionati.
PREZIOSE
Le forme più stagionate erano anche le più ricercate.
Il pastore SAN LUCIO, vissuto nel XIII secolo, è il santo PROTETTORE dei casari. Venne UCCISO perché dava ai POVERI il formaggio ricavato dal latte del PADRONE regioni cisalpine, che si può chiamare anche maggengo, dal mese di maggio”. Sono almeno una ventina, stando ai conti dello storico francese Léo Moulin, i formaggi con un’origine medioevale. Tra questi il montasio, chiamato così per la prima volta in un prezzario del 1775, ma nato verso il 1200 nell’Abbazia di Moggio Udinese, in Friuli. E persino la mozzarella, che si produceva nell’Italia Meridionale fin dai tempi della Magna Grecia (VI-V secolo a.C.), fu chiamata così nel Medioevo, perché la pasta filata veniva “mozzata”: in un documento del XII secolo ritrovato a Capua (Caserta) si legge che i monaci del locale Monastero di San Lorenzo ne offrivano una a ogni pellegrino che passava di lì. A peso d’oro. Il valore del formaggio nel Medioevo non si esauriva nell’essere una riserva alimentare strategica per villaggi e monasteri. I prodotti caseari divennero anche “moneta sonante”. I contadini, infatti, dovevano pagare (alle abbazie o ai signori) l’affitto delle terre che lavoravano. E spesso lo facevano con forme di formaggio. In una pergamena del 1380, per esempio, si legge che i contadini della Val Taleggio (Bergamo) dovevano al duca di Milano “ducentum pensa casei boni pulchri ac bene axaxonati” cioè 200 “pesi” (antica unità di misura corrispondente a circa 7 chilogrammi)
di “cacio” (alias formaggio) “buono, bello e ben stagionato”. Forse fu proprio grazie al valore commerciale assunto dal formaggio nel tempo che vennero spazzati via i pregiudizi delle classi superiori nei suoi confronti. Che di fatto, nel ’400, erano già del tutto superati. Basta leggere ciò che scrisse Pantaleone da Confienza nel suo Trattato dei latticini (1447): il medico (al servizio dei Savoia) descrisse le virtù dei formaggi prodotti in Piemonte, Valle d’Aosta, Emilia-Romagna, Toscana, Francia, Inghilterra, Germania e Fiandre, assicurando che i poveri consumavano questo alimento “all’inizio, in mezzo e alla fine del pranzo” e spiegando anche che il formaggio era gradito a “re, duchi, conti, marchesi, baronesse, nobili e mercanti”. Riassumendo: nel Medioevo alle varietà di formaggio più antiche, che avevano sfamato generazioni di popolani, se ne erano aggiunte molte altre. Sempre nel Tardo Medioevo l’alimento finì sulle tavole di tutte le classi sociali. Negli stessi secoli, infine, si affermò una consuetudine incoraggiata dalla medicina del tempo: consumare sempre il formaggio alla fine dei pasti. Abitudine arrivata fino a noi e accompagnata dal proverbio lombardo La boca l’è minga straca se la sa no de vaca: “La bocca non è stanca, finché non sa di vacca”. • Daniele Venturoli
Breve storia del formaggio, nato per caso alle origini della civiltà serto, conservò del latte fresco in un otre ricavato da uno stomaco di pecora. All’arrivo scoprì che, a causa degli scossoni del viaggio e grazie agli enzimi riattivati dal calore, il latte era diventato formaggio. Ma l’idea di trasportare il latte trasformandolo in formaggio si deve ai nomadi dell’Asia Centrale. Mitologico. Ben nota ai Greci (nel mito, Zeus viene nutrito con i formaggi ricavati dal latte della capra Amaltea),
l’arte di trasformare il latte (caprino e pecorino, poi anche vaccino) in formaggio era diffusa in epoca romana in tutta Europa. Giulio Cesare (I secolo a.C.) nel De bello gallico, parlando dei popoli del Nord (Germani e Galli) scrisse che “la maggior parte del loro vitto consiste in latte, formaggio e carne”.
Statuetta greca (VI secolo a.C.): l’uomo grattugia forse del pecorino. CORTESIA CONSORZIO PARMIGIANO REGGIANO
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a scoperta del formaggio avvenne probabilmente per caso già nella preistoria, osservando il latte coagulato nello stomaco di animali uccisi: era il caglio, additivo-base della caseificazione. Gli Egizi 4mila anni fa producevano formaggi di capra e anche gli Ebrei li conoscevano (ne parla la Bibbia). Forse in questo contesto affonda le radici l’antica leggenda – tramandata da varie fonti – del mercante che, attraversando il de-
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RINASCIMENTO
Quanti erano, come VIVEVANO, che cosa MANGIAVANO gli ITALIANI al tempo di LEONARDO
FOTOTECA GILARDI
a.d. 1500
SALUTE INCERTA
Un ospedale del ’400: l’Italia si stava riavendo dalla peste del 1347.
La società italiana
N
ella Penisola, verso il 1500, gli italiani erano quasi 10 milioni. Questi i residenti nelle principali città intorno all’anno 1450:
VENEZIA 90mila
MILANO 90mila
GENOVA 50mila
FIRENZE 40mila
ROMA 35mila
La durata media della vita a Firenze intorno al 1475 era di 43 anni. Le ragazze si sposavano in media a 18 anni (ma a 14 erano già in età da marito), i ragazzi a 30. Solo i più ricchi avevano più figli (a Firenze, in media, 6) perché la necessità della dote da mettere a disposizione poteva mandare in rovina una famiglia. L’omosessualità, benché perseguitata, era di moda nell’alta società.
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In viaggio
L’
italiano medio di 500 anni fa viaggiava di rado. Gli unici a spostarsi erano soldati di ventura, braccianti itineranti, mercanti e, in qualche caso, gli artisti di grido. Ecco alcune indicazioni sui tempi di percorrenza delle strade all’epoca di Leonardo:
VINCI–FIRENZE (40 km circa): due giorni a piedi o a dorso di mulo.
ROMA–AMBOISE (Francia, 1.500 km circa): tre mesi con carri o a dorso di mulo.
Potenti banchieri
L
a fine del Quattrocento segnò l’apice del potere dei banchieri italiani. Nati come mercanti nel Medioevo, molti nuovi ricchi (come i Medici a Firenze o i Chigi a Siena e Roma) si erano infatti trasformati in banchieri. Avevano cioè accumulato tanto denaro da poterlo prestare a sovrani e papi in cambio di vantaggi fiscali e monopoli commerciali. All’origine della congiura dei Pazzi, che nel 1478 tentò di rovesciare i Medici uccidendo a Firenze Giuliano e ferendo Lorenzo il Magnifico, c’era proprio la rivalità tra i due casati nella competizione per il privilegio di essere i banchieri del papato. Dietro a tanti capolavori del Rinascimento ci sono i soldi di queste famiglie che finanziarono Leonardo, Botticelli, Raffaello.
Guerra permanente
S
SCALA
ignorie e repubbliche della Penisola rinascimentale (Venezia, Firenze, Genova e papato in testa) passavano il tempo a farsi la guerra tra alleanze ballerine. E quando l’Italia venne contesa fra Spagna, Francia e Sacro romano impero, i capitani di ventura passarono dal soldo dei signori a quello dei re stranieri. Le battaglie d’Italia fra la metà del ’400 e il ’500 segnarono il successo definitivo delle armi da fuoco e l’avanzata dell’artiglieria, e quindi il progressivo declino dell’esercito in stile medioevale, basato sulla cavalleria.
Un banco di cambio in una miniatura del XV secolo.
A tavola
“F
ormaggio grattato, maccheroni, buon vin, latte, ricotte, uva, fichi, meloni, starne e capponi”. È l’elenco, di un anonimo modenese, dei cibi considerati prelibatezze a metà del ’400. Sulle tavole dei ricchi arrivava soprattutto selvaggina (la carne bovina no, essendo mucche e buoi destinati al lavoro nei campi) e frutta (coltivata in orti ai quali era proibito l’accesso). I contadini si accontentavano di zuppe di cereali e pappe di riso, legumi e pane di segale (l’alimentobase), mentre il consumo di carne non superava i 30 kg all’anno. Abbondavano latticini e uova, ma patate, mais e pomodori, “scoperti” dopo il 1492, arrivarono dal Nuovo Mondo solo nella seconda metà del ’500.
La rivoluzione della stampa
L
a stampa a caratteri mobili approdò in Italia nel 1464, quando nel monastero benedettino di Subiaco (Roma) giunsero i monaci tedeschi Conrad Sweynhem e Arnold Pannartz: con loro avevano matrici e punzoni per la fusione dei caratteri mobili messi a punto una decina d’anni prima da Gutenberg. Nel 1470 aprì la sua bottega il primo stampatore italiano, il messinese Giovanni Filippo De Lignamine e ben presto l’Italia superò tutti. Lo dimostrano le cifre delle edizioni stampate (con tirature fra 300 e 1.000 copie) alla fine del Quattrocento:
ITALIA 4.157
GERMANIA 3.232
FRANCIA 998
INGHILTERRA 395
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RINASCIMENTO
Un’epoca di PROSPERITÀ e spensieratezza? Solo per pochi. La BELLA VITA dei signori, e quella GRAMA di tutti gli altri, 500 anni fa
CHI PUÒ ESSER
LIETO SIA
B
anchetti sontuosi, saloni scintillanti, feste fantasmagoriche, discorsi raffinati... È questa l’immagine dell’Italia rinascimentale che pittori e letterati ci hanno tramandato. Ma era davvero così? Non per tutti. Il nostro Paese, almeno fino all’inizio del ’500, era un posto molto pericoloso, tormentato da guerre, percorso da capitani di ventura e mercenari. Scavando negli archivi notarili, poi, si è scoperto che fino a metà del Quattrocento la peste era ancora la prima causa di morte. Le grandi ricchezze investite nell’arte, infine, erano concentrate nelle mani di poche famiglie. Boom edilizio. Verso la metà del Quattrocento gli italiani erano poco più di 7 milioni. Cinquant’anni dopo sfioravano i 10 milioni, 150mila dei quali vivevano nel territorio di Firenze, la metropoli più vivace del secolo. La ripresa, dopo le pesti del Trecento (oltre 25 milioni di morti in tutta Europa), era stata trainata dai “nuovi ricchi”, mercanti del tessile e banchieri in testa. Furono loro a finanziare gli eleganti palazzi cresciuti al posto delle casetorri di epoca comunale. A tre o a quattro piani, avevano le cucine in alto, come i castelli medioevali, per scongiurare il pericolo di incendi e tenere lontani i cattivi odori. Tra il 1450 e il 1478, nella città toscana di questi edifici ne sorsero una trentina: Firenze era un grande cantiere, e non solo di idee. La speculazione edilizia portò lavoro e ricchezza e i consumi accelerarono. Eppure i fiorentini raramente superavano i 40 anni, e la “forbice” tra ricchi e poveri, invece di chiudersi, si aprì. Le differenze di ceto erano evidenti persino a tavola. «Certi cibi erano solo per i signori, altri per i contadini», spiega Massimo Montanari, medievista dell’Università di Bologna e storico dell’alimentazione. «Esisteva una corrispondenza simbolica fra
LUOGO DI INCONTRO
ALINARI
Piazza del Mercato Vecchio a Firenze nel XVI secolo, in un dipinto di Giovanni Stradano. Al mercato si incontravano nobili, borghesi e popolani.
la gerarchia sociale e quella naturale, quindi fra ceti “alti” e cibi “alti”. Gli animali “alti” erano i volatili. I vegetali “alti” erano i frutti». Nel 1487 Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna, per il matrimonio del figlio Annibale con Lucrezia d’Este offrì un banchetto durato sette ore. Prima di essere servite, le vivande furono portate “con grandissimo onore intorno la piazza del palazzo per farne mostra al popolo, acciocché vedesse tanta magnificenza”. Guardare, stupirsi, ma non toccare. Sulle tavole dei signori, apparecchiate con i primi bicchieri individuali e le forchette (prima si usavano boccali che passavano di mano in mano e coltelli), il piatto forte era la cacciagione. «I volatili erano considerati i simboli dello status signorile», continua Montanari. Le pernici, per esempio, erano riservate ai notabili della città, mentre erano considerate dannose per la salute di tutti gli altri. Zuco Padella, contadino bolognese che ogni notte rubava le pesche dall’orto del suo signore, fu punito e così redarguito: “un’altra volta lassa stare le fructe de li mi pari, e mangia le tue, che suono rape, agli, porri e cepolle”. Per i poveri, insomma, solo ortaggi. Il sapore dominante, per tutti, era il dolce-salato: “lo zucchero non guasta mai la minestra”, scriveva Bartolomeo Sacchi nel suo trattato Sul piacere onesto e la buona salute. Ricavato dal miele (per i poveri) o dallo zucchero (per i ricchi) un tocco di dolce era irrinunciabile. Il pane si faceva con l’orzo e l’avena, ma anche con farina di fave, fagioli e lenticchie. «La maggior parte degli italiani, nelle campagne, mangiava legumi e cereali. La sola carne, per loro, era quella di maiale», dice lo storico. «Tra i prodotti importati dall’America, patate e mais si diffusero lentamente, e solo tra i meno abbienti. Fra i ricchi ebbe subito successo solo il tacchino; tra i poveri il peperoncino, usato al posto delle più costose spezie». 59
LEEMAGE
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Si credeva che gli ANIMALI più grandi fossero anche i più nutrienti. Perciò nei banchetti erano RISERVATI agli ospiti di riguardo A sinistra, il banchetto dei principi. Particolare delle Nozze di Cana di Paolo Veronese (1563), oggi conservato al Louvre di Parigi.
CIBO E PIACERE
Sotto, una cucina del XVI secolo, nel quadro Voluptas carnis (piacere carnale) del fiammingo Pieter Aertsen.
Medici improvvisati. La malnutrizione era la causa del precario stato di salute degli italiani. La medicina dell’epoca, del resto, era quella che era. Si credeva che i malanni dipendessero da uno squilibrio tra i quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco) e i rimedi a disposizione erano pochi: salassi, impacchi, intrugli di erbe e invocazioni ai santi e alla Madonna. La Chiesa e la superstizione continuavano a regolare la vita dei più. La professione medica non era regolamentata, perché i saperi non erano specialistici come oggi. L’umanista Marsilio Ficino era medico, filosofo e letterato; Angelo Poliziano (poeta) fu anche giurista; Luca Pacioli pittore e matematico. La stragrande maggioranza degli italiani era invece analfabeta. Di conseguenza, la diffusione di una mentalità “moderna” fu lenta. Gutenberg inventò intorno al 1450 la stampa a caratteri mobili, ma di libri se ne vendevano pochi. La carta costava cara, poiché la materia prima per realizzarla – gli stracci – era ricercatissima e relativamente rara. I libri, poi, si vendevano “sciolti” e chi poteva permetterseli doveva sobbarcarsi il costo della rilegatura. Oppure far da sé, con ago e filo. Ci vollero decenni prima che una ricca biblioteca diventasse uno status-symbol. Dove invece non si badava a spese era nei banchetti nuziali, proprio come oggi. «Un’eccessiva ostentazione di ricchezza era però punita dalla legge», osserva Montanari. A moderare gli eccessi del lusso ci pensavano le leggi suntuarie. «Fissavano il numero delle portate e degli invitati, a seconda delle occasioni. Presentate come norme etiche (la moderazione
era una virtù) ed economiche (le risorse alimentari non si dovevano sprecare) erano uno strumento di controllo sociale. Queste leggi non si applicavano ai nobili: servivano a difendere i simboli dei privilegi nobiliari, limitandone la diffusione tra i nuovi ricchi». In un manoscritto del 1566 si legge che i borghesi di Milano desideravano più di ogni altra cosa “eguagliarsi almen col vestire alla nobiltà”. E il modo migliore per salire nella scala sociale era un buon matrimonio: anche l’amore ubbidiva al portafogli. Al mercato delle mogli. «La dimensione della famiglia, soprattutto in città, era in rapporto diretto con l’attività, il rango sociale e la ricchezza del capofamiglia», spiega lo studioso di demografia storica Giuliano Pinto, dell’Università di Firenze. Ma diversamente da ciò che accade oggi in molte regioni del mondo, i più benestanti avevano più figli. «A metà del ’400, a Siena, le famiglie più ricche contavano mediamente nove membri, ma quelle di ceto medio-basso, che erano la maggioranza, sfioravano appena i quattro membri». Una figlia in età da marito (cioè sopra i 14 anni) poteva significare la rovina. «La concessione di una ricca dote divenne una condizione necessaria», spiega Pinto. «Gli stessi governi cittadini dovettero intervenire per limitare la consistenza delle doti. In alcune città si istituirono i “monti delle doti”: si versava all’istituto una somma iniziale intestata a una bambina, che veniva restituita con gli interessi al momento del matrimonio». Una specie di fondo d’investimento. «I maschi delle famiglie più facoltose si sposavano sempre più tar-
LESSING/CONTRASTO
I BAGORDI DEI PIÙ RICCHI
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LEEMAGE /MONDADORI PORTFOLIO (2)
Teoricamente le donne SPOSATE non godevano del permesso di USCIRE DA SOLE, ma la realtà era ben DIVERSA MATRIMONIO TRA NOBILI
A sinistra, un corteo nuziale a Firenze, in un particolare del quadro Cassone Adimari (1450 circa) di Giovanni di Ser Giovanni, detto lo Scheggia.
NELL’OSPEDALE
Sotto, un infermiere lava i piedi a un pellegrino malato in un affresco di Taddeo di Bartolo.
di. Prima dovevano dedicarsi agli studi o all’apprendistato della mercatura». Così in città gli uomini si sposavano a 30 anni e le ragazze a 18, mentre in campagna i maschi erano “sistemati” già a 24 anni. Sesso e feste. In materia di sesso, valevano gli insegnamenti della Chiesa. Ma l’alto numero di figli illegittimi (uno su 12 a fine ’500) dimostra che non erano molto rispettati. La donna era considerata uno strumento per la prosecuzione della stirpe e sottostava all’autorità del padre prima e del marito poi. Trucchi e cosmetici erano banditi. Le uniche a svincolarsi da queste regole erano le donne di potere, come Isabella d’Este (v. riquadro nella prossima pagina). Ma la novità in fatto di erotismo fu la moda dell’omosessualità. Ufficialmente proibita, si diffuse rapidamente tra le classi agiate e gli intellettuali (il caso più famoso e controverso è quello di Leonardo). La parola d’ordine era infatti “imitare gli antichi”, Greci in testa, tra i quali l’amore omosessuale era normale. Nella Toscana della fine del Quattrocento si narra fosse così comune che, in tedesco, la parola florenzer (“fiorentino”) era sinonimo di omosessuale. Troppo per il frate Girolamo Savonarola che, dando fuoco a strumenti musicali, libri e opere d’arte al grido di penitenziagite! (“fate penitenza”) tentò di restaurare nella città dei Medici la morale medioevale. Ma a finire sul rogo, alla fine, fu proprio lui, nel 1498. I due mondi paralleli del Rinascimento, quello nobile e quello borghese e popolare, si toccavano durante le feste pubbliche. Il tempo libero era pochissimo, specie d’estate, visto che si lavorava dall’alba al tramonto. Ma nessuno rinunciava a partecipare
ai divertimenti organizzati dai signori per mostrare la loro grandezza: giostre, tornei, corse di cavalli, rappresentazioni teatrali all’aperto. Con gli anni, la mania delle feste e dei giochi che segnavano ogni evento ufficiale nelle città più grandi passò ai piccoli centri. Dal Carnevale al Calendimaggio, dalla festa del santo patrono alla Mezza quaresima, numerose ricorrenze liturgiche finirono per trasformarsi in sagre paesane. Molte delle quali ci sono ancora oggi. Spenditori, sensali e urlatori. C’era un altro luogo di incontro tra classi diverse, quello degli acquisti. Al mercato e nelle botteghe si trovavano popolani, mercanti, garzoni, bottegai e nobiluomini, a caccia di un buon affare tra pelli, carne, pesce, sete e spezie. «Le botteghe erano piccolissime e precarie», racconta Donatella Calabi, docente di Storia della città e del territorio all’Università di Venezia. «Per lo più erano strutture in legno e stoffa, affiancate lungo le vie». Le poche in muratura, poste al pianterreno delle case, avevano un retrobottega o un soppalco che fungeva da deposito, raggiungibile con una scaletta interna. Solo una tenda proteggeva l’ingresso, mentre al posto delle vetrine c’erano grandi sportelli in legno che venivano alzati durante il giorno. «Nel Rinascimento i poveri divennero un po’ meno poveri e i ricchi molto più ricchi», spiega Franco Franceschi, docente di Storia medioevale all’Università di Siena. «Ciò portò a una grande espansione dei consumi e al diffondersi di molti prodotti, anche di pregio. Le sete, per esempio, divennero uno degli articoli di punta dell’industria tessile italiana, che ne esportava grandi quantità». Le vie principali
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FRUTTA, SCARPE, PANE E MEDICINE
LEEMAGE (6)
Gli affreschi del Castello di Issogne, in Val d’Aosta, descrivono bene le attività di fine ’400. In alto da sinistra, la bottega di un fruttivendolo (con dietro esposte le scarpe di un calzolaio) e una farmacia. A lato, un farmacista che fa i conti e la bottega di un pizzicagnolo. In basso, un forno (per i benestanti, mentre i poveri il pane lo facevano in casa) e una sartoria: un abito di seta poteva costare come un piccolo podere.
Nella Firenze del ’500, un metro di tessuto in SETA E ORO costava sui 40 FIORINI. Un manovale ne guadagnava 15 in un anno di Milano, Firenze, Genova, Venezia e Bologna, le “città della seta”, si riempirono di grandi botteghe di lusso (le antenate delle boutiques) dove le stoffe pregiate attiravano dame e mercanti: lì un abito poteva costare fino a dieci volte il salario annuale di un muratore. Così ai poveri non restava che rivolgersi al rigattiere, dove si potevano noleggiare, di mese in mese, letti, lenzuola, pentole e vestiti. Gli artigiani e i commercianti che trattavano uno stesso prodotto si riunivano di solito lungo la medesima strada. E le vie dei Calzaioli, delle Mercerie, delle Pelliccerie, dei Bicchierai e degli Orefici che ancora oggi si incontrano a Firenze, Venezia o Milano sono un’eredità di quel tempo. La contrattazione con i clienti avveniva per strada, davanti ai banchi o ai negozi. Orario continuato. L’attività iniziava presto, con il sorgere del sole, e terminava alle nove di sera. Le botteghe che erano anche laboratori e luoghi di produzione ottenevano però permessi speciali per restare aperte anche di notte. Un modo per prevenire, grazie alla presenza dei proprietari, i temutissimi incendi. Come quello che divampò a Venezia nel gennaio del 1514, quando una teleria di Rialto prese fuoco distruggendo il ponte omonimo (allora di legno) e molte abitazioni. Intorno a botteghe e mercati si scambiavano anche idee e notizie. «In un’epoca senza mezzi d’informazione di massa, le persone venivano a conoscenza dei fatti cittadini e delle nuove leggi nelle strade, davanti ai negozi e tra i banchi del mercato, al richiamo dei trombettieri e dei cosiddetti “urlatori”», spiega Fabrizio Nevola, docente di Storia dell’arte all’Università di Exeter nel Devon (Inghilterra). Ma con il loro diffondersi, le botteghe
diventarono persino ritrovo di intellettuali. Gli artisti, infatti, erano artigiani come gli altri, con la loro bottega. In quella fiorentina dello scultore Baccio d’Agnolo (1462-1543) il giovane Raffaello passava ore a parlare con i suoi colleghi pittori. Anche Michelangelo passava di lì, di tanto in tanto. «All’epoca c’era un forte senso estetico e dell’ordine, anche urbanistico», prosegue Nevola. «A Firenze, per esempio, nel 1593 il granduca di Toscana Ferdinando I de’ Medici, stanco di vedere Ponte Vecchio deturpato da “macellari, pizzicagnoli, fabbri et altri esercitij”, per garantire “la maggior bellezza della città” ne fece chiudere le botteghe, mettendo al loro posto i negozi degli orafi, che ancora oggi occupano il ponte». Concerie, telerie e vetrerie, maleodoranti e pericolose, vennero col tempo trasferite fuori dai centri urbani o lungo i fiumi. Nacquero così le “zone industriali”, come l’isola di Murano a Venezia, dove tuttora lavorano i mastri vetrai. Anche i caotici mercati cittadini quotidiani vennero riorganizzati. I banchi di pesce, carne, frutta e verdura finirono ai margini del mercato, mentre a chi trattava oro, argento, spezie e stoffe, alle banche e ai cambiavalute furono riservati gli spazi più belli e centrali. Fiera addio. Ai margini dei mercati, infine, vivevano mendicanti, indovini, truffatori e ciarlatani. Era l’eredità delle fiere. Anche se in realtà le fiere e i mercati itineranti, legati al mondo medioevale, iniziarono a scomparire: era venuta meno la loro funzione principale, che era quella di far circolare le merci. A questo, ci avrebbero pensato fin da allora bottegai e negozianti. • Aldo Carioli e Paola Grimaldi
C
ome spendevano i loro soldi i signori del Rinascimento? Per scoprirlo basta dare un’acchiata ai loro archivi. Per esempio in quello di Isabella d’Este (1474-1539) moglie di Francesco II Gonzaga, signore di Mantova. Spendacciona. Isabella era una donna che amava il lusso e che per essere alla moda spendeva cifre colossali. Ogni volta che un dignitario si recava in missione in altre
città, Isabella gli commissionava qualche “spesuccia”. Per tutta la vita, mettendo mano alla sua ricca dote, acquistò gioielli, mobili e piccoli oggetti preziosi che poi regalava. Aveva appena 17 anni, per esempio, quando chiese a un tale Zibiolo in partenza per Parigi di comprarle, con i 100 ducati che gli aveva affidato, velluti, gemme e rosari in ambra. E durante i suoi viaggi non rinunciava mai a fare un po’ di shopping:
a Roma, nel 1527, si recò apposta a Campo dei Fiori per acquistare alcuni cammei e monete antiche. Truffata. Nonostante il suo gusto raffinato, anche Isabella incappò in qualche fregatura: come quando, dopo aver pagato a un antiquario romano 44 scudi d’oro per alcune statuette antiche in marmo, scoprì di aver comprato dei falsi. Rispedì indietro la merce e pretese la restituzione dei soldi.
SCALA
Lo shopping extralusso di Isabella d’Este, marchesa di Mantova
Isabella ritratta da Tiziano.
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TEMPO LIBERO
Sono molti gli SPORT e i PASSATEMPI che ancora ci appassionano a essere stati INVENTATI o codificati tra il Quattrocento e il Cinquecento: ecco come ci si divertiva nel RINASCIMENTO
IL SECOLO DEI
GIOCHI
CIVETTINO
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N CAVALLINA GIORNI SPENSIERATI
LESSING/CONTRASTO (4)
Sopra, saltare sopra la schiena del compagno chino: uno dei Giochi di bambini di Bruegel. Altri esempi? La mosca cieca (a lato) e la parodia del battesimo (sotto). A sinistra, i due contendenti, tenuti fermi per i piedi dall’“arbitro”, dovevano evitare con rapidi movimenti della testa gli schiaffi dell’avversario.
MOSCA CIECA
FINTO BATTESIMO
el Rinascimento Dolce&Gabbana avrebbero firmato le cartelle della tombola, anziché vestiti e profumi, perché il gioco (sportivo, da tavolo, d’azzardo, da bambini, individuale o di squadra) raggiunse tra il Quattro e il Cinquecento un’importanza straordinaria. Tanto che un artista del calibro di Mantegna, pittore molto richiesto dalle corti (da qui il paragone con gli stilisti) nel 1470 accettò di disegnare un prezioso mazzo di tarocchi. Rebus geniali. Dopo la cupezza medioevale, quando divertimento faceva rima con peccato, nel Rinascimento giocare diventò… di moda. L’uomo era il nuovo centro dell’universo e con lui tutte le attività creative: le arti, la scienza, l’esplorazione, la cartografia, la botanica, la magia. E nella caleidoscopica inventiva dei geni del tempo (come Leonardo da Vinci, che disseminò i suoi codici di rebus, e Michelangelo Buonarroti, che invece inventò enigmi) ci stava anche il gioco: la prima forma di espressione della creatività, dato che si comincia a praticarlo (e a inventarlo) nell’infanzia. «Nel Medioevo la Chiesa aveva considerato il gioco come un’attività demoniaca, che distoglieva l’attenzione da Dio e dalla preghiera», spiega Pietro Turano, autore dell’Enciclopedia dei giochi tradizionali (Jonia). «Ma l’Umanesimo, dalla fine del XIV secolo, recupera le tradizioni ludiche del mondo greco e latino, che nel Rinascimento vengono rielaborate e proiettate verso il futuro». Infatti molti giochi e sport che ancora oggi pratichiamo sono nati in quei secoli. «Come il calcio, discendente della palla alla fiorentina, più simile in verità al rugby», dice Michele Francipane, fondatore dell’Accademia dei ludogrammatici e autore di molti libri sul tema. «E il girello, antesignano della roulette, il bigliardo, miniatura del classico gioco delle bocce, il kolv e il bandy, progenitori dell’hockey su ghiaccio». Non solo. Giochi più antichi, nel Rinascimento acquisirono le regole (stabilite, per la prima volta, in trattati scritti) con le quali sono arrivati fino a noi. È il caso dei giochi di società, della dama e degli scacchi, di sport come l’ippica, il nuoto o la scherma e di spettacoli di massa, come il palio. Il gioco nell’arte. «Il gioco recupera anche un valore pratico, oltre che ricreativo. E una dignità culturale e pedagogica», aggiunge Michele Francipane. «In Gargantua e Pantagruel, scritto da François Rabelais nel 1532, sono elencati oltre 200 67
giochi in cui si esibiva il gigante Pantagruel, emblema dell’uomo rinascimentale». Un altro eccezionale catalogo di passatempi è il capolavoro di Pieter Bruegel il Vecchio, che nel 1560, nel dipinto Giochi di bambini, ne raffigura una novantina: piccoli contadini che fanno bolle di sapone, capriole e sgambetti, saltano la cavallina, giocano a mosca cieca e a campana, col cerchio, con formine di fango, sonagli, trottole, sassolini, bambole, pentoline in miniatura, trampoli, palline… «Molti erano svaghi praticati già dai bambini egizi, greci e romani», sottolinea Paola Biral, storica e autrice di Puer ludens: i giochi infantili nell’iconografia dal XIV al XVI secolo (Editoria Universitaria Venezia). «La novità sta nel fatto che per la prima volta un artista fa dei giochi infantili – che fino ad allora erano comparsi solo in calendari o arazzi o nei margini dei codici miniati – il soggetto principale di un’opera d’arte».
CURLING BOCCE SU GHIACCIO
BRIDGEMAN/ALINARI
Rappresentato da Pieter Bruegel il Vecchio nel XVI secolo, oggi il curling è uno sport olimpico.
Passatempi bisex. Un gioco popolare da sempre e spesso raffigurato nel Rinascimento è la bambola, condivisa da maschietti e femminucce. Il futuro re di Francia Luigi XIII, nato nel 1601, le adorava e ne ricevette in dono una carrozza piena. Eleonora d’Aragona, duchessa di Ferrara, regalò ad Anna Sforza, fidanzata undicenne di suo figlio Alfonso d’Este, una bambola con un ricco corredo di abiti realizzati dal primo sarto di corte, Tommaso da Napoli: una pupattola alla moda che non aveva nulla da invidiare alla nostra Barbie e al suo guardaroba firmato da stilisti internazionali. Battaglie a tavolino. Verso la metà del XVI secolo era popolarissimo il bigliardo, anche se le sue origini sono probabilmente anteriori. In Italia era praticato col nome di “gioco delle gugole” (le gugole erano le palle). E nella Repubblica di Genova nacque il lotto: i cinque membri del Serenissimo
AKG /MONDADORI PORTFOLIO
Erano molto praticati anche i GIOCHI d’azzardo con le CARTE, come la ZECCHINETTA, talmente diffusi che spesso dovettero essere PROIBITI
I TAROCCHI VISCONTI-SFORZA
La Morte, la Papessa e l’Appeso: tre delle carte fatte disegnare nel XV secolo dai signori di Milano.
LESSING/CONTRASTO (2)
GOLF
COL BASTONE RICURVO
Sopra, il golf era praticato dagli scozzesi già nel XIII secolo, ma furono gli inglesi a costruire il primo campo nel 1552. Sotto, I bari di Caravaggio, 1594. Le carte si diffusero nel Rinascimento grazie all’invenzione della stampa.
collegio erano eletti con un’estrazione tra 120 candidati, i cui nomi venivano messi in un’urna detta seminario. “Gioco del seminario” si chiamavano le scommesse che la gente faceva sull’esito delle estrazioni. Col tempo i nomi nell’urna scesero a 90. Anche molti giochi da tavolo ancora popolari sono stati inventati nel Rinascimento. Come il gioco dell’oca: «Secondo una leggenda fu inventato dai soldati greci durante l’assedio di Troia», spiega Pietro Turano, «ma diverse fonti ne danno la nascita a Firenze, nella seconda metà del Cinquecento». Altro gioco da tavola molto diffuso era la tombola, nata a Genova dal gioco del lotto e divenuta popolarissima in Francia grazie a Francesco I di Valois (1494-1547) che la introdusse a corte dopo la campagna d’Italia. Nelle corti francesi rinascimentali impazzavano anche i war games: il passatempo preferito da re e principi furono i campi di battaglia in miniatura, dove soldatini, cannoni, fortificazioni, strade, ponti levatoi e fossati con acqua corrente erano realizzati da abili architetti, decoratori, scultori e meccanici. François Rabelais e Michel de Montaigne, poi, parlano nei loro scritti dello shangai, il gioco di abilità con i bastoncini colorati, oggi più noto come mikado. Anche se sono state trovate tracce di scacchiere su monumenti egizi, in Italia le prime testimonianze certe dell’esistenza della dama risalgono al XVI secolo, e da allora il gioco ha cominciato a comparire nelle opere letterarie e teatrali, segno della sua popolarità. Briscola! Per lo sviluppo dei giochi di carte in Europa fondamentale fu l’invenzione (probabilmente tra Mantova e Ferrara nel 1430) del gioco dei trionfi, che introdusse il concetto di briscola, il seme che vince tutti gli altri, rendendo così tutti i giochi di carte più complessi e dando un grande impulso alla loro diffusione. Hanno origini quattrocentesche anche il baccarà, oggi praticato nei casinò soprattutto nella variante dello chemin de fer, e la scopa, napoletana. E c’è chi vede nel poker una somiglianza con un gioco persiano del XVI secolo, l’Âs-Nâs.
Tutti sportivi. Nel film Non ci resta che piangere, Massimo Troisi, catapultato indietro nel tempo a fine Quattrocento, riceve istruzioni da una fanciulla su come giocare a palla: in effetti, nel Rinascimento il più “italiano” degli sport era già praticato con passione. Molto antica è anche l’idea di colpire la palla con un attrezzo. Ma è del 1555 la prima testimonianza moderna: Antonio Scaino, in un trattato dedicato ad Alfonso d’Este, scrive che i giochi di palla più popolari erano il pallone a bracciale (antenato del moderno pallone elastico, nel quale le squadre devono colpire la palla con un pugno o con l’avambraccio), il tamburello e la pallacorda: da questo gioco, codificato allora, è disceso il tennis. «Mentre il primo campo da golf fu realizzato in Inghilterra nel 1552, sotto la regina Maria Stuarda, e il curling fu ideato in Scozia, poco prima del Rinascimento», aggiunge Francipane. Sempre in Scozia, ma già in epoca rinascimentale, si utilizzò per la prima volta la lama sotto i pattini da ghiaccio: in precedenza i pattini erano fatti con tibie di cavallo, mentre la mandibola veniva utilizzata dai bimbi più piccoli come slittino. • Mariateresa Truncellito
ZARRO
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VISTI DA VICINO
V
oluto da Federico da Montefeltro, duca di Urbino, il palazzo fu iniziato nel 1444, ma solo con l’arrivo dell’architetto dalmata Luciano Laurana nel 1468, e poi del senese Francesco di Giorgio Martini nel 1474 circa, fu delineato il progetto definitivo “in forma di città”. In effetti, il palazzo non era solo una residenza privata, ma una “casa di vita”, dove tutti avevano il diritto di entrare. La sua costruzione fu terminata nel 1536.
UNA CASA A
PALAZZO Il Palazzo DUCALE di Urbino, vera cittadella dentro la città, è un CAPOLAVORO dell’architettura residenziale del RINASCIMENTO
ILLUSTRAZIONI G. ALBERTINI
Piano dei servizi 1 LAVANDERIA E TINTORIA
Gli indumenti venivano lavati in grandi vasche servite da un efficiente sistema idraulico. In altri vasconi la servitù provvedeva anche alla tintura dei panni. 2 CUCINE DEL PALAZZO
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I pasti si preparavano nella cucina grande per gli ospiti, in quella piccola per il duca e la sua famiglia. Lì a fianco c’era anche un alloggio per i cuochi. 3 DEPOSITO E NEVIERA
Era costituito da una serie di stanze cieche per depositarvi legna, provviste e neve. La neviera serviva infatti per conservare i cibi freschi anche d’estate.
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4 SELLERIA E MASCALCIA Direttamente collegato alla scuderia c’era l’ambiente dove i cavalli venivano sellati e ferrati. In fondo lo spazio era chiuso da un bagno di servizio che utilizzavano i maniscalchi. 5 SCUDERIA GRANDE Era suddivisa in 25 stalle. Molto ampia e funzionale, aveva il pavimento in pietre forate, così da consentire lo scarico diretto dei rifiuti organici.
Piano nobile 1 CORTILE D’ONORE Progettato da Luciano Laurana, è un gioiello dell’arte rinascimentale. Le colonne, i fregi decorativi e i giochi cromatici sono splendidi esempi di armonia architettonica.
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2 SALONE DELLE FESTE Affacciato sulla piazza, era usato per cerimonie e occasioni importanti. Due camini riscaldavano il vasto ambiente dove venivano accolti gli ospiti. 3 APPARTAMENTO DELLA DUCHESSA
Era costituito da cinque stanze. Dalla camera da letto si accedeva allo studiolo, alla saletta di preghiera e al salottino. E da qui a una grande sala per ricevere artisti e letterati. 4 APPARTAMENTO DEL DUCA Cinque stanze comunicanti con i torricini e affacciate sul giardino interno: camera da letto, studiolo, celletta di preghiera, sala di lavoro e un grande salotto dove venivano ricevuti gli ospiti più illustri.
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5 5 TORRICINI ALL’INGRESSO
Alte quasi 60 metri, le due torrette erano ricche di accessi e percorsi segreti, riservati al duca e ai suoi intimi per spostarsi in ogni parte del palazzo.
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6 BAGNO PRIVATO DEL DUCA
Vi si accedeva con una scala direttamente dallo studiolo. L’ambiente, riscaldato, comprendeva uno spogliatoio e una stanza per il bagno e la sauna.
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RINASCIMENTO
Guidati da un POETA DI CORTE, ecco un’incursione nel cuore del Rinascimento LOMBARDO. Prima che la morte di Beatrice d’Este segnasse il declino del Moro e del DUCATO di Milano
ALLA CORTE DEL
SCALA (2)
MORO
ALINARI
ARTI E INGEGNO AL CASTELLO
La corte di Ludovico il Moro in un dipinto di Giuseppe Diotti. Il duca era un grande mecenate.
LUDOVICO E BEATRICE
A sinistra, la sposa del Moro morì di parto a 21 anni, il 2 gennaio 1497. Era stata promessa al duca già a cinque anni di età.
S
ono tempi calamitosi. Le guerre si succedono fuori dal Ducato e la situazione non è tranquilla neppure dentro Milano. La pace di Lodi del 1454 è ormai un lontano ricordo: le alleanze tra gli Stati italiani e quelle con gli Stati stranieri sono fragili. Non ci si può fidare di nessuno. Tanto meno del mio duca, signore di Milano, Ludovico Sforza detto “il Moro”, un campione delle alleanze di comodo e dei ripensamenti in corsa. I suoi sudditi non lo amano: lo incolpano di aver avvelenato nel 1494 suo nipote Gian Galeazzo, figlio venticinquenne del duca Galeazzo Maria, assassinato nel 1476. Si dice che Ludovico avesse cominciato a estromettere dal potere il ragazzo fin dal 1480, quando, fatto uccidere il vecchio e fidato segretario Cicco Simonetta e spedita la madre nel castello di Abbiate, ne era diventato il tutore. Poi, con l’avallo dell’imperatore d’Asburgo Massimiliano, aveva usurpato “legittimamente” il trono del nipote. Due mesi dopo Gian Galeazzo era morto. Voci dicono che ci fosse anche lo zampino del re di Francia, Carlo VIII, accolto a Milano con tutti gli onori dal mio duca. Vita a corte. Eppure, qui alla corte di Ludovico Sforza sembra che la vita non sia mai andata meglio. E in effetti così pare anche a me, che sono un semplice poeta, scrivo testi in lingua volgare per compiacere il mio Signore e aiuto a mettere in scena gli spettacoli tanto amati dalla mia Signora, Beatrice d’Este. Ricordo ancora quando arrivò a Milano per il suo matrimonio: il 22 gennaio 1491 ogni bottega sulla via percorsa dal corteo era in festa.
Sventolavano tessuti, ricami in oro e argento, gioielli preziosi e, sulla via degli armaioli, le facevano ala “due schiere di guerrieri immobili, chiusi nell’arme, montanti su cavalli di battaglia coperti di squame di ferro: vuote armature atteggiate con nobile artificio”. L’anno dopo, anche alcuni ambasciatori veneziani rimasero colpiti dalla quantità e dall’alacrità degli artigiani milanesi: “Tanti mestieri, tante botteghe vi sono de ogni sorte: quivi si trova de tutte le cose alcuna che non si lavori qui, et de ogni cosa se trova. Tutte le strade sono solleggiate et a per tutto sono botteghe et continuo lavorano in esse molti lavoranti”. Al servizio del duca. Dicevo: va tutto bene, insomma. O così sembra. Ma mentre la corte si diverte tra cacce, balli, tornei e spettacoli, e le dame sfoggiano sontuosi abiti di seta o di velluto, scollature procaci e gioielli tra i capelli, il popolo non è contento: il Moro ha ereditato uno Stato in pessime condizioni economiche e chi ne fa le spese, nel vero senso della parola, sono i cittadini, poveri e ricchi, laici e religiosi. Nuove imposte o prestiti forzosi: qualunque mezzo è lecito, purché il prestigio del duca e del Ducato restino intatti. E a questo serviamo noi, uomini di lettere: a sostenere il nostro Signore scrivendo opere che ne esaltino le gesta. Per farlo non usiamo il latino dei dotti umanisti, ma una lingua volgare raffinata, ripulita rispetto al dialetto di Milano e per certi versi simile al fiorentino. Così tutti possono leggere le lodi dedicate a Ludovico. Lo stesso effetto hanno la scultura, la pittura, l’architettura e l’arte in genere, che esalta e abbellisce la città per gli occhi di tutti, signori e villani. Non per caso il grande Leonardo da Vinci ha 73
ALINARI (4)
“Tutte le STRADE sono soleggiate e dappertutto vi sono BOTTEGHE trovato a Milano il luogo ideale per il suo ingegno: invenzioni, scenografie superbe per il teatro, scritti, tutto per la gloria della corte ducale. Tanto splendore riesco a notarlo anche passeggiando per le strade affollate della città: torri, chiese, palazzi signorili, monasteri, orti e giardini... tutto trasmette un’idea di ricchezza. Il centro civile ed ecclesiastico ruota attorno alla piazza dove si sta costruendo il Duomo: qui si trovano anche la Curia arcivescovile e il Broletto, la sede del governo. Poco lontana la Zecca e i banchi dei cambiavalute. Il sistema dei navigli. Intorno ai canali navigabili che attraversano la città, si raccolgono gli artigiani che hanno bisogno di molta acqua per il loro lavoro, come tintori, fustagnai e conciatori. E lungo questi corsi d’acqua si susseguono anche mulini, ponti, darsene e approdi, magazzini, taverne, osterie e alberghi per i viaggiatori e i mercanti che fanno prosperare la ricca economia ducale. Ogni Porta ha una sua spezieria e per le strade numerose botteghe vendono pane, frutta e verdura, stoffe, nastri e pizzi. Mano a mano che mi allontano dal centro, però, la Milano ricca e fastosa scompare, lasciando il posto ai borghi vicini alle mura: qui ci sono le case dei cittadini di ceto medio basso, le attività artigianali meno nobili e uno spazio ormai insufficiente per contenere la popolazione in aumento; ma la tristezza diventa più nera quando raggiungo i sobborghi e le casupole rifugio dei disgraziati. Le strade diventano persino 74
più sporche di quelle della città, invase dal fango e dai rifiuti domestici. Non c’è da stupirsi, stando così le cose, delle frequenti epidemie, intervallate dalle carestie, che hanno colpito Milano negli ultimi anni. La pestilenza scoppiata nel 1485 ha ucciso un decimo della popolazione: come al solito, poveri e ammalati hanno intasato l’Ospedale Maggiore, perciò tre anni dopo, di fronte all’abbazia di San Dionigi, vicino alla Porta Orientale, è cominciata la costruzione del Lazzaretto. In questa nuova struttura potranno essere raccolti gli appestati e i malati sospetti. Pena capitale. Mentre guardo gli operai che lavorano alacremente al grande edificio, uno scalpellino sbaglia mira e si dà una martellata sul piede. Senza che se ne accorga, gli è già partita una bestemmia. Un viziaccio, qui a Milano più comune che in altre città. Comune al punto che nel 1492 il mio duca ha stabilito che i cosiddetti “esecutori contro la bestemmia” potranno punire i bestemmiatori incatenandoli in mezzo alla strada o bandendoli per un mese dai propri domini o addirittura amputando loro una mano. E chi deturpa le immagini sacre rischia la pena capitale. Di solito i condannati a morte vengono impiccati, ma non mancano i casi di squartamento e di abbrugiamento, com’è successo nel 1490 a una presunta strega, arsa sul rogo. Ad assistere al crudo spettacolo c’erano anche dei bambini, alcuni più piccoli di quelli che adesso mi superano di corsa, a piedi scalzi: avranno tutti più o meno sette anni.
LA CENA PIÙ NOTA
Sopra, il Cenacolo di Leonardo da Vinci nel refettorio dell’ex convento di Santa Maria delle Grazie.
FOTOTECA GILARDI
piene di LAVORANTI continuamente AFFACCENDATI” Probabilmente sono appena finite le lezioni nella parrocchia vicina. I parroci sono obbligati a insegnaSopra a sinistra, la Dama re a leggere, scrivere e far di conto ai figli dei poveri e con l’ermellino ovvero dei nullatenenti. Per i nobili e i ricchi borghesi ci soCecilia Gallerani, amante no invece i precettori, che vivono e insegnano tra le del Moro, dipinta da mura domestiche, mentre chi non può permettersi Leonardo. In alto a destra, la un maestro privato spedisce i propri figli nelle scuocupola progettata da le a pagamento, dove uno o più maestri si dividono Bramante all’interno di Santa Maria delle Grazie le lezioni e le materie. Una volta ricevuta un’istruzione di base, chi vuole proseguire gli studi sceglie (sotto). secondo le proprie possibilità economiche: i poveri possono approfittare di scuole pubbliche fatte costruire da ricchi benefattori, mentre i ricchi in genere frequentano i corsi dell’Università di Pavia. Gli altri hanno a disposizione l’Accademia fondata da Ludovico, una specie di istituto di studi superiori, con lezioni impartite pubblicamente da prestigiosi docenti, tra cui anche Leonardo. Cultura, ricchezza e splendore. Finora ci siamo circondati di questo, alla corte di Milano. Ma questo nuovo anno, il 1497, non preannuncia niente di buono: oggi, 2 gennaio, è morta di parto la nostra giovanissima Signora. Aveva 21 anni. Il duca è distrutto, nel corpo e nell’anima; i milanesi sperano e guardano con occhi che brillano alla Francia. Ma io posso già dire che a partire da questo momento “ogni cosa andò in rovina e precipizio, e de lieto paradiso in tenebroso inferno la corte se converse”. • Maria Leonarda Leone
FOTOTECA GILARDI
CHIESA E AMORI DEL MORO
PER GLI APPESTATI
Sopra, il Lazzaretto, struttura innovativa del 1488, durò quattro secoli. Sorgeva in zona Buenos Aires. Sotto, uno dei cortili del Castello. Venne edificato tra il 1360 e il 1370 da Galeazzo II Visconti.
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AISA/ALINARI
La vita a CUSCO, capitale del Perù nel Cinquecento. Quando gli INDIOS furono cristianizzati, messi in schiavitù nelle ENCOMIENDAS e DECIMATI dalle malattie
I AL POSTO DEGLI INCA
Vista sulla valle sotto la fortezza Inca di Sacsayhuaman. Sopra, il conquistador Pizarro che la prese nel 1533.
ndios, spagnoli, meticci. Contadini, missionari, avventurieri. Era un’umanità variegata quella che si incontrava a metà ’500 dalle parti di Quscu (oggi Cusco) in Perù: “ombelico dell’universo” secondo l’originaria lingua quechua e – fino al 1533 – ex capitale dell’Impero inca. Dopo divenne un melting pot coloniale, fatto di indigeni ridotti in schiavitù, ex aristocratici incaici pronti a collaborare con i nuovi venuti, avventurieri spagnoli in cerca di fortuna, uomini d’arme assetati di gloria e denaro e tanti religiosi intenzionati a convertire al Verbo le popolazioni del Nuovo Mondo. Che erano soprattutto contadini messi a lavorare in latifondi e costretti a imparare il Vangelo: i loro enormi templi incaici, trasformati in mastodontiche cattedrali barocche, furono forse la metafora più emblematica di questo processo. logica coloniale. Fondata nel 1100 a.C. a oltre 3mila metri di altitudine sulla Cordigliera delle Ande, negli anni dell’Impero incaico Cusco si era guadagnata un ruolo strategico, sia politico che religioso. Gli abitanti non se la passavano male: coltivavano terre i cui prodotti potevano essere destinati al re, ai religiosi locali o alla comunità e godevano poi dei frutti del loro lavoro senza eccessive tassazioni. 77
L’obbligo per gli INDIGENI di risiedere nei territori AFFIDATI agli ENCOMENDEROS disgregò il loro tessuto SOCIALE L’occupazione di Francisco Pizarro però scompaginò le carte: uno dei suoi primi provvedimenti – il cambio di nome in Cusco – nascondeva infatti la sua vera intenzione: rivoluzionare l’intero sistema sociale imponendo una logica coloniale, tutta a favore della madrepatria spagnola. A fare da padrone dopo il suo arrivo fu il governatore, che rendeva conto a un viceré – delegato del sovrano spagnolo nel vicereame del Perù – e comandava i capitani, a capo di singole circoscrizioni. L’élite sociale divennero i señores, membri dell’aristocrazia coloniale che esercitavano il potere attraverso l’encomienda, un’istituzione giuridica di sapore feudale, importata dall’Europa, che garantiva una “efficace” e spietata gestione del potere. Si affidavano a degli encomenderos, rigorosamente nativi spagnoli, lotti di terreno abitati con “in dotazione” gruppi di indios. In pratica il re li concedeva in usufrutto al conquista78
tore che aveva l’onere di organizzare loro la vita, di istruirli e, soprattutto, cristianizzarli. Finendo per renderli schiavi (v. riquadro a destra), spesso con la complicità di vecchi capi inca, i curaca (o caciques) che, come portavoce degli indios, avevano il compito di mediare con le volontà dell’aristocrazia. Anarchia sessuale. Le donne non se la passavano meglio: in molte di queste encomiendas s’impose infatti, almeno nelle fasi iniziali della conquista, una vera a propria “anarchia sessuale”. Al modello patriarcale cattolico e monogamico si sostituì quello più licenzioso della poligamia, che rese l’harem un’istituzione semi-ufficiale nonostante la Chiesa spagnola cercasse di ostacolarla. Il rapimento di indigene divenne così la prima forma di schiavitù: durò per tutto il periodo coloniale e, a differenza di quella maschile, fu tollerata anche in seguito, tant’è che non sono note leggi contro queste pratiche.
DA PALAZZO A CATTEDRALE
Sopra, la cattedrale della Compagnia di Gesù di Cusco, eretta nel 1576 sulle fondazioni dell’Amarucancha, il palazzo del re inca Huayna Capac.
Penuria di indios? Importate schiavi
DESIGN PICS INC/NATIONAL GEOGRAPHIC CREATIVE
importare schiavi dall’Africa e a metà del XVI secolo venne vietata la schiavitù degli indios. Via Caraibi. I primi schiavi africani giunsero in Perù nel 1501 quando i sovrani di Spagna, Ferdinando e Isabella, concessero ai coloni dei Caraibi, a corto di manodopera, di importarli. Tra il 1502 e il 1518 furono deportati via mare molti neri nati in Spagna, chiamati ladinos, destinati
Superiorità occidentale? Il dominio degli europei sugli indigeni, secondo Juan Gines de Sepúlveda, umanista del tempo, non era però privo di logica. In suo soccorso andava la teoria del “cattivo selvaggio”: “spagnoli e indios condividevano l’umanità; ma quella dei barbari era un’umanità di livello inferiore, e per questo erano servi per natura. Era nel loro interesse essere sottomessi e governati da chi è signore per natura”. Le pratiche di antropofagia e quelle sacrificali diffuse tra le comunità indigene non facevano peraltro che confermare questo pregiudizio. Ma chi erano questi moralizzatori del Vecchio Mondo che spadroneggiavano in città? «Il vero conquistatore era l’hidalgo», spiega Enrico Galavotti nella Scoperta e conquista dell’America, «che dalla Reconquista (il periodo di rioccupazione dei regni moreschi
FILANDA
Operai filano sotto lo sguardo del loro padrone in una stampa settecentesca, appartenuta a un vescovo spagnolo.
CASEIFICIO
soprattutto alle miniere. Va detto però che i negrieri spagnoli furono decisamente meno attivi di quelli inglesi. Nelle colonie ispaniche comprare schiavi era legale, ma gli iberici entrarono nel business della tratta atlantica (oltre 10 milioni di africani deportati nelle Americhe) solo a fine ’700 e gli schiavi “spagnoli” in Sud America e Caraibi furono in tutto circa 2 milioni.
musulmani della Penisola iberica da parte dei sovrani cristiani, ndr) non aveva ottenuto vantaggi materiali. Questo militare a tempo pieno, cadetto di famiglia nobile ma decaduta, nelle “Indie” si emancipava economicamente dalla propria soggezione». Con massacri, sfruttamenti ed espropriazioni. Ad alta quota. A Cusco le risorse e le terre da espropriare non mancavano, anche se la maggior parte si trovava sull’altopiano delle Ande a quota 4mila metri e il lavoro per renderle produttive era faticosissimo. Qui gli indios dovevano coltivare, per i loro coloni, patate, mais e quinoa (il “grano delle Ande”), tre pilastri non solo dell’alimentazione peruviana ma anche dell’export verso l’Europa. Gli uomini lavoravano in squadra, senza l’aiuto degli animali addomesticabili che scarseggiavano
Indigeni preparano il formaggio artigianalmente in una bottega manipolando il prodotto in grandi anfore.
TINTORIA
Un indigeno srotola il tessuto per la bollitura dentro una grande pentola, per fissare la tintura naturale.
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AISA/ALINARI (3)
L
o schiavismo, introdotto con la creazione delle prime colonie spagnole in America Latina, serviva a garantirsi un flusso costante di manodopera gratuita. Inizialmente furono gli indios a essere ridotti in servitù, ma malattie come tifo e tetano, fame e guerre, oltre al lavoro, finirono con il decimarli un po’ ovunque. Per questo, all’inizio del ’500, si cominciarono a
Nel 1542 si vararono le cosiddette LEGGI NUOVE, che provarono a MIGLIORARE le condizioni degli indigeni cambiando il SISTEMA dell’ENCOMIENDA
BIRRAI
Donne tolgono la schiuma alla chicha, una “birra” derivata dalla fermentazione non distillata di mais e altri cereali.
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pagina). In molti partirono dalla Spagna con un disegno di evangelizzazione, vedendo nelle terre americane un’umanità da plasmare secondo i principi cristiani, in un momento in cui la Chiesa sembrava perdere colpi dopo lo scisma protestante (1517). Conversioni di massa. Gli indios, a Cusco come altrove, si sottoponevano in genere senza opporre resistenza ai battesimi di massa che avvenivano quasi settimanalmente, praticati soprattutto dai francescani. Ma non mancavano culti locali garantiti dalla sopravvivenza del sincretismo religioso: nelle chiese di Cusco per esempio, la Madonna veniva talvolta raffigurata in forma triangolare a ricordo dell’antico culto incaico della Pachamama, la divinità della terra-madre. In realtà, se in un primo momento ci fu una fase violenta, caratterizzata da soprusi che a volte gli stessi uomini di chiesa, come il domenicano Bartolomeo de Las Casas, denunciarono, a partire dalla fine del ’500 si entrò in una fase polemica da un punto di vista telogico, morale e giuridico: si fecero anche in Europa i primi bilanci delle conquiste e si aprì un dibattito che portò a definire precise responsabilità politiche e religiose con nuove normative anche tra i missionari. • Paolo Manzo (ha collaborato Giuliana Rotondi)
MUSICANTI
Indios ballano nel patio della chicheria, l’equivalente dei pub, con l’accompagnamento musicale di una chitarra.
TEMPO LIBERO
Indigeni giocano a carte: questo passatempo si diffuse largamente in America a partire dal XV secolo.
AISA/ALINARI (4)
sulle Ande: i lama erano troppo piccoli per tirare l’aratro o trasportare esseri umani, quindi tutto il lavoro veniva eseguito con la zappa e una sorta di grossa vanga. Le donne aiutavano i mariti, canti rituali e salmodie ritmavano il lavoro. Le pause di riposo erano invece accompagnate da tazze di chicha, la birra di mais, e da manciate di foglie di coca. Gli spagnoli favorirono l’uso dell’alcol, con la conseguente diffusione, soprattutto tra gli indios, della piaga dell’alcolismo che, insieme al dilagare di malattie, come il morbillo e l’influenza, contribuì alla loro decimazione. E chi non si ammalava? Si incontrava nella Plaza de las armas, nata sul perimetro della precedente piazza principale costruita negli anni dell’Impero inca col nome di Awqaypata (Piazza del guerriero). I coloni, oltre a cambiarle il nome, vollero rimodernarla “all’occidentale”: al posto del palazzo di Inca Roca misero per esempio l’abitazione dei loro arcivescovi. Mentre i vecchi templi indigeni furono rimodellati secondo gli stili delle chiese barocche, ornate al loro interno con molti dipinti del nostro Rinascimento. Un ruolo decisivo nel ripensare la città lo ebbero infatti, oltre all’aristocrazia coloniale spagnola, i missionari, domenicani, francescani, agostiniani e soprattutto gesuiti (v. riquadro nell’altra
CONTROCORRENTE
Il vescovo domenicano Bartolomeo de Las Casas, nato nel 1485 e non nel 1474 come si legge sul dipinto: denunciò lo sfruttamento degli indios, stimolando in Spagna il dibattito sulla colonizzazione.
Ridotti... nelle riduzioni
L
e riduzioni gesuite, o reducciones, fanno da sfondo a un celebre film con Robert De Niro, Mission (1986) di Roland Joffé. Ma di cosa si trattava? Erano piccoli nuclei cittadini, in cui si strutturarono le missioni gesuitiche in molte zone dell’America Latina: centri per l’evangelizzazione delle popolazioni indigene organizzati e amministrati per
educare alla religione cattolica i suoi abitanti, grazie anche alla fondazione di collegi e conventi. Lo scopo delle Missioni era creare una società nuova, con tutti i benefici di cui godeva già la cosiddetta società cristiana europea, priva però dei “vizi” presenti nella madrepatria. Per questo anche l’impianto urbanistico si ispirava al modello dei villaggi spagnoli.
Città nuove. Nell’area centrale erano concentrate le case, mentre il terreno che circondava le riduzioni era destinato al bestiame, alla ricreazione e a terre per la comunità con spazi riservati agli indios. Nella piazza centrale si trovava poi la sede della scuola, del carcere e di una chiesa. Anche se una legge prevedeva che agli indios “ridotti” non si potessero togliere i terreni, le
autorità spagnole rispettarono parzialmente le direttive. All’inizio del Seicento i superiori gesuiti attuarono poi una politica finalizzata a rendere più stanziali gli indigeni: si impose loro di abbandonare la vita nomade e fissarsi in modo stabile in alcuni villaggi bene organizzati. Spesso a discapito delle coltivazioni stagionali, che la loro mobilità faceva prosperare. (g. r.)
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TEMPO LIBERO
Nei teatri di LONDRA, 400 anni fa, succedeva un po’ di tutto:
ILLUSTRAZIONI A. MOLINO
SHAKESPEARE
DAL VERO
A. CHOPPING/MOLA (6)
dalle lotte tra ANIMALI agli spuntini alle OSTRICHE
PIACERE TOTALE
Ricostruzione del Rose Theatre nel 1600 circa. Durante lo spettacolo il pubblico beveva, fumava e mangiava. Lo provano gli oggetti ritrovati sul sito del teatro dagli archeologi, come il forchettone sopra e i resti di frutta secca sotto.
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Nel giro di pochi DECENNI, a Londra sorsero cinque grandi teatri
B
uio in sala. Silenzio. Sipario. Oggi è così che inizia una serata a teatro. Ma ai tempi di Shakespeare era tutto il contrario: c’era la (di solito poca) luce del sole, regnava la confusione e il sipario non esisteva nemmeno. E quando Romeo e Giulietta, Amleto e Otello debuttarono sulle scene nella Londra di 400 anni fa, l’epoca della regina Elisabetta I e del suo successore Giacomo I (sovrani d’Inghilterra fra il 1558 e il 1625), a dare spettacolo, oltre agli attori, c’era il pubblico. Gli storici lo avevano già capito leggendo le testimonianze del tempo, ma ormai ci sono anche le prove archeologiche, emerse dagli scavi sul sito dove sorgeva uno dei primi teatri pubblici inglesi, il Rose. A teatro si mangiava, si beveva e si assisteva a combattimenti fra animali. Una passionaccia che in pochi anni finì per travolgere molti dei 200mila londinesi, dal popolino alla corte, regina inclusa. Cercasi casa. «Gli attori delle cento e più compagnie attive in Inghilterra a metà Cinquecento si esibivano inizialmente, con i loro spettacoli profani (quelli sacri avevano per sfondo chiese e sagrati, ndr), nei cortili delle locande», spiega Cesare Molinari, autore di un’importante Storia del teatro (Laterza). Le leggi contro il vagabondaggio li costrinsero a cercare, quando non riuscivano a farsi assumere a corte o da qualche nobile, luoghi dove esibirsi stabilmente e quindi legalmente. Nacque così il primo edificio in Europa costruito per ospitare spettacoli a pagamento. L’idea venne, nel 1577, all’attore e impresario James Burbage, che fece erigere il suo teatro nella periferia nord di Londra. Era a cielo aperto, come i cortili delle bettole da cui derivava e come le arene destinate ai combattimenti tra anima-
SUL TAMIGI
Sopra, il quartiere (allora periferico) sulla riva sud del Tamigi dove, verso il 1580, si concentrarono i teatri, le arene per i combattimenti fra animali e le taverne.
TRACCE
Un anello d’oro e una scarpa di cuoio trovati nella platea del Rose: li persero gli spettatori che affollavano il teatro, ben quattro secoli fa.
Così nacque il teatro moderno
I
l teatro elisabettiano, riscoperto nell’Ottocento, fondeva due tradizioni: quella degli attori girovaghi medioevali e quella nobile che si ispirava al mondo classico. A celebrarne il matrimonio fu William Shakespeare (1564-1616). Di lui si sa poco (si è pensato a lungo che il nome fosse uno pseudonimo) ma
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per i biografi ufficiali era un agiato figlio di mercanti. Gli si attribuiscono oltre 30 opere, nelle quali esplorò tutti i generi conosciuti mischiando, per la prima volta nella Storia, il registro comico e quello tragico. Per questo, dicono gli storici, il teatro elisabettiano piaceva a tutti: nobili, borghesi e popolani. Ma ritmo e
vivacità erano garantiti anche senza effetti speciali: in pochi minuti si passava dalla notte al giorno, dal pianto al riso, con un ritmo quasi televisivo. Commedianti. Qualcosa di simile accadeva, negli stessi anni, in Italia e in Francia, dove spopolava la Commedia dell’arte. Le compagnie girova-
ghe introdussero personaggi-tipo che erano incarnazioni di caratteri umani e ruoli sociali, simboleggiati da maschere poi confluite nella tradizione del carnevale. Gli attori, professionisti, improvvisavano le battute su un “canovaccio”, un copione sommario. La trama era solo un pretesto per far divertire e
il finale era già noto al pubblico: Arlecchino sarebbe stato bastonato e Pantalone avrebbe pagato. Nel 1745, con il suo Arlecchino servitore di due padroni, il veneziano Carlo Goldoni sdoganò i personaggi della Commedia dell’arte di fronte a un nuovo pubblico, quello del teatro moderno: i borghesi.
pubblici a PAGAMENTO. Che si aggiunsero a quelli privati e di corte li (tori, orsi, cani, galli), amatissimi dai londinesi. Burbage lo chiamò The Theatre, “il Teatro”. Dopo qualche anno lo smontò (era di legno) e lo rimontò sulla sponda sud del Tamigi (il Southbank) ribattezzando il nuovo edificio, a pianta esagonale, The Globe. Sfidò così la concorrenza degli altri teatri spuntati in quella zona in pochi anni, uno vicino all’altro. Di uno di quei luoghi storici (dove lavorò, prima di passare al Globe, anche Shakespeare) sappiamo molto grazie al diario del suo impresario Philip Henslowe e grazie agli scavi condotti negli ultimi anni: il teatro Rose. Alla rovescia. Il Rose era quasi circolare, con una pianta a 14 brevi lati. Nacque probabilmente sul sito di un’arena, il cui terreno centrale fu trasformato in platea. Al contrario di oggi non era però lì che si trovavano i posti migliori, anche perché nella
platea, scoperta, si rischiava di prendere la pioggia. Come negli altri teatri del Southbank, il cortile in terra battuta era in parte occupato da un piccolo palco: non oltre 15 metri di larghezza per sette di profondità negli edifici più grandi. Il palco era circondato su tre lati dagli spettatori, che interagivano con gli attori gridando loro battute e consigli ed era protetto da un baldacchino sostenuto da pali alti circa sette metri; una semplice tenda faceva da quinta. «Si è calcolato che la platea del Rose potesse ospitare da 400 a 700 persone in piedi», dice Julian Bowsher, archeologo del Museum of London che ha scavato sul sito del Rose. Tutt’intorno si innalzava la struttura del teatro, interamente in legno: tre piani di gallerie coperte, riserva-
BOX-OFFICE
Sotto, un ingresso del Rose: i tre penny per un posto in galleria (con cuscino) erano raccolti in cassette di legno. In alto a destra, fronte e retro di un “gettone” in rame: talvolta si dava come prova del pagamento.
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Sul PICCOLO palcoscenico si AMMASSAVANO anche
A CACCIA DI REPERTI
Un frammento della balaustra in legno di una galleria del Rose.
te ai benestanti e culminanti da un lato in una torretta con l’insegna del teatro (una rosa per il Rose, un cigno per lo Swan, il globo per il Globe...). Sulla galleria alle spalle del palco e sul baldacchino si svolgevano le scene “rialzate” come quella del balcone di Giulietta. Dalle botole del palco spuntavano invece mostri e fantasmi. Accomodatevi. Se a teatro a Londra ci andavano davvero tutti, posti e prezzi erano ben distinti: un penny per la platea, due per le gallerie, tre se si voleva anche un cuscino per stare più comodi sulle panche. Le monete venivano raccolte in scatole di legno. «Alcune avevano serrature, ma altre, di semplice fattura e sistemate negli ingressi secondari, venivano rotte a fine spettacolo per estrarne l’incasso», spiega Bowsher. In tutto, un teatro pubblico di Londra a fine Cinquecento poteva ospitare circa 2mila spettatori paganti. Il giro d’affari era dunque ottimo (benché interrotto nel 1593 dalla peste, che costrinse a chiudere i battenti per un anno). Nemmeno gli attori lavoravano per la gloria. Tutti maschi (per le donne era disdicevole salire su un palco) e professionisti, erano soci di compagnie-cooperative di cui dividevano spese e utili (solo gli attori secondari erano pagati a prestazione). Non a
Quasi come allo stadio
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radinate gremite di migliaia di uomini e donne che gridano e si agitano. Qualcuno mangia, altri cercano riparo dal sole. Non sono tifosi allo stadio, ma ateniesi di 2.500 anni fa durante una rappresentazione teatrale. In gara. Le rappresentazioni si susseguivano una all’altra (di giorno) per quattro giornate in occasione degli agoni drammatici: erano gare dedicate agli dèi (pare vietate alle donne fino al IV secolo a.C.). Il biglietto costava quanto la
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paga giornaliera di un operaio, ma vino e dolci erano distribuiti gratis. Finanziati dai cittadini più ricchi, gli spettacoli raccontavano le storie dei miti e furono decisivi per cementare l’identità greca. Per questo drammi e commedie (ma c’era anche la satira politica) scaldavano gli animi: chi non gradiva lo spettacolo lanciava dei fichi. Per strada. Anche per tutto il Medioevo gli spettacoli furono molto diversi dai nostri. Le rappresentazioni sacre (soprattutto nel periodo pasquale) avveniva-
no in tutta Europa nelle chiese (dove recitavano monaci, magari nei panni di angeli e madonne) e sui sagrati. Ma anche in strade e piazze, durante le festività (carnevale in testa). E se i nobili, dal ’500, ebbero teatri privati, quelli pubblici aperti in Italia nel ’700 divennero luoghi di divertimento con il boom del melodramma: sui palchi si amoreggiava e si giocava a carte, in platea si ballava. E solo nell’800, con la nascita del dramma borghese, debuttò il “rito” della serata a teatro.
caso le autorizzazioni concesse agli impresari definivano la recitazione un trade, un libero commercio. Molta gente di teatro si guadagnò, oltre alla pagnotta, un prestigio sociale prima impensabile: il figlio di Burbage, attore nella compagnia di Shakespeare, divenne ricchissimo e il suo collega Edward Alleyn riuscì a comprarsi un castello. Quanto a Shakespeare, dal 1603 fu assunto con la sua compagnia da re Giacomo. Spettacolo totale. Gli spettacoli erano spesso creati dagli attori stessi, che vendevano il copyright dei testi a impresari ed editori. Non duravano più di due ore e univano (assoluta novità, v. riquadro nella pagina precedente) umorismo e dramma, apparizioni magiche e scene d’amore, assassinii truculenti e personaggi storici, figure mitologiche e intermezzi clowneschi. Il tutto accompagnato da musiche, danze e grida del pubblico. Tra i ruoli più apprezzati c’erano quelli femmini-
20 ATTORI. E in platea più di 500 PERSONE in piedi li. «Venivano affidati a giovinetti di 11 o 12 anni, anche se per noi risulta ostico immaginare un bambino che interpreta personaggi come Lady Macbeth», racconta Molinari. «Esistevano compagnie composte solo da ragazzi, probabilmente sottoposti a ogni tipo di sfruttamento. Ma nelle compagnie di adulti i giovani interpreti avevano lo status di apprendisti». In più, gli impresari arrotondavano ospitando nei loro teatri combattimenti tra animali, di solito cani sguinzagliati contro un orso incatenato (la cui carne – come dimostrano le ossa ritrovate al Rose – veniva poi mangiata). Il quartiere del divertimento, nel complesso, era un posto poco raccomandabile. Arene, teatri e taverne convivevano gomito a gomito. Forse anche per questo, alcol e cibo erano normali durante le rappresentazioni. Birra a fiumi. I teatri non avevano alcuna infrastruttura: non c’erano toilette (anche se sono stati trovati alcuni pitali) e non esistevano foyer o bar in-
terni. In compenso dalle taverne arrivavano birra a fiumi e cibo in abbondanza, servito dai garzoni durante gli spettacoli. «Il 40% del vasellame ritrovato negli scavi del Rose è costituito da piatti di portata o da cucina, il 12% erano brocche per servire bevande (birra o vino) e il 24% recipienti per bere (boccali e tazze)», spiega Bowsher. «In una lettera del 1615 si legge che il rumore prodotto dai bevitori di ale (la birra scura inglese, ndr) era la distrazione più comune nei teatri». Tutto questo non aiutava la concentrazione degli attori, assediati dal pubblico su tre lati e costretti ad affidarsi solo alla mimica per rendere la situazione, anche perché la scenografia nel teatro elisabettiano era ridotta all’essenziale (solo i costumi pare fossero particolarmente vistosi). A tavola! Mentre sul palco imperatori romani e re d’Inghilterra offrivano il loro regno per un cavallo, il pubblico spolpava selvaggina pregiata, gam-
BESTIALI
I primi teatri elisabettiani nacquero dalle arene per i combattimenti fra animali (orsi e cani, di solito). In alcuni casi gli impresari organizzavano questi giochi feroci anche subito dopo le rappresentazioni.
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Dal 1608, in inverno, la COMPAGNIA del Globe recitò al BLACKFRIARS: coperto e cinque volte più caro, aveva un pubblico più SELEZIONATO
IN PLATEA E SUL PALCO
Sopra, una fibbia: dagli scavi del Rose sono emerse anche spille. Sotto, in scena si usavano armi vere. Durante una finta esecuzione, si legge in una lettera del 1587, una donna e un bimbo sarebbero morti per un incidente.
beri e granchi di fiume (i resti di questi ultimi sono stati trovati in abbondanza sotto le gallerie) e sorbiva zuppe di tartaruga. Qualcuno ha lasciato sul posto anche scarpe (persino di bambini, che accompagnavano i genitori e verosimilmente scorrazzavano per il teatro) e spille per mantelli e abiti, allora status symbol (nel 1565 Elisabetta I ordinò 25mila spille in sei mesi!). In platea invece si aprivano ostriche. «I 433 resti di molluschi marini trovati nel sito del Rose sono per il 77% gusci di ostriche», spiega Bowsher. Al tempo non erano un lusso: arrivavano dal vicino Atlantico e si vendevano per strada, a poco prezzo. Gli archeologi hanno anche trovato semi di anguria e zucca, resti di frutta secca e frutta fresca:
insomma, gli snack (tra cui prelibatezze del Nuovo Mondo) erano vari e abbondanti. E c’era anche chi fumava. «Sono state rinvenute diverse pipe, segno che il tabacco, portato dall’America meno di un secolo prima, aveva rapidamente preso piede in Inghilterra». Provate, oggi, ad accendervi una sigaretta a teatro: allarmi e vigili del fuoco scattano all’istante. Ma nei teatri inglesi non era il fumo il pericolo maggiore. Le armi di scena erano vere, commissionate agli stessi armaioli che rifornivano l’esercito e la flotta di Sua Maestà. Spade, ma anche pistole. Come quella che, stando a una lettera del 1587, evidentemente caricata con palle vere, avrebbe ucciso un bambino e una donna durante una scena di fucilazione. «L’episodio potrebbe essere un’esagerazione dell’autore della lettera, Philip Gawdy, un puritano che vedeva i teatri come luoghi di perdizione», spiega Bowsher. «Tuttavia incidenti analoghi sono riportati anche da altre fonti». Del resto, il 29 giugno 1613, il Globe fu devastato da un incendio provocato proprio dalle salve di cannone sparate durante la rappresentazione di un nuovo dramma storico di Shakespeare, l’Enrico VIII. Puritani bacchettoni. Non fu però il fuoco a cancellare quel caotico ma vitale modo di fare spettacolo. A riuscirci furono gli amici di mister Gawdy, il partito dei puritani che dopo la fine della dinastia Tudor (quando Elisabetta morì senza eredi nel 1603 salì al trono Giacomo, uno Stuart) portò la guerra civile in Inghilterra e abolì, con Oliver Cromwell, la monarchia. A caccia di simboli degli odiati sovrani, i moralizzatori fecero prima chiudere e poi distruggere i teatri. Era il 1642. «Nel giro di vent’anni il ricordo di cos’era stato uno spettacolo elisabettiano scomparve o impallidì moltissimo», commenta Molinari. I nuovi teatri che vennero ricostruiti solo dopo la restaurazione della monarchia (1660) erano tutta un’altra cosa: all’italiana, quadrati e con il palcoscenico su un unico lato (come oggi), accoglievano sui loro palchi anche le attrici. E solo dopo quattro secoli gli archeologi hanno riscoperto, sotto le strade di Londra, le tracce del mondo perduto di William Shakespeare. • Aldo Carioli
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TRASPORTI
Se all’improvviso veniste TRASCINATI in un’epoca passata, per esempio sulle STRADE del XVIII secolo, sapreste cavarvela? Sì, grazie a queste ISTRUZIONI per l’uso...
SPOSTARSI IN
L
CARROZZA
a norma, per la maggior parte della popolazione, era di non muoversi mai oltre la propria abitazione e i campi coltivati, al massimo ci si permetteva una puntata al paese più vicino, in occasione di qualche festività o di una fiera. Alcuni però viaggiavano, soprattutto mercanti e intellettuali, per necessità economica e culturale, nonostante le condizioni impossibili delle strade, i collegamenti lenti e i pericoli infiniti. Si spostavano per chilometri e chilometri, anche migliaia, attraverso il continente europeo. Viaggiare comodi. Quando si poteva, si viaggiava con le navi, per mare o lungo i fiumi; quello era il modo più comodo e sicuro per spostarsi. Ma per i tragitti nelle regioni interne non si poteva fare a meno di viaggiare lungo le strade e, se i poveri si muovevano a piedi, chi se lo poteva permettere usava la carrozza. Si poteva utilizzare il cavallo ma non era da tutti stare su una sella per giorni e giorni. Chi non era abituato alla sella non aveva altra scelta se non quella di accomodarsi sugli imbottiti sedili di una “berlina”. La carrozza (e il carro suo antenato) era fin dall’antichità un segno di nobiltà. Solo i ricchi (che quasi sempre erano appunto aristocratici) potevano permettersi i costi di mantenimento di una carrozza, i cavalli per trainarla e il cocchiere per condurla. Ma dalla seconda metà del Settecento si affermò in Europa un servizio di carrozze postali adibite anche al trasporto di passeggeri. Pagando il biglietto si poteva viaggiare a piacimento e in modo (quasi) sicuro. • Giorgio Albertini
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Quando viaggiate assicuratevi di avere i documenti in ordine. I caselli daziari interromperanno la vostra corsa ogni pochi chilometri. Le strade sono ancora proprietà di singole municipalità o dei signorotti locali che pretenderanno un pagamento per il transito. E approfittate delle soste per scendere e sgranchirvi le gambe.
Preparatevi a viaggiare in un abitacolo molto ristretto. Sebbene i rivestimenti siano per lo più in tessuti pregiati, le imbottiture sono di paglia, dura e stopposa, intollerabile dopo qualche ora di utilizzo, figuratevi dopo alcuni giorni. Attenzione ai contraccolpi! Il sistema di ammortizzatori è ancora primordiale, le ruote sono in legno con cerchi in metallo; ogni asperità del terreno verrà avvertita dal vostro corpo.
Vi consigliamo di preparare i bagagli utilizzando bauli in cuoio, vimini o legno imbottito per prevenire gli scossoni che inevitabilmente farebbero ruzzolare qualche valigia giù dalla carrozza. Bisognerà pure assicurarsi che le valigie siano chiuse a chiave con un forte lucchetto.
La BERLINA è un modello di carrozza chiusa che dalla fine del XVII secolo rese un po’ più comodi i viaggi. Secondo la tradizione i primi modelli furono costruiti a Berlino (da cui deriva il nome) da un architetto piemontese, Filippo Di Chiese, ma ben presto si diffusero anche nel resto d’Europa.
Quando salite abbiate l’accortezza di far pulire il cuscino del vostro sedile. Meglio ancora se ricoprirete il posto con un lenzuolo o con una pelle di daino. I sedili sono in genere infestati da parassiti come pulci, pidocchi, piattole, cimici e zecche, comuni per altro a tutti i luoghi pubblici dell’epoca. Vi suggeriamo di portare con voi piccoli sacchetti di canfora (nel tondo) da spargere sulla seduta.
Nonostante si paghino gabelle per il transito sulle strade, il che presupporrebbe la cura e la sicurezza delle stesse, i sentieri sono infestati da banditi che rapinano i viaggiatori, soprattutto quelli in carrozza. In Inghilterra questi briganti si chiamano highwaymen (“briganti della strada carrozzabile”) e possono essere spietati assassini.
ABITACOLO O CASSA, che nei primi modelli poteva non avere finestrini.
FANALE
Per quanto l’abitacolo sia piccolo, sarete stupiti nel constatare quante persone vi possono alloggiare. Su di una seduta di circa un metro e mezzo possono stare fino a quattro persone, per un totale di otto nell’intero abitacolo. Gli ingombranti vestiti dell’epoca non vi aiuteranno, soprattutto quelli femminili. Nei viaggi estivi (d’inverno, quando le strade si trasformano in acquitrini fangosi, meglio stare a casa) l’interno di una carrozza può diventare una fornace.
Il viaggio sarà lento. Per coprire, per esempio, i 3.200 km da Lisbona (Portogallo) a Danzica (Polonia) ci potrebbero volere anche più di 50 giorni. Del resto alle carrozze è vietato procedere al galoppo (dimenticate le diligenze del Far West lanciate alla corsa sfrenata lungo le praterie): al massimo è consentito un piccolo trotto. Nei centri abitati poi è consentito procedere solo al passo. Se è la velocità che cercate, questo viaggio non fa per voi. SEDILE DEL COCCHIERE o cassetta
SPORTELLO
CRUSCOTTO o pedana del cocchiere TIMONE
TELAIO G. ALBERTINI
PIANALE per bagagli e staffieri
Con il maltempo le strade diventano difficilmente praticabili, le piene dei fiumi possono distruggere i ponti e le bufere possono bloccare un convoglio per giorni. In condizioni di strade precarie aumentano anche le possibilità di un incidente. Rompere una ruota o addirittura il semiasse non è una probabilità remota; anche il rovesciamento della carrozza, sbilanciata magari dal fango, è comune.
PEDANA RETRATTILE RUOTE con cerchi in ferro
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IN FABBRICA
SCHIAVI DEL
LAVORO
I
La realtà DISUMANA nelle FABBRICHE, dove si sfruttavano persino i bambini, e nei quartieri PROLETARI dell’Ottocento che fece indignare MARX (e non solo)
RISCHI CONTINUI
LEEMAGE/MONDADORI PORTFOLIO
Operai in una fonderia di fine Ottocento. Le condizioni di lavoro, nel XIX secolo, erano spesso insopportabili.
nghilterra, prima metà dell’Ottocento. Matthew Crabtree corre a perdifiato verso la fabbrica di coperte, e piange. Sono le cinque del mattino, e ben due miglia di strada separano il sobborgo dove vive dallo stabilimento tessile in cui lavora. È un periodo intenso per la produzione e Matthew avrebbe già dovuto trovarsi davanti alla tessitrice meccanica, a ripetere quei movimenti sempre uguali fino alle nove di sera, con un breve intervallo per il pasto. Invece, tornato a casa troppo stanco la notte prima, oggi si è svegliato più tardi. Per questo piange: sa che per il ritardo come minimo gli toccherà la cinghia. Ad altri, per esempio quelli che rallentano il ritmo o si addormentano sfiniti, capita di peggio: bastonate, capelli rasati a zero, mani infilate a forza sotto le spolette delle filatrici fino a farle sanguinare e altro ancora. Matthew piange perché ha solo otto anni. Sfruttamento. La giornata-tipo di Matthew, come quella di tanti altri lavoratori, nel 1832 finì nel Rapporto Saddler. Saddler era il presidente di una commissione parlamentare sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche del Regno Unito. E solo allora il Factory act fissò a nove anni l’età minima degli operai, limitando a 12 ore l’orario di lavoro (solo nelle grandi industrie). Quando, nel 1849, il tedesco Marx iniziò il suo esilio in Inghilterra, era questo lo scenario nella prima potenza industriale del mondo, da cui il padre del comunismo si fece ispirare, e che con poche differenze si riverberò da un capo all’altro dell’Europa: la Rivoluzione industriale aveva travolto il mondo contadino e artigiano, alimentando una massa umana abbrutita dai ritmi di un capitalismo rapace e ancora senza regole. «Il degrado umano e civile dei lavoratori fu raccontato da tanti intellettuali dell’epoca: gli scrittori Charles Dickens (v. articolo nelle pagine successive) e Arthur Conan Doyle, ma anche Friedrich Engels, amico e collaboratore di Marx», sottolinea Alberto De Bernardi, docente di Storia contemporanea all’Università di Bologna. «Engels nel 1845 scrisse un crudo reportage su una situazione che conosceva da vicino, in quanto suo padre era comproprietario di un cotonificio a Manchester». Quella situazione non nacque certo dal nulla. L’Ottocento fu un’epoca di grandi trasformazioni: in cinquant’anni la popolazione europea lievitò da 188 a 247 milioni di abitanti, quella inglese nell’arco di un secolo da 9 a 41 milioni. L’avvento della meccanizzazione alimentò la fame di ferro e carbone per costruire e far funzionare i nuovi marchingegni a vapore. Dalla Germania all’Inghilterra, dal Belgio alla Francia si inauguravano impianti minerari, che per schiere di ex agricolto93
Le FILANDE erano costruite vicino a corsi D’ACQUA, che fornivano ri significarono passare il resto dell’esistenza nelle viscere della terra, come ben descrisse lo scrittore francese Émile Zola nel romanzo Germinale (1885): dall’alba al tramonto nella semioscurità e col piccone in mano, tra l’aria viziata dei cunicoli divisi da paratie da aprire e chiudere, aiutati da baby-scavatori di cinque o sei anni, con il pericolo costante del grisou, la micidiale miscela infiammabile di metano e aria. Adeguati. Anche in Paesi dove ferro e carbone scarseggiavano, come l’Italia, il nuovo che avanzava chiese il suo tributo. In Sicilia, per esempio, la domanda di zolfo delle nascenti industrie francesi e inglesi fece fiorire per circa un secolo le solfatare, con quasi 40mila minatori, tra cui i “carusi”, bambini costretti a lavorare in un ambiente infernale, con turni massacranti (v. riquadro nella pagina accanto). Combustibili e minerali servivano all’industria tessile (dallo zolfo per esempio si ricavavano aci94
di e coloranti): filande e cotonifici. «Fu proprio Marx, nel Capitale, a descrivere il lavoro alienante di questa categoria di operai. In precedenza, i ritmi nei campi o in bottega erano dettati dalle stagioni o dalle richieste dei clienti, ma le fabbriche funzionavano anche per 18 ore al giorno in base ai tempi imposti dal ciclo produttivo e dalle macchine», sottolinea De Bernardi. Gli ambienti delle filande erano tra i più insalubri: capannoni con finestre quasi sempre chiuse, temperature sui 30 gradi centigradi e aria satura di residui delle fibre, che entravano nei polmoni e s’infilavano persino nelle ciotole del pranzo. Engels scrisse di operai condannati a respirare “più polvere di carbone che ossigeno, per lo più dall’età di sei anni” e per questo in breve privati di “forza e gioia di vivere”. Il tutto in una cornice di “alcolismo, sifilide e malattie polmonari diffuse ai limiti del verosimile”.
FILERINA
Una bambina alla filatrice meccanica. L’industria tessile era tra le più sviluppate e in Italia le addette (quasi solo donne) erano chiamate “filerine”.
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la forza MOTRICE per i macchinari QUOTA ROSA
Un quadro di Pietro Ronzoni del 1825 che raffigura una filanda nel Bergamasco, le operaie impiegate erano tutte donne, gli uomini si occupavano degli aspetti tecnici dei macchinari.
Pericolo di morte. Ammalarsi in fabbrica era facile, morire ancora di più. Soprattutto considerando che a metà del XIX secolo, in Inghilterra, il 75% degli operai erano donne e bambini, e che proporzioni simili si ritrovavano negli stabilimenti del Belgio, della Svizzera, della Germania nonché – una ventina d’anni più tardi – dell’Italia. A spedire bimbi e ragazze alle filatrici erano le famiglie britanniche stesse, ridotte in miseria. Ma anche le parrocchie anglicane, che praticamente vendevano alle fabbriche – grazie a contratti di apprendistato coatto che duravano fino a sette anni – interi “plotoni” di orfani. La giustificazione era che il lavoro li avrebbe sottratti alla strada. In compenso il datore di lavoro poteva pagarli meno degli adulti ed erano più agili. Oltre che più facilmente punibili in caso di errori o ritardi. Torturati. Da documenti dell’epoca emerge per esempio che nelle manifatture di Litton (nella contea del Somerset) un sorvegliante usava strin-
I “carusi” delle solfatare di Sicilia
“S
e non fosse stato per [...] il bisogno del sonno, lavorare anche di notte non sarebbe stato niente, perché laggiù, tanto, era sempre notte lo stesso”. In una delle sue novelle Luigi Pirandello (18671936), il cui padre si era arricchito commerciando zolfo, descrive così il mondo delle solfatare in Sicilia. Business. Erano quasi 200, soprattutto nel Centro-sud dell’isola. La Sicilia borbonica, ricca di zolfo, fiutò l’affare già all’inizio
dell’800. In condizioni di lavoro ai limiti del tollerabile, le solfatare ingoiavano nelle loro cavità adulti e “carusi”. Si trattava di bambini persino di cinque anni, ceduti dalle famiglie con contratti di “soccorso morto” o “affittanza di carne umana”: con una piccola somma il datore di lavoro poteva disporre per anni di piccoli schiavi. Uno sfruttamento crudele che terminerà ai primi del ’900, e per motivi puramente economici: il declino del settore per la concorrenza Usa.
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gere tra le unghie le orecchie dei bambini fino a trapassarle, mentre un altro li puniva lasciandoli appesi per i polsi sopra una macchina in movimento. Forse quello fu un caso limite, ma perdere una mano negli ingranaggi era facilissimo. Chi rischiava di più erano gli scavengers, i lavoratori più piccoli, impiegati nella raccolta dei bioccoli di cotone nei cotonifici: sdraiati per ore sotto le macchine in movimento, con il costante terrore di alzare troppo la testa e vedersi strappare ciocche di capelli, o qualcosa di più, dagli ingranaggi in moto. E la sofferenza proseguiva anche oltre l’orario di lavoro. Città invivibili. “L’industrializzazione, la principale ‘forza creativa’ dell’Ottocento, inaugurò il più orribile ambiente umano che il mondo avesse mai visto”, ha scritto l’urbanista inglese Lewis Mumford (18951990). Anche su questo la Gran Bretagna che ospitò Marx fece da apripista. Nel corso dell’800 un inglese su due andò a vivere in città. «Emblematico fu il caso di Manchester, che in pochi decenni passò da piccolo centro a mezzo milione di abitanti inglobando tutta una serie di slum, quartieri-dormitorio cresciuti in modo caotico attorno alle fabbriche, con la totale assenza di servizi adeguati», dice De Bernardi. «Unici luoghi di aggregazione erano la staw house, cioè la bettola dove ubriacarsi e giocare ai dadi, e il postribolo. Quartieri malfamati che non a caso la letteratura tramanderà come recessi del crimine e del degrado per antonomasia».
LEEMAGE/MONDADORI PORTFOLIO (4)
Nelle CITTÀ si diffusero le MALATTIE legate alle condizioni di lavoro, come TUBERCOLOSI e tifo
Intere famiglie abitavano un’unica stanza in affitto, il cellar, senza finestre o con piccole prese d’aria. L’alcol scorreva a fiumi, ma di solido in tavola c’era poco: un piatto di patate e avena, un po’ di pudding fatto con farina e acqua, qualche boccone di carne a Natale. In un mondo così, la vita media non superava i 45 anni. Prima che le associazioni artigiane e operaie, come le società di mutuo soccorso, riuscissero a far penetrare civiltà e diritti nel mondo del lavoro, dovette passare molto tempo. Nel frattempo, lo “spettro” che si aggirava per l’Europa non era quello del comunismo, ma quello della fame. •
PRESA DI COSCIENZA
Una famiglia operaia legge il giornale La lotta sociale in un dipinto ottocentesco.
Adriano Monti Buzzetti Colella
Come la bottega divenne fabbrica
1750 Un laboratorio artigianale di vasi di ceramica in Francia.
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1800 Lavorazione della canna da zucchero a Cuba.
FORZA-LAVORO
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Il “martello a vapore”, inventato da James Nasmyth, in un’officina britannica nel 1871.
1900 Minatori francesi sui carrelli che li porteranno nelle gallerie.
1910 Catena di montaggio alla Ford di Detroit, in Michigan (Usa).
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LAVORO
NELLA FILANDA DELL’OTTOCENTO Come si VIVEVA secoli fa? Per scoprirlo, si possono interpretare gli INDIZI seminati dagli ARTISTI del passato nelle loro opere
Uniti a tre o a quattro, i FILI ricavati dai bozzoli venivano torti insieme e collegati al grande aspo, che girando sul suo asse li avvolgeva. Da ogni bozzolo si ricavavano tra 1.000 e 1.500 metri di bava di seta.
A
partire dal Duecento, quando i bachi arrivarono in Europa dalla Cina, l’Italia ha mantenuto per secoli il primato nella produzione della seta. Che tra la fine del ’700 e l’inizio dell’800 divenne una delle prime attività industriali nel nostro Paese, grazie agli stabilimenti nati ai piedi delle Alpi. Per ricavare il filo dai bachi da seta (un’operazione detta “trattura”) si usava il calore del vapore che scioglieva la proteina che “incolla” la bava del bozzolo, ottenendo la seta grezza. Aziende come la filanda Mylius (a destra, dipinta nel 1828 da Giovanni Migliara) avevano quindi bisogno di grandi quantità d’acqua, fornita dai fiumi che scendevano dai monti alpini. Pioniere. La filanda di Boffalora Ticino (Mi) fu fondata da Enrico Mylius, nato a Francoforte nel 1769 e giunto a Milano come agente di commercio. Stabilitosi in città, Mylius vi aprì una banca. Nel piccolo centro lungo le rive del fiume Ticino impiantò invece uno stabilimento per la trattura, che si ingrandì nel corso dell’Ottocento. Da allora e fino agli Anni ’50 del ’900 in filande come questa lavorarono generazioni di operaie italiane: al Nord era una delle attività più diffuse (e logoranti) tra le donne. •
Il lavoro di dipanatura del filo era di norma affidato alla poco costosa manodopera femminile, all’epoca costituita da giovani o giovanissime CONTADINE. La dura giornata lavorativa poteva essere di 15 ore e anche più.
Grazie ad apposite SPAZZOLE, le operaie individuavano il capo dei fili di bava dei bozzoli messi in ammollo nelle bacinelle che avevano di fronte.
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Edoardo Monti
L’ambiente destinato alla trattura doveva essere LUMINOSO, per facilitare l’individuazione dei capifilo, e VENTILATO per ridurre l’umidità prodotta dalle bacinelle piene d’acqua usate dalle operaie.
Il prodotto della dipanatura era una SETA GREZZA, ruvida e opaca, che necessitava di successivi passaggi di pulitura e torcitura per trasformarsi in filato pronto per la tessitura. Quest’ultima avveniva di solito in stabilimenti specializzati, separati dalle filande.
Non si sa chi fossero questi eleganti VISITATORI. Considerata un’azienda modello, la filanda Mylius riceveva spesso addetti ai lavori, giornalisti o amici di famiglia incuriositi.
Le donne avevano i capelli raccolti nella SPERADA, una raggiera di spilloni che era l’ornamento tradizionale delle contadine lombarde, resa celebre da Lucia, nei Promessi sposi di Manzoni.
L’energia per muovere gli aspi derivava da una RUOTA idraulica azionata dalle acque di una roggia che passava sotto la filanda, diramazione del canale Naviglio Grande. INGRANAGGI in legno di bosso distribuivano la forza prodotta alle postazioni.
Giulio Mylius, figlio del fondatore, mise a punto un sistema di TRATTURA a bassa temperatura, per migliorare la qualità della seta. I bozzoli venivano riscaldati prima di giungere nelle BACINELLE delle addette, dove c’era acqua fredda. Inoltre, il sistema faceva sì che i rallentamenti delle singole operaie non compromettessero il processo.
INFANZIA
Fino all’800 valsero i princìpi della “PEDAGOGIA NERA”: i bambini DISUBBIDIENTI erano puniti a suon di BOTTE e frustate
CATTIVI
MAESTRI L
“
a storia dell’infanzia è un incubo dal quale solo di recente abbiamo incominciato a svegliarci”, ha scritto negli Anni ’70 il sociologo americano Lloyd deMause. In effetti più si va indietro nel tempo, più frequenti sono le storie di maltrattamenti. I resoconti storici dimostrano che per molti secoli si è ricorso soprattutto alla “pedagogia nera”, cioè a un’educazione che si basava sulla violenza fisica e sul castigo. È vero che Quintiliano (I secolo d.C.) riferisce che i pedagoghi romani si affidavano alla classica tirata d’orecchie, ma sappiamo anche che fin dall’antichità uno dei mezzi più utilizzati fu quello della fustigazione. “Persino nella progredita Grecia di 2.500 anni fa gli insegnanti usavano la verga come strumento di correzione”, come scriveva lo storico George Ryley Scott, studioso delle pene corporali. Sferzanti. Ma l’epoca più dura per l’infanzia fu il Medioevo. Gli ecclesiastici, cui era delegata l’educazione, ricorrevano alla fustigazione per instillare nei bambini e nei ragazzi i precetti religiosi. Nel 1087 frate Ulderico di Cluny (in Borgogna, nella Francia Centrale) così descrisse le usanze dell’abbazia: “Se durante la messa i bambini cantano male o si addormentano, il priore o il maestro toglierà loro la camicia e li frusterà con vimini o altro”. Tutta la disciplina monastica era improntata a un quadro di estrema durezza e autoritarismo. Nell’XI secolo Eccardo, cronachista del monastero svizzero di San Gallo, raccontava che nel 937 gli scolari dell’abbazia, esasperati dalle punizioni, avevano dato fuoco alla chiesa con i fasci delle verghe usate dai monaci per fustigarli. 100
Piccoli demoni. «La punizione non era però solo una forma di sadismo o uno sfogo di rabbia», dice Antonella Cagnolati, docente di Storia della pedagogia all’Università di Foggia. «Era legata alla visione religiosa del tempo, per la quale il bambino era un essere impuro perché figlio del rapporto sessuale». Ovvero un piccolo demone la cui volontà doveva essere piegata attraverso le punizioni, che per questo erano particolarmente dure e crudeli. «Oggi l’infanzia viene interpretata come una delle fasi più felici della vita, ma nel Medioevo era considerata un periodo da cancellare», conferma Angela Giallongo, docente di Storia della pedagogia presso l’Università di Urbino. «I bambini venivano basto-
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E ORA TOCCA A VOI!
Un maestro di scuola con la frusta in mano in una litografia del 1845. I metodi educativi prevedevano allora le pene corporali.
nati, presi a sberle, soprattutto fustigati: le botte erano la conseguenza delle azioni sbagliate e dovevano forgiare il carattere e “ammaestrare” i piccoli. A guidare genitori, insegnanti, vicini di casa e ministri di Dio era la severa legge biblica». La credenza nella colpevolezza morale del bambino affondava le sue radici nei testi sacri. Nel libro dei Proverbi si legge: “Non risparmiare al giovane la correzione, anche se tu lo batti con la verga, non morirà”. La tradizione giudaico-cristiana giunse al monachesimo attraverso il filtro di sant’Agostino, per il quale ogni bambino era macchiato dal peccato originale. La sua visione dell’infanzia era talmente pessimistica che nel suo trattato La città di Dio affermò
che in paradiso non ci sono bambini, mentre nelle Confessioni scrisse: “L’innocenza dei bambini risiede nella fragilità delle membra, non dell’anima. Io ho visto e considerato a lungo un piccino in preda alla gelosia: non parlava ancora e già guardava livido, torvo, il suo compagno di latte”. Probabilmente sant’Agostino non ebbe un’infanzia felice (ammise di ricordare quel periodo della sua vita “con riluttanza”) ma non tutti i bambini venivano puniti nello stesso modo: la quantità e le forme di punizioni variavano soprattutto in relazione alla classe sociale. Principini e oblatini. Durante il Medioevo, tra i contadini, non ci si poneva certo il problema di ricorrere troppo spesso alle punizioni: la vita era 101
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Anche San Benedetto, nel 540, raccomandò l’uso della VERGA per i bambini. Ma aggiunse “CON MODERAZIONE” dura per tutti. Sul corpo del principe, invece, non si poteva infierire, perché era considerato sacro. Al suo posto però veniva punito il figlio del barone. «Forse i bambini della piccola nobiltà prendevano più botte di altri», continua Giallongo. «I paggetti a corte per imparare a svolgere i loro compiti venivano picchiati dal siniscalco, il maggiordomo della servitù». Ma a essere puniti con più durezza erano gli “oblatini”, bambini di due o tre anni che venivano donati ai conventi per essere destinati alla vita religiosa. In genere erano figli dei più poveri, che speravano così di farli sfuggire alla morte per fame, o nel caso delle bambine, di risparmiare sulla dote e conservare intatto il patrimonio. «L’obiettivo dei monaci era tra102
sformarli in esseri il più possibile “spirituali”», prosegue la Giallongo. «Sappiamo che venivano fustigati e presi a schiaffi. Le lacrime erano un segno positivo per l’educazione monastica perché sintomo di pentimento e simbolo di purificazione». Per meritare queste punizioni bastava poco, anche se qualche volta gli oblatini, come tutti i bambini del mondo, la combinavano grossa: alcune fonti monastiche del Medioevo raccontano di bambini puniti con la fustigazione sul fondoschiena perché strappavano le pagine dei preziosi manoscritti per farne barchette di carta. Bambine-donne. Le bambine venivano punite meno, ma non perché godessero di privilegi: di fatto non erano messe nelle condizioni di poter tra-
SADISMO O DOVERE?
Una maestra di scuola prende per l’orecchio un alunno in una litografia di fine Ottocento.
Che schifo quel bambino!
SCALA
INFANZIA DIFFICILE
In alto, due genitori intenti nel punire i figli in un’incisione del 1880. Qui sopra, Sant’Agostino condotto dai genitori dal maestro di grammatica in un affresco del ’400.
sgredire. «Erano sottoposte a controlli più rigidi», dice la Cagnolati. «Per tutto il Medioevo e fino all’età moderna era raro che uscissero da sole, venivano educate ai lavori domestici e abituate all’obbedienza e sottomissione. La loro infanzia era molto breve: si sposavano prima dei12 anni». Ma le punizioni per queste bambine considerate donne diventavano durissime se qualche loro comportamento andava a ledere l’onore della famiglia. «Nel migliore dei casi venivano rinchiuse in convento, ma a volte potevano anche essere decapitate e il loro corpo bruciato. Per andarre incontro a una sorte simile bastava davvero poco, come aver guardato un ragazzo in maniera inopportuna, aver dato
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n italiano divenne Pierino Porcospino (a lato, un’edizione del 1960) ma il nome originale era Struwwelpeter (letteralmente “Piero Scarmigliato”). Inventato dallo psichiatra tedesco Heinrich Hoffmann, era il protagonista di un libretto di filastrocche per l’infanzia pubblicato nel 1847, che divenne un modello educativo di riferimento fino all’inizio del ’900. Ribelle. Il personaggio del bambino disadattato, che si rifiutava di tagliare le unghie e i capelli (“Oh, che schifo quel bambino! / È Pierino il Porcospino. / Egli ha l’unghie smisurate / che non furon mai tagliate; / i capelli sulla testa / gli han formata una foresta...”), si contrapponeva al signor Biedermeier, personaggio simbolo della società perbenista borghese che si affermò nell’Europa della Restaurazione (bieder significa onesto, ma anche sempliciotto) e che diede il nome a un genere artistico
caratterizzato da linee semplici e sobrie. Macabro. Le vicende di Pierino Porcospino sono oggi considerate un esempio della pedagogia repressiva e “terroristica” dell’epoca. Le marachelle di Pierino e compagni si concludevano infatti quasi sempre con punizioni terribili (dalla mutilazione alla morte). Paolinetta, per aver giocato con i fiammiferi, finì ridotta in cenere. Gasparino, che non voleva mangiare la minestra, dimagrì fino a morire di fame. E come pietra sepolcrale si ritrovò una zuppiera.
Marta Erba
troppo spazio a un contatto fisico o essere state prese in braccio». Voci contro. Già nel Medioevo qualcuno metteva in dubbio l’efficacia della violenza come sistema educativo. Come Paolo Diacono, letterato e monaco, che nell’VIII secolo affermò che le botte facevano più male che bene. E anche sant’Anselmo, che nel 1033 annotò: “Noi li picchiamo ma loro peggiorano”. Si trattava di voci isolate, perché la violenza fisica cominciò a regredire quando l’idea di infanzia venne rivalutata. «Avvenne lentamente, quando la Bibbia e i testi sacri furono messi a disposizione, grazie alla stampa, di un maggior numero di lettori», spiega la Cagnolati. «Fu allora che vennero interpretate di103
In Scozia, nel 1699, un preside uccise un allievo a FRUSTATE: processato, fu CONDANNATO soltanto a SETTE COLPI di frusta e ALL’ESILIO dal regno
Pedagoghi illuminati
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egli ultimi due secoli l’educazione dei bambini è cambiata radicalmente, grazie a queste figure chiave della pedagogia.
JEAN-JACQUES ROUSSEAU (1712-1778) In una delle sue opere maggiori, L’Emilio, il filosofo francese (pare pessimo genitore) sostenne che il bambino è “intrinsecamente buono” e che l’educazione deve preservarlo dall’influenza negativa della società. L’adulto non deve indottrinare ma aiutare a imparare con l’esperienza. MARIA MONTESSORI (1870-1952) Partì dallo studio dei bambini con problemi psichici per poi allargare le sue considerazioni a tutta l’infanzia. Il bambino, sosteneva, è un essere capace di sviluppare energie creative, con
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una moralità innata e grandi capacità affettive. ANTON MAKARENKO (1888-1939) Visse i cambiamenti politici, sociali ed economici degli anni della rivoluzione sovietica. Per lui l’educazione poteva avvenire soprattutto attraverso la collettività, dove morale e valori condivisi devono essere prioritari. JEAN PIAGET (1896-1980) Svizzero, è stato il primo a comprendere che il bambino non è un uomo in miniatura, ma un essere con proprie leggi psichiche diverse da quelle adulte.
manuali le punizioni riguardarono soprattutto privazioni (del cibo, dei giochi, della libertà) e una sorta di “psicologia del terrore”: nei catechismi dell’epoca la punizione estrema per il bambino cattivo era l’inferno e il suo fuoco bruciante. In collegio. Se nelle famiglie si ridimensionarono, le punizioni fisiche non vennero meno nelle istituzioni, in particolare a scuola. In Gran Bretagna, per esempio, durante l’età elisabettiana (fine ’500) erano molto dure. Nel Nord Europa, fino all’inizio del XX secolo, l’uso del frustino era una pratica irrinunciabile in qualsiasi scuola, soprattutto nelle più rinomate, come il collegio di Eton. «Lo strumento usato era la ferula, un attrezzo costituito da un manico al quale erano legate strisce di cuoio», prosegue la Cagnolati. «La punizione avveniva davanti a tutti perché a essere trasgredito non era più il codice morale ma l’ordine della scuola, e la punizione spettacolo doveva avere un effetto deterrente». A volte le punizioni nei collegi erano così severe da provocare la morte dell’alunno. Erano talmente diffuse che, a Eton, nella spesa per le tasse scolastiche di ogni ragazzo era aggiunta mezza ghinea per la verga. La stessa pratica era diffusa anche nei collegi femminili delle classi superiori. Del resto, lo storico George Ryley Scott, sosteneva che alcune donne sadiche cercassero impiego come istitutrici proprio per soddisfare l’istinto di provocare dolore. Intorno alla metà del XIX secolo, però, la pratica della fustigazione nelle scuole venne abbandonata per l’emergere del pudore vittoriano: l’esposizione del posteriore nudo era considerato indecente, soprattutto per le ragazze. L’alternativa della fustigazione sulla schiena risultava troppo pericolosa, perché si rischiava di procurare traumi e ferite. Così si passò alle bacchettate sulle mani, una “moda” giunta fin quasi ai giorni nostri. In Italia le punizio-
UMILIATO
Scolaro “asino” e “lazzarone” (in francese paresseux) in un’illustrazione di fine ’800.
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versamente frasi come “Lasciate che i bambini vengano a me”. L’infanzia divenne l’età dell’innocenza». In questo nuovo clima Erasmo da Rotterdam, che per poco non abbandonò gli studi a causa delle punizioni ricevute, alla fine del XV secolo scriveva che era importante capire l’indole dei bambini per aiutarli a crescere. La punizione fisica come sistema educativo cominciò a perdere colpi, prima nelle famiglie più ricche e in quelle borghesi, poi anche nel popolo. Nel ’600, per esempio, nelle famiglie e nei
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SCULACCIATE PEDAGOGICHE
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Sopra, una tavola riassuntiva dell’800 sugli effetti di vari strumenti punitivi (mani, canne, frustini, bastoni) sulle natiche. Foto grande, un manuale per famiglie tedesche della stessa epoca. A sinistra, il pediatra Benjamin Spock con due giovani pazienti negli Anni ’60.
della pedagogia. Solo allora si affermò l’idea dell’infanzia che abbiamo oggi, come un periodo prezioso, delicato e irripetibile, che pone le basi per il futuro. Dalle punizioni corporali si passò però a eccessi opposti. Nel 1948 un pediatra americano, Benjamin Spock, pubblicò The common sense book of baby and child care (Il bambino nella versione italiana) che vendette 40 milioni di copie in tutto il mondo: consigliava un aperto permissivismo nei confronti dei bambini. Spock stesso in seguito rivide la sua teoria rendendosi conto che un’educazione priva di autorevolezza può avere effetti altrettanto devastanti. Ma le botte non furono mai riabilitate. • Laura Fezzi
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RADDRIZZATI Sotto, illustrazioni di inizio ’900 per il racconto francese Le père et la mère Fouettard, basato su due figure di genitori cattivi e violenti, contrapposti ai classici personaggi natalizi portatori di doni (san Nicola, Babbo Natale). Fouettard in francese vuol dire “fustigatore”.
ni corporali nelle scuole (dalle bacchettate all’obbligo a inginocchiarsi sui ceci) sono state proibite negli anni Settanta. Bambini felici. Con l’Ottocento – il secolo dell’amore romantico e della conquista del matrimonio fondato sull’amore – la famiglia (almeno quella ispirata ai princìpi più progressisti) diventò idealmente un luogo caratterizzato da vicinanza e affetto. Cominciò cosi a diffondersi l’idea che amare e accudire i bambini fosse fondamentale e che, per educarli, una severa ammonizione fosse ben più efficace di botte e schiaffi, da utilizzarsi solo come ultima risorsa. Persino il padre, che restava una figura autoritaria, divenne progressivamente molto meno distante. Poi venne il Novecento, il secolo dei bambini e
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SOCIETÀ
INFANZIA EVERETT/CONTRASTO
BAMBINI OPERAI
Una scena dal film Oliver Twist (2005) di Roman Polanski, tratto dall’omonimo romanzo di Charles Dickens (1837): orfani e bambini poveri facevano gli operai.
PERDUTA Essere un bambino nell’ INGHILTERRA vittoriana dell’OTTOCENTO era una disgrazia: la scuola (a suon di bacchettate) era per i ricchi, tutti gli altri a LAVORARE
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harles camminava scalzo per le fetide strade di Londra. La sua giacchetta era rattoppata e i pantaloni consumati erano ormai troppo corti: per fortuna era dimagrito, così, a parte la lunghezza, gli stavano ancora. Abituato com’era a studiare e a essere accudito, non riusciva ad abituarsi a quella vita: tutta la sua famiglia era finita in carcere per debiti e lui, 12 anni appena, era rimasto fuori per lavorare, 16 ore al giorno, in una fabbrica di lucido per scarpe. Quello strazio durò dal febbraio 1824 fino all’estate dello stesso anno: furono i peggiori mesi della sua vita e lo segnarono per sempre (vedi articolo pagine seguenti). Tanto che Charles, che di cognome faceva Dickens, quando diventò scrittore raccontò nei suoi romanzi ciò che aveva vissuto: la vita della maggior parte dei bambini poveri d’Inghilterra, tra il ’700 e l’800. Nel 1837, quando la regina Vittoria salì al trono, circa tre quarti della popolazione del Regno Unito era occupata nelle fabbriche e nelle miniere. Il fervore tecnologico che aveva accompagnato lo sviluppo dell’industria inglese un’ot108
tantina d’anni prima luccicava, ma non era oro. “La rivoluzione industriale in Gran Bretagna si sviluppò nell’anarchia, senza alcun programma metodico, senza intervento dei poteri pubblici, né di organizzazioni operaie o padronali”, ha scritto lo storico francese Jacques Chastenet. Nei centri industriali i poveri in cerca di lavoro aumentarono e i proprietari delle fabbriche furono liberi di giocare al ribasso: lavorava chi costava meno. I salari caddero in picchiata: per sopravvivere, dovevano lavorare anche i bambini.
Lustrascarpe, spazzini, venditori di giornali e spazzacamini...
Quasi nessuno di loro andava a scuola e anche chi seguiva le lezioni domenicali non sapeva né leggere né scrivere. Del resto il tempo per lo studio era poco: già a tre anni, maschietti e femminucce affollavano strade e marciapiedi, dandosi da fare nei modi più ingegnosi per tirar su qualche spicciolo. È facile immaginarli chini a lustrar scarpe, a vendere i giornali, uccidere topi, raccogliere stracci e immondizia, intenti a spazzar via fango e letame di cavallo dagli incroci. “Raramente una di queste at-
STRADE MALFAMATE
Oliver Twist nei vicoli della città: il romanzo di Dickens è ritenuto il primo in lingua inglese ad avere come protagonista un ragazzo.
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a lotta contro il lavoro minorile in Inghilterra fu combattuta a forza di leggi che nessuno si preoccupò di far rispettare. Dopo alcuni provvedimenti per limitare l’orario lavorativo, fu soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, su pressione di scrittori, letterati e filosofi (la parte più sensibile dell’opinione pubblica), che nelle miniere e nelle fabbriche furono inviati commissari per indagare sul lavoro minorile. Interventi. I loro terribili resoconti spinsero il Parlamento a varare una serie di leggi: il Mines act (1842), secondo cui nessuna donna
Un bambino minatore in una stampa del 1885: i più piccoli erano i più richiesti.
e nessun bambino sotto i dieci anni poteva lavorare in miniera, l’Agricultural gangs act (1868), che proibiva ai bambini con meno di otto anni di lavorare in
campagna, il Climbing boys act (1875), che rendeva illegale l’impiego di bambini come spazzacamini, e il Factory and workshop act (1878), secondo cui
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In miniera a 11 anni, legalmente
i bambini sotto i dieci anni non potevano lavorare in fabbrica. Nonostante tutto, all’inizio del XX secolo, questi problemi non erano risolti.
Con il BOOM demografico a Londra i proprietari delle FABBRICHE ebbero a disposizione MANODOPERA infantile a BASSO COSTO tività permetteva di guadagnare più di qualche scellino al giorno, eppure si trattava di mestieri ereditari, cui i genitori addestravano i figli dall’età più tenera”, prosegue Jacques Chastenet. E i marciapiedi erano anche il regno delle prostitute: a Londra, nell’800, la maggior parte di loro aveva tra i 12 e i 22 anni. Ma in un’ipotetica lista nera dei lavori per minori, al primo posto c’era quello dello spazzacamino. Il film Mary Poppins sulla tata magica, che sui tetti londinesi canta e balla con i suoi amici coperti di fuliggine, ha reso tutto più poetico, ma nella realtà le cose andavano diversamente. A quattro anni, i bimbi cominciavano a calarsi nei comignoli o ad arrampicarsi lungo le strettissime canne fumarie dei camini per ripulirle con raspa e scopino: chi si fermava a metà strada, in preda al panico o vittima della stanchezza, veniva incoraggiato con punture di aghi ai piedi o, alle brutte, con un bel fuoco acceso sotto al sedere. Ogni giorno così, dieci volte avanti e indietro, gomiti e ginocchia piagati dal continuo sfregare sui mattoni, colpi di tosse e occhi infiammati. E poi ustioni, cancro ai polmoni, schiena e caviglie deformate dal peso dei sacchi
di fuliggine. O la morte, precipitando al suolo. E la sera? Venduti dalle famiglie o presi dalla strada, gli spazzacamini dormivano per terra in una cantina, buttati su sacchi di iuta. Il padrone concedeva loro solo due bagni l’anno, uno a Natale l’altro a Pentecoste, e una mezza ciotola di pappa d’avena al giorno, per evitare che, ingrassando, non riuscissero più a infilarsi nei buchi fuligginosi larghi meno di una trentina di centimetri.
I lavori dei più fortunati: paggi, camerieri e garzoni di bottega
Niente a che vedere con i fortunati undicenni che trovavano impiego come paggio, cameriere, lacchè, aiuto stalliere o garzone di bottega. Trottavano continuamente – se un piccolo muratore doveva faticare 64 ore a settimana in estate e 52 in inverno, ai domestici ne toccavano ben 80 – ma era un buon lavoro. Soprattutto a confronto con miniere e fabbriche, dove, nel 1851, erano impiegati rispettivamente 40mila e 240mila bambini sotto i 15 anni. Nelle gallerie sotterranee, i bambini entravano già a cinque anni e non ne uscivano prima dei 25. 109
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SPAZZACAMINO
SPAZZINO
LUSTRASCARPE
Un bambino MURATORE poteva lavorare fino a 64 ORE alla settimana. I fanciulli impiegati come DOMESTICI anche 80 ORE “Non erano direttamente i proprietari della miniera ad assumerli, ma i capisquadra, che spesso riscattavano così i prestiti fatti ai genitori”, spiega lo storico Chastenet. I ragazzini venivano attaccati ai carrelli della miniera come delle bestie da tiro, ma i cunicoli erano così bassi che dovevano strisciare o camminare carponi, trascinando almeno 150 chilogrammi di peso. E nei punti più stretti e bassi, in cui la testa sfregava contro il soffitto, i capelli non ricrescevano più. “Non ho altri vestiti che quelli con cui lavoro: pantaloni e una giacca strappata. Tiro i vagoncini sotto terra per una distanza di una mezza lega fra andata e ritorno. Li tiro per undici ore con una catena attaccata alla cintura. […] Qualche volta, quando non vado abbastanza in fretta, mi battono”, raccontò la dodicenne Patience Kershaw nel 1842, ai membri di una commissione d’inchiesta sul lavoro minorile. I più piccini invece erano addetti a manovrare le valvole di aerazione all’interno dei pozzi che si trovavano nelle miniere, al buio e sempre con i piedi a mollo nell’acqua. La paga settimanale arrivava solamente a tre scellini, la stessa cifra riscossa al giorno da un uomo adulto. “Devo lavorare senza luce e ho paura. Vado a lavorare alle quattro e a volte alle tre e mezza del mattino e finisco alle cinque e mezza della sera. Non vado mai a dormire. Qualche volta canto quando c’è luce, ma non al buio: non oso in quel caso”, confessò intimorita agli ispettori la piccola Sarah Gooder, una bambina di appena otto anni. 110
Fabbriche di tessuti e sartorie? Benvenuti all’inferno
Operaie, ricamatrici e biancheriste erano sfruttate proprio come oggi, per esempio, i cucitori di palloni in Pakistan: “Le ore abituali di lavoro vanno dalle otto del mattino alle undici di sera in inverno, dalle sei del mattino a mezzanotte d’estate. Se c’è un grande ballo in un palazzo dell’aristocrazia o ricevimento a corte accade spesso all’operaia di rimanere impegnata per venti ore consecutive”, si legge in un rapporto ufficiale, datato 1844. E gli stipendi erano di poco superiori a quelli dei giovani nelle miniere. Ellen Clark, 10 anni, operaia in una fabbrica di sigari, doveva rollare cartine e tabacco dalle sette di mattina alle otto e mezza di sera, con tre pause di un paio d’ore in tutto. All’inizio l’avevano tenuta incatenata al banco di lavoro perché non scappasse e, una volta che era troppo assonnata, il supervisore l’aveva portata in un angolo della stanza, l’aveva presa per le gambe e immersa in una cisterna piena d’acqua. I bimbi più agili erano pagati per infilarsi tra gli ingranaggi e ripulire i macchinari. Chi denunciava gli abusi compiuti riceveva risposte di questo genere: “Sarebbe pericoloso lasciare i ragazzi in ozio. Del resto in miniera possono distrarsi disegnando col gesso sulle pareti”, sosteneva, a metà dell’Ottocento, il due volte membro del parlamento Richard Cobden. Mentre il liberale lord Melbourne sospirava con tipico aplomb inglese: “Oh questi poveri ragazzi... se mi poteste lasciare in pace con questi poveri ragazzi!”. • Maria Leonarda Leone
VISIONI D’ALTRI TEMPI
Sopra, tre immagini che ritraggono (in modo edulcorato) l’infanzia popolana: una litografia del 1850 circa con uno spazzacamino “porta a porta”, un lustrascarpe tratto dal dipinto Orgoglio professionale di John George Brown (18311913) e uno spazzino scalzo che chiede (ignorato) una mancia a una lady in un dipinto del 1858.
LA STRADA COME CASA
A destra, un’altra scena del film di Polanski. La maggior parte dei bambini della Londra vittoriana viveva per strada o in stanze fatiscenti.
Vittime dei genitori (e dell’alcol) operai ricevevano sotto forma di gin parte del loro salario. Piaga sociale. Bevuta la paga, il distillato rimaneva alla portata di tutti: costava meno del tè, inebriava più della birra e per un po’ faceva dimenticare la miseria. L’alcolismo, tra i poveri, diventò una piaga sociale, perciò il parlamento decise di alzare le tasse di distillazione. Quando però fiorirono le distillerie clandestine e l’alcol peggiorò fino a diventare, in certi casi, tossico, le imposte
furono di nuovo ridotte. Stavolta però si puntò alla qualità. A metà dell’800, il gin divenne la bevanda del nuovo
ceto benestante, da sorbire negli eleganti gin palaces: bar e pub accoglienti, simbolo dell’epoca vittoriana.
TUTTI ALLEGRI
Un negozio di gin nell’800, in un’incisione dell’illustratore inglese George Cruikshank.
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genitori non si preoccupano che di impadronirsi dello scarso guadagno dei loro figli per berselo. Bevono in una sera il frutto di una settimana di sudore, di sofferenze e talvolta di sangue”. Non erano esagerazioni dei commissari d’inchiesta sul lavoro minorile: casi simili erano la norma. E la colpa era del gin. In Inghilterra, con la liberalizzazione delle distillerie e le tasse ridotte, all’inizio del XVIII secolo la produzione crebbe a dismisura, tanto che gli
METROPOLI
LA CITTÀ DI
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Come si VIVEVA in una grande città come LONDRA nell’età vittoriana? Dickens RACCONTA nei suoi LIBRI tutte le contraddizioni dell’Inghilterra dell’ OTTOCENTO
ebbia ovunque. […] Nebbia giù per il fiume che scorre insudiciato tra le file di navi e le sozzure che giungono alla riva di una grande (e sporca) città. […] Luce a gas che balugina nella nebbia in diversi punti delle vie”. Sono le prime righe di Casa desolata, romanzo del prolifico autore inglese Charles Dickens (1812-1870). Parole che sono letteratura, ma anche il ritratto di un mondo perduto: quello dell’Inghilterra vittoriana e della sua capitale Londra, la prima metropoli industriale. Sconvolta. «Il mondo in cui Dickens visse subì uno sconvolgimento epocale, con contraddizioni sconcertanti», dice Gino Scatasta, docente di Letteratura inglese all’Università di Bologna. «I suoi romanzi attraversano quasi un intero secolo di storia inglese. Le prime opere, come Il Circolo Pickwick (1836-37), descrivono un’Inghilterra di carrozze e locande, in gran parte rurale, mentre gli ultimi romanzi sono lo specchio della società tardo-vittoriana». Una società segnata dal lungo regno della regina Vittoria (sul trono dal 1838 fino al 1901) e dalla rivoluzione industriale. Fu in quel secolo che Londra divenne una metropoli moderna: il rapido aumento della popolazione, il trasferimento dalle campagne alla città (per cercare lavoro nelle fabbriche), la penuria di alloggi e le condizioni di lavoro al limite della schiavitù portarono alla for113
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LONDINESE DOC
Charles Dickens (1812-1870) allo scrittoio. A sinistra, la Londra ricostruita dal regista Roman Polanski per il film del 2005 tratto da Le avventure di Oliver Twist (1839).
DIVISIONI
HARROGATE MUSEUM OF ARTS/MERCER ART GALLERY
A destra, il compleanno di una bambina in una famiglia vittoriana benestante in un dipinto di fine ’800. In basso, famiglie in coda per ricevere assistenza come indigenti, in un dipinto della stessa epoca.
ESPANSIONE
MUSEUM OF LONDON
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Il Tamigi all’altezza del Palazzo degli York ai tempi di Dickens: nel ’600 era aperta campagna.
fabbrica, lo scrittore percorreva le strade di quella città lacerata tra nuovi ricchi e poveri estremi. Infanzia rubata. Nel dedalo delle viuzze più povere si incontravano bambini denutriti in abiti laceri tra case cadenti, con stracci alle finestre invece dei vetri. In città c’era fumo, sporcizia, fango e fuliggine, mendicanti dagli occhi disperati, ubriachi, venditori ambulanti di cibo, fiumane di persone. “L’intera metropoli era un ammasso di vapore che, frammisto al fragore velato delle ruote, spiegava un immenso ansimo catarrale”, scriverà Dickens nel
romanzo Il nostro comune amico (1865). Anche la morte era ovunque: la prigione di Newgate esponeva i cadaveri degli impiccati per ricordare la fine dei criminali, e le malattie epidemiche erano all’ordine del giorno, vaiolo e colera soprattutto. La vita è un romanzo. «Oggi sappiamo che in David Copperfield (1849-50) Dickens ripercorse in forma romanzata alcuni episodi della sua vita, in particolare le sue tristi esperienze infantili», riprende Scatasta. «Che aveva lavorato in fabbrica si scoprì solo dopo la sua morte, ma fu a quegli 115
anni che si ispirò per i personaggi infantili più tristi». I toni melodrammatici (che oggi chiamiamo appunto “dickensiani”) dei romanzi, dunque, non sono solo letteratura. Le istituzioni non facevano nulla per migliorare la situazione. Nel 1833 (lo stesso anno in cui l’Inghilterra abolì la schiavitù nelle colonie) venne promulgata una “legge sulla povertà”. Orfani o bambini abbandonati, ragazze madri, disabili e anziani ebbero da allora, come ultima spiaggia, le workhouse. Ma era come finire dalla padella nella brace: si trattava infatti di ospizi dove tutti erano costretti a lavorare, praticamente in condizioni di schiavitù. Bambine di otto anni con indosso solo casacche di cotone venivano messe a strofinare le fred-
de pietre di stanzoni e interminabili corridoi, le famiglie ospitate erano divise e i loro membri lasciati in balìa di personale poco qualificato e corrotto. Il cibo era scarso: pane, patate e formaggio (gli alimenti più economici) accompagnati da polentine semiliquide. Molti arrivarono a preferire il suicidio alla workhouse e la madre di Dickens scelse, piuttosto che finire lì, la cella della prigione per debitori. «È Le avventure di Oliver Twist (1839) il romanzo in cui Dickens denuncia questa politica nei confronti della povertà e le istituzioni che avrebbero dovuto salvaguardare i più poveri», spiega Scatasta. Scuole come fabbriche. «Forse l’attacco più diretto di Dickens alla società industriale è quello di Tempi difficili (1854), ambientato nella cupa cit-
CELLE AFFOLLATE
Famigliari in visita ai detenuti nel carcere londinese di Newgate, in un quadro del 1878. Molti (tra i quali anche il padre e la madre di Charles Dickens) finivano in prigione per debiti.
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I BAMBINI erano considerati “PICCOLI ADULTI”: la metà
PRIMA FERMATA
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La stazione della metropolitana di Baker Street, inaugurata nel 1863, fu la prima al mondo. Dickens scrisse dei lavori per la sua costruzione e ne parlò come di un “segno di civiltà”.
degli OPERAI tessili aveva fra DIECI e VENT’ANNI tà di Coketown (un nome di fantasia, scelto per aggirare la censura, ndr) fatta di mattoni che sarebbero stati rossi se non fosse per il fumo delle fabbriche», prosegue lo studioso. I poveri ricevevano un’istruzione scadente che, secondo Dickens, serviva solo a farli adattare alla realtà disumanizzante delle fabbriche. Che Dickens descriveva così: “Un risuonare di zoccoli sui marciapiedi; un rapido squillare di campanella; e tutti gli elefanti impazziti di malinconia (i macchinari a vapore, ndr), lustrati e lubrificati per la monotonia della giornata che cominciava, ripresero il loro pesante esercizio”. Il 54% dei lavoratori nel settore tessile aveva meno di 19 anni (e il 5% meno di dieci). Perché tanti piccoli impiegati? Era proprio la povertà ad alimentare il lavoro minorile: ogni figlio di proletario doveva mantenersi da sé per non essere di peso alla famiglia. Il metodo per forgiare i piccoli operai (definito “il motore a vapore del mondo morale”) era questo: dieci ragazzi ascoltavano le lezioni di un istruttore e le ripetevano ad altri dieci, come in una catena di sant’Antonio. Un sistema approssimativo che, precludendo a chi vi cresceva ogni possibilità di riscatto sociale, condannò interi quartieri all’emarginazione. «Di fronte a questa realtà, l’ottimismo romantico delle prime opere lasciò il posto alla cupezza degli ultimi romanzi, nei quali il lieto fine, pur sempre presente, lascia spesso l’amaro in bocca», spiega Scatasta. «Le stesse inquietudini iniziarono ad attraversare tutto il mondo vittoriano dopo la metà del secolo». Di fronte all’esplosione demografica e alla povertà dilagante si cominciò a denunciare l’emarginazione e a chiedere riforme sociali: il lato oscuro del miracolo industriale era ormai sotto gli occhi di tutti. Le descrizioni di Dickens furono riprese nei testi filantropici di fine Ottocento, dove erano citati come esempi di studio della
manipolazione delle menti. E i suoi romanzi diedero impulso alle prime campagne per il miglioramento dell’istruzione pubblica. «Il successo di Oliver Twist», conclude Scatasta, «contribuì a cambiare la mentalità del tempo, che considerava i poveri come dei fannulloni». La letteratura, qualche volta, ha risvolti anche pratici. • Giuliana Lomazzi
Il fascino poetico della scienza
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harles Dickens aveva un compatriota e coetaneo diventato anch’egli famoso: lo scienziato Charles Darwin (1809-1882). I due si conoscevano e si stimavano. Il primo aveva citato il secondo nei suoi articoli, sebbene non fosse del tutto convinto dalla sua teoria sull’origine delle specie, che divise gli intellettuali inglesi. Il secondo, invece, era un fan dello scrittore. Apprezzamenti. Al naturalista piaceva in particolare il modo in cui Dickens inseriva, nei suoi libri, i riferimenti alla scienza. Anche se non era certo un modo “scientifico”. Lo scrittore era affascinato
(come molti altri artisti vittoriani) dai progressi tecnici e scientifici del suo tempo. Ma la scienza suscitava in lui pensieri romantici: i dinosauri avevano più fascino dei draghi. “I fatti della scienza sono pieni di poesia, almeno come la più poetica delle fantasie”, scrisse commentando The poetry of science (“La poesia della scienza”), opera del geologo Robert Hunt. Un modo di vedere il mondo scientifico abbastanza lontano dal motto del filosofo francese Auguste Comte, padre del positivismo: “L’amore per principio, l’ordine per fondamento, il progresso per fine”. (m. c.)
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SOCIETÀ
TRA NONNI E NIPOTI Da PATRIARCHI a compagni di giochi: come è CAMBIATA la figura FAMIGLIARE più amata
SCALA
ALINARI
S
PERNO DEL FOCOLARE
econdo gli stereotipi in circolazione fino a pochi anni fa, le nonne erano quelle che facevano le tagliatelle e andavano in chiesa alla domenica, i nonni quelli che raccontavano storie e procuravano la legna per stufe e camini nelle case di campagna. Un’immagine molto lontana da quella che conosciamo oggi. I nonni, secondo le più recenti analisi dei sociologi, spesso con la pensione pagano rate del mutuo e spese di asilo di figli e nipoti. E se sempre meno donne anziane stendono la pasta fresca, aumenta il numero di chi, superati i 70, si iscrive a corsi di pilates e si avventura in iperboliche sessioni di informatica. Per non parlare del ruolo chiave di babysitter. Ma come è avvenuta questa trasformazione? Vizi privati, pubbliche virtù. Innanzitutto occorre precisare che la categoria sociologica dei nonni è molto recente: appartiene alla società moderna, quella industriale. Nel nostro Paese si cominciò a parlarne nell’Ottocento, quando si diffusero nelle città i valori delle nascenti élite borghesi. L’Italia si stava trasformando e le famiglie più in vista si diedero un gran da fare a rivisitare in chiave moderna lo stile di vita dei nobili. Ovvero quel modo di vivere fatto di bon ton, ricchezza e perbenismo, ma amalgamato con i nuovi valori importati dalla Francia, dove la borghesia aveva fatto la rivoluzione: intraprendenza economica, individualismo e separazione della sfera pubblica da quella privata. La formazione di una famiglia non veniva più decisa a tavolino, diventava sempre più una faccenda di cuore. Manuale vivente. E i nonni? Si ritagliarono una nicchia che prima non avevano. «Il ruolo essenziale dei nonni nelle nuove famiglie era l’istruzione dei nipoti. Almeno all’inizio dell’Ottocento, prima che in Italia nascesse la scuola pubblica obbligatoria. La
Sopra, nonna e nipotina nel 1960. In alto a destra, un nonno inglese del 1937. All’epoca, a genitori e suoceri si chiedeva di trasmettere usi famigliari e tradizioni popolari.
FIABE D’AUTORE
HIP/SCALA
Lev Tolstoj (18281910) con due dei molti nipoti: il grande autore russo scrisse anche un libro di fiabe e racconti.
loro funzione era poi trasmettere i valori famigliari e le regole del vivere sociale», spiega Elena De Marchi, autrice con Claudia Alemani di Per una storia delle nonne e dei nonni (Viella). «Il nonno borghese trasmetteva i valori della morale pubblica, la nonna quelli religiosi. Non solo: a lei spettava anche il compito di tramandare il sapere di famiglia, le tradizioni e le norme di comportamento femminili». Ieri come oggi essere donne non era facilissimo. Essere nonne, men che meno. Il fatto di indossare la gonna implicava infatti una rigida etichetta, che le nonne dovevano insegnare. “Una donna che è nonna, rinunzi pure a tutte le velleità di conquista, anche se è ancora giovane”, recitava un manuale di galateo di fine Ottocento. “Adotti un costume severo, non balli assolutamente più, infine si astenga da tutto ciò che può destare un riso di scherno sul labbro di chi la osserva”. «La cosa non stupisce», racconta Elena De Marchi. «In Italia una rivoluzione borghese non ci fu mai e i valori che si diffusero furono ibridi: si trattò molte volte di una semplice attualizzazione dei cliché nobiliari». Un modello ben rappresentato dalla nonna paterna di Leopardi: Virginia. Rimasta vedova a soli 25 anni, rifiutò tutti i pretendenti. E visse al piano superiore del palazzo del poeta, a Recanati. Giacomo e i fratelli salivano da lei con gioia, felici di trascorrere il tempo con la nonna. Alla quale nel 1810 (a 12 anni) il poeta dedicò una poesiola. Certo, lo stile era acerbo, e più che amore i versi sprizzano deferenza: “[...] Or dunque il frutto nobile della fatica mia / Umil presento, e inchinomi a Vostra Signoria. Spero che in volto placido accetterete il dono [...]”. Alla contadina. Per ogni famiglia “alla Leopardi” del nostro Paese, ne esistevano centinaia che vivevano dove le regole erano molto diverse: in campagna. Lì i nonni non solo comandavano, ma 119
GIOCO LIBERO
HIP/SCALA
A sinistra, tre generazioni sulla spiaggia di Blackpool (Gran Bretagna), negli Anni ’40. A destra, nonno e nipote americani nel 1935.
ANTICAMENTE gli anziani erano molto ASCOLTATI. Ma la figura SOCIALE del nonno si AFFERMÒ solamente con l’avvento della BORGHESIA all’inizio dell’Ottocento anche tenevano i cordoni della borsa. Nelle masserie del Sud Italia e più ancora nella Bassa padana a dominare era la famiglia patriarcale. I nonni vivevano perlopiù nella stessa casa assieme ai figli e ai nipoti, ricoprendo ruoli di primo piano. La cosa è facilmente spiegabile: «Quando erano presenti e ancora abili al lavoro, erano loro la figura di riferimento dinanzi al proprietario della terra. Non solo: coordinavano anche il lavoro della famiglia sul podere», spiega la storica. «Questo fece sì che mantenessero il potere economico e materiale, avendo l’ultima parola su varie questioni: figli e nipoti inclusi». La letteratura e il cinema li ha ritratti più volte. Erano il brusco Padron ’Ntoni dei Malavoglia di Giovanni Verga. O il nonno Anselmo del film L’Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi: un ingegnoso contadino che sostituiva in gran segreto, con la complicità della nipote Bettina, lo sterco di gallina a quello di mucca come concime, riuscendo a far maturare i suoi pomodori un mese prima di tutti gli altri. Un nonno affettuoso, molto amato, ma soprattutto rispettato. Qualcosa è cambiato. Durante il Ventennio fascista, però, le cose per i nonni italiani si mettono male. Forse non erano abbastanza forti per incarnare l’ideale del giovane maschio battagliero. In ogni caso, a partire dal Ventennio, il Novecento virò piut120
tosto dalla parte dei padri. Le nonne si chiusero in cucina a fare le tagliatelle e i nonni divennero cantastorie, responsabili di tramandare le usanze e le tradizioni popolari, niente di più. Presenze affettive nella vita dei nipoti, prive però di quell’autorevolezza guadagnata nell’Ottocento. «Gli equilibri erano però destinati a cambiare ulteriormente con la metà del Novecento», afferma Elena De Marchi. «Grazie alle conquiste del femminismo, le donne si sono liberate in parte del loro ruolo di casalinghe a tempo pieno e sono entrate nel mondo del lavoro». Trovando però un welfare insufficiente. E fu così che tornarono protagonisti i nonni. Non è un caso se nel 1978 negli Usa è stata istituita una festa dedicata (v. riquadro a fianco): si era capito che il loro ruolo sociale ed economico era importante. E che emancipazione femminile e progresso, in assenza di uno Stato sociale forte, passavano anche attraverso il sostegno delle generazioni più anziane. Non senza qualche ambivalenza. Se i valori di oggi vorrebbero anziani tonici, atletici e “performanti” fino a 100 anni, resistono comunque cliché del secolo scorso: i nonni devono occuparsi dei nipoti come chiocce. E alle nonne, nonostante corsi e crociere, si chiede ancora di preparare le tagliatelle la domenica. • Giuliana Rotondi
SCALA
Una festa tutta dedicata a loro
L
a festa dei nonni oggi in Italia si celebra il due ottobre. Perché? Non è un caso: nel calendario liturgico cattolico, il due ottobre è la festa degli Angeli Custodi. La ricorrenza però è relativamente recente e non ha una vera e propria tradizione, se non la moda lanciata negli Stati Uniti di celebrare “l’importanza del ruolo svolto dai nonni all’interno delle famiglie e della società in generale”. Affari. Negli Stati Uniti la festa è stata istituita nel 1978 e si festeggia la prima domenica di settembre. La ragione è tutt’altro che romantica: anche se le coccole dei nonni non hanno prezzo, si è capito che il loro aiuto innesca una spirale economica positiva, permettendo alle mamme di lavorare di più e alle famiglie di tagliare alcuni costi: in Italia, si calcola, ogni anno i nonni fanno risparmiare tra 496 milioni e 1,3 miliardi di euro.
ALBUM DEI RICORDI
MARY EVANS/SCALA
Cornovaglia (Regno Unito): una nonna dei primi del Novecento ripara i pantaloncini del nipotino (che forse non ne aveva altri).
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FOTOTECA GILARDI (2)
SALUTE
Le condizioni SANITARIE dei nostri NONNI, tormentati dal FREDDO e minacciati da tisi, MALARIA e sifilide
IL TEMPO DEI
GELONI
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FARABOLA
AUSILIO PER DISABILI
Un invalido a spasso per le vie del centro di Roma su un calessino trainato da un cane, nel 1928.
PUBLIFOTO/OLYCOM
I IL SOLE IN UNA STANZA
Bambini sottoposti a elioterapia artificiale, che con le lampade riproduceva l’esposizione ai raggi solari. Si pensava che il sole curasse molte malattie, infatti all’epoca nacquero le colonie estive per prevenire il rachitismo infantile. In alto a destra, la pubblicità di un ricostituente per signore a base di ferro. In alto a sinistra, un angelo soccorre una malata di malaria, nella pubblicità di un farmaco.
l wc in casa era un miraggio, figurarsi la vasca da bagno! Si mangiava poco, e si soffriva il freddo. La malaria uccideva nelle campagne, la sifilide in città e le malattie infettive ovunque. A dispetto di chi, anni dopo, avrebbe continuato a dire che “si stava meglio quando si stava peggio”, nel periodo fra le due guerre mondiali gli italiani non stavano poi così bene di salute. Poche cose erano democratiche, ma fra queste vanno di sicuro annoverati i geloni. Favoriti dalle carenze vitaminiche, e scatenati dal freddo patito anche nelle case più agiate, i geloni colpivano le signore borghesi così come le serve, gli operai quanto i contadini. Si annunciavano con un po’ di prurito sull’orlo superiore dell’orecchio e poi dilagavano su mani, piedi, ginocchia. Contro di loro c’era ben poco da fare, tanto che al medico il problema veniva sottoposto raramente. Facevano insomma parte della vita, proprio come la nascita, la morte, il duce e... la mancanza del bagno. Quest’ultima, per la verità, era già meno democratica. Un censimento del 1931 rivela che erano dotati di bagno 12 appartamenti su 100: si trattava delle case dei benestanti. Per tutti gli altri, di notte c’era il pitale e di giorno lo stanzino comune ricavato sul ballatoio, con la turca. Chi voleva si portava la carta, spesso riciclando quella dei giornali o del macellaio, robusta e assorbente. Il bagno fu una conquista post bellica: quando si ricostruirono le case distrutte dai bombardamenti, i nuovi appartamenti vennero dotati di una stanza apposita. Sci e mutandoni. Eppure Mussolini l’aveva capito: per guadagnare consensi e rendere il popolo più produttivo, le malattie andavano debellate. Per questo il regime avviò diverse campagne per incentiva-
re l’igiene (per esempio promosse la costruzione di bagni pubblici). E in tempi di ristrettezze economiche fece in modo che gli italiani si adattassero a fare di necessità virtù. I veri fascisti dovevano andare incontro al freddo col sorriso sulle labbra, sci ai piedi e mutandoni sotto i pantaloni. E se il pane non bastava, dovevano rallegrarsene, perché i medici consigliavano di seguire una dieta ipocalorica. Se poi, nelle case più borghesi, si eccedeva con il cibo, si poteva sempre ricorrere a un cucchiaino di “Magnesia Bisurata - Prodotto di fabbricazione italiana”. Mentre per le “affezioni intestinali da fermentazioni anormali” c’era l’Enterosil, per via orale. Le medicine, per la verità, erano inadeguate. Quando Mussolini salì al potere l’Aspirina aveva poco più di vent’anni. «Le malattie del cuore si curavano con la canfora, la digitalina e lo strofanto, estratti da piante», spiega Giorgio Cosmacini, storico della medicina e docente all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. «Alla fine degli anni Venti arrivò l’insulina per curare i diabetici e gli estratti di fegato per le anemie». Contro le malattie infettive c’era invece poco da fare, perché i sulfamidici giunsero solo nel 1939 e gli antibiotici dopo la guerra. Medico e confessore. Per chi si ammalava la figura di riferimento era il medico condotto, pagato dal Comune. A lui, come a un confessore, non bisognava nascondere nulla. Mussolini sottolineava: “Il medico è come il sacerdote; accompagna l’uomo dal principio alla fine. Il sacerdote tutela la nostra anima e il medico ci protegge la salute e il corpo”. «Il rapporto, stretto e confidenziale, era anche il risultato della mancanza di quegli strumenti ed esami che oggi sono usati per fare le diagnosi», riprende 123
PUBLIFOTO/OLYCOM ALINARI
Come RICOSTITUENTE si consigliava l’Ischirogeno, a base di “FOSFORO, ferro, calcio e stricnina” Cosmacini. «Per individuare una malattia i medici avevano a disposizione solo intuito e abilità. Raccogliere il maggior numero di informazioni possibile sul malato e sulla sua famiglia era cruciale». In mancanza di medicine, i malati venivano seguiti in modo più assiduo durante tutto il decorso della malattia. L’assistenza del medico e il ricovero in ospedale erano gratuiti per chi riceveva il “certificato di povertà”. «Per questo», dice l’esperto, «anche chi non ne avrebbe avuto diritto cercava di infilarsi nella lista dei poveri». Gli ospedali erano organizzati in padiglioni, in cui i malati venivano ricoverati in base al tipo di malattia (divisione che favorì la nascita delle diverse specializzazioni mediche). Sulla scia dei tentativi portati avanti dai governi precedenti, il fascismo estese l’assistenza sanitaria al maggior numero di persone. Così furono istituiti i primi enti mutualistici, le casse mutue per i lavoratori, finanziate metà dai datori di lavoro e metà da chi godeva dell’assistenza. «Alcune casse, come quella dei tranvieri di Milano o quella dei giornalisti, funzionavano bene, ma era un’eccezione», sottolinea Cosmacini. 124
Guerra alla malaria. Tre erano gli spettri che si aggiravano per l’Italia di allora: la malaria, la tubercolosi e la sifilide. Queste malattie non erano ai primi posti nelle cause di morte (polmoniti, infezioni alimentari e malattie cardiache uccidevano di più) ma su di loro si concentrarono gli sforzi del regime. Le campagne contro la malaria iniziarono nei primissimi anni dell’“Era fascista”, in continuità con le iniziative già intraprese nel periodo liberale. Alla cura dei malati con il chinino si aggiunsero le opere di bonifica degli ambienti paludosi in cui si riproducevano le zanzare che trasmettono il parassita causa della malattia. Il risultato fu che dagli oltre 4mila morti denunciati nel 1922 si passò a meno di mille nella seconda metà degli anni Trenta. «Ma le cifre rivelano anche un’altra realtà», spiega Cosmacini. Fra il 1935 e il 1940 l’88% dei morti di malaria si registrò nel Sud e nelle isole. «La malaria, anche se in arretramento, contribuì più che mai a fare la differenza tra le due Italie. Regredita e quasi scomparsa nel Centro-Nord, rimase, anche se più contenuta del passato, nel profondo Sud».
VITA DA OSPEDALE
In alto a sinistra una trasfusione diretta. Con il sangue potevano però trasmettersi molte malattie, come le epatiti e la sifilide. Sotto, l’ospedale di Vercelli. Il ricovero era gratuito per chi possedeva il “certificato di povertà”.
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FARABOLA
Germania e Italia divise dalle sigarette
S AMBULANZE RISCIÒ
Qui sopra, alcuni mezzi di soccorso pronti a intervenire in aiuto dei feriti durante gli scontri che si verificarono a Milano in occasione di uno sciopero nel 1922. In alto a destra,dal dentista si andava fuori dall’orario di lavoro, perché il mal di denti non era considerato una malattia.
Sanatori-carcere. La lotta contro la tubercolosi ebbe una svolta nel 1927, quando fu istituita l’assicurazione obbligatoria contro questa malattia e furono adottate misure per limitare il contagio. Per esempio, poiché la tisi si trasmette con la saliva, fu istituito il divieto di sputare per terra, un’abitudine in voga all’epoca: ancora oggi, il cartello “Vietato sputare” è affisso sui mezzi pubblici più vecchi. Ma, soprattutto, si volle favorire il ricovero (gratuito) nei sanatori. Le rigide regole facevano sì che le strutture destinate alle classi meno abbienti fossero un po’ come carceri. Come ha scritto lo storico della medicina Domenico Preti, si trattava «di una vera e propria reclusione, resa ancor più penosa dalla segregazione sessuale». Al contrario, i sanatori per ricchi erano simili ad alberghi. I risultati, amplificati dalla propaganda fascista, furono che, se nel 1929 i morti di tubercolosi erano 37mila, tre anni più tardi erano scesi a 32mila e continuarono a calare, per poi impennarsi nella Seconda guerra mondiale. Prostitute “garantite”. La campagna contro la sifilide, che prevedeva controlli medici periodici obbligatori per le prostitute, ottenne invece scarsi risultati: la mortalità per questa malattia, trasmessa per via sessuale, calò nella seconda metà degli Anni ’20, ma nel 1938 era tornata ai valori del 1924. A sconfiggere la sifilide sarà la penicillina. • Margherita Fronte
u un punto la politica sanitaria italiana fu diversa da quella di Hitler: il fumo. In quegli anni i danni di pipe, sigari e sigarette iniziavano a diventare evidenti e i medici tedeschi avevano già rilevato un legame tra fumo e cancro ai polmoni. Per Hitler, il fumo era un vizio che corrompeva la razza. E per limitarlo, in Germania furono prese misure drastiche: in molte città era proibito fumare persino per le strade. Fasci in fumo. In Italia una campagna simile sarebbe stata impossibile, perché
il fumo era diffusissimo. Mussolini aveva smesso (pare per via della sua ulcera). Ma i fascisti della prima ora ricordavano di aver infilato una sigaretta fra le labbra delle loro vittime morte valorosamente. La virilità si misurava dal colore giallo che le sigarette lasciavano sulle dita. Chi non poteva permettersele (un pacchetto da dieci negli Anni ’30 costava da 1,60 a 2 lire, circa 1,70 euro), riciclava le cicche usate, raccogliendo il tabacco che veniva rollato nelle cartine o nella carta di giornale.
Un’elegante fumatrice in un’illustrazione del 1925.
AUTARCHIA
LANA DI LATTE
E CAFFÈ DI CICORIA
L
cedanei si usarono ingredienti naturali. Per arrivare a una svolta, però, ci voleva la chimica. Solo grazie alla nascita dell’industria alimentare, a partire dal Settecento i cibi cominciarono a essere “sintetizzati” in laboratorio: iniziava l’era del surrogato. Uno dei primi “figli della chimica” fu lo zucchero di barbabietola. Già nel 1747 lo scienziato Andreas Marggraf scoprì il procedimento per produrlo e nel 1802 il nuovo zucchero – più economico di quello di canna importato dall’America, e soprattutto “a km 0” – cominciò a essere prodotto nella Bassa Slesia (oggi Polonia). Il vero boom fu nel 1811, quando Napoleone, stretto nel blocco commerciale imposto dalla British Navy alla Francia, puntò sullo zucchero di barbabietola per rendere autonomo il suo Paese dalle importazioni. Arriva la margarina. Furono ancora necessità belliche ed economiche a spingere Napoleone III, 58 anni dopo, a bandire un concorso per trovare un sostituto più economico e conservabile del burro, da destinare all’esercito e ai poveri. Vinse il chimico Hippolyte Mège-Mouriès con l’oleomargarina di grasso animale depurato. Inizialmente biancastro e insapore, il neonato condimento, che conobbe il
AUTO A LEGNA O A SURROGATO?
A sinistra, pubblicità del Robur, miscela di alcol e benzina prodotta dall’Agip negli Anni ’30. Sotto, un’auto con un impianto a gas di legna o di carbone, nella Germania dello stesso periodo.
MARY EVANS/SCALA
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a fame, le ristrettezze economiche e le guerre commerciali hanno sempre stuzzicato l’ingegno umano, stimolando la nascita di sostituti. «La storia umana è anche una storia di surrogati», spiega Danilo Gasparini, docente di Storia dell’alimentazione all’Università di Padova. «Dietro a ogni trovata ci sono infatti fame e guerre. Ricorrere a un surrogato vuol dire usare qualcosa al posto di qualcos’altro; resta la forma, cambiano gli ingredienti: il risultato è un prodotto di qualità inferiore rispetto a quello abituale». Ma che in qualche caso ha avuto fortuna quanto l’originale. Pre-industriali. Prima della rivoluzione industriale, per fare il pane si ricorse in tempo di carestia a saggina, fave, patate e addirittura tralci di vite macinati. Per gran parte della “preistoria” dei suc-
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La necessità AGUZZA l’ingegno: guerre, crisi economiche e SANZIONI dietro all’invenzione dei SURROGATI NEI RICORDI DEI NONNI
La risposta dell’Italia autarchica alle sanzioni imposte dall’Inghilterra dopo la guerra in Etiopia (1935-36): un succedaneo del caffè delle colonie, a base di malto e riso.
UN CAFFÈ?
MARY EVANS\SCALA
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Gli operai della Fabbrica Italiana Surrogati Caffè “Italia”, a Dergano, nella periferia di Milano.
BETTMANN/CORBIS/CONTRASTO
Alcuni SURROGATI sono arrivati fino a noi. Come la MARGARINA, sostituto del burro per i SOLDATI di Napoleone III. O fibre SINTETICHE come il NYLON
successo solo dopo ulteriori rielaborazioni, poteva chiamarsi surrogato in quanto simile per aspetto e colore all’originale, ma di qualità inferiore. Alla Grande guerra. Un salto di qualità (si fa per dire) lo fecero i tedeschi nella Prima guerra mondiale, quando per un embargo (quello imposto da Francia e Inghilterra), entrò in campo il settore chimico con i suoi Ersatz, sostituti da laboratorio di prodotti indispensabili. I tedeschi potevano sce-
gliere tra 837 tipi di salsicce e oltre 3.500 bibite, tali solo di nome ma certificate dalle autorità; man mano che la guerra progrediva, cibi e bevande sulle tavole dei tedeschi diventavano sempre più artificiali. Nei bar berlinesi non si ordinava il caffè, ma un Ersatz dal contenuto ignoto, variabile a seconda delle disponibilità: alla fine, si ridusse a gusci di noci macinati, aromatizzati con catrame di carbone. A casa, con il “caffè” si mangiava il Kriegsbrot, “pane di guerra” a volte di sola fecola di patate (antenato di quello che, arricchito con segatura, verrà dato ai detenuti dei lager nazisti). Niente burro o lardo per condirlo: solo una finta marmellata di frutta scadente e gelatina colorata con derivati del petrolio. Infuriate, nel 1916 le donne di Kattowitz (ora Katowice, in Polonia) scesero in piazza urlando: “Pane! Pancetta! Patate! Basta marmellata!”. Autarchici. I tedeschi non furono i soli a mangiare novità di laboratorio. In Italia divenne una necessità dal 1936, anno dell’embargo imposto dalle Nazioni Unite in seguito alla Guerra d’Etiopia. A tavola comparivano un surrogato del ragù (condit), un improbabile tortino di verdura (vegetina), ovoalbumina secca e pectina al posto delle uova. Per imparare a cucinare con i neonati ingredienti e “senza”
INGEGNOSO
In alto a sinistra, il KaffeeErsatz era la versione tedesca del caffè di cicoria: fatto anche con gusci di noce e petrolio. A sinistra, donne nella Berlino Ovest del 1948, isolata dal blocco imposto dai sovietici, confezionano mattonelle di “finto carbone” dalla segatura.
I surrogati autarchici del fascismo COMPONENTI
Caseina
Cellulosa
Caseina
Alcol e benzina
Pasta di legno
Ovoalbumina e pectina
ORIGINALE
LANA
SETA
AVORIO
BENZINA
FLANELLA
UOVA
SURROGATO
LANITAL
RAYON
GALALITE
ROBUR
SNIAFIOCCO
OVELLA
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Materiali da inventare
P
rima dell’avvento della plastica, per realizzare oggetti come manici di posate, montature, strumenti musicali ecc. si usavano materiali quali avorio, corno e tartaruga: belli, ma costosi e non sempre facili da importare per embarghi o monopoli commerciali. Fu così che durante la Guerra di secessione americana (1861-65) nacque la celluloide, sostanza plastica sostitutiva dell’avorio (usato per esempio per le palle da biliardo). Resine. Nei primi del ’900, in Francia si iniziò a produrre una resina versatile ricavata dalla caseina (componente del latte), nata per altri scopi ma rivelatasi poi utile per bottoni, penne, manici di ombrelli, interruttori elettrici: con la crisi del ’29 conobbe uno straordinario boom. Già durante la Grande guerra l’industria chimica tedesca si era data da fare per
AVANGUARDIA TESSILE
A sinistra, pubblicità del Lanital, una fibra tessile artificiale simile alla lana ricavata dalla caseina del latte. Qui sopra, le calze di rayon, ricavato dalla cellulosa e antenato del nylon.
carne, pasta, riso, grassi, l’Ufficio propaganda del Partito nazionale fascista si prodigava nell’offrire ricette, consigli e critiche verso chi mangiava troppo: “gli obesi sono infelici”, si diceva. «Sui giornali, nelle sue rubriche di cucina, la celebre Petronilla insegnava per esempio a fare il brodo con foglie di cipolle rosse, per mimare il colore della carne», conclude Gasparini. Le massaie impararono a fare in casa lievito, il sur-
produrre olio sintetico e gomma dal carbone (la prima gomma sintetica prodotta su larga scala arrivò con il Duprene dell’americana DuPont, nel 1930). Tra le innovazioni tedesche, un detersivo in polvere che una casalinga si vide esplodere in casa. Nell’armadio. Nei periodi di penuria negli armadi europei arrivarono abiti in fibra di ortica e scarpe con suole di legno. Negli Anni ’20 l’Italia rispose con la seta artificiale, o rayon, derivata dalla cellulosa di legno. Ulteriore spinta creativa giunse con l’autarchia. Un’invenzione italiana fu il Lanital, tessuto simile alla lana ottenuto dalla caseina del latte scremato. L’alcol etilico (derivato dall’uva) servì invece ad alimentare i motori a scoppio. Che però in Germania andavano anche a gas, con un processo di gasificazione del carbone e della legna che sostituiva la benzina.
rogato dell’olio e a riciclare gli avanzi. Dopo la Seconda guerra mondiale, la pace e il boom economico non hanno fatto tramontare i surrogati. Anzi. Mentre sorseggiamo caffè d’orzo (di qualità però nettamente superiore) o mangiamo “formaggi” senza latte animale, in qualche laboratorio si sperimenta carne con le cellule staminali. In fondo, un surrogato che forse in futuro nutrirà il Pianeta. • Giuliana Lomazzi
Calcio e carbone
Legna o carbone
Ginestra o canapa
Cascami di cuoio sfibrati e vulcanizzati
Cascami di cuoio lattice di gomma
Cascami di cuoio fibre vegetale
CAUCCIÙ
GAS
COTONE
CUOIO
CUOIO
CUOIO
DUPRENE
SYNGAS
CAFIOC
CUOITAL
SAPSA
CORIACEL 129
COSTUME
Sono trascorsi poco più di 80 ANNI, ma i nostri nonni passavano il (poco) tempo LIBERO in modo diverso da noi. Ecco come
QUANDO NON C’ERA IL
WEEKEND ESTATE IN ROMAGNA
Foto-ricordo scattata a Rimini negli Anni ’30. Le vacanze al mare, nel Ventennio, erano riservate a pochi fortunati.
L
FARABOLA (3)
a giornata di lavoro è finita: stanco, il capofamiglia torna a casa, si infila ciabatte e vestaglia, si sdraia in poltrona. Ma manca qualcosa: il televisore non c’è. E neppure internet, il digitale terrestre, i dvd e il telefono cellulare. Non rimane che ascoltare la radio: quella del vicino benestante, naturalmente, se si ricorderà di aprire la finestra per far arrivare la musica anche ai dirimpettai. Sembra preistoria, ma non siamo andati poi molto indietro nel tempo: era così, infatti, che i nostri nonni e i loro genitori passavano le serate negli Anni ’30. Eppure, anche senza televisione, durante il Ventennio fascista gli italiani sapevano bene come trascorrere il tempo libero. E quando non lo sapevano, era il regime a procurare loro le idee. Con il dopolavoro, il sabato fascista, i treni popolari e le colonie balneari. Dopocena in città. A parte la lettura serale del giornale o l’osteria dopo cena, il lavoratore di città, durante la settimana, non aveva né tempo né soldi per divertirsi. «Dal lunedì al venerdì eravamo assillati dai problemi familiari o di studio», ricordava pochi anni fa Enrico, classe 1916, con alle spalle la Seconda guerra mondiale e una medaglia da partigiano. «Ma il sabato era un giorno particolare, che ognuno utilizzava a seconda delle proprie possibilità economiche: io con gli amici giocavo a carte. Non sempre si poteva andare a teatro o al cinema, perché costavano, così ci riunivamo in casa a ballare con i dischi che andavano per la maggiore». Operai e impiegati, poi, avevano il dopolavoro. L’Opera nazionale dopolavoro (Ond) fu istituita nel 1925 per prendere il posto delle associazioni ricreative spazzate via dagli squadristi fascisti. Quando, negli Anni ’30, l’Ond (che dipendeva dal partito) assunse il monopolio del tempo libero italiano, i suoi membri raggiunsero i 4 milioni e mezzo, organizzati in 25mila circoli. «Si trattava di strutture ricreative per adulti», spiega Fiorenza Tarozzi, docente di Storia contemporanea all’Università di Bologna e autrice del libro Il tempo libero. Tempo della festa, tempo del gioco, tempo per sé (Paravia). «C’era il caffè per chiacchierare, lo spazio per giocare a bocce e fare ginnastica, le aule per le lezioni serali. Ma erano anche uno strumento di controllo usato dal fascismo per guadagnare consensi». Veglia serale. Ben diversa la situazione nelle campagne, dove la natura dettava i ritmi del lavoro. A dispetto dei luoghi comuni i contadini non andavano affatto a letto con le galline. D’estate si ballava sull’aia, d’inverno, invece, soprattutto in Lombardia, Emilia e Toscana, si “andava a veglia”: uomini, donne, vecchi e bambini si riunivano cioè dopo cena nelle stalle o nelle grandi cucine, i luoghi in genere più caldi, dove le madri cucivano e i più anziani raccontavano storie. E non si ascoltavano solo favole: la
SABATO AL LUNA PARK
ALINARI
Sopra e a destra, due delle attrazioni della Fiera di Porta Genova, a Milano, nel 1939: l’ottovolante e l’autopista. Sotto, un punching-ball al luna park, nel 1928.
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CORTESIA E. BORSARI
FARABOLA
TCI/ALINARI (2)
PEDALATA DI TUTTO RIPOSO
Un’uscita organizzata da un Dopolavoro di Milano nel 1941. Sopra, una tessera dell’Opera nazionale dopolavoro.
CAMPING AVANGUARDISTA
Ragazzi in gita nel 1940. Il fascismo organizzava campeggi per i giovani, che si sfidavano in prove atletiche.
VIVA LO SPORT!
Sciatori del 1940. Gli sport invernali erano apprezzati dal duce.
TCI/ALINARI
TUTTI AL MARE...
Bellezze al bagno a Viareggio nel 1930. A Marina di Massa nel 1933 fu realizzata la Colonia marina Edoardo Agnelli.
FARABOLA (2)
Tra le LETTURE c’erano i gialli MONDADORI. Costavano 2 LIRE (1,7 euro) e vendevano in media 40MILA COPIE l’uno
IN GITA CON IL TRENO
Sopra, un “carro della neve” del Dopolavoro Fiat. Reclamizza la stazione di sport invernali del Sestriere, raggiungibile anche in Littorina. Chi non poteva permettersela, ripiegava sui treni popolari (a destra).
veglia era l’unico modo di conoscere gli avvenimenti del giorno, dal momento che la televisione non esisteva e, nonostante la campagna per la diffusione della radio nelle zone rurali, quasi nessuno poteva permettersela. Anche in città questi apparecchi non erano poi così diffusi (il milione di abbonati fu raggiunto solo nel 1938). Quindi alle otto di sera, quando iniziavano i programmi musicali, ci si riuniva nei cortili o nelle case di chi una radio la possedeva: c’era chi sistemava l’apparecchio sul tavolo della cucina vicino alla finestra aperta e chi predisponeva le sedie per gli ospiti in giardino o in salotto, davanti a un liquorino. La piccola e media borghesia si lasciò conquistare dall’opera, dall’operetta, dai concerti e dal radiodramma. «Ma per alcuni giovani», ricordava Enrico, «le trasmissioni preferite erano quelle di politica, nazionale e internazionale. Solo che la radio trasmetteva soprattutto musica leggera: c’erano due orchestre che si alternavano, sul primo e sul secondo programma. La mia preferita era la Angelini». Forse per il costo (430 lire per la “popolare” Radiobalilla, circa 370 euro di oggi), forse perché i primi apparecchi si surriscaldavano facilmente lasciando nell’aria un odore di pentola bruciata, la radio conobbe una diffusione lentissima. Nonostante ciò, nel 1927 l’Ente italiano audizioni radiofoniche (Eiar, la futura Rai) decise di trasmettere in diretta le cronache delle partite di calcio. Fu allora che i responsabili del dopolavoro nelle zone rurali tentarono con ogni mezzo di ottenere un apparecchio in dono e l’esenzione dal canone: “I nostri giovani non hanno mai udito la voce del Duce”, si giustificavano. Sabato in nero. Tra le poche occasioni in cui i giovani italiani praticavano uno sport, c’erano i sabati fascisti. «Nel 1938 avevo 16 anni», è la testimonianza di nonna Lea, 14 tra nipoti e pronipoti. «Nel periodo fascista le maggiori soddisfazioni si raccoglievano proprio sui campi sportivi. Abitavo a Roma e ricordo il sabato fascista con il saggio ginnico e le gare nel Foro Italico di fronte a Mussolini e alle autorità: non c’erano premi, si gareggiava perché ci piaceva. Io lanciavo il giavellotto, facevo la corsa a ostacoli, nuotavo e sciavo. Ricordo ancora il dolore quella volta che, saltando un ostacolo, inciampai infilandomi nel ginocchio i chiodi della suola delle scarpette da corsa; quel sabato lo passai in ospedale». I ragazzi, intruppati a seconda del sesso e dell’età, partecipavano alle adunate tra le 14:30 e le 16:00 e, affidati com’erano alle cure del partito, non c’era pericolo che tornassero a casa all’improvviso. Una pacchia per i genitori, che in quel paio d’ore potevano godersi un po’ di intimità. La domenica, invece, si trascorreva nel segno della bicicletta. «Ero un appassionato della gita domenicale», ricorda Enrico. «In estate, 133
M. CHIODETTI/COLL. A. BRISONE
PUBLIFOTO/OLYCOM (2)
IL SUONO DELL’IMPERO
Fonovaligia in cartone della Durium, ditta che produceva anche i dischi con l’etichetta “La voce dell’impero”.
È qui la festa?
L
DA G. F. VENÈ*
e festicciole tra amici, i cosiddetti “tè danzanti” del Ventennio, non somigliavano molto ai party di oggi. Si svolgevano prevalentemente la domenica pomeriggio, tra i giovani della media borghesia. A turno si sceglieva la casa dell’u-
na o dell’altra famiglia per riunirsi a mangiare, chiacchierare e, soprattutto, ballare. Fonovaligia. Protagonista principale era il grammofono a valigetta, che funzionava a molla, recente sostituto del fonografo. Chi lo manovrava, di norma
il proprietario, aveva ben poco dei moderni dj: necessariamente escluso dalle danze, ogni due o tre minuti, non appena le note della canzone cominciavano a distorcersi, doveva ricaricare la molla girando di buona lena la manovella.
GUARDARE LA RADIO
Negli studi dell’Eiar, la radio pubblica, si recitava come se il pubblico fosse presente (sotto). A sinistra, un rumorista.
ALINARI
Il primo SUCCESSO radiofonico di MASSA fu un programma COMICO trasmesso tra il 1934 e il 1937: la PARODIA “I 4 moschettieri” SONO SOLO CANZONETTE
FOTOTECA GILARDI (3)
Sopra, un ritrovo danzante negli Anni ’20-’30. Per il fascismo il ballo era decadente e borghese. A sinistra, un’orchestrina di campagna formata da contadini e impiegati. A lato, le locandine di due operette del 1929 e del 1924 e (qui sotto) la copertina dello spartito di una canzonetta di successo del 1940.
con gli amici, pedalavamo lungo tutta la circumvesuviana da Nola a Napoli per raggiungere le spiagge di Posillipo». Per molti la domenica era infatti il giorno dedicato alla gita fuoriporta: i treni popolari trasportavano folle di cittadini verso località balneari e città d’arte. Spesso si organizzavano giri in carrozza, una variante più allegra della passeggiata. Bagni, struscio e quattro salti in balera. Queste erano anche, per la maggioranza, le uniche forme di vacanza che ci si potesse permettere. Se i benestanti passavano l’agosto in villeggiatura nelle località alla moda (il Lido di Venezia, Taormina, la Riviera ligure, la Versilia, il Lago Maggiore) tutti gli altri, se privi di parenti al mare o in montagna, in occasione delle ferie (mai più di una settimana) dovevano accontentarsi di località raggiungibili in giornata con i mezzi pubblici. Ai più piccoli, invece, ci pensava il regime: nel 1936, ben 772mila bambini furono ospiti delle colonie estive. Le famiglie che nei giorni festivi rimanevano in città si radunavano intorno ai tavolini dei caffè per un gelato: il cremino ai piccoli e la coppa per le signore, alle quali era vietato, per decoro, il cono da passeggio. I giovani invece si davano a divertimenti più moderni, come le feste danzanti e il cinema. Nelle sale da ballo, le ragazze erano rigorosamente accompagnate da madri o zie: toccava agli uomini invitarle per un valzer o per un tango, ben più pudico di quello argentino. Nelle balere si radunavano invece gli estimatori del più popolare ballo liscio, delle polche e delle mazurche, eseguite da orchestrine di fisarmoniche. Erano proprio questi gli unici rari momenti in cui ragazzi e ragazze avevano la possibilità di sfiorarsi. Tutti al cine. Ma la vera passione degli italiani era il cinema, che negli Anni ’30, grazie ai film americani, diventò un fenomeno di massa. Il prezzo era abbordabile (1-2 lire, poco più di 1 euro) e nel 1939 furono venduti 360 milioni di biglietti, contro i circa 110 milioni del 2011. Nelle campagne, invece, arrivava l’“autocinema” (l’Istituto Luce ne aveva 32), un furgone attrezzato con un proiettore sul tetto. «Ho iniziato a 6 anni a frequentare il cinema», ricorda Giovanna, una ultranovantenne di Milano. «Quando sentivo che qualche adulto ci andava – capitava una volta alla settimana – cercavo di accodarmi. Prima del film proiettavano il cinegiornale del Luce, che era seguito da tutti. Era come il telegiornale di oggi». E sullo spettacolo aggiunge: «Non c’erano tante réclame come adesso. Mi ricordo che al cinema Orfeo, finito il film, una voce diceva in milanese: “Signori, adess che gh’è finì ’l dramma, andé al Pozzi a mangiar la panna”. Pozzi era una gelateria che si trovava fuori dal cinema». • Maria Leonarda Leone 135
DOPOGUERRA
Fu una RIVOLUZIONE: chi si trasferiva in città, chi scopriva il tempo
NEGLI ANNI
FORME VINCENTI
Moira Orfei a Milano nel 1954: la foto, di Mario De Biasi, è oggi considerata un simbolo dell’Italia che cambiava.
libero... Per anni L’ITALIA rimase sospesa tra passato e MODERNITÀ
DEL BOOM
MONDADORI PORTFOLIO/MARIO DE BIASI
M
entre in America l’impomatato Elvis Presley dimena il bacino sul palco, in Italia le donne hanno appena conquistato il frigorifero, gli uomini sfrecciano veloci sulle loro automobiline, le ragazze sfoggiano i primi bikini. E i bambini lottano per rimanere svegli a guardare il Carosello. Alla fine degli Anni ’50, in una Italia dai mille volti, ognuno vive il proprio miracolo. Ma i tabù che si incrinano, la tv e il consumismo sono solo alcuni aspetti di quel particolare periodo, compreso tra il 1950 e il 1962, non per tutti fortunato, ma per tutti di enorme cambiamento. Fuori dal tunnel. “La miseria è per molti solo un ricordo”, declamano i cinegiornali dopo l’arrivo degli aiuti americani, quei 1.300 milioni di dollari destinati all’Italia dal Piano Marshall. “Chi ricorda ormai quando lo zucchero costava 1.200 lire al chilo, la pasta 350 e i salari erano la metà di adesso? Quando nelle famiglie per bene delle grandi città la mamma era costretta a vendere il materasso, il nonno fumava le cicche nella pipa e il papà era costretto a fare 200 km in bicicletta per un fiasco di olio e due polli?”. Ma non è tutto oro quel che luccica. I primi anni del Dopoguerra non furono facili. Mario è un bracciante, si muove stanco tra le macerie di un Paese distrutto dai bombardamenti angloamericani e dalle vessazioni naziste. Vive e lavora nelle campagne del Polesine, ha la mentalità un po’ arretrata, è un tradizionalista. La sera, dopo le chiacchiere nella stalla, va a dormire presto. In casa, come tutti del resto, non ha acqua corrente né elettricità: usa una lampada ad acetilene o a olio e per far pipì deve uscire fuori, perché il bagno è all’esterno. Mario non ha molto, se non la certezza che, in caso di bisogno, la sua famiglia potrà sempre contare sulla solidarietà degli altri braccianti. Come nel 1951. “Il Po rompe ad Occhiobello”, hanno titolato i giornali: lungo il corso del fiume, 180mila contadini travolti da una spaventosa massa d’acqua hanno perso tutto ciò che possedevano. Allora gli italiani aprirono le porte agli alluvionati: molti si trovarono così bene da non far più ritorno nella loro terra. Non Mario. Che però dopo qualche anno si mangia le mani: qui manca il lavoro e poi, pensa, “alla televisione, in oste137
Nell’immediato DOPOGUERRA, la famiglia fu il WELFARE che non c’era ancora. Un RUOLO che in molti casi continua a svolgere
ria, l’abbiamo vista la città: è così bella”. Perciò non si stupisce quando suo figlio Piero decide di partire. Adesso, per parlare con lui solo pochi minuti, deve andare al posto telefonico pubblico, una specie di cabina gestita da una centralinista. “In città è diverso, ognuno sta a casa sua. Però qui c’è il lavoro e una casa nuova”, gli racconta il ragazzo con nostalgia. Eppure le case di città destinate a operai ed ex contadini, moltiplicatesi senza logica su aree rese edificabili a prezzi centuplicati, non sono migliori di quella che ha lasciato Piero. Ben diverso il palazzo moderno in cui vive Giovanna, col marito Dino e i suoi tre figli. Interno borghese. Dino è ingegnere, non se la passa male, e sua moglie è molto fiera di accogliere le amiche nel salotto, riservato alle occasioni speciali, e farle accomodare su ampie poltrone in pelle. Nella libreria tiene i tascabili a 100 lire, l’enciclopedia a fascicoli e il giradischi che Emilio, il figlio maggiore, usa per mettere su i 45 giri durante le feste, la domenica pomeriggio. “La mamma, la zia e la nonna, su tre sedie attaccate al muro, rimangono a controllare. Solo quando i genitori di un amico non c’erano abbiamo ballato al buio completo, tranne la lucina del giradischi”, ammette arrossendo il ragazzo. Ma la domenica, almeno per chi se lo può permettere, è anche il giorno della gita fuori porta, quasi un obbligo, ormai, insieme alla villeggiatura estiva. Sulle autostrade fresche di asfaltatura, l’Italia corre verso il mare, il lago o la montagna, i fonografi con la valigetta nel baule di una fiammante Fiat 600 o di una nuovissima 500. “Oggi hanno inaugurato l’Autostrada del Sole da Bologna a Firenze: domani prendiamo su e con tutti i parenti andiamo a fare una gi138
FARABOLA
C.COLOMBO
ta fino a Barberino del Mugello e ritorno”, dice Dino alla moglie nel dicembre 1960, pregustando così la gioia di tutta la famiglia. A Giovanna basta anche meno per sentirsi felice: un frullatore, un tostapane e il frigorifero. Prima era costretta a conservare il burro in una ciotola d’acqua fuori dalla finestra, invece “da quando lo abbiamo preso, a rate naturalmente, compro più di quanto serva per poterlo tenere sempre lì, a portata di mano”. E poi anche Dino, con tutti quegli elettrodomestici, adesso si diverte a bazzicare in cucina. “Sono sempre più numerosi gli uomini seri e importanti, carichi di alte responsabilità nella loro professione, che in casa propria si divertono a servirsene”, notano scandalizzati i benpensanti. Perché, per quanto sembrino più moderni, gli italiani faticano a superare certi vecchi tabù. La moglie perfetta, secondo Noi donne, uno dei femminili più gettonati di quegli anni, “al mattino si alza presto, non c’è bisogno di dirlo. Il marito deve andare in ufficio alle 8? Benissimo, la moglie si alzerà alle 6 e tre quarti, si metterà perfettamente in ordine […] curata, leggermente incipriata, con un sorriso sfavillante, si avvicinerà quindi al marito e gli sussurrerà: ‘Caro, il caffè è pronto’”. Soltanto quando il marito è uscito, mette la maschera di bellezza e comincia il tran-tran delle pulizie – che fatte nel modo giusto procurano “linea, salute e buonumore” – della spesa e della preparazione del pranzo. Ma com’era diversa la vita che si era
BEATA GIOVENTÙ
A sinistra, una domenica degli Anni Sessanta al parco: la categoria sociale dei “giovani” si formò solo allora.
ACQUISTI COMPULSIVI
La spesa in un supermercato di Milano nel 1961. Il primo fu inaugurato nel capoluogo lombardo nel 1957.
MONDADORI PORTFOLIO
TRASPORTI
La rivoluzione a due e a quattro ruote
“B
isognava fare un’auto più economica, spaziosa e veloce della Topolino”: parola di Dante Giacosa, ingegnere e designer storico della Fiat. Il risultato, ottenuto con anni di lavoro e oltre 100 miliardi di lire di investimenti, fu la 600, presentata il 10 marzo 1955. La nuova 4 posti, immessa sul mercato al prezzo di 590mila lire (circa 8mila euro di oggi) non era un acquisto a portata di tutte le tasche ma fu la prima utilitaria italiana a larga diffusione (2.700.000 autovetture prodotte). Iconica. Simbolo del miracolo economico, la 600, cui si affiancò nel 1957 la più economica 500, contribuì alla
realizzazione dell’ambizioso progetto della Fiat diretta da Vittorio Valletta: “mettere gli italiani sulle quattro ruote”. Lo Stato sostenne la motorizzazione di massa con la costruzione di un’imponente rete autostradale che, superando a fine Anni ’60 i 2mila chilometri, collocò l’Italia al secondo posto tra i Paesi Cee, preceduta dalla Germania. Spina dorsale della rete fu l’Autostrada del Sole, da Milano a Salerno. Nel 1964, a opera terminata, si poté affermare che l’Italia era “più corta”; prima per andare in auto da Milano a Napoli servivano due giorni di viaggio. Contemporaneamente il traforo del Monte Bianco, ultimato nel 1965, e l’autostrada
del Brennero, iniziata nel 1963, contribuirono ad avvicinarci sempre di più all’Europa. Weekend. Mobilità (e benessere) cambiarono la fruizione del tempo libero. Le scampagnate domenicali fuori porta divennero un’abitudine, e le colonne di auto di vacanzieri entrarono nell’iconografia delle ferie estive. Ideato dall’industriale Mario Pavesi, sull’autostrada del Sole, nei pressi di Fiorenzuola d’Arda, sorse nel 1959 il primo “autogrill” d’Europa. E al cinema la Lancia Aurelia decapottabile, simbolo di edonismo e spavalderia, divenne protagonista di uno dei successi dell’epoca, Il sorpasso di Dino Risi, del 1962. (g. f.)
MUSEO STORICO LAMBRETTA, RODANO (MI)
Lambretta e Vespa prima, Fiat 600 e 500 poi, “accorciarono” le distanze all’interno del Paese facendo scoprire agli italiani il tempo libero
MULTIPLE E LAMBRETTE
Qui sopra, cartellone pubblicitario della Lambretta LI 150 del 1959, prodotta dalla Innocenti. In alto, la Fiat 600 Multipla, una “monovolume” ante litteram.
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Nel 1960 solo il 54% degli italiani indossava L’OROLOGIO da polso: lo si REGALAVA ai maschi alla prima COMUNIONE immaginata! Dopo un fidanzamento da sorvegliata speciale, a casa a giocare a carte col promesso sposo, “con mia madre in mezzo a fare da guardia”, una volta indossato l’abito bianco la donna si scontrava con la dura realtà: i mariti “a casa mangiano, si cambiano d’abito, leggono i giornali: ‘Buon giorno, addio’”. Nel 1951 un sondaggio rivelò che la metà delle mogli italiane era insoddisfatta del proprio matrimonio. Ma la sensazione più frustrante era che spesso a prendere le parti dell’uomo erano le donne stesse. Una fra tutte la scrittrice Renata Viganò, dalle pagine della sua rubrica sull’Unità. Le scappatelle? Colpa delle ruba-mariti. Il mutismo maschile? Colpa delle mogli, che subissano gli uomini di chiacchiere inutili e poco interessanti. Le botte? “Sorridi sempre e vedrai che tuo marito non ti picchierà più […]. Risparmiagli il dolore e l’avvilimento di trattarti male”. Insomma, le casalinghe, madri e mogli felici, vivevano solo nei film americani. Forse per questo i nostri registi proposero storie diverse, capaci di strappare sorrisi ma col finale amaro tipico della commedia all’italiana, un genere che proprio in questo periodo vede la luce tra i mille divieti della censura (v. riquadro nella pagina seguente). Giovani inquieti. Una certa mentalità bigotta, però, non riusciva a smorzare l’entusiasmo dei giovani, stanchi di sentir parlare di guerra. Sofia legge le riviste femminili, segue i consigli di bellezza,
si trucca con l’eye-liner e il rossetto per farsi guardare. E segue la moda, quella di Dior, che nel 1954 ha accorciato l’orlo delle gonne “fin quasi al ginocchio”. “Ecco la famosa bomba Dior: l’esplosione è abbastanza atomica, ma i vestiti suggeriscono una guerra tutt’altro che fredda”, scherzano i reporter. Però c’è poco da ridere: se nel 1950, in pieno luglio, un giovane e rigidissimo Oscar Luigi Scalfaro aveva dato della “disonesta” a una donna con un abito a spalle scoperte, ancora tre anni dopo, a Capri, le ragazze in due pezzi venivano multate e costrette a cambiarsi. Alle coppiette più sfrontate costava invece 2.500 lire un
Adriano Olivetti, imprenditore illuminato
U
na piccola Atene. Così fu definita la fabbrica di Ivrea (To) diretta da Adriano Olivetti (1901-1960), l’imprenditore più illuminato del Dopoguerra. Trasformò l’azienda, dove nel 1858 lavoravano 14.200 persone, in un successo a misura d’uomo, convinto che solidarietà e profitto non fossero in antitesi, ma che la felicità dell’operaio giovasse all’azienda.
Welfare. Gli operai avevano il sabato libero, uno stipendio più alto della media, autobus a prezzi scontati, mensa e asilo nido. All’Olivetti furono invitati a collaborare i migliori intellettuali e designer dell’epoca. A chi lo accusava di essere utopista Olivetti rispondeva: “Il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia o coraggio di fare”.
IL CERVELLONE
ARCHIVIO IBM
Il convoglio che trasportava l’Ibm 7070, inviato nel 1960 al Banco di Napoli, rallentato da un gregge vicino a Roma.
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ARCHIVIO CESARE COLOMBO
TELEVISIONE
SCENARIO DI SUCCESSO
Il set di Carosello, programma “sponsorizzato” che durava 10 minuti: andò in onda per la prima volta nel 1957 e proseguì fino al 1977. Sotto, Mike Bongiorno conduttore del telequiz Lascia o raddoppia? La formula fu importata dagli Usa nel 1955 e la trasmissione proseguì fino al 1959.
Innovazioni (e censure) di mamma Rai
L
a televisione italiana iniziò a trasmettere ufficialmente la mattina del 3 gennaio 1954 dagli studi di Milano, Roma e Torino. Il vero decollo si ebbe però nel 1957 quando, grazie ai ripetitori installati in tutta Italia, le trasmissioni vennero diffuse sull’intero territorio nazionale e gli abbonati cominciarono a crescere: tra il 1958 e il 1963 le famiglie con un televisore passarono dal 12% al 49%. Voce unica. Monopolio dello Stato esercitato attraverso il controllo dell’Iri, come già prima la radio e come ovunque in Europa, la tv fu oggetto di stretta censura
politica e morale. Ma fu anche, negli anni del boom, la novità di maggior impatto nella vita quotidiana degli italiani. Primo popolarissimo successo fu Lascia o raddoppia?, il programma a quiz condotto da Mike Bongiorno. Per assistervi il pubblico affollava i bar e in molti cinema furono installati televisori. Per la réclame, come si chiamava all’epoca, fu inventato nel 1957 un programma specifico, Carosello. L’espressione “A letto dopo Carosello” rappresentò l’originale via italica al consumismo. La Rai impose agli inserzionisti di produrre scenette che solo nel finale contenessero la
pubblicità del prodotto. Inoltre non dovevano comparire ambienti eccessivamente lussuosi, troppo lontani da quelli del ceto medio. Buona maestra. Non è mai troppo tardi, trasmissione preserale in cui il maestro Alberto Manzi, a partire dal novembre 1960, insegnò a leggere e scrivere, contribuì a combattere l’analfabetismo ancora diffuso. Si calcola che circa un milione e mezzo di persone sia riuscito a conseguire la licenza elementare grazie a quella forma di educazione a distanza. Anche una rubrica come Tribuna politica, inaugurata nel 1961 (anno in cui
MONDADORI PORTFOLIO
Fu la televisione, insieme alla diffusa scolarizzazione, a insegnare l’italiano agli italiani. E diede un cospicuo contributo nella formazione dell’identità nazionale
debuttò il secondo canale) con un format che oggi pare soporifero, fu accolta come un segnale dei tempi nuovi: per la prima volta apparivano
sullo schermo i leader di tutti i partiti, anche di opposizione. Dopo la scuola, fu il maggiore elemento di unificazione nazionale. (g. f.)
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bacio dato in pubblico. E mentre il Comune di Roma ingiungeva a un negozio d’intimo di togliere la parola “reggiseno” dall’insegna e le modelle sfilavano indossando la calzamaglia nera sotto busti e guêpière, gli uomini si rifacevano gli occhi al teatro della rivista. Qui peccare era lecito, le ballerine si esibivano poco vestite e i comici facevano allusioni tutt’altro che velate: “E togliti le mutande!”, esclamava perentorio Totò a un’attrice, scusandosi col pubblico allibito: “Io lo faccio per voi, a me che mi frega”.
La morale all’italiana. Perché il sesso, è ovvio, si fa. Ma non si dice. Il Rapporto Kinsey, uno studio sul comportamento sessuale degli americani pubblicato in Usa negli anni Quaranta, attraversa l’oceano e approda in Italia solo nel 1953, in versione edulcorata: la censura ha sostituito “seno” con “torace”, “sessuale” con “sentimentale”, “coito” con “espressione sentimentale”. Con i libri di Alberto Moravia all’indice e, nel 1954, la condanna per adulterio del ciclista Fausto Coppi e dell’amante Giulia Occhini, alias la Dama Bianca, non stupisce il parapiglia scatenato due anni dopo in Toscana dai coniugi Bellandi e dal loro matrimonio civile. “Pubblici concubini”, li addita il vescovo, che viene citato in giudizio dagli sposini, condannato in prima istanza e assolto in appello nel 1958. Ma ormai una nuova strada è tracciata. Nel 1956 le ragazze ci avevano riprovato col due pezzi: stavolta, complice il costumino risicato che la prorompente Brigitte Bardot indossa sulle spiagge di Cannes, nessuno interviene. Un altro duro colpo alla morale tradizionale arrivò dall’isola di Porto Rico: è la pillola anticoncezionale del biologo Gregory Pincus. In Italia venne messa in vendita solo nel 1972: il nostro codice penale proibiva infatti il commercio di qualsiasi tipo di contraccettivo. I giovani sfidano i valori degli adulti, ispirandosi all’America: cavalcano la Vespa, indossano jeans e giubbino nero – “una divisa da straccioni” la defini-
IL NUOVO SOUND
A sinistra, due giovani ballano il twist al suono di un juke-box: il ballo, nato negli Usa nel ’58, arrivò da noi nei primi anni Sessanta.
LA GIOIA DI OGNI DONNA
La foto di un servizio per una rivista femminile del 1963: il frigorifero era l’elettrodomestico più ambito.
CONTRASTO (2)
ARCHIVIO CENTRO ITALIANO FOTOGRAFIA D’ AUTORE; BIBBIENA
FLIPPER e JUKE-BOX erano condannati dai GIORNALI perché considerati un elemento di CORRUZIONE per i giovani
C. COLOMBO
AL LAVORO
Quando le fabbriche giravano A trainare l’economia furono l’industria automobilistica e quella degli elettrodomestici. Anche grazie agli operai a basso costo trasformò Pordenone, in Friuli, in una one company town, come Torino con la Fiat. Lo stabilimento di Mirafiori, che nel 1967 toccò la quota di 46mila dipendenti, era una città nella città, imperniata su un’organizzazione del lavoro disciplinata da un rigido autoritarismo. A incarnare questo modello industriale (al quale si contrapponeva quello di Adriano Olivetti, v. riquadro nelle pagine precedenti) fu Vittorio Valletta. Entrato in Fiat nel 1921 come direttore amministrativo, divenne uno dei più stretti collaboratori del senatore Agnelli, il quale gli affidò compiti sempre più importanti.
Amministratore delegato dal 1939, subì dopo la Liberazione un processo per collaborazionismo ma fu assolto, tornando in azienda nel 1946. Modello Valletta. Da presidente, Valletta isolò il sindacato di sinistra (la Cgil) e impose un modello produttivo in cui 3 lavoratori su 4 erano addetti alle linee di montaggio. Puntava sulla figura del cosiddetto “operaio massa” non specializzato. Del resto, per molti fra i nuovi assunti, provenienti dalle campagne o dal Meridione, il posto fisso in una grande azienda rappresentava un traguardo di per sé, il che faceva accettare turni pesan-
C. COLOMBO/ARCHIVIO STORICO PUBBLICITARIO STAR
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l “mastino” dell’industrializzazione italiana fu la Fiat: il 20% degli investimenti compiuti in Italia tra il 1958 e il 1963 derivava dall’azienda torinese. Per quanto riguarda le esportazioni il comparto all’avanguardia fu quello degli elettrodomestici. La Candy, che nel 1947 produceva una lavatrice al giorno, nel 1967 ne sfornava una ogni 15 secondi. In quell’anno il nostro Paese diventò il terzo produttore mondiale di frigoriferi e il primo in Europa di lavatrici e lavastoviglie. Giganti. La Zanussi, azienda leader per un decennio dell’“elettrodomestico bianco”,
PRODOTTI E CONSUMI
tissimi e massacranti. Senza incontrare forti opposizioni in fabbrica, le imprese (e non solamente la Fiat) poterono coniugare l’aumento della produttività con un’alta redditività fino ai primi anni Sessanta, cioè finché gli alti livelli di disoccupazione del
In alto, la fabbrica dell’Olivetti a Ivrea (To). Sopra e a fianco, due pubblicità degli Anni ’50: la Coca-Cola (arrivata con i soldati Usa) e il dado per fare il brodo di carne.
Dopoguerra garantirono disponibilità di manodopera a basso costo: tra il 1953 e il 1960, mentre la produzione aumentava da un valore pari a 100 a 186 e la produttività operaia da 100 a 162, i salari reali nell’industria rimasero più o meno inalterati. (g. f.)
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Il SESSO era avvolto da un alone di MISTERO: si CENSURAVA in tv, nei LIBRI e soprattutto nei FILM sce il ministro di Grazia e giustizia nel 1959 –, ballano il rock ’n’ roll, la “musica degenerata” dei jukebox, in quelli che i moralisti definiscono i “convegni del diavolo”. Nulla può Famiglia Cristiana, che invita a ballare “il meno possibile; se ci si va prendete tutte le precauzioni, fra cui primissima, almeno per le ragazze, di essere accompagnate dal fratello o dalla mamma o da persona fidata che faccia un po’ da scudo”. Case aperte. Nel 1958 crolla un altro baluardo della morale di facciata: le persiane delle case chiuse si aprono, lasciando entrare il sole e uscire le prostitute. La socialista Lina Merlin era convinta, col suo disegno di legge, di strappare a una vita da schiave di Stato migliaia di donne: la maggior parte di loro, invece, continuò a fare la vita ai bordi delle strade. Ma senza più tutela e assistenza medica. I più insoddisfatti furono però i clienti, spesso uomini sposati, ora privati di persiane dietro cui nascondersi. Nello stesso anno, a Roma, in un locale a Trastevere dove il bel mondo romano sta festeggiando, l’atmosfera si scalda: l’attrice libanese Ayché Nanà Nur si spoglia e comincia a ballare sui tavoli. Il suo è il primo seno nudo esibito in un locale italiano: la polizia interviene e la denuncia per atti osceni. Ne trasse ispirazione Federico Fellini, per il più famoso dei sui film: La dolce vita. Una vita dolce. Ma an-
che e soprattutto amara, in quell’Italia di fine anni ’50, dove tutto è cambiato e tutto è rimasto com’era. Tra passato e futuro. Le famiglie spendono per il superfluo, ma nemmeno otto abitazioni su cento hanno contemporaneamente elettricità, acqua corrente e allaccio alla fognatura. A Milano, gli operai per risparmiare non fumano, comprano un vestito ogni tre anni e si accontentano della radio, anche se l’abbonamento è caro. Il telefono è al primo posto nella loro lista dei desideri, seguito dallo scaldabagno e dal televisore, entrato nel 1954 solo in pochi fortunati salotti. In quegli anni gli apparecchi televisivi erano così pochi che ogni giovedì sera, quando andava in onda il quiz Lascia o raddoppia? condotto da Mike Bongiorno, famiglie intere migravano nei bar o a casa di un vicino costretto, per far entrare tutti, a lasciare la porta aperta. Con un solo canale, la Rai offriva agli italiani l’opera lirica, il festival di Sanremo con Nilla Pizzi, il Giro d’Italia, il teatro, i grandi sceneggiati. E, dal 1957, anche la pubblicità: solo dieci minuti all’interno di Carosello, in coda all’intermezzo. Dieci minuti che però cambiarono la vita degli italiani, spingendoli al consumismo più sfrenato. E poi tutti a nanna. • Maria Leonarda Leone
LA POESIA DELLE BORGATE
1960, Pier Paolo Pasolini nelle borgate romane: lo scrittore e regista fu uno dei primi critici del consumismo.
Pier Paolo Pasolini
U
CONTRASTO (2)
no sfacelo. Fu questo, in sostanza, il giudizio che diede Pier Paolo Pasolini (1922-1975) della trasformazione avvenuta nel nostro Paese nel Dopoguerra. L’accusa era rivolta alla grande industria italiana, rea di aver creato un tipo umano, quello del consumatore, e di avere trasformato gli italiani “in bruti e stupidi automi adoratori di feticci”. Il consumismo, diceva Pasolini, era riuscito dove il fascismo aveva fallito: distruggen-
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do realtà particolari (il mondo contadino) aveva ottenuto l’omologazione che Mussolini aveva tanto voluto. “Il gran male dell’uomo non consiste nella povertà [...] ma nella perdita della singolarità umana sotto l’impero del consumismo”, disse. Le parole più dure le riservò all’elettrodomestico più amato. “Non considero niente di più feroce della banalissima televisione”, dichiarò. “L’importante è una sola cosa: che non trapeli nulla mai di men che rassicurante”.
CINEMA
Hollywood? No, Cinecittà! Anni Cinquanta: Cinecittà è la mecca di registi, attori e produttori che danno vita a una ricca serie di film, tutti rigorosamente “made in Italy”. sierati film americani. Soprattutto quando nei primi Anni ’50 cominciò la ripresa economica. Hollywood da parte sua era molto aggressiva in quegli anni, pronta a riconquistare il mercato internazionale dopo la guerra. E ci riuscì: nel 1953 i film americani costituivano il 50% di tutti quelli distribuiti in ognuno dei Paesi europei e molti governi, anche in Italia, ricorsero a misure protezionistiche. Incalzati dall’invasione Usa i registi italiani cominciarono a imprimere una nuova tendenza al neorealismo nostrano, trasformandolo nel cosiddetto neorealismo rosa (Pane, amore e fan-
tasia di Luigi Comencini, 1953) che, pur mantenendo un’ambientazione autentica e sfiorando talvolta contenuti sociali, trattavano temi più leggeri. Un genere che portò alla “commedia all’italiana” (il nome deriva dal film Divorzio all’italiana, di Pietro Germi) che grande successo ebbe anche all’estero. Fu il momento d’oro di Gassman, Loren, Sordi, Mastroianni... E ai registi della “vecchia guardia” come De Sica, Rossellini e Visconti, si aggiunsero giovani e promettenti cineasti, alla ricerca di un realismo più intimo e psicologico, come Michelangelo Antonioni e Federico Fellini.
Federico Fellini (col cappello bianco) sul set di Boccaccio 70, girato nel 1961. Sopra e a fianco, le locandine di due capolavori del 1960.
FOTOTECA GILARDI
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ell’immediato Dopoguerra in Italia mancavano i soldi per tutto, figurarsi per i film! Così i registi giravano con attori non professionisti e improvvisavano scenografie da strada per raccontare i drammi quotidiani. Evasioni. Ma il ritratto di miseria narrato con realismo, che prese il nome di neorealismo – i maestri furono Luchino Visconti (Ossessione, 1943), Roberto Rossellini (Roma città aperta, 1945, Paisà, 1946, Germania anno zero, 1948) e Vittorio De Sica (Ladri di biciclette, 1948) – piaceva molto di più all’estero che in Italia, dove si preferivano i più spen-
CAPOLAVORI IN CORSO
Il sorpasso. Proprio Fellini, con La dolce vita, nel 1960 stabilì il record di incassi dell’anno con 794 milioni di lire (seguito dal film Usa A qualcuno piace caldo di Billy Wilder, 499 milioni). E pensare che alla prima a Milano il film fu fischiato e all’uscita uno
spettatore sputò al regista, considerandolo un antiborghese. Altro film simbolo fu Il sorpasso di Dino Risi, la storia di una spensierata gita in macchina che finisce in tragedia. Una allegoria dei tempi? Era il 1961 e la fine del boom economico si avvicinava. (f. c.)
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LETTURE A cura di Matteo Liberti
La vita quotidiana nel Medioevo
Robert Delort (Laterza) Appassionante ricostruzione delle abitudini quotidiane di cavalieri, contadini, mercanti, monaci, nobildonne e popolane: osservati sui luoghi di lavoro, durante le feste di corte e nelle attività domestiche.
Storia di un giorno in una città medievale
Arsenio Frugoni, Chiara Frugoni (Laterza) Ricco di minuziose descrizioni, il volume accompagna il lettore in un viaggio lungo le strade e dentro le case di un’immaginaria città medievale, aprendo una finestra sulla vita di ogni giorno tra il XIII e il XIV secolo attraverso l’analisi di arredamenti, moda, cibo e giochi.
L’uomo del Rinascimento
A cura di Eugenio Garin (Laterza) Il risveglio culturale del Rinascimento e la rinnovata affermazione dell’uomo sono qui descritti attraverso una serie di affreschi che fanno rivivere la quotidianità di quest’epoca. Fra le figure raccontate: condottieri, contadini, filosofi, mercanti, principi e uomini di chiesa.
Vita di casa. Abitare, mangiare, vestire nell’Europa moderna
Raffaella Sarti (Laterza) Un saggio che svela ogni aspetto della vita quotidiana degli europei nell’epoca moderna. Passando dalla cucina alle stanze da letto, dai comportamenti sociali alla cura dell’igiene, dalle strade ai lussuosi palazzi.
Perdersi a Londra
Charles Dickens (Mattioli 1885) Come si viveva nella Londra dell’Ottocento? A svelarcelo è lo scrittore Charles Dickens, che descrive la metropoli da due punti di vista, entrambi auto-
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biografici: quello di un bambino sperduto nei quartieri più poveri, e quello di un ragazzo che girovaga di notte tra le sue tentacolari strade.
Famiglie comuniste. Ideologie e vita quotidiana nell’Italia degli anni ’50
Maria Casalini (Il Mulino) Basato su numerose testimonianze dell’epoca, il saggio descrive il modello di famiglia promosso nel secondo dopoguerra dalle forze comuniste italiane. Scoprendo che, almeno fino al Sessantotto, era molto simile a quello della tradizione cristiana.
La storia del viaggio e del turismo in Italia
Andrea Jelardi (Ugo Mursia) Nell’Italia del boom economico, grazie al rapido sviluppo delle infrastrutture e dei mezzi di trasporto, vi fu una forte crescita del turismo che, come racconta il volume, mutò le abitudini di milioni di persone, pronte a frequentare come mai prima hotel, ristoranti e villaggi turistici.
Le donne nel regime fascista
Victoria de Grazia (Marsilio) Libro che spicca per la puntuale ricostruzione storica del fascismo e per l’analisi antropologica e sociologica di quel periodo. Con un’attenzione particolare alle donne e agli aspetti quotidiani, spesso trascurati dai manuali di storia.
I consumi della vita quotidiana
a cura di E. Scarpellini (Il Mulino) Un’accurata analisi dei consumi (casa, abbigliamento, mezzi di trasporto, telefonia, elettrodomestici) illustra i mutamenti socio-economici che segnarono l’Italia del secondo Novecento.
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