N°16 Marzo 2015 d € 6,90
SOLDATI E BATTAGLIE NEI SECOLI
d AEREI d SOMMERGIBILI d TANK d MITRAGLIATRICI d GAS
1915-18
LA PRIMA GUERRA MODERNA
d d d d d d
MONTE NERO. LA VITTORIA DEGLI ALPINI SFIDA MORTALE IN ATLANTICO IL RAID DI AISOVIZZA LA 2A BATTAGLIA DI YPRES L’OFFENSIVA DI GORLICE-TARNÓW I TEDESCHI NELL’AFRICA ORIENTALE
Sped. in A. P. - D.L. 353/03 art. 1, comma 1 NE/VR
IN REGALO
IL MEGA-POSTER DELLA GRANDE GUERRA IN ITALIA d TUTTE LE ARMI E LE DIVISE DEI FANTI d LE MAPPE DELLE BATTAGLIE
ANTICHITÀ Sargon il Grande: il generale che sconfisse i Sumeri e conquistò la Mesopotamia
ROMA L’Urbe piegò Mitridate, il suo nemico più ostinato
SAMURAI
Così vestivano gli spettacolari guerrieri del Giappone feudale
LIBR
O
Un romanzo che racconta quell’epoca sanguinosa e corrotta, immediatamente successiva all’unità d’Italia, vissuta tra illusioni e disillusioni continue, nate da scontri tra detentori del potere e cafoni, notabili e contadini, soldati italiani e sbandati borbonici… “1861” si propone come un saggio dallo stile dichiaratamente divulgativo, con l’intento di dar rilievo a un periodo della nostra storia ancora poco analizzato e conosciuto. Ripercorrendo Ie gesta dei reali protagonisti del “brigantaggio post-unitario” e intrecciandole a quelle di personaggi inventati ma verosimili il romanzo riproduce situazioni e scenari, basando le proprie ricostru-
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zioni su rigorose ricerche, documenti e pubblicazioni.
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WARS
SOMMARIO
La Prima guerra moderna Da secoli ormai sui campi di battaglia non serviva più guardare in faccia il nemico, e ci si affrontava a distanza con l’uso di proiettili e granate. Né erano sconosciuti gli eserciti popolari e di massa, basta pensare alle campagne napoleoniche. Ma nel 1915 (1914 per gli altri belligeranti) le nuove armi tecnologiche, la leva e un formidabile apparato industriale si allearono per cambiare radicalmente le regole, le tattiche e le strategie belliche. Addio copricapi piumati, addio uniformi variopinte, addio cavalli e cavalieri. Era arrivato il momento degli elmetti di ferro, di camion, aerei e sommergibili. Era arrivato il momento dei gas, dei tank e delle mitragliatrici. Era scoppiata in tutto il mondo la Prima guerra moderna. Jacopo Loredan ! direttore
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SARGON IL GRANDE Si dice che con il re guerriero che unificò le città-Stato della Mesopotamia sia nato il primo impero della Storia.
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SUI CAMPI DI BATTAGLIA
FINISCE QUI IL VOLO DELL’AQUILA Due secoli fa, il 18 giugno 1815, Napoleone veniva sconfitto nella campagna belga. Ecco i luoghi della Storia.
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PRIMO PIAN PR ANO O
191518 LA PRIMA GUERRA MODERNA Inizia come una battaglia dell’800, poi si trasforma in un conflitto nuovo, con aerei, tank e armi chimiche.
OGIA 22 TETECNOLOG ARMI SEMPRE PIÙ LETALI Il modo di combattere cambia e si affacciano in battaglia nuovi strumenti di morte. MONTE NE NERO RO - LA A 1 BATTA TAGL GLIA DEL ELL’ISON ONZO ZO 26 MO LA PRIMA VITTORIA A
Nel giugno del ’15 il conflitto si sposta anche in quota e gli alpini vengono impiegati sul loro terreno, la lotta in montagna.
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LA BATTAGL GLIA IA DEL ELL’ATLANT NTIC ICO
IL FRONTE MARINO Compare un nuovo protagonista, il sommergibile, che nel secondo anno del conflitto sostiene la sua prima battaglia negli abissi.
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WARS I NOSTRI ESPERTI
PROTAGONISTI
IL RAID DI AIS ISOVIZ IZZA
CIELI IN FIAMME Con lo sviluppo del mezzo aereo, nel ’15 la lotta si sposta anche fra le nuvole.
GIORGIO ALBERTINI Milanese, 46 anni, laureato in Storia medievale, illustratore professionista per case editrici e riviste (giorgioalbertini.com).
2 BAT ATTA TAGL GLIA D DI YPRES S 44 LAIL NEMICO È NELL’ARIA
GASTONE BRECCIA
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Livornese, 52 anni, bizantinista e storico militare, ha pubblicato saggi sull’arte della guerra, sulla guerriglia e sulla missione ISAF in Afghanistan.
ANDREA FREDIANI
A
Entra drammaticamente in scena una nuova arma: il letale cloro viene impiegato in Belgio, dove i tedeschi usano il gas su larga scala.
STEFANO ROSSI
WARS
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PAG. 79
TRUPPE D’ÉLITE
PAG. 80
RECENSIONI
PAG. 82
IN COPERTINA
LA CAMPA PAGN GNA DELL LL’AFRICA ORIENT NTALE
SAFARI CON I TEDESCHI La lotta si sposta su un nuovo terreno, le colonie, dove la guerriglia entra nella strategia delle grandi potenze.
64 UNIFORMOLOGIA LA CASTA DEI SAMURAI I guerrieri del Giappone feudale vivevano di rituali, curando la spada come la loro anima.
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RUBRICHE
LIVING HISTORY
SUL FRONTE ORIENTALE A partire dalla maggiore operazione a est del ’15, si inizia a usare l’artiglieria in appoggio alle truppe.
Romano, 51 anni, medievista, ha scritto vari saggi di storia militare e romanzi storici di successo (andreafrediani.it). Milanese, 55 anni, già ufficiale degli Alpini paracadutisti. Reporter di guerra, collabora con molte testate giornalistiche.
L’OFFENSIV L’ IVA DI GOR ORLICE-TAR ARNÓW AR
PROTAGONISTI
IL GRAN CAPITANO Gonzalo Fernández de Córdoba eccelleva nell’arte della guerra, che mise al servizio degli spagnoli contro i francesi nella conquista del Regno di Napoli.
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APPROFONDIMENTI
MITRIDATE SFIDA ROMA Con una lunga serie di battaglie il re del Ponto si rivelò per un quarto di secolo il nemico più ostinato, intelligente e velenoso dell’Urbe.
Getty Images/MILpictures by Tom Weber
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PROTAGONISTI
DE AGOSTINI/GETTY IMAGES (2)
ulle mura di mattoni cotti al sole della città di Uruk le guardie, dagli elmi rossi di bronzo e dalle lunghe tuniche di pelo di pecora, stavano gomito a gomito scrutando l’orizzonte. Un vasto esercito si avvicinava veloce da nord, lungo il corso dell’Eufrate, con le armi scintillanti alla luce della divinità solare, il potente Shamash. Erano i soldati del nuovo re. Non s’erano mai visti così tanti guerrieri. Quel mondo andava avanti sempre uguale dall’inizio dei tempi: si seminavano i campi e si raccoglievano i frutti del lavoro utilizzando le acque incanalate dei grandi fiumi sacri, del Tigri a Oriente e dell’Eufrate a Occidente. In quell’angolo di terra che cominciava poco più a nord dell’odierna Baghdad e finiva a sud sulle coste del Golfo Persico si aspettavano le piene dei fiumi, così come facevano i contadini egiziani millecinquecento chilometri più a ovest sulle rive del Nilo. Con la differenza che la vita nell’Egitto di 45 secoli fa era organizzata in un modo diverso. Nonostante il Paese fosse distinto in Alto e Basso, l’Egitto aveva pur sempre un’omogeneità culturale che ne faceva un unico corpo: città e villaggi erano governati da un re-dio, il faraone. Non era così nella terra tra i due fiumi: in Mesopotamia le città erano signore di loro stesse, o meglio i loro dèi erano signori assoluti di quelle città e le governavano disputandosi il potere con le loro vicine.
SI DICE CHE CON LUI SIA NATO IL PRIMO IMPERO DELLA STORIA. IL SIGNORE DI AKKAD SCONFISSE I SUMERI E RIUNÌ SOTTO DI LUI IL VICINO ORIENTE
La città mesopotamiche – così come lo sarebbero state quattromila anni dopo, alla fine del Medioevo, le città italiane – vivevano con orgoglio ed esclusività il proprio nome e le proprie rivalità. Ur, Uruk, Lagash, Eridu, Kish, Mari, Larsa, Isin, Adab e Nippur fiorirono proprio all’insegna del pluralismo, della competizione. L’egemonia sulle altre inevitabilmente passava da una all’altra, cedendo di volta in volta al dio protettore la gloria della vittoria, e attraverso di lui, al suo mediatore terreno, il sacerdote-re ( Ensi ) che era a capo di quella città ma non ne era il capo. Era come se ci fosse stato solo un sub-comandante perché alla fine tutto doveva tornare alla divinità. Imporre la superiorità del proprio dio corrispondeva a imporre la propria superiorità. E gli dèi erano tanti, come le città, più delle città: Enlil, che aveva in mano il destino dell’universo; Inanna (Ishtar per i Semiti) la feconda, che all’universo assicurava continuità; Anu che comandava il cielo; Enki che comandava le acque. Tanti dèi, tanti governatori, tante città, ma nessun re. Poi arrivò il momento di rompere questo gioco delle parti: in quel mondo lontanissimo, che ai nostri occhi apparirebbe infinitamente primitivo, esisteva la scintilla di un cambiamento Ensi Erano i governatori delle città sumeriche e spesso grandi sacerdoti della divinità tutelare della città e suoi vicari in terra.
che avrebbe portato l’umanità verso qualcosa di completamente nuovo. E quel cambiamento arrivò dal deserto. A . Ai confini con la terra dei due fiumi c’è una regione arida, il Deserto siriaco, dove all’epoca si erano insediate tribù semitiche che arrivavano da una zona ancora più aspra, il Deserto arabico. Nel corso del III millennio a.C. queste genti cominciano a penetrare in Mesopotamia, all’altezza dei centri di Assur, Kish e Mari. Parlavano una lingua diversa dal sumero e si distinguevano da loro anche per alcune differenze fisiche: per esempio, le lunghe e ricciolute barbe. È soprattutto a Kish che ritroviamo molti nomi semitici tra i capi della città. Sargon sarebbe stato uno di questi. Ma in realtà ignoriamo come si chiamasse. Ci è noto solo l’appellativo con cui si sarebbe fatto conoscere prima di tutto dai suoi sudditi, poi dai suoi avversari, infine dalla posterità: Sharru-kin. Nella lingua di queste tribù l’espressione significava “il re è legittimo”. Sargon era la variante greca di quell’appellativo e noi così lo conosciamo. Ma prima di essere “il vero re”, alla fine del IV secolo del terzo millennio a.C., Sargon era stato qualcos’altro. La sua vita prima di allora ci è nota solo attraverso testi narrativi, leggende compilate varie centinaia di anni dopo la sua scomparsa. La narrazione epica e fantastica di quei testi supera le vicende terrene dell’uomo. La leggenda vuole che Sargon
IL SUO DOMINIO Testa bronzea solitamente identificata come Sargon di Akkad (2335-2279 a.C). Sullo sfondo, uno ziggurat di Nippur (Iraq), una delle cittàStato della civiltà sumera conquistate da Sargon.
SARGON
IL GRANDE 5
FREGIA ANDOSI DEL TITO OLO DI “RE E DEL LLE 4 PART TI” ASSSUM MEV VA IL RUOLO DI SOVR R ANO O DEL MON ND O CONO OSCIIUTO O fosse figlio di una sacerdotessa entu (le Entu erano le spose degli dèi) di alto lignaggio, destinata a rimanere vergine. Costretta a nascondere la nascita, la madre di Sargon affidò il neonato alla volontà del fiume. Il piccolo venne quindi posto in una cesta di giunchi, impermeabilizzata con del bitume e lasciato alle acque, come successe a Mosè o a Romolo e Remo dopo di lui. Il fiume fu benevolo e portò il bambino da Akki, un uomo semplice, un frutticoltore che lo allevò e ne fece un giardiniere. Questo doveva essere solo il primo gradino di una lunga ascesa. Secondo la leggenda Sargon era infatti destinato a un felice destino: diventare l’amato di Ishtar, la dea della fertilità (che per i Semiti era anche la divinità della guerra, un po’ come Atena per i Greci). Conquistando un favore divino dopo l’altro, questa figura leggendaria divenne dapprima soprintendente di Ishtar, cioè suo sommo sacerdote, poi sagi.mah, ossia alto dignitario della corte di Ur-Zababa, il re di Kish. Frammento di stele della vittoria: mostra un guerriero accadico, con ascia di bronzo sulla spalla, che spinge i prigionieri catturati in battaglia.
Magari a noi sembrerà poco, ma Sargon era uno dei coppieri del sovrano, cioè coloro che gli mescevano vino e birra, e che quindi stavano molto vicino al potere regale. È probabile che i saggi formassero la guardia del corpo del re, i suoi soldati più fedeli, destinati ai ranghi più alti del comando di una città-Stato. Ma da coppiere a dominatore del mondo allora conosciuto ce ne corre. E il trovatello Sharru-kin non fu il primo ad avere velleità di sovrano universale. Un altro prima di lui si stava distinguendo per il suo disegno di supremazia: Lugazaggesi. L’ . . Negli anni intorno al 2350 a.C., che corrispondono all’ascesa politica e alla definitiva affermazione di Sargon come leader militare, l’equilibrio tra le città mesopotamiche si andava spezzando. Quel mondo che sembrava immutabile venne percorso da tensioni interne, alcune di carattere politico-militare, altre di carattere sociale. E il re di Umma, Lugalzaggesi, progettava di prendersi tutto. Di lui ci sono pervenute poderose autocelebrazioni, iscrizioni ricche di titoli pomposi. È chiaro che la percezione del ruolo regale stava cambiando: eccoci di fronte alla costruzione di una nuova figura di sovrano-condottiero che guidava i suoi uomini (ancora poco più di una tribù o di un clan) all’aggressione delle città vicine: Lugalzaggesi riuscì a costruire il primo nucleo di un impero conquistando alcune cittàStato, e fra queste Uruk, dove stabilì la sua nuova capitale. Certo, la lotta politica rimaneva ancora un fatto interno al mondo sumerico, ma i nuovi arrivati premevano per emergere. E uno di questi era proprio Sargon, che alla morte di UrZababa divenne sovrano di Kish. Proprio per la sua origi-
L’esercito di Sargon
L
e fonti raccontano che Lugalzaggesi scese in battaglia contro Sargon accompagnato da 50 Ensi. Quanto potevano essere grandi tali eserciti? Possiamo supporre che raggiungessero almeno i 20.000 uomini. Sappiamo però che l’esercito di Sargon era costituito da un nucleo di fedelissimi che facevano parte del suo clan, soldati di professione chiamati gurush: erano in 5.400. Il resto era composto da milizie cittadine, detti lu-uru, armati di lancia e grossi scudi. Spade ancora non ne esistevano, l’arma per il corpo a corpo era l’ascia o la mazza da guerra. Come mosche. Completavano gli schieramenti le truppe leggere, che in sumerico venivano chiamate nim, le mosche, composte forse dai più giovani armati di frombole e giavellotti che sciamavano veloci e indisciplinati come gli insetti.
Anche gli alleati o i mercenari stranieri aiutavano a chiudere gli organici accadici. I soldati erano retribuiti con misure di orzo o birra, i più specializzati e gli ufficiali integravano la paga con razioni di pesce e sale. Nel XXIV secolo a.C. pur esistendo una complessa rete di scambi anche tra aree lontanissime, ancora non esisteva la moneta. L’esercito di Lugalzaggesi era forte di un’élite di guerrieri su carri, cosa che pare mancasse a Sargon. Questa mancanza rendeva però l’esercito accadico più mobile. I carri erano lenti, a ruote piene, trainati da onagri (piccoli asini selvatici). Gli uomini di Sargon non si distinguevano nel costume dai loro avversari ma portavano un’arma tipica dei nomadi semiti, il potente arco composto a lunga gittata, rivoluzionario allora come lo furono 4.000 anni dopo le armi da fuoco.
L’impero accadico
Miniere d’argento
Vittorie di Sargon Città-Stato Spedizioni commerciali Spedizioni militari
Ebla
Foresta dei cedri
SUMER Akkad (posizione ignota) Babilonia Kish
NOMADI SEMITI
2280 a.C. Rivolte scoppiate dopo la morte di Sargon 0
2300 a.C. Rivolte fomentate da Elam
REGNO AMORREO Mari
EGITTO
P. GHISALBERTI
REGNO URRITA
Nippur Uruk Ur
500 chilometri
Lagash
ELAM
ra della loro città così presto. In un modo che ci fa pensare alla guerra lampo, Sargon conquistò la città e ne distrusse le mura. Stava cercando il suo rivale, ma il legittimo re di Ur Lugalzaggesi non si trovava nella capitale. Era in viaggio tra le città sumeriche meridionali, a lui soggette, per organizzare una grande armata da contrapporre al nuovo re di Kish. Il successo di Sargon fu straordinario: Lugalzaggesi venne sconfitto in campo aperto e umiliato, condotto prigioniero con altri in una rete, o forse in una gabbia come una belva feroce assoggettata a un serraglio, ed esposto in ceppi di fronte alle porte di un’altra delle belle sittà sumere, Nippur. Ma non era finita: Sargon doveva affrontare ancora 34 battaglie e molti assedi pri-
LUISA RICCIARINI/LEEMAGE
LESSING/CONTRASTO (2)
AKG/MONDADORI PRTFOLIO
ne straniera aveva bisogno di definire se stesso come “vero re”: Sharru-kin. Era il capostipite di una dinastia fatta di genti nuove, più vigorose, ma ambiva a ben altro e aveva già un modello da seguire. La strada gli era stata mostrata da Lugalzaggesi: se voleva conquistare Sumer doveva battere il nuovo re di Uruk . Così Sargon gli scatenò contro il suo esercito. G . Negli anni Trenta del XXIV secolo a.C. (convenzionalmente nel 2334) i soldati che, come dicono i documenti, sugli spalti “ornati da una cornice che brillava dello splendore del rame” della città di Uruk, osservavano avvicinarsi minaccioso l’esercito di Sargon sapevano chi avevano di fronte, ma non immaginavano che si sarebbe presentato sotto le mu-
Susa
Prima che Sargon divenisse il signore della Mesopotamia, raggruppando sotto il suo potere le città-Stato fino ad allora nemiche, questa regione del Vicino Oriente era stata governata dai Sumeri, una delle prime popolazioni stanziali al mondo. Era quello che si definisce il periodo proto-dinastico. La fondazione. Durante la prima fase delle sue conquiste, Sargon, fondò una sua capitale, Akkad (per estensione la parola denomina il popolo di lingua semitica che dominò durante la dinastia del “vero re”). La regione dei Sumeri (detta Sumer) corrispondeva più alla Bassa Mesopotamia, mentre gli Accadi diedero vita nell’area della Media Mesopotamia a un impero che sarebbe durato circa un secolo e mezzo e che è stato definito il primo della Storia.
UNA RICCA CIVILTÀ Pugnale sumero ed elmo d’oro del “Re di Kish”, titolo onorifico attribuito a un sovrano sumero o accadico, provenienti da Ur. A lato, lo Stendardo di Mari (Siria), frammento di mosaico di conchiglie ritrovato in una delle città mesopotamiche distrutte da Sargon. Mostra i soldati in una scena di vittoria.
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CON L’AFFERMA ARSI DELL’IIMPE ERO AC CCA ADICO O SI FA STRAD DA L’IDE EA DI UN MON NARCA UNIIVERSSALE E
BRIDGEMAN/MONDADORI PORTFOLIO (2)
ma di potersi impadronire del sud della Mesopotamia. Il grande conquistatore volle affermare ancora di più la nascita del suo regno fondando la città di Akkad (di cui non conosciamo ancora l’esatta posizione), che avrebbe dato il nome alla sua dinastia e ai Semiti mesopotamici, gli Accadi. La sua corsa si fermò solo sulle rive del Golfo Persico dove, così citano le fonti, “lavò le sue armi” nell’acqua del mare. Dalla nuova capitale Akkad, Sargon volse la sua volontà egemonica verso Nord: estese il suo territorio sul Medio Eufrate verso la città di Mari, poi portò guerra sempre più a monte del fiume, assoggettando parte della Siria, occupando l’importante centro di Ebla. F . Anche allora erano le materie prime a muovere un popolo alla guerra: Sargon portò i suoi veloci eserciti a nord, verso il Mediterraneo, verso i monti del Libano per il legno, per le sue imponenti foreste di cedri, querce e cipressi, e sul fiume Tauro (nell’odierna Turchia) per le sue miniere d’argento. Fonti più tarde ci raccontano di imprese militari leggendarie quanto improbabili del grande re fino all’Anatolia e all’isola di Creta. Nella complessa selva di questi testi posteriori alla vita di Sargon è indubbio che gli si attribuissero capacità superumane, anzi divine, arrivando a conferirgli il titolo di “colui che governa le quattro parti” (della Terra), definizione prima di allora riferita solo alle grandi divinità sumeriche. Il suo lavoro era compiuto. Un’idea d’impero universale era ormai costituita, gli uomini del mondo allora conosciuto avevano SAPE SA PERN PE RNE DI PPIÙ IÙ un esempio da seguire se volevano Armies of the ancient Near East, ambire in alto, al cielo, alla divinità. Nigel Stillman e Nigel Tallis (WRG pubblication). L’ideale mesopotamico della regaAntico Oriente. Storia, società, lità universale dilagò tra gli impeeconomia, Mario Liverani (Laterza). ri, tanto che il progetto di Sargon
PRIMA DI LUI La Stele degli avvoltoi mostra la vittoria della cittàStato di Lagash su Umma, con la falange di soldati, guidata dall’Ensi, che calpesta i nemici.
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e la sua leggenda avrebbero influenzato ogni signore a venire. Gli ultimi anni del suo impero, che ne durò 56, videro il sovrano volgere i suoi eserciti verso Oriente, verso il potente Paese di Elam, che si estendeva nell’attuale Iran Meridionale e ancora più a est verso i confini dell’odierno Pakistan, dove conquistò e assoggettò altre città. Durante gli anni Ottanta del XXIII secolo a.C. Sargon dovette affrontare una serie di ribellioni interne all’impero. Una coalizione di città soggette si ribellò al potere centrale arrivando ad assediare la stessa capitale Akkad ma, come ci racconta una cronaca neo-babilonese, “Sargon eseguì una sortita e li sconfisse, li batté e spezzò il loro grande esercito”. L’invincibilità di Sargon il Grande gli sopravvisse e ne creò la leggenda rendendolo immortale. " Giorgio Albertini
DIO E RE La Stele della vittoria di Naram-Sin, 4° sovrano della dinastia (era nipote di Sargon): regnò dal 2254 al 2218 a.C. Con la tiara cornuta della divinità, qui appare come il dio-re che domina sui vinti Lullubi. Sotto di lui l’Impero accadico raggiunge il suo massimo splendore; dopo viene abbattuto dalle razzie dei nomadi Gutei.
SUI CAMPI DI BATTAGLIA 1 La collina del leone Il poggio artificiale eretto nel 1826 segnala il punto dove fu ferito il principe d’Orange, che combatté a Waterloo nella coalizione antifrancese. Nel piano della battaglia, disegnato dal cartografo francese Ambrose Tardieu e pubblicato con la relazione inglese degli eventi nel settembre 1815, sono segnati i luoghi più emblematici di quella giornata di guerra che interruppe il “volo dell’aquila” (così come venne chiamato il ritorno in Francia di Napoleone dopo la fuga dall’Elba).
E SECO OLI FA, IL 18 GIUG GNO 188155, DUE POLEO ONE VE ENIV VA SCO ONFIT T TO NAP NELL L A CA A MP PAG GNA A BE ELG GA.. ECCO I LU UOG GHI DEL LL A ST TORIA A
Finisce qui il volo dell’aquila A cura di Lidia Di Simone. Immagini di Paolo Curto
2 La Haie Sainte Lo schieramento britannico sotto la guida del duca di Wellington era disposto davanti alla foresta di Soignes. Gli inglesi avevano occupato come avamposto la fattoria della Haie Sainte (qui sotto), oggi ancora in attività, che alla fine della giornata fu per breve tempo conquistata dal maresciallo di Francia Ney.
3 La Belle Alliance La foto mostra la veduta generale del campo di battaglia dalla parte delle linee inglesi. Bisogna immaginarselo sotto la pioggia. Il terreno è ondulato, ma anche se i dislivelli sembrano poco marcati ebbero un ruolo importante. A sin. e all’estrema destra erano posizionate le forze di Wellington, nel mezzo la Grande Armée. Al centro del dispositivo francese si trovava la taverna della Belle Alliance (qui in basso nella foto), dove Napoleone impartì gli ultimi, disperati ordini.
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W Il quartier generale di Wellington Il 17 giugno Wellington aveva il suo quartier generale nella stazione di posta che oggi ospita il museo a lui dedicato, al centro del paese di Waterloo. Per informazioni e visite: www.museewellington.be.
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N Il Caillou, quartier generale di Napoleone La notte del 17, sotto una pioggia battente, nella fattoria del Caillou l’imperatore studiava i piani di battaglia per l’indomani.
4 Hougoumount Ecco l’altro avamposto inglese, il castello di Hougoumont (qui sotto nella foto): più una dimora di campagna, per la verità. Era la chiave della difesa inglese: Wellington lo fece fortificare per tutta la notte del 17 e lo affidò a tre compagnie della Guardia britannica.
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1 L’assalto alla porta sud A lato, nel dipinto (1), si vede l’assalto alla porta sud della fattoria di Hougoumont nella rappresentazione di un testimone oculare. Basta confrontare il dipinto con la foto scattata novant’anni dopo la battaglia (2) e con quella fatta oggi dal nostro fotografo (3) per vedere che dal 1815 tutto è rimasto immutato. L’accanito e lungo combattimento fece sprecare ai francesi tempo e uomini. Al proposito, si attribuiscono a Wellington queste parole: “La vittoria della battaglia è dipesa dalla chiusura delle porte di Hougoumont”.
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Hougo
A difesa della porta nord Dall’alto, il tenente francese Legros (1), che muore in quest’azione, riesce a penetrare le mura di cinta della fattoria di Hougoumont e tenta invano di sfondare la porta nord. Nel secondo dipinto (2), la difesa della porta nord, che appare perfettamente preservata sia nella cartolina di inizio ’900 (3) che oggi (4). Su questo lato inizia, verso le 11:30, la battaglia di Waterloo. Al punto culminante del combattimento, i francesi riescono a penetrare per la porta nord, che non è stata fortificata, ma vengono ricacciati subito indietro.
La resistenza del duca
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In alto, Hougoumont in fiamme con i suoi filari di alberi come doveva apparire a Wellington dal suo punto di osservazione. Sopra, la fattoria e il boschetto oggi, dallo stesso punto di vista del duca. Per informazioni sul reenactment e sulle manifestazioni del bicentenario: www.waterloo2015.org.
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L’errore del princip principe A fianco, le mura sud di Hougoumont, munite di feritoie fatte dai soldati. A sinistra, la stradina dalla quale venivano all’assalto i fanti francesi. Il principe Gerolamo, fratello di Napoleone, sbagliando mossa attaccò qui per sguarnire il centro inglese.
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Haie Sainte 1
2 Scontro alla Haie Sainte
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Alle 15 Napoleone ordina a Ney di prendere la fattoria della Haie Sainte, che viene difesa tenacemente da un battaglione di fanteria leggera britannico della King’s German Legion, composta da esiliati di origine tedesca. Il dipinto (1) mostra l’edificio visto dalle linee inglesi durante il combattimento. Nelle foto di oggi (2 e 4) si riconosce la stessa struttura, attualmente una dimora privata perfettamente restaurata. Ma come si vede nel quadro (3), qualche danno la fattoria deve averlo subito. Il maresciallo Ney riceve l’ordine perentorio di conquistarla, ma ci riesce solo alle 18.
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Carica sul Mont Saint-Jean Come si vede, è un leggero pendio, non un monte: il nome deriva dalla fattoria, la maison Saint-Jean (sulla linea dell’orizzonte), che servì da ospedale agli inglesi. Dai campi in fondo partivano le cariche dei lancieri rossi della Guardia francese (nel dipinto in alto) contro i quadrati della fanteria britannica.
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La
L’UN NICO MON NUME ENT TO AI FRAN NCESSI, L’AQU UIL L A IMPER RIA ALE E FERIITA A MO ORT TE, SI TROVA A A TA AVE ERN NA VICIINO ALLA
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Incontro alla Belle Alliance La mattina del 18 giugno la taverna funge da avamposto di Napoleone, che qui ha piazzato una batteria di 80 cannoni. La sera, dopo la battaglia, diventa la sede di uno storico incontro: Wellington e il prussiano Blücher qui (1) si salutano reciprocamente come vincitori. Ecco in una vecchia cartolina la stanza dove si svolse il colloquio (2). Il nome Belle Alliance non si riferisce allo storico incontro, ma pare sia stato coniato con una certa ironia dalla gente del posto dopo il matrimonio della proprietaria della taverna (3, com’è oggi) con il garzone.
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Belle Alliance
PRIMO PIANO
INIZIA COME UNA BATTAGLIA DELL’800, POI SI TRASFORMA IN i dice che gli eserciti si addestrano come se dovessero combattere l’ultima guerra, ma sono poi costretti a scendere in campo nella prossima. Non sempre è vero: anche i vertici militari, talvolta, sono capaci di immaginare il futuro. Ma fu certamente quel che accadde all’inizio del primo conflitto mondiale, tra l’agosto e il dicembre del 1914: tedeschi, austriaci, russi, francesi e britannici entrarono in battaglia seguendo istruzioni tattiche ispirate ai conflitti ottocenteschi, e vennero falciati a centinaia di migliaia. Non c’era scampo per chi si ostinava a combattere alla vecchia maniera: il progresso tecnologico aveva dotato gli eserciti europei di armi micidiali, che rendevano quasi certo il sanguinoso fallimento degli attacchi in massa tipici del XIX secolo. Si pensa subito alle mitragliatrici, ma già il fucile a ripetizione aveva enormemente aumentato il volume di fuoco prodotto da ogni sin-
golo uomo, garantendo un vantaggio decisivo alla difesa. Era un suicidio avanzare verso un reparto nemico dotato di armi capaci di sparare ogni cinque secondi, con una gittata utile di circa 1.000 metri. I . Anche l’artiglieria aveva fatto enormi passi avanti: l’invenzione di esplosivi più stabili e potenti, la fusione di componenti in acciaio capaci di sopportare la forza sprigionata dalle cariche di lancio, i meccanismi idropneumatici che assorbivano il rinculo senza dover rimettere in punteria il pezzo dopo ogni colpo sparato erano innovazioni recenti, che avevano migliorato esponenzialmente l’efficacia di tutti i tipi di obici e cannoni. Nel 1897 era entrato in servizio il “soixante-quinze” francese (75 mm), forse il più celebre pezzo da campagna della Storia, che tirava fino a 20 proiettili al minuto a oltre 6 chilometri di distanza, con effetti devastanti sui reparti nemici che
LA PRIMA GUERRA MODERNA
UN CONFLITTO NUOVO, CON AEREI, TANK E ARMI CHIMICHE si fossero fatti sorprendere allo scoperto. Non si era del tutto al sicuro nemmeno quando ci si sottraeva al tiro diretto dell’artiglieria, perché gli obici di medio e grosso calibro a traiettoria arcuata potevano colpire bersagli nascosti da ostacoli naturali o artificiali a una distanza anche maggiore. G . Le grandi offensive del 1914 si risolsero dunque in un sanguinoso fallimento; sul fronte occidentale, gli eserciti si trincerarono dalla Svizzera al Mare del Nord, bloccati dalla superiorità del fuoco nemico. Bisognava trovare a tutti i costi soluzioni innovative che permettessero di superare lo stallo. Così la guerra mostrò ben presto la tendenza ad ampliare il proprio orizzonte oltre i confini dell’arte militare conosciuta. Il 31 gennaio 1915 i tedeschi usarono per la prima volta gas tossici sul fronte orientale, con scarsi risultati per la temperatura troppo rigida; quando il tentativo venne ripetuto il 22 aprile 1915 in
Ottobre 1916, cannone ferroviario francese. I francesi ordinarono centinaia di locomotive a vapore appositamente concepite per trainare l’artiglieria pesante su rotaie.
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ARTIGLIERIA SU ROTAIE
MASCHERE ANTIGAS
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Soldati tedeschi con maschera antigas e corazza da trincea nell’agosto del 1917. Solo fino a pochi anni prima la guerra chimica era impensabile.
Belgio, nei pressi del villaggio di Langemarck, una spessa nube giallastra oscurò il cielo sulle trincee francesi. “Le conseguenze […] sono state spaventose, ma l’idea di avvelenare delle persone mi piace poco. Riusciremo certamente ad attirarci le ire del mondo intero, anche se poi tutti finiranno per imitarci”: sono parole tratte dal diario di un ufficiale tedesco. Previsione lucidissima, perché la Germania aveva offerto alla propaganda nemica un’arma efficace, inasprito il conflitto, allontanato la possibilità di una pace di compromesso. E l’uso dei gas, naturalmente, si diffuse ben presto ovunque.
S’ ’ . Non era ancora tutto. Quindici giorni dopo l’attacco tedesco a Langemarck, alle ore 2:10 pomeridiane del 7 maggio 1915, il transatlantico RMS Lusitania venne silurato e affondato dal sommergibile U-20 quando era ormai in vista della costa irlandese. La splendida nave – partita il primo del mese da New York con 1.388 passeggeri e 574 uomini d’equipaggio – affondò in 18 minuti trascinando con sé 1.198 uomini, donne e bambini; 128 di loro erano cittadini statunitensi, prime vittime civili della “guerra sottomarina senza restrizioni”, altra innovazione del 1915. La Germania si era risolta a tale misura estre-
LA PROPULSIONE, L’AUMENTATA GITTATA DEI PROIETTILI E LE NUOVE LEGHE DI ACCIAIO CAMBIARONO ANCHE LA GUERRA NAVALE
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violento finalizzato a spezzare la volontà del nemico: “E la violenza si arma con le invenzioni delle arti e delle scienze per far fronte alla violenza. La accompagnano limitazioni irrilevanti, che prendono il nome di convenzioni di diritto internazionale, senza che esse indeboliscano sostanzialmente la sua forza. […] Nella teoria della guerra non può essere mai introdotto un principio di moderazione senza incorrere in un’assurdità”. È illogico per i belligeranti astenersi dall’usare tutti i mezzi disponibili fino all’estremo; è un carattere proprio dell’essenza della guerra, in ogni epoca, ma nel 1915 la scienza e la tecnologia avevano enormemente aumentato la potenza distruttrice delle armi allora in uso, ampliandone il campo d’azione alle profondità del mare e alla vastità del cielo. L’ , .. Dopo la terra e l’acqua, anche l’aria era diventata infatti un campo di battaglia. Le “macchine volanti” erano l’ultima frontiera del progresso: il loro contributo alle operazioni militari si rivelò subito fondamentale nelle missioni di ricognizione. Osservare il nemico oltre le linee, scoprire i suoi movimenti e sfruttarne gli errori: l’arma aerea poteva squarciare la “nebbia della guerra” che da sempre tormentava i generali, con effetti decisivi sulla condotta delle operazioni terrestri. Il passo immediatamente successivo fu quello di trovare un modo per impedire agli aerei di svolgere questo ruolo: visto che era difficilissimo colpirli da terra, all’inizio del 1915 si cominciò a contrastare in cielo l’azione dei velivoli avversari. Dopo i ricognitori nacquero così gli aerei destinati ad abbatterli: nell’estate del 1915 entrò in linea il Fokker Eindecker, primo vero velivolo da caccia dotato di una mitragliatrice capace di sparare attraverso il cerchio dell’elica. L’arma aerea stava già lasciandosi alle spalle la sua breve età pionieristi-
AGGUATO IN ALTO MARE Un UnterseeBoot (solitamente abbreviato in U-Boot, o U-Boote al plurale), sommergibile vanto della Kaiserliche Marine, la Marina da guerra tedesca.
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ma sotto la pressione del blocco navale britannico, e dopo che la Battaglia del Dogger Bank (24 gennaio 1915) aveva definitivamente convinto i vertici politici e militari di Berlino dell’impossibilità di sconfiggere la Royal Navy in uno scontro tra unità di superficie. Il 5 febbraio 1915 l’ammiragliato tedesco aveva diffuso una nota ufficiale in cui si dichiarava che “tutte le acque attorno alla Gran Bretagna e all’Irlanda, incluso l’intero canale della Manica, sono dichiarate zona di guerra. Dal 18 febbraio in avanti ogni nave mercantile nemica sorpresa in queste acque sarà distrutta”. Anche i mercantili neutrali che fossero stati sorpresi nella “zona di guerra” avrebbero corso il rischio di essere affondati senza preavviso. Lo Stato Maggiore della Marina assicurò al Kaiser che la campagna degli U-Boote contro il commercio marittimo avrebbe messo in ginocchio la Gran Bretagna in sei settimane, costringendola a chiedere la pace. Era un calcolo del tutto privo di fondamento: la Germania, nel febbraio 1915, poteva schierare soltanto 21 sottomarini, penosamente insufficienti a “strangolare” l’Inghilterra, i cui porti registravano un traffico medio, tra arrivi e partenze, di 1.500 navi mercantili a settimana. A fine settembre 1915 gli U-Boote avevano mandato a fondo poco più di 750.000 tonnellate di naviglio britannico e alleato, ovvero circa il 4% del totale. Quantità non trascurabile, ma ci voleva ben altro per creare seri problemi all’economia britannica. E intanto la distruzione del Lusitania, senza apportare alcun vantaggio concreto alla causa degli Imperi centrali, aveva suscitato sdegno ovunque, rafforzando la determinazione di chi li combatteva. A prescindere dai calcoli errati, si deve riconoscere una logica nell’uso senza restrizioni dell’arma sottomarina. Come aveva già intuito von Clausewitz, la guerra è nella sua essenza un atto
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PRODUZIONE RECORD In alto, trincea francese nel dicembre del 1915. A sinistra, le munitionettes, le donne al lavoro nelle fabbriche di proiettili inglesi. Questa in particolare, la Kilnhurst Steelworks, arrivò a produrre più di sei milioni di proiettili per artiglieria pesante. A destra, nel combattimento aereo ha la meglio il Breguet francese sul tedesco.
ca, e diventava componente essenziale della guerra moderna, tecnologica e industrializzata. T . Le dimensioni del conflitto e la sua meccanizzazione costituiscono la più importante novità del 1915. Nessuna delle potenze in lotta era preparata a produrre la quantità di armi e munizioni che servivano ad alimentare la fornace della guerra. C’erano più uomini che mezzi per farli combattere: dopo la disastrosa battaglia della cresta di Aubers (14 maggio 1915), il Times di Londra uscì con un titolo che non lasciava dubbi sulla causa della sconfitta: “Mancanza di granate: respinti gli attacchi britannici a causa della disponibilità limitata”. Era un esplicito atto d’accusa nei confronti del governo 20
liberale di Herbert Henry Asquith, che dovette aprire all’opposizione conservatrice e istituire un nuovo Ministry of Munitions (ministero responsabile della produzione di munizioni), affidato a David Lloyd George. Mentre in Francia, il primo di giugno, oltre un milione di reclute in attesa di essere inviate al fronte venivano dirottate verso le fabbriche di munizioni, in Inghilterra si presentavano al lavoro le prime operaie addette alla produzione di granate per l’artiglieria. Due giorni dopo Lloyd George dichiarò che il più importante dovere di ogni cittadino era di mettere a disposizione dello Stato la propria vita e la propria capacità lavorativa. Alle sue parole fece eco il giorno seguente
NEL 1915 GLI ESERCITI RIMASERO BLOCCATI NELLE TRINCEE. LA GUERRA DI MOVIMENTO RICOMPARVE ALLA FINE DEL 1917 Churchill, Primo Lord dell’Ammiragliato: “L’intera nazione deve essere organizzata o, se preferite, collettivizzata e mobilitata”. P . Tutte le energie, tutte le risorse, tutta la forza morale e materiale. La guerra era ormai capace di abbracciare la società intera, squassandola e trasformandola sotto la pressione di forze immani: era un’altra delle grandi novità del 1915, da cui il mondo sarebbe uscito trasformato per sempre. Ma la guerra totale era anche un mostro che divorava territori, popoli e civiltà. Di fronte all’avanzata russa nel Caucaso, i turchi si convinsero che gli abitanti di etnia armena e religione cristiana fossero pronti a collaborare col nemico, e scatenarono di conseguenza una serie feroce di eccidi e deportazio-
ni di massa. Il 15 aprile 1915 gli armeni chiesero ufficialmente all’ambasciatore tedesco a Costantinopoli la protezione della Germania, che non venne accordata per non offendere l’alleato; nove giorni dopo un disperato appello al presidente Wilson rimase ugualmente senza risposta. Non vi fu alcun intervento esterno per scongiurare lo sterminio: così, nella tarda primavera del 1915, i turchi continuarono indisturbati a uccidere e deportare gli armeni. Era forse la più tragica e sconvolgente delle “innovazioni”: la “guerra che doveva porre fine alla guerra” stava spalancando sul cammino dell’uomo l’abisso del genocidio. $ Gastone Breccia
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LA GRANDE GUERRA 1915 TECNOLO OGIA A
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IN VIA DI ESTINZIONE
ARMI SEMPRE PIÙ LETALI
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INTERFOTO
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Copricapi così appariscenti, come questo elmo da dragone della cavalleria italiana, sono via via sostituiti dai più pratici elmetti.
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Retaggio del passato, armi da taglio come questa, una sciabola da ufficiale di artiglieria sassone, spariranno presto dai campi di battaglia.
La cavalleria francese aveva ancora corazze risalenti all’800, tanto vistose quanto inutili in una guerra moderna.
SPIE SP IEDI DI ING NGOM OMBR OM BRAN ANTI AN TI Lancia mod. 900 della cavalleria italiana. Ancora in servizio fino alla fine della guerra, rimarrà poi solo per le parate.
a Grande guerra non fu solo il primo conflitto globale tra i popoli di buona parte del mondo, ma dal punto di vista tecnologico rappresentò, in molteplici forme, una transizione tra l’antico e il moderno: tra le guerre dei secoli passati combattute da limitati eserciti in uniformi colorate e una nuova guerra di massa che vedeva sul campo uomini dotati di armi sempre più distruttive. L . Fu pure la prima guerra scientifica e industriale del mondo, in cui non contarono solo la preparazione e il coraggio dei singoli soldati o il numero delle armi, ma anche la qualità delle armi stesse. I progressi scientifici legati alla rivoluzione industriale si unirono infatti per la prima volta alla produzione legata agli armamenti, andando a creare una sorta di Dna della futura macchina bellica così come oggi noi la conosciamo. Una spirale che da quel momento in poi avrebbe legato in modo indissolubile lo sviluppo scientifico e tecnologico civile a quello bellico con cause ed effetti reciproci: attraverso il connubio tra le trincee e i laboratori di ricerca, da allora ognuno dei due settori avrebbe consentito all’altro di prosperare. Tutto ciò avvenne nei campi più disparati: da quello meccanico a quello aeronautico, dalla chimica all’elettricità, alla medicina. Il grande conflitto fu quindi anche combattuto impegnando grandi risorse per lo studio di nuovi materiali o di “surrogati” di quei materiali non facilmente approvvigionabili proprio a causa della guerra. Per la prima volta si combatté prima nei laboratori di ricerca e poi al fronte. Era nata l’industria della difesa. S. R.
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AFFIDABILE BAR (Browning Automatic Rifle) M1918 in calibro .30-06 (7,62 × 63 mm). Robusto e affidabile, fu adottato dagli Usa e rimase in servizio fino agli Anni ’60.
A RIPETIZIONE Fucile mitragliatore francese CSRG mod. 1915 “Chauchat”; la cadenza di tiro era di 240 colpi al minuto.
COMPATTA
PROTEZIONE Un elmetto tedesco mod. 1916, mimetico. Da quell’anno tutti i contendenti dotarono di protezioni similari le loro truppe.
La Maschinenpistole 18.I tedesca fu adottata nel 1918. Sparava a raffica colpi da 9 mm per pistola, fino a 200 metri.
RAGANELLA MORTALE
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Mitragliatrice Vickers Mk1 britannica. In calibro .303 British (7.7 mm) era raffreddata ad acqua e aveva una gittata utile fino a 2 km.
ELMETTI E DIVISE Cambiarono anche le uniformi dei soldati: le divise colorate ed eleganti della Belle époque, più adatte alle parate che alla guerra moderna, sparirono, sostituite da un abbigliamento che si mimetizzava meglio col terreno circostante. Le antiche uniformi vennero mandate in pensione insieme con le corazze di cavalleria o i vecchi elmi e kepì. Questi fecero posto a nuovi copricapi, sicuramente più brutti, ma decisamente più protettivi: gli elmetti.
MITRAGLIATRICI Le mitragliatrici, nate a fine ’800, ebbero un impulso enorme durante la Grande guerra. Di pari passo vennero studiate e sviluppate altre armi portatili con tiro a raffica destinate a rivoluzionare nel tempo i campi di battaglia, come i fucili mitragliatori e le pistole mitragliatrici. Queste ultime, compatte, sparavano proiettili da pistola. La prima fu sviluppata in Italia (inizialmente studiata per l’uso sugli aerei): la Revelli-Villar Perosa mod. 1915.
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MULI MECCANICI
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Un autocarro italiano Fiat 18BLR. La R sta per rinforzato, utilizzabile anche come traino d’artiglieria.
PORTAORDINI Una moto Harley Davidson mod. F1 del 1915, usata dalle truppe americane nel 1917.
CARRI E TRINCEE Nel 1916, sulla Somme, apparvero i primi carri armati, i Tanks inglesi Mark I. Nati inizialmente per avanzare nella terra di nessuno tra le trincee, a protezione delle fanterie in attacco, questi mezzi cingolati, che nei decenni successivi sarebbero divenuti il perno di ogni esercito, allora erano talmente enormi e sgraziati da far esclamare al ministro della Guerra britannico lord Kitchener, con poca lungimiranza: “Con questi giocattoli non si vincerà mai una guerra!”.
MASTODONTI Un tank MkIV britannico, nella versione “male” con cannoni da 57 mm. Nella foto sopra, Francia 1917: i tank in azione sotto il fuoco nemico.
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DAI TANK K AGLI AERE EI, LA GU UERRA APPLIC CA
CAMION E BLINDO
ALAMY/IPA
Cambiò la mobilità sul campo di battaglia: con le scoperte nel campo della metallurgia e dei motori, il traino animale – pur rimanendo vitale – venne affiancato dai primi trattori (o trattrici, come venivano chiamate). Apparvero gli autocarri, mentre le motociclette sostituirono i cavalli per fare da collegamento tra le truppe e portare ordini. Le prime automobili furono corazzate, armate e trasformate in autoblindo per la ricognizione armata delle strade carrozzabili e delle retrovie.
POSTAZIONI MOBILI Autoblindo inglese Mk1 su chassis Rolls Royce Silver Ghost (qui in una versione migliorata del 1920), armata con mitragliatrice Vickers.
ANTIGAS È di tecnologia tedesca questa maschera antigas con il suo contenitore, usata durante il conflitto.
LE NUO OVE TE ECNO OLOGIE BOMBE E LANCIAFIAMME
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Per “ripulire” le trincee e le opere difensive vennero studiati lanciafiamme portatili e si diede sviluppo allo studio di nuove bombe a mano e bombe da fucile, una specie di artiglieria a disposizione del singolo combattente. Ormai vi erano bombe deflagranti, a frammentazione, a esplosione a tempo o all’impatto. Per interdire il passaggio tra le linee, oltre ai reticolati di filo spinato fecero capolino anche le mine terrestri.
GAS E ARTIGLIERIA
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LETALI Bombe a mano usate nel conflitto: una Mills inglese e (a fianco) una Stielhandgranate 17 tedesca.
Furono studiati nuovi pezzi e calibri per l’artiglieria, grandi e piccoli, adatti a tutte le esigenze del campo di battaglia. Via via caddero in disuso le obsolete bombarde e apparvero i primi mortai come quelli attuali, leggeri e trasportabili, in grado di appoggiare le truppe anche negli spostamenti. Intanto nei laboratori di ricerca tedeschi, ma non solo, si sviluppavano e producevano nuovi letali strumenti di distruzione di massa: i gas.
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LA GRANDE GUERRA 1915 GLIA DELL’IS SONZO MONTE NERO LA A 1A BATTAG
NEL L GIU UGN NO DEL L ’155 IL CON NFLIITT TO SI SPOSTA A ANC CHE E IN N QU UOTA E PER R LA M A VO OLT TA GLI ALP PIN NI PRIM VEN NGO ONO O IM MPIE EGATI SUL LOR RO TERR RENO O, POTE EN D O COSSÌ AP PPL LICA AR E LE REG G OLE E DE ELL L A LOT TA IN MO ONTA AGN NA
l Monte Nero fa parte dell’omonimo massiccio, posto tra le valli di Plezzo e Tolmino a nord di Gorizia, e con i suoi 2.245 metri ne rappresenta la quota più elevata. È una catena di aspri monti che comprende anche Ursic, Vrata, Batognica (Monte Rosso), Sleme e Mrzli: un vero bastione naturale di difesa che sovrasta la media valle dell’Isonzo, a soli 8 chilometri dal confine. I . All’inizio delle ostilità, nel maggio 1915, le truppe italiane avevano occupato di slancio la valle dell’Isonzo da Saga fino a sud di Caporetto, stabilendo una testa di ponte per un’eventuale avanzata in profondità; ma ora si trovavano di fronte il massiccio. Fu subito chiaro che per preservare il tergo delle nostre truppe nelle operazioni verso Tolmino era necessaria l’occupazione del Monte Nero e dei monti vicini, su cui gli austriaci avevano schierato unità della 58a e 3a brigata da montagna, oltre a reparti bosniaci e ungheresi. Monte Nero In sloveno Krn, in friulano Lavadôr o Crèn. Il nome usato invece nella toponomastica italiana deriva da un errore di trascrizione: il cartografo, ai tempi, scambiò il nome di “krn” (Corno), con “crn” (Nero) e il Monte Corno, nome che più gli si addice per la sua conformazione, diventò per gli italiani il Monte Nero. Testa di ponte Zona di territorio di ampiezza limitata presente nell'area controllata dal nemico e posta al di là di un ostacolo naturale (fiumi, ecc.) o artificiale (campi minati, ecc.), acquisita per proteggere il passaggio delle truppe.
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TRA LE ROCCE A sinistra, mitraglieri alpini in posizione per coprire le truppe. Qui, sullo sfondo, resti di trinceramenti sul Monte Nero, come appaiono oggi. A destra, vedetta italiana sul massiccio nell’inverno del 1916.
LA PRIMA VITTORIA 26
In realtà gli italiani erano già in ritardo: la conquista delle posizioni austriache sul massiccio, inizialmente sguarnite, avrebbe potuto essere compiuta sin dai primissimi giorni di guerra, di slancio e sfruttando l’elemento sorpresa, ma il generale Nicolis Di Robilant, comandante del IV corpo d’armata, aveva dato un’interpretazione restrittiva e timorosa agli ordini d’operazione e aveva scarsamente utilizzato i 14 battaglioni alpini alle sue dipendenze. Solo il 31 maggio il btg. Susa, entrato in linea, era riuscito a conquistare con una brillante azione la cresta Ursic/Vrata, ma il successo non fu comunque sfruttato e gli austriaci poterono rafforzarsi. Gli alpini erano ora per la prima volta chiamati a operare sui nostri confini montani, motivazione per la quale erano nati 43 anni prima, nel 1872. Fino a questo momento, pur addestrandosi duramente in montagna, erano stati mandati a combattere in Eritrea (ad Adua, nel 1896, ebbero il battesimo del fuoco) e in Libia nella recente Guerra italo-turca. I primi impatti col nemico ne rivelarono la buona preparazione e l’accanita resistenza, tanto che inizialmente fu previsto solo l’accerchiamento del Monte Nero. La conquista delle posizioni a nord-ovest fu affidata al 3° rgt. alpini, mentre a sud-est, sullo Sleme e Mrzli, altri battaglioni alpini e battaglioni di fanteria attaccavano il nemico.
LA BATTAGLIA DEL MONTE NERO 19 915 O
E
Uřsič 1.897 m S 1 km
Vrata 2.014m
2
L. di Montenero 1.393 m
102° 85°
Btg. Susa 35° 36° Potoce 1.845 m
Smogar 1.931 m
2.138 m 2.133 m
M. Nero (Krn) 2.245m D 553 m
M. Rosso 2.033 m
Btg. Exilles 84° 31° Kozljak 1.602 m Pleca 1.304 m Sleme 1487 m
Mrzli 1.360 m
Isonzo
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P. GHISALBERTI
0
Il conquistatore della montagna
ALPINO 1915-18 Gli alpini entrano in guerra equipaggiati con le divise grigioverdi adottate pochi anni prima, nel 1909. Il cappello alpino di feltro, già usato nella guerra di Libia, diventa con la Grande guerra il simbolo del Corpo.
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24 mag aggio 1915: entrata in guerra dell’Italia; le truppe austriache si ritirano dal confine per ridispiegarsi in posizioni più difendibili, mentre la 2a armata italiana occupa Saga, lo Stol, la conca di Caporetto e la dorsale tra Isonzo e Iudrio. 29 mag aggio: iniziano i tentativi (poi falliti) di fanti, alpini e bersaglieri per conquistare lo Sleme e il Mrzli. 31 mag aggio: il battaglione alpini Susa occupa il contrafforte Ursic/Vrata a nord del Monte Nero. 2 giugno: un plotone di volontari, sempre del Susa, occupa quota 2.102, sulla cresta Vrata-Monte Nero. 5 giugno: 50 uomini del sergente Vallero, calatisi da un canalone nevoso occupano quota 2.076, tra quota 2.012 e il Potoce. 15 giugn gno: alle ore 23:30 le compagnie 102a e 85a del btg. Susa, a nord, si muovono verso il Potoce, conquistando dopo poche ore le quote 1.996 e 1.976. Ore 24:00, a sud, su due diverse direttrici, si muovono dalla Selletta Kozljak verso la cima del Monte Nero l’ 84a e la 31a compagnia del btg. Exilles. 16 giugn gno: ore 2:45, la 35a cp. del Susa a nord muove dal Vrata verso quote 2.138 e 2.133, che prenderà un’ora dopo. Poi con il rinforzo della 36a cp, si porta verso la cima del Monte Nero. Ore 3:15, la 31a cp. dell’Exilles arriva a ridosso delle prime trincee nemiche e attacca. Ore 4:00, l’84a cp. del capitano Arbarello (Exilles) attacca di sorpresa la cima del Monte Nero. Ore 4:45, il Monte Nero è conquistato.
N
G. RAVA
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incenzo Arbarello (nella foto), 2 medaglie d’argento e una di bronzo al valore, era nato a Torino nel 1874. Animo d’artista, era però entrato all’Accademia di Modena uscendone nel 1896 ufficiale degli alpini, assegnato al 2° reggimento. Nel 1911, capitano in forza al 3° rgt, portò i suoi uomini a combattere in Libia. Paterno. Biondo, occhi azzurri e baffoni brizzolati sempre arruffati, incarnava già la figura del vecchio soldato, tenace, ma amato dai suoi uomini, che lo chiamavano “il padre”. Nel 1915 comandava l’84a cp. dell’Exilles; dopo la conquista del Monte Nero e la nomina a cavaliere dell’Ordine militare di Savoia, promosso maggiore, fu al comando del btg. Monte
Granero col quale si distinse sul Pal Piccolo e sul Freikofel. La sua fine fu oltremodo tragica e beffarda: nel 1917, in Carnia, una valanga coprì sotto dieci metri di neve la baracca dove si trovava. Arbarello e un suo ufficiale morirono soffocati dal gas fuoriuscito dalla lampada ad acetilene rovesciata nell’urto. Riuscì a scrivere un biglietto: “Credevo di morire diversamente: ho cercato di aiutare il mio tenente Bottasio in tutti i modi, ma inutilmente. Muoio asfissiato nel nome d’Italia”.
S
u questo fiume, muto testimone della conquista del Monte Nero – come già lo era stato nel 489 degli scontri tra il re degli Ostrogoti Teodorico e Odoacre, poi sconfitto – furono combattute dal 1915 al 1917 ben 12 sanguinose battaglie. L’Isonzo (che dalla Val Trenta raggiunge il Mare Adriatico, a sud di Monfalcone, dopo circa 140 km) era infatti una linea di difesa naturale sulla quale si attestarono i due eserciti in lotta. Da una parte le truppe italiane del generale Cadorna, che all’inizio vi ammassò 35 divisioni, dall’altra
le 15 divisioni (poi salite a 22) del generale Svetozar Boroevic von Bojna, detto il “Leone dell’Isonzo”, avvantaggiate da un terreno più favorevole e da una migliore artiglieria. Rive di sangue. Fu il fronte principale e più cruento della guerra tra italiani e austro-ungarici: tutti i paesi attorno furono distrutti e sulle sue sponde caddero centinaia di migliaia di soldati. Solo nelle prime 4 battaglie (da giugno a dicembre 1915) le perdite dei due eserciti, tra caduti, feriti e prigionieri, furono di quasi 450.000 uomini.
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Le 12 battaglie dell’Isonzo
Agosto 1915, Luigi Cadorna visita gli alpini reduci dal Monte Nero.
Da fine maggio si susseguirono attacchi e contrattacchi con quote prese, perse e di nuovo riprese a costo di gravi perdite; a queste si sommavano quelle causate dai continui fulmini attirati dal monte. In questa situazione di stallo, i disagi del tempo inclemente e la mancanza di acqua da bere rischiavano di creare seri problemi di morale alle truppe. La decisione di accerchiare il monte fu perciò abbandonata: bisognava attaccarlo e conquistarlo direttamente al più presto. U . . Sulla catena, ai primi di giugno, erano schierati i battaglioni Val Cenischia e Ivrea (sul Vrata), Pinerolo (Ursic), i btg. Susa e Val Dora (cresta Ursic-Vrata) e il btg. Exilles (a sud, sulla selletta Kozliak). Da queste posizioni, l’unica via utilizzabile per l’attacco da nord alla cima del Monte Nero, presidiata da un’intera compagnia, era un impervio pendio il cui sbocco era sbarrato dalle trincee nemiche in posizioni dominanti. E se da qui l’attacco sembrava difficilissimo, da sud era quasi impossibile: gli alpini avrebbero dovuto risalire, senza alcun riparo, un declivio ripidissimo ed esposto al tiro dalle micidiali mitragliatrici austriache Schwarzlose cal. 8 mm. L’unico modo per arrivare alla cima era superare inosservati i circa 750 metri di dislivello su un costone inclinato, oltre il quale vi era un precipizio di centinaia di metri. Nonostante questo, il Generale Donato Etna , vedendo un certo arresto nell’attività nemica, programmò l’operazione per la notte tra il 15 e il 16 giugno: il btg. Susa, da nord, e il btg. Exilles, da sud (entrambi del 3° rgt., formato da alpini piemontesi) sarebbero dovuti convergere verso le postazioni nemiche del Monte Nero. All’Exilles toccava il duro compito di attaccare le posizioni sulla cima. Nel suo ordine di operazioni del 14 Etna scrisse: “È necessario evitare qualsiasi rumore, non si deve rispondere al fuoco che i posti nemici facessero, non è col fuoco, in simili casi che si può pensare di riuscire, ma con la ferma volontà di vincere a qualunque costo, col cuore saldo e con la baionetta. Raggiunto l’obiettivo, rafforzarvisi e non abbandonarlo a nessun costo”. Donato Etna (1858-1938) Nato a Mondovì (Cn), figlio naturale di Vittorio Emanuele II, intraprese la carriera militare negli alpini nel 1879. Tra i padri dell’uniforme grigioverde, nel 1915 comandava i Gruppi alpini A e B (di cui faceva parte il 3° rgt. che conquistò il Monte Nero). Comandò poi la 17a e 28a divisione e il XVIII, XXX e XXIII corpo d’armata. Fu senatore del regno dal 1933.
Poco dopo le due di notte del 16, gli alpini della 35a compagnia del Susa si mossero nel buio arrampicandosi in fretta sul pendio ancora ghiacciato, cercando di far poco rumore con gli scarponi chiodati. Quando arrivarono al loro primo obiettivo, le postazioni di quota 2.138, il nemico non si era accorto di nulla. Al grido di “Savoia!” iniziò l’attacco, subito contrastato dagli austriaci con tutte le armi a disposizione. Gli uomini del capitano Varese, appoggiati poi anche da quelli della 36a compagnia del capitano Bianco, nonostante molte perdite conquistarono le posizioni catturando 300 nemici, tra cui 17 ufficiali. Poco più a est, nel frattempo, erano arrivate alle posizioni nemiche anche la 102a e l’85a compagnia sempre del Susa. Presa quota 1.996, vi si erano sistemati a difesa. Alle ore 24:00, gli alpini dell’84a compagnia del battaglione Exilles comandati dal capitano Vincenzo Arbarello, ai cui ordini erano anche gli esploratori di altre compagnie – in totale 130 uomini su tre plotoni – erano intanto partiti dalle posizioni sulla Selletta Kozljak per la conquista della difficile cima. L’equipaggiamento era ridotto al minimo indispensabile: arma, munizioni, borraccia, mantella a tracolla e un sacchetto di terra a testa per il consolidamento delle postazioni. La scalata del sottile e ripido costone sud-ovest era
IN CORDATA Squadra di alpini in arrampicata. La Grande guerra vede le nostre truppe da montagna combattere e vivere in terreni asprissimi, anche a quote che superano i 3.000 metri.
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UOMINI DURI Sopra, il sottotenente Alberto Picco, che con il capitano Arbarello guidò l’assalto alla cima del Monte Nero. Sotto, osservatorio italiano sul massiccio, a 2.000 metri di quota.
aperta dal sottotenente Alberto Picco con 5 esperte guide, seguiti da Vincenzo Arbarello con un plotone di 50 alpini scelti; seguivano poi gli altri due plotoni al comando dei sergenti Viola e Trebbia. Cercando di mantenere il contatto tra le unità, gli alpini dovevano salire in arrampicata – sul bordo del precipizio e nel più assoluto silenzio – il costone ghiacciato e in alcuni tratti ancora innevato. I rischi erano veramente enormi. Non vi era possibilità di ritirarsi, perciò tutto doveva essere perfetto e senza margine di errore. Agli scarponi furono legati degli stracci per evitare ogni rumore. D . Il nemico, che nel buio di una notte senza luna stava facendo lavori sulle postazioni, non sentì nulla e verso le 4:00 si vide piombare addosso gli uomini dell’84a compagnia. Ne seguì un violento combattimento corpo a corpo in cui caddero due alpini e il sottotenente Picco (ferito due volte, l’ufficiale morì tra le braccia del capitano Arbarello), ma dopo una breve resistenza gli austriaci furono sopraffatti. Lasciando sul terreno 18 morti, fuggirono giù dai costoni inseguiti dal fuoco degli alpini e delle batteAlberto Picco (1894-1915) Giovane ufficiale degli alpini e alpinista, era un appassionato sportivo (tra i fondatori e capitano della Spezia Calcio nel 1906). Nei primi giorni di guerra guadagnò una medaglia di bronzo al valore, alla quale si aggiunse quella d’argento concessa motu proprio dal re per l’attacco al Monte Nero, dove Picco cadde.
Alice Schalek Giornalista austriaca, redattrice della testata Neue Freie Presse, fotografa, scrittrice. Sportiva e intraprendente, fu una delle pochissime donne corrispondenti di guerra del tempo. Nel corso della guerra fu inviata dal Kriegspressequartier (l’ente preposto alla propaganda bellica) in Galizia, Serbia, sul fronte del Tirolo e sull’Isonzo.
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rie di artiglieria da montagna che, per mantenere la sorpresa, solo allora avevano iniziato il fuoco. L’arrivo della 31a compagnia in rinforzo, prima impegnata in un’azione diversiva, pose fine alle ultime resistenze: alle ore 4:45 il temibile Monte Nero era finalmente conquistato. Arbarello, vista la strada libera, avrebbe voluto proseguire l’attacco verso il Monte Rosso, ma era necessario consolidare e tenere la posizione con le poche forze e le poche munizioni a disposizione, in vista di un contrattacco. U S . In tutta l’operazione del 16 giugno gli alpini persero 3 ufficiali e 136 uomini, tra morti e feriti, ma presero prigionieri quasi una trentina di ufficiali e circa 600 soldati austriaci, oltre a provocare gravissime perdite. Ai battaglioni alpini Exilles e Susa fu concessa la medaglia d’argento al valor militare. La conquista del Monte Nero fu la prima vera vittoria italiana nel grande conflitto che andava delineandosi. Una grande azione tattica alla quale però purtroppo non seguì un’azione strategica nel resto del fronte. Gli italiani, rafforzate le posizioni, rimasero padroni dell’intero crinale nord del Monte Nero fino al 1917, non riuscendo però ad andare oltre, nonostante i molti duri scontri; ricoveri, trincee e reticolati cominciarono anche qui a imporre la dura legge della guerra di posizione. Con lo sfondamento nemico a Caporetto, le nostre truppe dovettero poi ritirarsi definitivamente dal massiccio. La conquista di una posizione così importante – apparentemente imprendibile – nelle prime settimane di guerra, in un’operazione così ardita e in condizioni ambientali proibitive con solo 6 compagnie di due battaglioni alpini, suscitò interesse e orgoglio nell’opinione pubblica italiana, contribuendo fortemente a far nascere quell’aura di leggenda che rimase poi sempre legata ai nostri alpini. Ma creò viva ammirazione negli stessi nemici: nel suo libro Am Isonzo, riferendosi all’attacco sul Monte Nero, la nota cronista austriaca Alice Schalek scrisse la frase poi rimasta come una specie di insegna del Corpo: “Giù il cappello davanti agli Alpini! Questo è stato un colpo da maestro”. Il generale Rhor, comandante austriaco del settore, biasimò le proprie truppe, colpevoli “per la loro insufficiente vigilanza, pur sapendo di aver contro gli alpini, dei quali era ben noto il valore”. E proprio la conquista del Monte Nero fu uno dei primi esempi di come le truppe da montagna avrebbero combattuto du-
IN QUOTA A lato, alpino al tiro da una cresta innevata nell’inverno del 1915. Sotto, artigliere da montagna con il suo pezzo, in una caverna del Monte Nero nel 1916.
rante tutta la Grande guerra: in piccoli reparti che operavano in autonomia, da e verso posizioni apparentemente inespugnabili arroccate ad alte quote, sferzate da vento e neve. E spesso con azioni di sorpresa su percorsi ardui e insospettabili, impossibili per soldati non abituati alle dure condizioni della montagna. Rispetto alle obsolete operazioni della fanteria, ancora legate agli attacchi di massa preceduti da bombardamento d’artiglieria (le “spallate” poi tanto care a Cadorna ), l’utilizzo di piccole unità di personale scelto era un’innovazione tattica non da poco, poi ripresa anche in seguito da molti eserciti per sviluppare le azioni delle truppe d’assalto. $ Stefano Rossi Cadorna (1850-1928) Il generale Luigi Cadorna fu il controverso capo di Stato maggiore del regio esercito italiano dal 1914 fino al disastro di Caporetto del 1917, quando venne sostituito da Armando Diaz.
In versione popolare
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uando chiesero a un alpino come avessero fatto a raggiungere il nemico senza farsi sentire, questi disse: “Tutti scalzi, compreso il capitano!”. Ci fu chi prese per buona la battuta. Iniziarono così a fiorire descrizioni della battaglia, addirittura destinate alle scuole, immagini satiriche (come nel disegno) o fantasiose in cui la conquista del monte era fatta da alpini su bei prati soleggiati e con ufficiali... a cavallo!
Nella hit parade dell’epoca. Molto più reale e toccante la canzone scritta, subito dopo la battaglia, da un alpino lombardo, Domenico Borella: “Spunta l’alba del sedici giugno… il 3° alpini è sulla via, Monte Nero a conquistar…”. Il motivetto divenne una delle canzoni più belle della Grande guerra; anzi, come scrisse Paolo Monelli, giornalista e ufficiale alpino: “La canzone più bella nata dalla guerra”.
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LA GRANDE GUERRA 1915 TAGLLIA DE ELLL’A ATLL ANT TIC CO LA BATT
CON L’AFFONDAMENTO DEL LUSITANIA COMPARE UN NUOVO PROTAGONISTA, IL SOMMERGIBILE, CHE NEL SECONDO ANNO DEL CONFLITTO SOSTIENE LA SUA PRIMA BATTAGLIA NEGLI ABISSI
U-BOOT IL FRONTE MARINO
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L’EQUIPAGGIO
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Un U-Boot tedesco in emersione e il distintivo d’onore dei sommergibilisti della Kaiserliche Marine, la Marina imperiale tedesca: istituito a febbraio 1918, era dato agli equipaggi che avevano fatto almeno 3 crociere di guerra. A destra, l’interno della sala macchine di un sommergibile durante la Grande guerra. Sopra, un manifesto di propaganda mostra l’equipaggio di un U-Boot.
re, a una realtà molto più complessa, e non solo per la rapida evoluzione del naviglio d’altura. In gioco infatti entravano due sistemi d’arma che li costringevano a guardare in alto e sotto la superficie del mare. Il pericolo dal cielo era una novità assoluta, visto che il primo aereo aveva volato nel 1903 e solo attorno al 1910 aveva iniziato a interagire con le unità navali, arrivando a compiere alcune azioni di attacco con bombe e siluri durante il primo anno di guerra, ma senza ottenere risultati decisivi (v. riquadro alla pag. successiva). La seconda minaccia, quella subacquea, non era invece una novità assoluta: sin dal XVII secolo si era tentato di impiegare mezzi capaci di navigare sott’acqua per colpire di sorpresa. E dopo l’esperimento dell’American Turtle nel 1776, sempre nel Nuovo Mondo era infine stato registrato (17 febbraio 1864) il primo affondamento di una nave da guerra da parte di un sommergibile, l’Hunley, costruito dai Confederati durante la guerra di Secessione. Tuttavia il drammatico destino del precursore, affondato con la sua vittima a causa dell’onda d’urto dell’esplosione, per molto tempo scoraggiò ulteriori tentativi, anche se dopo il 1870 la rapida evoluzione tecnologica mise a disposizione dei progettisti un’arma più affidabile della suicida torpedine ad asta impiegata dall’Hunley: il siluro autopropulso, realizzato nel 1866 dall’ingegnere anglo-
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ll’inizio della guerra, dovendo sfidare l’enorme potenziale marittimo anglo-francese, la Germania si era affidata alle incursioni di un pugno di veloci e bene armati incrociatori, distaccati oltremare in tempo di pace, e alle crociere di alcuni mercantili armati come navi corsare. Entro la fine del 1914, tuttavia, buona parte di queste unità era andata perduta: la Royal Navy non aveva esitato a lanciare operazioni complesse e costose per eliminare dai mari la bandiera tedesca, come quando per mesi aveva assediato l’incrociatore Königsberg, che dopo aver affondato una nave da guerra inglese si era rifugiato in Africa, nel delta del Rufiji, smantellandolo infine a cannonate nel luglio 1915. Le unità di superficie corsare tedesche, seppur relativamente poche nel contesto del conflitto, ottennero notevoli successi, con circa 130 mercantili e alcune navi da guerra affondate, obbligando le forze navali alleate a disperdersi sui mari del mondo per dar loro la caccia. Un’altra arma impiegata con successo dai tedeschi furono le mine, posate in oltre 250.000 esemplari, che affondarono 588 mercantili e decine di navi da guerra alleate. M . . La Grande guerra rappresentò, per la strategia navale, il passaggio da uno scenario bellico monodimensionale, che obbligava gli ammiragli a preoccuparsi delle minacce provenienti dalla superficie del ma-
MINE E SILURI
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MARY EVANS
La finitura delle teste dei siluri. A destra: 1918, una nave posamine italiana. L’altra grande novità del conflitto fu la presenza di campi navali minati.
ALLA FINE DEL 1914 IL MARE DEL NORD E IL MAR DI NORVEGIA ERANO DIVENTATI ZONA DI CACCIA DEGLI UBOOTE austriaco Robert Whitehead .Un ulteriore passo avanti fu fatto introducendo nei sommergibili, sino ad allora spinti dalla forza fisica degli uomini imbarcati, la propulsione prima a vapore, poi con più efficaci motori elettrici, diesel e a benzina. I sommergibili iniziarono così a far parte della panoplia di armi navali a disposizione delle grandi potenze, ma anche di marine più piccole costrette a confrontarsi con avversari di taglia maggiore, come quelle spagnola, turca e peruviana. I “ ”. Come sottolinea l’ammiraglio e storico Arthur Hezlet “nel 1900 sei marine possedevano complessivamente 10 sommergibili e ne avevano altri 11 in cantiere”: le flotte di Russia e Giappone, che durante la guerra del 1904 -1905 disponevano entrambe di battelli subacquei, non li usarono, limitandosi alla semplice minaccia. E c’era almeno una grande potenza emergente che nel 1900 non aveva ancora fatto appieno i conti con la nuova arma. Può sembrare infatti paradossale, ma la Germania, che più di tutte le altre nazioni avrebbe legato il proprio nome alla guerra subacquea (e con una preminenza che arriva sino ai giorni nostri, grazie a un’industria specia-
lizzata che ha realizzato 150 battelli per una ventina di Paesi), inizialmente si era mostrata scettica verso il sommergibile. Lo Untersee-Boot (più conosciuto col suo abbreviativo, U-Boot ) ebbe un inizio stentato: il prototipo U-1 del 1906 fu subissato di critiche per i suoi difetti, come l’inaffidabile motore a benzina. La svolta tuttavia arrivò presto: nel 1908 furono introdotti nuovi motori diesel e irrobustiti gli scafi resistenti che, collaudati fino a 50 metri, in guerra ressero sino a “quota 80”. Inoltre, per meglio impiegare gli U-Boote furono realizzate una scuola e un centro di addestramento per sommergibilisti, esercitandoli non solo a coordinare le proprie operazioni con quelle delle unità di superficie – dottrina accettata anche in altre nazioni – ma anche tra gruppi di battelli. Come ricorda lo storico navale Giorgio Giorgerini, nel 1912-1913 fu compiuta in pieno inverno “un’importante esercitazione nel mare del Nord [con] un’intera flottiglia di U-Boote, partita dalla base di Helgoland [navigando] per 300 miglia fino alle coste britanniche restandovi il più a lungo possibile, pronta per l’attacco”, e aprendo di fatto la strada alla futura tattica dei “branchi di lupi” della Seconda guerra mondiale.
Robert Whitehead La sua azienda, nata nel 1875 a Trieste e nota come WASS-Whitehead Sistemi Subacquei (Finmeccanica), è ancora leader nella realizzazione di siluri e apparecchiature subacquee.
U-Boote Ai battelli in servizio nel 1914 se ne aggiunsero durante la guerra altri 349. Ne andarono perduti 186.
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opo gli scontri combattuti tra incrociatori inglesi e tedeschi nel 1914, il 24 gennaio 1915, per la prima volta arrivarono a tiro di cannone le navi da battaglia delle due più potenti flotte del mondo. Una squadra con 4 incrociatori da battaglia del viceammiraglio Hipper aveva salpato
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le ancore per compiere una ricognizione in forze nell’area del Dogger Bank (a destra), al centro del Mare del Nord. Scontro furioso. Scoperta dai crittografi della celebre Room 40 dell’Ammiragliato inglese, fu intercettata dal Battlecruiser Squadron del viceammiraglio Beatty, che disponeva di 5 unità da bat-
taglia. Ne nacque un furioso combattimento ad alta velocità e a grandi distanze, conclusosi quando, sacrificando il più anziano incrociatore corazzato Blücher, immobilizzato e poi affondato dal tiro inglese, Hipper riuscì ad aprirsi la strada verso casa, sfuggendo alla trappola tesagli dalla Royal Navy.
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Dogger Bank: le flotte da battaglia inglese e tedesca incrociano le lame
Nel Mare del Nord il 24 gennaio 1915 ci fu la prima vera battaglia navale della Grande guerra fra inglesi e tedeschi.
FEBBRAIO 1915 LA GUE ERRA SOTT TOMA ARINA IND DISCR RIMINAT TA
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dispetto di ogni convenzione, il 18 febbraio 1915 la Germania proclamò zona di guerra la Manica e il braccio di mare che circondava le isole britanniche e la Francia del Nord. Iniziò così la “guerra sottomarina indiscriminata” (o illimitata), in cui gli U-Boote tedeschi affondavano senza preavviso le navi mercantili dei Paesi nemici, ma anche di quelli neutrali. Casus belli. Era il caso della petroliera americana Gulflight, silurata dai tedeschi il 1° maggio: l’episodio portò gli Stati Uniti a un pelo dalla dichiarazione di guerra, anche per il precedente del 28 marzo, quando era stato affondato il cargo britannico Falaba, con a bordo un ingegnere americano. Il 7 maggio, poi, toccò al Lusitania.
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Falaba affondato il 28 marzo 1915
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Gulflight affondata il 1° maggio 1915
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Lusitania affondato il 7 maggio 1915
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a Grande guerra non rappresentò solo l’occasione per il sommergibile di divenire un sistema d’arma maturo. Durante il conflitto, infatti, si misero in luce i due modelli di navi da guerra destinate a dominare il XX secolo, e diverse nuove tecnologie sino ad allora solo testate. Dalla fine dell’800, per esempio, la propulsione delle navi, per decenni caratterizzata da caldaie a vapore e macchine alternative a espansione, iniziò a essere incentrata sulle turbine a vapore, che permettevano
di raggiungere velocità superiori ai 30 nodi, mentre la loro alimentazione vedeva il carbone lasciare il passo alla nafta. Sulle navi a grande autonomia e i sommergibili, invece, particolarmente efficaci si dimostravano i diesel e i motori elettrici. Il progresso. La Grande guerra rappresentò lo zenith delle corazzate monocalibro (e dei battlecruiser, altrettanto armati ma più veloci e meno protetti) introdotte col prototipo Dreadnought nel 1906, e protagoniste della Battaglia dello Jutland
nel 1916. Tuttavia sin dal 1914 inglesi e giapponesi impiegarono unità da guerra che trasportavano un nuovo mezzo bellico: l’aereo, col quale effettuare le prime incursioni contro basi e porti nemici e gli attacchi con bombe e siluri contro le navi. Dopo gli esperimenti avviati sin dal 1912, la prima riuscita azione aerosilurante data 12 agosto 1915, quando uno Short Type 184 lanciato da una porta idrovolanti inglese affondò un mercantile turco nel Mar di Marmara.
L’UFFICIALE Un Kapitänleutnant di sommergibile (tenente di vascello). La flotta della Kaiserliche Marine, la sconfitta Marina imperiale tedesca, fu in gran parte distrutta dai suoi stessi ufficiali nel 1919 per non consegnarla ai vincitori.
G. RAVA
Le innovazioni nella guerra navale 1914-1918
La Belle époque affonda
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gio, e citando l’eroe dell’Isola che non c’è. Accanto a lui, il milionario e filantropo Alfred Vanderbilt. Una lunga lista. Nell’affondamento rimasero uccisi anche lo scrittore Elbert G. Hubbard, autore del bestseller Messaggio a Garcia, e la moglie Alice, che si batteva per i diritti politici delle donne, il popolare commediografo Charles Klein, e il re della produzione di energia idroelettrica Frederick Stark Pearson.
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ome accaduto sul Titanic, che il 15 aprile 1912 trascinò con sé, tra le 1.518 vittime, magnati americani come Astor e Guggenheim, e membri dell’aristocrazia europea, il micromondo affondato col Lusitania (nel manifesto) comprendeva diversi vip e personaggi famosi, come l’impresario teatrale americano Charles Frohman, che nel 1904 aveva prodotto Peter Pan: se ne andò cedendo il suo giubbotto di salvatag-
CACCIATORI E PREDE 1915, U-Boot apre il fuoco col cannone navale su un mercantile degli Alleati. I sommergibili dovevano tornare in superficie a ricaricare aria e motori ed erano dotati di armamento cannoniero sul ponte, che usavano per combattere in emersione. La differenza con i sottomarini (quelli nucleari, che arriveranno dopo la Seconda guerra mondiale) è che questi sono studiati per restare sempre in immersione.
L’UBOOT DIVENNE STRATEGICO NEL 1917, QUANDO CONTRIBUÌ A ROMPERE IL BLOCCO NAVALE INGLESE :: .. Nei primi mesi di guerra gli U-Boote si concentrano contro la Royal Navy, con l’obiettivo di eroderne il (ridotto) margine di superiorità che vantava sulla marina tedesca; e dopo l’affondamento dell’incrociatore leggero Pathfinder, prima nave da guerra distrutta da un sommergibile a mezzo secolo dall’impresa dell’Hunley, il 22 settembre 1914 l’U-9 di Otto Weddigen , primo “asso” sommergibilista tedesco, in meno di un’ora silura tre grandi incrociatori corazzati inglesi, affondati con 1.459 vittime, per eliminare poche settimane dopo due incrociatori più piccoli. Il 1915 fu però l’anno della definitiva prova del fuoco per i sommergibili, apertosi il 1° gennaio col siluramento della corazzata inglese Formidable, affondata nella Manica con 547 vittime. Nel Mediterraneo, in scenari operativi ideali, i battelli austriaci e tedeschi affondarono in pochi mesi le corazzate Majestic e Triumph – colpite nell’arco di 48 ore durante la campagna Otto Weddigen Il comandante degli U-Boote morì il 18 marzo 1915, quando il suo sommergibile fu speronato e affondato dalla corazzata inglese Dreadnought.
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di Gallipoli – e gli incrociatori corazzati Gambetta (francese, affondato con l’ammiraglio Victor Baptistin Senes) e gli italiani Amalfi e Garibaldi. Complessivamente, nel ’14-’18 gli U-Boote affondarono con siluri o mine 11 corazzate e 18 incrociatori, compreso l’Hampshire, perduto il 5 giugno 1916 con a bordo il potente ministro della Guerra inglese lord Kitchner. Ancora più letale fu il contributo degli U-Boote alla guerra al traffico: in poco più di 4 anni, infatti, affondarono 5.234 mercantili, per 12.185.832 tonnellate. Un risultato impressionante, se si considera che durante la Seconda guerra mondiale un numero quasi triplo di U-Boote affondò, in 6 anni, 2.828 mercantili, pari a 14.687.000 tonnellate. La “prima battaglia dell’Atlantico”, dopo un inizio stentato (col primo affondamento di un mercantile risalente al 20 ottobre 1914), ebbe avvio il 18 febbraio 1915, quando fu dichiarata “zona di guerra” un’ampia fascia di mare intorno alle isole britanniche, all’interno della quale tutte le navi mercantili, comprese quelle neutrali, avrebbero potuto essere affondate, anche senza preavviso. Era la prima campagna di guerra subacquea (quasi)
Il Piave mormorava, e l’Adriatico si agitava
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e il 24 maggio 1915 l’Italia entrò in guerra con un esercito ancora impreparato, la Regia marina, pur attraversando una fase di transizione simile a quella che interessava le potenze navali dell’epoca, rappresentava un valido strumento bellico. E da poco testato con successo nella Guerra italo-turca. Guidata da uno dei più abili ammiragli della nostra Marina, Paolo
AL MERITO
SCALA
Il medagliato ufficiale tedesco Otto Weddigen, comandante dei sommergibili U-9 e U-29.
Thaon di Revel (1859-1948), la flotta italiana contava 5 moderne corazzate monocalibro (più una sesta in allestimento) e 4 incrociatori corazzati ultimo modello, cui si aggiungevano una decina di navi da battaglia più obsolete. Da leggenda. Anche se alcuni carismatici ammiragli (il Duca degli Abruzzi, e i due eroi della guerra del 1911-1912 Cagni e Millo) puntavano
a una grande battaglia tra corazzate per lavare l’onta di Lissa, grande attenzione fu posta nello sviluppo del naviglio leggero e insidioso, più adatto al complesso teatro bellico adriatico. Esso favoriva da parte austriaca una guerriglia navale con unità veloci e U-Boote. La modernizzazione della Regia Marina passò così attraverso la costruzione di veloci incrociatori-esploratori, cacciatorpediniere, sommergibili, posamine, mentre venivano introdotti un reparto aeronavale, gli apparati radio, e dei piccoli motoscafi armati di siluri: i Mas (nella foto). I due prototipi di Motobarca Armata Svan furono costruiti nel marzo 1915; primi di oltre 400 Mas di vario modello destinati a divenire la leggendaria arma della vittoria italiana sul mare nel 1915-1918.
senza restrizioni: nel primo mese 29 mercantili, per quasi 90.000 tonnellate, furono affondati. I L . Gli attacchi contro navi neutrali, o alleate ma con a bordo cittadini stranieri, provocò forti tensioni soprattutto con gli Usa, che disponevano di un esercito troppo minuscolo per impensierire i generali del Kaiser, ma avevano un’eccellente marina militare. Il 7 maggio 1915 l’U-20 silurò il transatlantico Lusitania della Cunard Line, famoso quasi quanto il Titanic, col quale condivise una sorte tanto tragica (la nave affondò con 1.198 vittime) quanto controversa, essendo impiegato anche come nave ausiliaria della flotta inglese. Soprattutto, tra i passeggeri scomparsi sotto le onde, oltre a personaggi famosi e del bel mondo si contavano 128 cittadini americani. Washington protestò immediatamente, e la minaccia di una possibile entrata in guerra degli Stati Uniti comportò una revisione delle “regole d’ingaggio” degli U-Boote, che nello stesso periodo dovevano anche far fronte alla minaccia delle Q-Ships, navi-civetta mercantili, armate con cannoni a tiro rapido e cariche di profondità, che ottennero il loro primo successo il 23 giugno 1915. La prima campagna di guerra subacquea senza restrizioni si andò esaurendo nel settembre 1915, nonostante avesse portato all’affondamento di 370 navi (per 750.000 t.), contro la perdita di 11 U-Boote. Ripresa per altri due brevi periodi nel 1916, e sospesa sempre per le minacce americane, la guerra subacquea divenne totale a partire dal 1° febbraio 1917, quando la Germania, impiegando 150 sommergiSAPE SA PERN PE RNE DI PPIÙ IÙ bili, sfidò apertamente gli Stati UniUomini sul fondo, Giorgio Giorgerini (Mondadori). r Storia ti (entrati in guerra due mesi dopo) delle battaglie sul mare, arrivando quasi a bloccare il traffico G. Da Frè (Odoya). r Storia dei marittimo inglese. $ Giuliano Da Frè
sommergibili, A. Hezlet (Odoya).
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LA GRANDE GUERRA 1915 IL RA AID DI AISO OVIIZZ ZA
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CIELI opo i primi utilizzi in Libia nel 1911 da parte degli italiani, l’aereo divenne un mezzo bellico a tutti gli effetti. All’inizio della Grande guerra fu utilizzato da tutti i belligeranti per lo più come ricognitore, per allargare con la visione dall’alto i compiti normalmente affidati, a terra, alla cavalleria. In seguito si passò a utilizzarlo anche per bombardare o per colpire altri aerei. E questo segnò la nascita dell’aviazione da caccia. Nel 1915 le macchine erano ancora fragili, sperimentali, quasi degli aquiloni. I piloti manovravano alettoni e timoni con una barra a volantino e una pedaliera, come negli aerei moderni, ma con strumenti spartani: contagiri, manometro del carburante, manette dei motori e bussola. Si pilotava più “sentendo” le vibrazioni che guardando le lancette. E agli aviatori di cent’anni fa, senza paracadute, intirizziti e imbacuccati in pellicciotto, sciarpa e occhialoni, in cabine aperte col vento in faccia, ci voleva un bel coraggio per arrampicarsi a 2.000 metri aggrappati a un groviglio di stoffa, cavi e stecche di legno. Scarne istruzioni tecniche erano frammiste all’istinto. Per far decollare il Caproni Ca.300 HP , fiore al’occhiello della nostra tecnologia, per esempio, si accendevano i motori con una miscela benzina-olio, per non grippare i cilindri a secco. Aperto poi il rubinetto della benzina normale, si scaldavano i motori tenendo fermo l’aereo con picchetti o con una trentina di uomini che lo afferravano per ali e coda, essendo le ruote prive di freni! Prima di accelerare si metteva il muso controvento, poi, con i motori a pieno regime, si liberava il velivolo. Se tutto filava liscio, questo si staccava da terra in soli 150 metri di corsa. Dati i bassi margini di potenza, le istruzioni andavano seguite alla lettera per non schiantarsi. I . L’Italia entrò nella Prima guerra mondiale con un’aviazione impreparata che almeno inizialmente subì l’iniziativa austro-ungarica. Quasi tutti i velivoli usati erano prodotti su licenza straniera, se non addirittura copiati dal nemico. Facevano eccezione i bombardieri pesanti progettati dal trentino Gianni Caproni, che cominciarono dal 20 agosto 1915 le missioni d’attacco contro le basi nemiche oltre l’Isonzo. Aperte le ostilità fra Italia e Austria-Ungheria, già il 24 maggio 1915 due aerei austriaci si avventurarono su Venezia sganciando 15 bomCa.300 HP Era il prototipo dell’aereo italiano che si distinse nella Grande guerra, il Ca.32, un biplano da bombardamento dell’azienda aeronautica fondata da Giovanni Battista “Gianni” Caproni.
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Primo piano di un bombardiere Caproni 300 HP della prima serie produttiva, l’esemplare matricola Ca.488. Oltre alla mitragliatrice brandeggiabile a prua, si notano alcune bombe agganciate alla rastrelliera ventrale.
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LE AQUILE ITALIANE
OBIETTIVO A FUOCO
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A fianco, bomba di grosso calibro sganciabile dai Caproni (erano trattenute da ganasce aperte da un meccanismo con una leva); sostituì i primi ordigni di pochi kg che venivano buttati a mano. A sin., alla ricognizione visiva, fu abbinata anche l’aerofotografia, per studiare le posizioni del nemico.
bette sull’Arsenale, pochi i danni. L’Italia, prima nazione a usare aerei militari nella guerra di Libia del 1911, era stata superata. Gli 89 velivoli del Regio Esercito e i 29 idrovolanti della Regia Marina erano quasi tutti di origine francese, come i biplani Caudron e Farman o i monoplani Bleriot, che osservavano le trincee nemiche e dirigevano il tiro d’artiglieria. C’erano poi tre dirigibili dell’Esercito e tre della Marina, per raid sporadici. P . Le squadriglie austriache si spinsero subito in profondità nell’entroterra italiano. Biplani Aviatik furono avvistati su Udine, sede del Comando supremo del generale Luigi Cadorna, nonché su Verona e Brescia. Più a sud, idrovolanti Lohner violavano Cervia, Ancona, Bari. L’antiaerea era improvvisata, la caccia inesistente. Ma la notte dal 27 al 28 maggio l’idro Lohner dei tenenti Willi Bachich e Wenzel Woschik ammarò in avaria a Porto Corsini, foci del Po. Una ronda della Guardia di finanza catturò i piloti. L’aereo finì bottino alla fabbrica aeronautica Macchi di Varese, che lo copiò come “Macchi L.1”. Intanto arrivavano ai piloti italiani ricognitori Voisin a elica spingente fra le travi di coda, costruiti su licenza francese dalla SIT di Torino. Stranieri pure gli aerei della SAML di Macchi Oggi Alenia Aermacchi (Finmeccanica), nata nel 1913 da un accordo con la francese Nieuport, nel 1915 fu incaricata dalla stessa Marina di copiare il progetto del Lohner catturato intatto.
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Monza, copie di Aviatik nemici. Italiano era però il progetto di un bombardiere trimotore, il Caproni 300 HP, disegnato da Gianni Caproni sulle teorie del colonnello Giulio Douhet circa un “aereo da battaglia”. Colosso da 22 metri d’apertura alare, 11 metri di lunghezza e tre motori Fiat a 6 cilindri da 100 cavalli l’uno, aveva nome “300 HP” per la potenza totale. Due motori sulle ali a eliche trattive, il terzo spingente fra le code gemelle, l’aereo portava 450 kg di bombe e benzina per 600 km a una velocità di 115 km/h. Pesava 3.000 kg, grazie a una struttura leggera. Nelle ali uno scheletro in legni selezionati d’abete, pioppo e frassino, nella carlinga tubicini d’acciaio misti a noce, tutto rivestito da tela verniciata. Il prototipo del bombardiere Caproni aveva volato già il 6 ottobre 1914, ma per le titubanze dello Stato Maggiore al maggio 1915 ancora nessun Ca.300 HP era operativo. Sulle occasioni perdute scrisse il colonnello Douhet: “Avremmo potuto lanciare il giorno stesso della dichiarazione di guerra un gruppo di squadriglie Caproni sul castello di Schönbrunn”. E Cadorna, nelle sue memorie: “Abbiamo dovuto entrare in guerra in condizioni assai infelici sotto il punto di vista aeronautico, di fronte a un nemico meglio fornito di apparecchi, e tale differenza non poté essere che in parte compensata dal grande ardimento dei nostri aviatori. Solo più tardi fu pos-
NASCONO LE SQUADRIGLIE Sotto, l’idrovolante austro-ungarico Lohner L. A sinistra, in alto, ricognitori Farman MF.11 della 4° Squadriglia, distaccata nel 1915 a Padova, poi trasferita in zona d’operazioni ad Aviano, in Friuli.
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BATTAGLIA AEREA
L’ATTACCO I piloti da caccia attaccavano gli aerei nemici tenendosi con il sole alle spalle, per ostacolare l’avvistamento da parte dell’avversario. Dopo un passaggio sparando a raffica, ci si allontanava per un largo giro e un nuovo attacco.
Un Caproni Ca.33, diretto successore del Ca.300 HP, sostiene uno scontro con un caccia austro-ungarico Albatros, una scena frequente dopo il 1916.
I MITRAGLIERI
L. CRISTINI
Mentre i piloti cercano di mantenere la rotta verso l’obiettivo da bombardare, il mitragliere di prua e quello dorsale si prodigano alle armi brandeggiabili (cioè orientabili sull’obiettivo).
sibile dare alla nostra aviazione lo sviluppo che era richiesto dalle necessità della guerra. Ma intanto, e per tutto il 1915, le nostre condizioni rispetto al nemico furono molto difficili”. Il 16 luglio Gianni Caproni andò a Udine a parlare con Cadorna. A rilento, si muoveva qualcosa. I primi tre Ca.300 HP furono distaccati come “Sezione Biplani Caproni” presso la 21a squadriglia sul campo di La Comina, fuori Pordenone. Li comandava il capitano Luigi Bailo. Cadorna ordinò di attaccare il campo d’aviazione austro-ungarico di Aisovizza, già colpito da inadatti Farman. Oggi è chiamata Ajsovica, in Slovenia. Il 19 agosto si prepararono due Caproni che sotto il ventre portavano “granate-torpedini” di due tipi, da 26 kg o 15 kg l’una. A . L’aereo capoformazione era pilotato da Bailo e dal capitano Carlo Graziani, con osservatore il maggiore Alfredo Barbieri. Sull’aereo gemello, i piloti tenente Ercole Ercole e sottotenente Giulio Laureati, più l’osservatore capitano Pico Teodato Cavalieri. Per difesa, ogni Caproni aveva una mitragliatrice Revelli calibro 6,5 mm brandeggiabile dall’osservatore a prua. I piloti avevano pistole Mauser con 5 caricatori. L’assenza nel primo anno di guerra di una vera aviazione G. RAVA
IL PILOTA ITALIANO Sotto al giaccone in pelle foderata d’agnello gli aviatori portavano la normale divisa grigioverde dell’arma di provenienza, in questo caso da ufficiale di cavalleria. Il casco è del modello Roold, di produzione francese. Mancava ancora il paracadute d’ordinanza.
LE ALI Erano fatte con longheroni in legni di pioppo e abete, mentre i supporti fra ala superiore e inferiore erano in frassino. Alcune parti erano fissate con la colla, altre con spinette d’acciaio.
Pistole Mauser All’inizio gli aerei non avevano alcun armamento. In Libia, nel 1911, gli italiani lanciarono granate da un velivolo nella loro prima azione di bombardamento aereo.
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E ill po oetaa misee lee alli per un proiettile di mitragliatrice antiaerea. L’Austria beffata mise sulla testa del poeta una taglia di 20.000 corone. In volo su Vienna. Il 20 settembre D’Annunzio volò su Trento con un biplano Farman del Regio Esercito pilotato dal cap. Ermanno Beltramo della 12° squadriglia. Partiti da Asiago, si alzarono a 3.200 metri per superare le Alpi. Una coltre nuvolosa rendeva cieca la contraerea austriaca di Monte Verena e l’aereo italiano poté abbassarsi su Trento lanciando altri proclami irredentisti e rientrando incolume. Imbaldanzito, già il 28 settembre 1915 scriveva all’amico Annibale Teneroni: “Non dispero di volare su Vienna”. L’idea già c’era, ma si realizzò dopo tre anni, quando furono disponibili nuovi aerei, gli Ansaldo a lunga autonomia.
CONTRAEREA SIERRA
Sulle Alpi, nel 1916, soldati ungheresi difendono le posizioni sul fronte italiano con un fuoco di contraerea. A lato, il brevetto da pilota militare italiano, istituito con la circolare n. 339 del 1912.
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BRIDGEMAN/ANSA
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abriele D’Annunzio (nella foto) compì raid aerei già nel primo anno di guerra sulle irredente Trieste e Trento, tappe verso la sua più celebre impresa su Vienna del 1918. Il poeta abruzzese si arruolò volontario a 52 anni. Non pilotava, ma era osservatore; la qualifica ufficiale gli fu concessa dopo il primo volo autorizzato dal governo. Il Vate entrò in azione il 7 agosto 1915 su un idrovolante FBA della Regia Marina pilotato dal tenente Giuseppe Miraglia. Decollati da Venezia, diressero a bussola fino all’irredenta Trieste e sganciarono una piccola bomba sul Molo della Sanità, facendola scivolare da un tubo. D’Annunzio gettò a mano 21 copie di un proclama che prometteva: “La bandiera d’Italia sarà piantata sul grande Arsenale e sul Colle di San Giusto”. L’aereo soffrì solo un buco in coda
da caccia rendeva però minimo il rischio di lotte con altri aerei. Si sperimentava una macchina nuova, ancora imperfetta, oltre la linea del fronte. La distanza non era molta, 80 km, ma preoccupava il comportamento bizzoso dei motori Fiat, che per la casa di Torino rappresentavano i primi cimenti in campo aeronautico. Quel motore era stato copiato dal tedesco Daimler. D . All’alba del 20 agosto 1915 i trimotori decollarono dalla base friulana. Alle 5:55 si alzò l’aeroplano di Bailo, alle 6 quello di Ercole, rotta a Est. Si avvicinarono all’Isonzo da direzioni diverse, uno da Monfalcone, l’altro da Gorizia. Il trimotore di Bailo toccò i 2.800 metri di quota, quello di Ercole non passò i 2.500. Su Aisovizza i bombardieri italiani furono accolti da cannoni antiaerei, ma così imprecisi che orbitarono incolumi piazzando gli ordigni nel perimetro. I Caproni volsero poi verso casa. Scavalcando la linea del fronte avvistarono un pallone frenato Draken nemico. Con le armi di bordo spararono colpi intimidatori, costringendo gli austriaci a riportarlo a terra. Atterrò per primo a La Comina l’aereo del tenente Ercole, dopo un tempo di volo di 140 Pallone frenato Draken Per dirigere dall’alto il tiro dell’artiglieria tutti gli eserciti usavano, oltre agli aerei, anche palloni aerostatici trattenuti da cavi e gonfiati a idrogeno.
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ella Grande guerra il mestiere del pilota era da inventare, ma quasi subito si sviluppò un minimo di metodica. Molti aviatori militari, come l’italiano Francesco Baracca e il tedesco Manfred von Richthofen, il famoso “Barone Rosso”, provenivano dall’arma della cavalleria e tale esperienza li aiutò a inventare le prime manovre di combattimento aereo con predilezione per l’aggiramento e l’agguato, anche sfruttando le nuvole come copertura, per avvicinarsi di soppiatto. Volare in tondo. In aria, però, si manovrava anche in senso verticale. Il famoso “looping” o “cerchio della morte” fu eseguito per primo dal russo Piotr Nesterov. Nel 1915 il pilota tedesco Max Immelmann creò la ben nota “virata Immelmann”, poi imitata da tutti. Il suo amico Oswald Boelc-
ke codificò le prime regole tattiche: tenere il sole alle spalle, mai volare su traiettorie prevedibili per lunghi periodi, guardarsi sempre alle spalle. Sul fronte francese i duelli fra caccia monoposto erano cominciati già nel ’15, ma sul fronte italiano si affermarono l’anno dopo. Proprio Baracca ottenne la prima vittoria di un cacciatore italiano il 7 aprile 1916 abbattendo un aereo austriaco vicino a Udine. Lo centrò dopo essersi avvicinato a soli 50 metri dietro di lui, tenendosi al coperto sotto la sua coda per evitare le raffiche difensive sparate all’indietro dal secondo uomo d’equipaggio e sbucando infine all’improvviso. Molto si lasciava ancora al caso, anche perché gli aerei non imbarcavano apparati radio per coordinarsi con precisione, ma la tattica stava maturando in fretta.
SAPE SA PERN PE RNE DI PPIÙ IÙ
IL CAVALLINO RAMPANTE Francesco Baracca nel 1918 con il suo Spad VII. Sulla fusoliera l’emblema del cavallino rampante preso dallo stemma araldico del suo reggimento, Piemonte Cavalleria.
minuti, tallonato dall’aereo del capitano Bailo, con 147 minuti. I danni non furono molti, gli ordigni venivano sganciati a occhio, senza precisione. In sé il raid non ebbe colpi di scena, ma poteva dirsi un successo. Era il debutto del primo bombardiere pesante italiano, il secondo al mondo. A precedere i Caproni erano stati aeroplani della Russia zarista, ma solo di pochi mesi. Il 15 febbraio 1915 era entrata in azione la Eskadra Vozdusnich Korablei, cioè “Squadra Navi Volanti”, del generale Mikhail Shidlovski, formata da quadrimotori Ilya Muromez: 30 metri d’apertura alare e 17 di lunghezza. Per ritorsione gli austriaci inviarono tre aerei su Udine. Gettarono ordigni mirando alla stazione e a un impianto gasifero, ma coinvolsero case uccidendo cinque civili e tre carabinieri. N . Il 21 agosto 1915 scattò un secondo raid di due Caproni. Levatisi da La Comina, passarono su Doberdò, dove l’antiaerea li avvistò e sparò vani colpi. Sorvolata la valle del fiume Vipava, arrivarono su Aisovizza, s’abbassarono a 1.500 metri e colpirono alcuni hangar descrivendo circuiti a “8” per distribuire gli ordigni. Da terra l’artiglieria mirava un po’ meglio, ma l’unico danno agli aerei italiani fu uno squarcio nella tela alare dell’aereo di Bailo, fatto da una granata Shrapnell. A Pordenone, Cadorna si complimentò con gli equipaggi e volle volare co-
Un secolo di battaglie aeree, di Mirko Molteni (Odoya). La lunga evoluzione della guerra aerea nel ’900. L’aviazione italiana nella Grande guerra, di B. Di Martino (Mursia). La parabola delle nostre squadriglie su Alpi e Adriatico. I bombardieri Caproni nella Grande guerra, di P. Miana (Macchione). Analisi tecnica degli aeroplani impiegati dall’Italia. Nel segno del cavallino rampante, mostra su Francesco Baracca, Museo dell’aeronautica Caproni di Trento, fino al 12/5.
me passeggero insieme al generale Carlo Porro su un Caproni. Dopo altre azioni in coppia, il 19 ottobre ecco la prima missione con tre aerei, ancora su Aisovizza. L’indomani l’aereo di Bailo e quello di Ercole si spartirono obiettivi distinti, colpendo la stazione ferroviaria di Castagnevizza e le postazioni di Nabresina. Sopra la ferrovia, uno Shrapnell schiantò la struttura dei timoni di coda, ma con le sue doti di robustezza il Caproni tornò alla base. Le difese di Castagnevizza si riconfermarono pericolose il 24 ottobre, quando l’aereo di Bailo fu danneggiato da una granata che gli fece perdere il controllo. Il Caproni scivolò a sinistra e precipitò per 400 metri prima che Bailo e Graziani riprendessero i comandi. Intanto, il Ca.300 HP dell’equipaggio Pellegrino-Marazzi-Agosti si imbattè in un Aviatik nemico e cercò di mitragliarlo, ma quello fuggì. Lo stesso aereo, bombardate il 29 ottobre postazioni d’artiglieria a S.Lucia-Monte Kuk, avvistò un altro Aviatik e sparando con la Revelli lo fece scappare. I duelli di caccia sarebbero arrivati solo nel 1916, con assi come Francesco Baracca. Entro il 22 novembre 1915 erano nate ormai cinque squadriglie di Caproni: tre di base a La Comina, una ad Aviano e una a Verona. Erano ancora in “rodaggio” ma preannunciavano i successi mietuti dal 1916 al 1918. # Mirko Molteni
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ULLSTEIN/ALINARI
LA GRANDE GUERRA 1915 LA 2A BAT T TAG GLIA A DII YPRE ES
ENTRA DRAMMA ATICAMENTE IN SC CENA UNA NUOV VA ARMA: FRONTE OCCIDE ENTALE. IN BELGIO I TEDESCHI MO OSTRANO
IL NEMICO
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STERMINATI Sopra, zuavi francesi uccisi dal gas a Ypres il 22 aprile 1915. A sinistra, in quella primavera, i soldati tedeschi in trincea sul fronte occidentale con le prime rudimentali maschere.
IL LET TALE CLO ORO O VIENE IMP PIEGATO SU LARGA SCALA SUL AL MO ONDO IL PRIIMO USO EF FFICACE DEI GAS
È NELL’ARIA IL TERRENO La Hill (collina) 60, emblematica del paesaggio vicino a Ypres. Fortemente contesa tra britannici e tedeschi, fu una delle zone dove vennero impiegati i gas di cloro. Era incominciata l’era della guerra chimica.
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TUTTI COLLEGATI Soldati tedeschi preparano i cavi dei lanciatori di gas, interrati fuori dalla trincea. Arrivarono a essere centinaia collegati insieme.
Lo scienziato maledetto
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DUE DIVISIONI FRA ANCE ESI F URO ONO PRE ESE E DAL PANICO E L ASC CIAR RON NO IL L CAM MPO O LIBER RO ALL L A PE ENET TRAZ Z IO ONE TED DESSCA A ll’inizio del 1915, gli eserciti tedesco e francese sul fronte orientale si equivalevano per coraggio e perizia; quanto ad armamenti, se i primi avevano fucili e cannoni di grosso calibro migliori, i secondi contavano su una delle più versatili bocche da fuoco del conflitto per l’appoggio alla fanteria: il cannone da 75 mm a tiro rapido. Il labile equilibrio tra le forze si sarebbe spezzato in aprile nella zona a nord della cittadina di Ypres, in Belgio, dove nel 1914 erano stati fermati i tedeschi in una sanguinosa battaglia e dov’erano ora attestate l’87a divisione territoriale francese e la 45a formata da truppe coloniali algerine. L . Sono circa le 17 quando un pilota inglese in volo di ricognizione, il capitano Strange, vede una insolita nube verde-giallognola che si muove lentamente verso le linee francesi. La nuvola è pesante, sembra attaccata al terreno e pare quasi rotolare. Anche dalle trincee francesi si vede avanzare questo nugolo che si ingrossa a dismisura e copre sempre più terreno. Pensando a una cortina fumogena che maschera un attacco, i poilus si dispongono a respingerlo alla baionetta, ma in poco Poilus Letteralmente “i pelosi”: era un termine informale con cui venivano chiamati i fanti francesi sin dall’epoca napoleonica ed evocava l’immagine del tipico soldato di estrazione contadina, rozzo, spesso baffuto e barbuto. Divenne poi molto popolare nella trincee della Grande guerra, dove necessariamente la cura della persona lasciava un po’ a desiderare.
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ritz Haber (1868-1934, sopra) era un valente chimico tedesco che nel 1909 era riuscito a sintetizzare l’ammoniaca (di non facile estrazione) per produrre fertilizzanti sintetici per l’agricoltura. Considerando doveroso aiutare la Patria, scoppiata la guerra applicò le sue ricerche al campo degli armamenti per studiare nuovi esplosivi e armi chimiche, convinto assertore presso i comandi tedeschi che tali armi letali potevano accelerare il corso della guerra e risparmiare vite. Pare abbia supervisionato di persona l’attacco col gas cloro del 22 aprile 1915; di sicuro commentò i 5.000 morti così: “La prossima volta usatene di più”. La moglie e collega si suicidò per il rimorso. Haber sviluppò poi altri gas come il fosgene e la famigerata iprite. Antesignano. Nel 1919, con grandi polemiche, fu insignito del Nobel per le sue scoperte anteguerra. Fu poi lui, ebreo, a mettere a punto in una ricerca sui pesticidi il micidiale zyklon B su base di acido cianidrico, usato in seguito dai nazisti nelle camere a gas.
tempo si diffonde il panico: ovunque ci sono soldati nazionali e di colore che, gettati i fucili, fuggono disordinatamente, si contorcono per terra cercando di respirare, si sbottonano le divise, implorano acqua. Zuavi, fanti, artiglieri fuggono dal fronte tossendo, con gli occhi strabuzzati, sputando sangue. In poco tempo nessuna arma spara più e quasi cinquemila uomini agonizzano a terra. Due ore dopo i tedeschi del generale von Falkenhayn occupano le trincee nemiche attraverso il profondo varco di oltre sei chilometri, lasciato libero dai francesi colpiti da questa nuova terribile arma: il gas asfissiante. Così inizia la seconda battaglia di Ypres, che verrà ricordata per il primo utilizzo efficace dei gas accanto alle armi convenzionali. I tedeschi hanno usato una nube di cloro . Per la Francia è una botta inaspettata: con l’uso di questa nuova arma all’indomani del 22 aprile la sconfitta sembra inevitabile. I . . In realtà non era la prima volta che si usavano componenti chimici: nell’ottobre 1914 avevano iniziato proErich von Falkenhayn (1861-1922) Fu uno dei migliori comandanti tedeschi della Grande guerra. Emblema del generale prussiano dotato di grandi competenze politiche e militari, all’inizio della guerra era capo di Stato maggiore. Nel 1916, però, dopo il fallimento di Verdun fu sostituito dal feldmaresciallo Hindenburg, che aveva assunto la guida militare di tutte le forze del Reich. Cloro Elemento chimico dalle proprietà soffocanti e tossiche, che a contatto con le mucose umide forma acido cloridrico, fortemente caustico.
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LA SECONDA BATTAGLIA DI YPRES
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22 aprile le 1915: alle ore 17 circa i tedeschi scatenano la prima offensiva del 1915 sul fronte occidentale, lanciando tra Bixschoote e Langemark, a nord di Ypres, un attacco con gas a base di cloro. Attorno alle 20 i tedeschi sono penetrati di oltre 3 chilometri nel varco francese, ma inglesi e canadesi riescono a creare una barriera difensiva. 23 aprile le: contrattacchi alleati, seppur limitati, tengono i tedeschi impegnati. 24 aprilile: nuovo attacco con i gas stavolta contro i canadesi che però non cedono le posizioni. 25 apri rile: la 2a armata britannica non riesce a mantenere le posizioni all’infinito. 27 aprilile: il generale sir Horace Smith Dorren suggerisce un arretramento di 4 km, ma per questo viene destituito e sostituito dal generale sir Herbert Plumer. 1 magg ggio: Plumer, che ribadisce l’idea di arretrare (stavolta accettata), inizia il ripiegamento. 2-3 magg ggio: La BEF (British Expeditionary Force) si ritira contrastando i tedeschi. 4-25 mag aggio: gli attacchi tedeschi sulle nuove posizioni alleate si susseguono (particolarmente violenti tra l’8 e il 14 maggio sull’altura di Frenzenberg). 25 mag aggio 1915 15: fine della battaglia. Il vantaggio tedesco è quasi insignificante in termini di terreno. Gli alleati hanno perso circa 60.000 uomini e i tedeschi tra 35 e 47.000 (a seconda delle fonti).
Le 5 battaglie
a città belga di Ieper (Ypres, in francese) nelle Fiandre Occidentali, durante la Grande guerra importante nodo ferroviario del fronte, fu teatro di ben 5 battaglie, in una sorta di sanguinosa pièce teatrale in più atti. La prima (ottobre-novembre 1914) vide la corsa tedesca verso il mare arrestarsi davanti a inglesi e francesi. Un ulteriore attacco fu fermato con grandi perdite da entrambe le parti; da quel momento iniziò la guerra di posizione. La terza, detta anche Battaglia di Passchendaele, fu la più aspra: tra luglio e novembre 1917 inglesi e tedeschi si scontrarono a più riprese per conquistare pochi chilometri di fronte; il 12 luglio fu utilizzato per la prima volta il gas che sarebbe diventato noto come iprite. Il campo di battaglia divenne un desolato mare di fango e buche; la bolgia infernale, che fece 500.000 vittime, si fermò il 6 novembre quando unità canadesi, sotto il diluvio, conquistarono la frazione di Passchendaele, ormai in rovina. Le ultime due battaglie si combatterono nell’aprile e nel settembre-ottobre del 1918.
IL POILU FRANCESE Nell’aprile 1915 era vestito con la divisa in panno colore bleu horizon, ma ancora non aveva l’elmetto, che apparirà di lì a poco.
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San Michele, la Ypres italiana
Fante italiano gassato in una trincea del San Michele.
no a indossare le maschere; molti, sorpresi nel sonno, non si risveglieranno. A colpire, oltre ai vapori di cloro, è il terribile fosgene, letale gas soffocante contro il quale servono a poco anche le rudimentali maschere in dotazione, poco più che garze. Finiti. Gli ungheresi, coi volti coperti dalle maschere in guttaperca (un tipo di gomma),
penetrano nelle trincee e finiscono i moribondi uccidendoli barbaramente con mazze ferrate dalle punte acuminate; non vale neppur la pena di sprecare munizioni. I nemici saranno poi respinti, ma in questo primo attacco con i gas sul fronte italiano caddero quasi 7.000 uomini, di cui 2.000 circa passati dal sonno alla morte.
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Convenzione dell’Aja Le due Convenzioni dell’Aja (1899 e 1907) furono tra i primi tentativi di formalizzare leggi per i tempi di guerra e definire il concetto di crimine di guerra all’interno del diritto internazionale. Riguardo alla guerra chimica le parti si impegnavano “a non usare proiettili il cui unico scopo è quello di spandere gas asfissianti o deleteri”. In particolare l’impiego di “veleni o armi avvelenate” e di “armi, proiettili o sostanze capaci di provocare dolori superflui”. 1a divisione canadese Dopo la dichiarazione di guerra britannica del 1914, il Canada offrì un contingente di 25.000 uomini. A febbraio del 1915 combatteva già in Francia la 1a divisione. La CEF (Canadian Expeditionary Force) arrivò nel 1918 a contare 4 divisioni più i supporti (500.000 uomini).
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DEMONI TEDESCHI
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prio i francesi (in barba alla Convenzione dell’Aja ), con un limitato uso di proiettili d’artiglieria carichi di gas lacrimogeni. Una grave imprudenza la loro, essendo la Germania il massimo produttore di prodotti chimici. Gli stessi tedeschi li avevano impiegati nel gennaio 1915 contro i russi, ma il freddo aveva impedito la vaporizzazione dei componenti. L’ . Anche a Ypres l’uso è ridotto perché il comando tedesco lo ritiene ancora un esperimento e non ha grande fiducia in queste armi, dipendenti dal vento e dunque difficilmente controllabili. È un bene per gli alleati, perché non sono previste grandi riserve da lanciare nel varco aperto tra i francesi. I tedeschi, avanzati solo tre chilometri, una volta raggiunto il loro stesso gas si arresteranno, anche per la paura di caderne a loro volta vittime. Il comandante della 2a armata inglese, Smith-Dorrien, riesce a tamponare le falle creando una barriera difensiva con la 1a divisione canadese , schierata a est, che tiene impegnati i nemici pure il giorno successivo. Il 24 anche i canadesi sono attaccati con i gas, ma usando fazzoletti e stracci imbevuti di acqua e urina riescono a far fronte al cloro e restano sulle loro posizioni. Perdono circa 7.000 uomini, ma resistono tenacemente evitando il collasso di tutto il fronte. Sotto continui attacchi, il saliente di Ypres, ampio 16 km, il giorno 25 è ridotto a soli 5, battuti in continuazione dalla preponderante artiglieria tedesca. È chiaro che non si può resistere oltre e Smith-Dorrien propone un ripiegamento di circa 4 km su posizioni migliori, ma il generale French lo destituisce e mette al suo posto il generale Plumer. Questi, constatata la situazione, non fa altro che seguire alla lettera il piano
“Diavoleria, il tuo nome è Germania!”, scrivono i giornali britannici nel maggio 1915, pubblicando le foto dalle trincee belghe. A lato, uno Small Box Respirator per la protezione dai gas, introdotto dai britannici nel 1916.
di Smith-Dorrien, che French è costretto ad accettare: i primi di maggio gli alleati ripiegano su una linea poco a est di Boesinghe, sfruttando per la difesa anche un largo canale. Sulle nuove posizioni i tedeschi, senza più usare i gas, premono con tutte le armi convenzionali in dotazione fino al 25 maggio, quando desistono senza essere riusciti a sfondare. Nonostante le grandi polemiche internazionali seguite all’uso del gas, a Ypres i tedeschi dimostrano la valenza tattica di queste nuove terribili armi, però sprecano, con un’offensiva limitata, l’opportunità di utilizzarle in modo strategico più massiccio travolgendo il fronte. Ma ormai la guerra è cambiata ed è iniziata l’era delle armi chimiche. L’industria chimica svilupperà sostanze sempre più tossiche, capaci di inabilitare o di uccidere quasi all’istante. SIERRA
SIERRA
È
l’alba del 29 giugno 1916 quando le trincee italiane del Monte San Michele, sul Carso, dove sono in linea i fanti delle brigate “Pisa” e “Regina”, vengono investite da una nube di gas lanciata con apposite bombole dai nemici ungheresi che le fronteggiano. ”Gas, gas!”: nonostante l’avvertimento delle sentinelle pochi riesco-
French John Denton Pinkstone French (1852-1925), primo conte di Ypres, fu un generale britannico. Brillante comandante di cavalleria, nell’agosto 1914 ottenne il comando della BEF (British Expeditionary Force). In disaccordo con altri comandanti, la dispiegò in Belgio e ne rimase al comando nel periodo in cui iniziò la guerra di trincea. Nel dicembre 1915 fu sostituito da sir Douglas Haig.
IL TRIBUTO
ULLSTEIN/ALINARI
Attacco con i gas visto da un aereo: la fanteria segue a breve distanza la nube tossica per sorprendere il nemico. Sotto, il Canadian Memorial a SaintJulien (Ypres). Duemila su 18.000 canadesi morirono tra il 22 e il 24 aprile, riuscendo a mantenere le posizioni nonostante i ripetuti attacchi col gas.
L . . Fu subito chiaro che, di pari passo con l’apparire di queste armi, l’esperienza e l’addestramento dei soldati dovevano essere supportati anche da nuovi mezzi di difesa e furono approntate le prime protezioni antigas: inizialmente semplici tamponi di più strati di garza e poi vere e proprie maschere nelle quali l’aria contaminata passava attraverso appositi filtri prima di essere respirata. Ne esistevano di svariati tipi, sia per uomini sia per gli animali presenti sui campi di battaglia, ma era difficile disporre di maschere e filtri capaci di annullare tutti i diversi agenti chimici, tanto più non sapendo quali il nemico avrebbe usato. In questa spirale di offesa-difesa apparvero nuovi gas sempre più aggressivi come il fosgene, un soffocante, o l’iprite, terribile vescicante. Fu proprio questa, usata negli ultimi due anni di guerra, a causare la maggior parte delle vittime con armi chimiche. I tedeschi ne erano i principali produttori e utilizzatori: nel 1918 il 50% dei proiettili delle artiglierie tedesche era caricato con Gelbkreuzkampfstoff (materiale da combattimento a croce gialla), come i tedeschi definivano l’iprite. Furono studiati anche metodi sempre più facili e sicuri per spargere i gas: dai proietti d’artiglieria a bombole con aspersori, fino ai proiettori Livens ideati dagli inglesi e poi adottati anche dal nemico, da usarsi in vere e proprie “batterie” con centinaia di pezzi. Ma neanche le armi chimiche di distruzione di massa salveranno gli Imperi centrali dal tracollo. !
L’iprite
Y
pres dà il nome anche a uno dei gas più terribili impiegati nel conflitto: l’iprite, detto anche “gas mostarda” per il suo caratteristico odore di senape. Impiegato dai tedeschi nel luglio 1917, è un vescicante di grande potenza a base di tioetere di cloroetano: 0,15 mg per lt/aria sono letali in 10 minuti. Liposolubile, entra nella pelle aprendo piaghe devastanti e provocando gravissimi danni anche all’apparato respiratorio. È subdolo, perché non fa male al contatto, e fortemente penetrante: passa anche attraverso tessuti, cuoio e gomma. L’elevata persistenza e stabilità nell’aria e le gravi lesioni che provoca lo rendono da subito innovativo. Conseguenze. Il 12 luglio gli inglesi, colpiti da migliaia di proiettili con questo gas, perdono circa 3.000 uomini. Quelli colpiti agli occhi diventano ciechi in pochi minuti, altri sono mutilati dalle piaghe o muoiono dopo che i vapori, entrati nel circolo sanguigno, distruggono i globuli rossi.
Stefano Rossi
SAPE SA PERN PE RNEE DI PPIÙ IÙ
GETTY IMAGES
Livens Inventati dal capitano del genio inglese William H. Livens, erano tubi di lancio da 18 cm interrati con inclinazione di 45°, con accensione elettrica che dava l’impulso per lo scoppio. Per il lancio simultaneo delle bombole di gas se ne potevano interrare parecchie centinaia, collegati tutti tra loro sempre elettricamente. Le batterie Livens potevano lanciare alte concentrazioni di gas a grandi distanze e furono subito copiate dai tedeschi, con i Gaswurfminen.
Le battaglie di Ypres, Alessandro Gualtieri (Mattioli 1885 Ed.). Come le nuove tecnologie entrano in campo sterminando un quarto di milione di soldati.
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LA GRANDE GUERRA 1915 L’OFF FENSIVA DI GOR RLIC CE--TA ARN NÓW
IN TRINCEA Fanteria tedesca in trincea sul fronte orientale agli inizi del 1915. Dopo fasi alterne, la grande offensiva di GorliceTarnów ricacciò le truppe russe da tutti i territori conquistati l’anno prima. A destra, il generale tedesco August von Mackensen, comandante dell’11a armata, qui in divisa del Leib-HusarenRegiment, gli “ussari della morte”.
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SUL FRONTE ORIENTALE in dall’inizio della guerra, per gli Imperi centrali era chiaro che il fronte principale sarebbe stato quello occidentale, dove le forze francesi e quelle del BEF (British Expeditionary Force) erano reputate avversari ben più temibili dei russi. Quello orientale era giudicato dal capo di Stato Maggiore tedesco, il generale von Falkenhayn , di puro contenimento. Non era così, tuttavia, per il suo omologo austriaco, Conrad von Hötzendorf, né per i due responsabili del settore, von Hindenburg e il suo capo di Stato Maggiore von Ludendorff: costoro avevano invece buoni motivi per premere affinché sul fronte orientale si compissero sforzi maggiori. All’inizio del 1915 si arrivò a una soluzione di compromesso: una doppia offensiva contro i russi, i tedeschi a nord nella Prussia Orientale, e gli austriaci a sud in Galizia, ma senza i rinforzi auspicati dai comandanti, che Falkenhayn non intendeva sottrarre al fronte occidentale. E andò come era prevedibile: i tedeschi ottennero un successo limitato nella seconda battaglia dei Laghi Masuri mentre, nel meridione, agli austriaci andò anche peggio. Conrad fallì nel suo tentativo di avanzare attraverso i valichi dei Carpazi, dove i soldati non furono neppure in grado di sparare per il gelo che bloccava gli otturatori dei fucili, e in quello di liberare dall’assedio la fortezza di Przemyśl in Galizia, la cui guarnigione dovette arrendersi a marzo. Le operazioni austriache offrirono ai russi perfino la possibilità di un contrattacco, che però abortì a metà aprile per le alluvioni provocate dal gelo primaverile. Tuttavia, dall’inizio dell’anno gli austriaci avevano perso ben 750.000 uomini tra morti e feriti, e la prospettiva dell’entrata in guerra dell’Italia lasciava prevedere un imminente collasso dell’AustriaUngheria. A quel punto, Falkenhayn
non aveva più scelta: doveva puntellare le fragili posizioni dell’alleato e modificare la strategia con cui gli Imperi centrali avevano intrapreso e condotto la guerra per tutto il 1914. Si trattava di una decisione gravida di conseguenze, che implicava una dispersione di forze e un automatico prolungamento del conflitto, e si capisce come il comandante supremo tedesco abbia a lungo esitato a prenderla. Ma in guerra, spesso, la politica e le rivalità personali prevalgono sulle necessità puramente militari, e il capo di Stato Maggiore tedesco non intendeva semplicemente darla vinta a Hindenburg. Destinò pertanto otto divisioni di rinforzo alla costituzione di una nuova armata, la 11a, che combinò con la 3a di Boroevic e la 4a dell’arciduca Giuseppe Ferdinando, entrambe austriache, sotto il comando indipendente di von Mackensen; pose così le operazioni e ben 300.000 uomini sotto il controllo tedesco, ma non sotto l’egida del duo Hindenburg/Ludendorff. Il gruppo di armate Mackensen, schierato nella zona di Cracovia, doveva sfruttare la superiorità numerica ottenuta sulla 3a armata russa del generale Dimitriev, costituita da 56.000 effettivi, per sfondare nel settore tra Gorlice e Tarnów. G . . Anche i russi, d’altra parte, avevano le loro beghe interne. Dopo la caduta di Przemyśl, infatti, pianificavano un’offensiva sul fronte meridionale, nei Carpazi, senza riuscire a mettersi d’accordo sulle modalità. Ciascuno dei due comandanti, Alekseev nel settore nord, Ivanov in quello sud, considerava il proprio come il fronte principale, e quando la Stavka, il quartier generale delle forze armate russe, guidato dal granduca Nicola , decise di concentrare gli sforzi nel meridione, il primo non ne volle sapere di privarsi di truppe a favore del secondo. Questo era uno dei Granduca Nicola Romanov (18561929), cugino dello zar Nicola II, era il comandante in capo dell’esercito russo, incarico perso dopo Gorlice e la cosiddetta “Grande ritirata”, in seguito allo sfondamento tedesco del fronte est. SIERRA
Erich von Falkenhayn (1861-1922) Capo di Stato Maggiore tedesco, sostenne la preminenza del fronte occidentale fino al massacro di Verdun (inizio del 1916), un fallimento che causò la sua sostituzione con Hindenburg.
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IN LINEA Artiglieria tedesca sul fronte orientale nel 1915.
Che cosa cambia: il bombardamento preventivo
ULLSTEIN/GETTY IMAGES
I
l 1914 moltiplica esponenzialmente il numero dei caduti durante l’attacco a una posizione nemica. All’inizio della guerra, nel 1914, questa era ancora giocata sul movimento. Solo dopo la Prima battaglia di Ypres (ottobre-novembre 1914) le linee si impantanarono nelle trincee della guerra di logoramento, con i sistemi fortificati da filo spinato, con la fanteria che andava all’attacco senza alcuna protezione o copertura, contro avversari ben protetti e in grado di sparare 15 colpi al minuto con i fucili, 600 con una mitragliatrice e 20 con un pezzo di artiglieria; oltre a questo, si avanzava su un terreno pieno di ostacoli, dallo stesso filo
spinato ai crateri provocati dalle granate. L’evidente sbilanciamento tra offesa e difesa (in pochi minuti poteva essere annientato un battaglione di un migliaio di uomini) suggerisce ai comandi di utilizzare l’artiglieria pesante per bombardare le posizioni nemiche prima dell’attacco, diminuendo così le loro capacità di difesa. Nuova tattica. Nel corso del 1915, gli attacchi di fanteria iniziano pertanto a essere preceduti dal fuoco costante e martellante di cannoni, obici e mortai per aprire vuoti tra i difensori nelle trincee, ma anche per distruggere nidi di mitragliatrice e filo spinato, consentendo agli attaccanti di avanzare più speditamente.
Ma nei primi tempi la disponibilità di bocche da fuoco è insufficiente per un bombardamento a tappeto e l’artiglieria è spesso difettosa, con proiettili che non esplodono; se anche consente agli attaccanti di conquistare la prima linea di trincee, spesso non impedisce alle riserve dalle retrovie nemiche di contrattaccare con successo. Solo in seguito la potenza del fuoco di sbarramento si estende anche alle linee di difesa successive, incrementando le tecniche di fuoco indiretto, ovvero su obiettivi al di là della linea di visibilità. Il fuoco di sbarramento che introduce l’Offensiva di Gorlice-Tarnów dura solo quattro ore, ma riesce a
incidere sulle capacità di difesa dei russi solo perché le loro trincee sono molto semplici e lineari. Sul fronte occidentale ci vuole ben altro. Con il trascorrere del tempo le potenze dell’Intesa e degli Imperi centrali si rendono sempre più conto dell’utilità del bombardamento preventivo; gli inglesi iniziano il conflitto con 6 cannoni ogni 1.000 fanti e lo concludono con 13, i francesi passano da 4 a 13, i tedeschi da 6 a 11. Anche i tempi si incrementano di offensiva in offensiva: già nel 1916, la Battaglia della Somme verrà inaugurata dal fuoco di quasi 3.000 cannoni anglo-francesi per una settimana di fila.
motivi per cui era fallita la controffensiva russa di aprile; ma l’atteggiamento poco collaborativo del responsabile del fronte settentrionale avrebbe pesato ancor di più in termini difensivi, lasciando virtualmente sola la 3a armata a sostenere il peso dell’attacco austro-tedesco. E come se non bastasse, i russi ignorarono il concentramento di forze nemiche nella zona di Cracovia per perseguire i loro piani offensivi nei Carpazi; Dimitriev rinunciò quindi a incrementare le difese dei suoi uomini, esponendoli di fatto al micidiale fuoco dell’enorme parco artiglierie di Mackensen (v. riquadro nella pagina di destra). F . . L’offensiva iniziò con una serie di attacchi diversivi lungo tutto il fronte orientale per confondere i russi, che tutto
sommato lo erano già più che a sufficienza. Poi toccò all’artiglieria, che il 1° maggio 1915, per quattro ore, riversò sulle posizioni nemiche un impressionante sbarramento di fuoco su un fronte di 50 chilometri. In poche ore le inconsistenti trincee russe si ridussero a un ammasso di macerie, detriti e corpi dilaniati. I difensori erano così a corto di munizioni che i loro artiglieri vennero autorizzati a sparare non più di due colpi al giorno per ciascuno dei 145 cannoni disponibili. I poveri fanti non avevano altra scelta che ritirarsi, ma neppure questo garantì loro la salvezza: molti vennero raggiunti dagli Shrapnel dei cannoni da campo. Shrapnel Proiettile di artiglieria progettato con funzioni antiuomo, formato da un’ogiva metallica contenente un gran numero di sferette annegate in esplosivo ad alto potenziale.
ASSEDIO INUTILE
G.ALBERTINI (2)
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Batteria russa nell’assedio della fortezza austriaca di Przemyśl (Galizia, dall’autunno 1914 al marzo 1915). I russi la conquistano, per abbandonarla però a giugno, dopo lo sfondamento austro-tedesco di Gorlice-Tarnów.
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La battaglia. Il bombardamento a tappeto del 1° maggio devastò le trincee russe per un fronte di 50 km, costringendo i difensori a ripiegare e aprendo il giorno seguente la strada all’attacco della fanteria austro-tedesca. In due giorni gli Imperi centrali guadagnarono una fascia di 25 km di profondità, che si estese a 130 nell’arco di due settimane, sfondando il 14 le difese russe sul fiume San e penetrando in Galizia. Il 4 giugno gli austro-tedeschi raggiunsero Przemyśl e il 22 si spinsero fino a Lemberg, concludendo di fatto l’offensiva partita nel settore di Gorlice-Tarnów. La seconda fase. La debolezza delle difese russe spinse gli austro-tedeschi a proseguire l’offensiva sul fronte settentrionale in luglio. Il 7 i russi evacuarono la riva sinistra della Vistola e nell’arco di un mese dovettero abbandonare l’intera Polonia. Il 5 agosto gli avversari entrarono a Varsavia.
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Linea all’inizio della seconda fase, luglio 1915
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Linea al sopraggiungere dell’offensiva principale, primi giorni del settembre 1915 ROMANIA
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Direzione dei principali attacchi tedeschi
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Linea all’inizio dell’offensiva tedesca, maggio 1915
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Sproporzione di forze. All’inizio dell’offensiva Mackensen comandava l’11a armata tedesca e controllava pure la 4a armata austriaca. A giugno prese il controllo della 2a armata austriaca e della neonata Bug-Armee (dal nome del fiume Bug, che scorre fra Ucraina e Polonia), che fu formata dalle ceneri dell’Armata del Sud l’8 luglio del 1915, per contrastare la Russia sul fronte orientale. Gli Imperi centrali disponevano di 334 cannoni pesanti contri i 4 della Russia, di 1.272 cannoni da campagna contro i 675 russi e di 95 mortai da trincea contro nessuno. Secondo lo storico scozzese Hew Strachan si trattava «del concentramento di artiglieria più massiccio mai visto fino ad allora: un cannone pesante ogni 120 metri e un cannone da campagna ogni 41».
G. ALBERTINI (2)
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RUSSI E TEDESCHI Sopra, un fante russo del 1915 e, a lato, un fante prussiano con l’uniforme del 1914 e l’elmo chiodato Pickelhaube. Fu sostituito dallo Stahlhelm (l’elmetto d’acciaio usato anche nella Seconda guerra mondiale) nel 1916, dopo uno studio sulle ferite alla testa nella guerra di trincea. A sinistra, i russi con la mitragliatrice pesante PM M1910 su affusto Sokolov, la loro versione della famosa Maxim. Funzionava con raffreddamento ad acqua.
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SIERRA (2)
ÜBER ALLES
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A lato, fanti tedeschi appostati. Il fucile è l’ottimo Mauser Gewehr 98. Sopra, l’arciduca Giuseppe Ferdinando durante la guerra. Sotto, Pickelhaube (elmo chiodato) prussiano, in feltro pressato. Il chiodo poteva essere rimosso in combattimento.
L’O OFFEN NSIV VA AUST TRO OTE EDESC CA PRO OVOC CÒ IL CR ROLL LO DEL LL’IINT TER RO FRON N TE RUSSSO E LA A PE ERD DIT TA DAPPRIIMA DE ELLA A GALIZ Z IA A, POII DEL LLA A POL LONIA A Il 2 maggio fu il turno dei soldati. I tedeschi, preceduti dai gas collaudati a Ypres, costituirono il cuneo, avanzando e spazzando via la debole resistenza del nemico, mentre gli austriaci proteggevano loro i fianchi. In due giorni i russi furono costretti a retrocedere di 25 chilometri, e a poco valse il tentativo di intervento delle armate più vicine, la 4a e la 8a. Il granduca autorizzò l’utilizzo delle riserve, ma molti soldati erano privi di munizioni e perfino di fucili, e potevano solo sperare di raccogliere l’arma di un commilitone caduto. Il loro afflusso al fronte non fece che incrementare il numero delle perdite, gettando allo sbaraglio altre decine di migliaia di combattenti mal diretti e peggio organizzati. I russi provarono ad attestarsi sul Dunajec e sul Biala, ma persero anche queste posizioni e dovettero ripiegare lungo il fiume San, ben 130 chilometri più indietro rispetto alla linea tenuta all’inizio della battaglia. C’era spazio solo per sporadiche dimostrazioni di coraggio da parte della cavalleria, come quella avvenuta il 10 maggio per opera dei 90 squadroni del III corpo a Balamutovka-Ržavency, quando una carica con le sciabole protese in avanti procurò ai russi la cattura di 4.000 nemici e 10 cannoni. I “ ””. Ma il caos generale che regnava tra le loro file consentì agli austro-tedeschi già il 14 maggio di sfondare anche la linea del San a Jaroslav e di puntare al 56
cuore della Galizia, a quella stessa Przemyśl perduta solo il 22 marzo, poco più di due mesi prima. Il 4 giugno la sua guarnigione fu costretta alla resa senza poter fare resistenza: ormai neppure l’entrata in guerra dell’Italia, avvenuta nella settimana precedente, poteva salvare i russi dalla disfatta. Con la caduta di Lemberg il 22 giugno, la battaglia passata alla Storia col nome di Gorlice-Tarnów poteva dirsi conclusa, al costo di un milione di perdite per i russi e di 90.000 caduti tra gli austro-tedeschi; il granduca Nicola non poté far altro che evacuare la Galizia per proteggere almeno la Polonia, sancendo la perdita di tutti i territori acquisiti dall’esercito zarista nel 1914. Fosse stato per Falkenhayn, era già tanto. Il capo di Stato Maggiore tedesco, ben sapendo quanto fosse difficile arrivare nel cuore della Russia e rimanervi, ritenne di aver fatto sufficientemente male al nemico. Tanto da indurlo a una pace separata, magari con qualche concessione territoriale. Ma il clamoroso successo della sua offensiva spinse la Germania a perseguire piani più ambiziosi: d’altra parte, visto lo sbandamento russo, la Polonia e le province baltiche sembravano a portata di mano. Non a caso, ai tedeschi bastò concentrare le forze sul fronte settentrionale, con due direttrici di avanzata, da nord e da sud, per penetrare in Polonia. Sotto la pressione avversaria, il 7 luglio i russi sono costretti a evacuare la riva sinistra della Visto-
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GLI SCONFITTI Sopra, prigionieri russi dopo l’offensiva. A destra, il bulgaro Radko Dimitriev (1859-1918): fu capo di Stato Maggiore dell’esercito bulgaro a inizio secolo e poi generale dell’esercito russo durante la Grande guerra.
la e meno di un mese dopo dovettero sgombrare l’intera Polonia, pur riuscendo a salvare gran parte delle truppe dal tentativo di accerchiamento nemico; il 5 agosto i tedeschi entrarono a Varsavia. A settembre i russi avevano perso una fascia di territorio profonda 500 km e subito due milioni di perdite. Lo zar Nicola II destituì il granduca Nicola assumendo personalmente il comando delle operazioni e mettendo Alekseev a capo della Stavka; il nuovo capo di Stato Maggiore costituì un altro fronte, da Riga fino alla Romania, privo di salienti difficili da difendere, come in precedenza, e accorciato di 800 km rispetto ai 1.800 di maggio. S . Per i tedeschi, che hanno subito a loro volta centinaia di migliaia di perdite, è lecito chiedersi se ne sia valsa la pena. Il loro sforzo ha solo reso il fronte nemico più stabile e difendibile, prolungando oltre misura il conflitto a Oriente. In guerra capita spesso che una vittoria, pur netta, non consenta a chi l’ha ottenuta di raggiungere i risultati prefissati; pertanto, Gorlice-Tarnów si potrebbe considerare una sconfitta per gli Imperi centrali. Ma ciò è vero per molte delle offensive “vincenti” nella Grande guerra che, a fronte di un enorme dispendio di risorse materiali e umane, hanno conseguito obiettivi minimi e perfino controproducenti. % Andrea Frediani
SAPE SA PERN PE RNEE DI PPIÙ IÙ La prima guerra mondiale, Hew Strachan (Mondadori). Lo storico militare scozzese parte dall’excursus generale per esaminare anche il conflitto a est.
LA GRANDE GUERRA 1915 LA CAMPAGNA DELL’AFRICA ORIENTALE
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CON I l conflitto scoppiato tra i grandi imperi europei ai primi di agosto del 1914, che aveva finito per coinvolgere nel novembre successivo anche l’Impero ottomano, per la natura stessa dei belligeranti non poteva che assumere una dimensione mondiale. Il cuore della potenza britannica era il controllo esercitato, grazie alla Royal Navy, sulle rotte commerciali transoceaniche; l’unica minaccia possibile a tale dominio marittimo – a parte la guerra sottomarina, sostanzialmente limitata alle acque più prossime ai porti inglesi e francesi – poteva venire dall’azione delle navi corsare, che avevano però bisogno di basi amiche dove rifornirsi di carbone, acqua, viveri e munizioni. Il valore strategico delle poche e isolate colonie germaniche era limitato a questo, all’inizio delle ostilità, di conseguenza la minaccia costituita dalla presenza dell’incrociatore leggero SMS Königsberg nel porto di Dar es-Salaam fu sufficiente ad attirare l’attenzione di Londra sull’Africa Orientale Tedesca, un territorio altrimenti del tutto privo di importanza nel quadro complessivo della guerra. L . . Nel titanico orizzonte del conflitto mondiale la lotta per l’Africa Orientale Tedesca può sembrare un episodio del tutto secondario. Il territorio della colonia – corrispondente, grossomodo, agli attuali stati di Ruanda, Burundi e Tanzania – era vastissimo, sostanzialmente privo di risorse, completamente isolato dalla madrepatria e difeso da una minuscola Schutztruppe (“forza di protezione”) di 14 Feldkompanien , per un totale di 260 tra ufficiali e sottufficiali teSchutztruppe e Feldkompanien La S. era l’esercito coloniale germanico, suddiviso in compagnie indipendenti costituite da 7 o 8 ufficiali e sottufficiali tedeschi e circa 160 ascari. Prima del 1914 l’unità Schutztruppe di base nelle colonie africane era una Feldkompanie di 7 o 8 ufficiali e sottufficiali tedeschi con circa 160 ascari.
SCHUTZTRUPPE Ufficiali imperiali in tenuta coloniale, ascari e un marinaio della Kaiserliche Marine a una stazione per segnalazioni con l’eliografo. A sinistra, Paul Emil von LettowVorbeck, capo della Schutztruppe dell’Africa Orientale Tedesca.
L A LO OT TA A SI SPO OSTA A SU UN NUOVO TER RRENO, LE E COLONIE, D OVE E LA A GUER RRIG GLIA A ENT TR A NELLA A STR ATE EGIA DEL LLE GR AN NDI POTE ENZ E
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WZ-BILDDIENST/ANSA
TEDESCHI
RUGARUGA
Indian Army L’armata dell’India al tempo del Raj britannico, l’Impero anglo-indiano (1858–1947): era composta da brigate miste di battaglioni indiani e britannici.
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IL GENERALE VON LETTOW SI ARRENDE SOLO DUE SETTIMANE DOPO LA FINE DELLE OSTILITÀ IN EUROPA
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deschi e circa 2.500 ascari, dispersi su quasi un milione di chilometri quadrati. La situazione sembrava talmente priva di speranza, dal punto di vista militare, che il governatore Heinrich Schnee si adoperò per evitare ogni inutile spargimento di sangue, tentando inizialmente di mantenere la colonia fuori dal conflitto, e preparandosi poi a trattare una resa onorevole. Non aveva però fatto i conti con il carattere del colonnello Paul von Lettow-Vorbeck, comandante della Schutztruppe, in teoria suo subordinato, convinto di dover compiere fino in fondo il proprio dovere impegnando il maggior numero possibile di forze nemiche finché avesse avuto un solo reparto efficiente ai propri ordini. Contro ogni aspettativa, e probabilmente contro le più ottimistiche previsioni dello stesso von Lettow, cominciò allora quella che è stata definita dallo storico britannico Edwyn Hoyt “la più vasta operazione di guerriglia della Storia, e la più riuscita”: la Schutztruppe riuscì a tenere il campo fino all’autunno del 1918, e depose le armi solo quando von Lettow venne informato, dai suoi stessi nemici, che la guerra in Europa era ormai terminata e la Germania si era arresa. LA B B T . Il primo episodio di rilievo della campagna fu l’attacco britannico contro la cittadina costiera di Tanga, secondo porto dell’Africa Orientale Tedesca e capolinea di una delle due ferrovie della colonia. Il corpo di spedizione agli ordini del generale Aitken, proveniente dall’India e forte di circa 8.000 uomini, prese terra senza incontrare opposizione il 3 novembre 1914; ma quando, il giorno successivo, Aitken diede ordine di conquistare il piccolo insediamento, gli uomini dell’ Indian Army vennero colti di sorpresa dall’ostinata resistenza di sole sei compagnie della Schutztruppe (un migliaio di uomini), e falciati dal preciso fuoco di fucileria e mitragliatrici. Alcuni reparti della 27a Bangalore Brigade si fecero prendere dal panico quando gli ascari germanici contrattaccarono alla baionetta lanciando le loro grida di guerra; ben presto la fuga divenne generale, e Aitken ordinò alle truppe di reimbarcarsi, abbandonando a terra ingenti quantità di armi e munizioni. La vittoria ebbe l’effetto di rafforzare enormemente il morale della Schutztruppe; cosa ancora più importante, con il bottino catturato a Tanga von Lettow riuscì a equipaggiare numerose nuove Feldkompanien, portando attorno alla metà del 1915 il piccolo esercito della colonia alla sua forza massima di circa 11.000 ascari e 3.000 europei. Il comandate tedesco aveva ben chiari quelli che potevano essere, realisticamente, gli obiettivi della sua campagna: non solo organizzare la difesa della colonia, ma prolungare la lot-
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1914, ascari dell’Africa Orientale Tedesca (l’attuale Tanzania) fanno esercitazioni di tiro. Erano soggetti a una rigorosa selezione. Sotto, irregolari tribali. I tedeschi fecero spesso ricorso a questi mercenari indigeni dell’Africa Orientale, i rugaruga.
1914-1918 LA A GUER RR A IN N AFRICA A IMPERO OTTOMANO
TUNISIA
MAROCCO
ALGERIA
RIO DE ORO
LIBIA EGITTO PENISOLA ARABA
AFRICA OCCIDENTALE FRANCESE GUINEA PORT. SIERRA LEONE LIBERIA
NIGERIA
COSTA D’ORO
AFRICA EQUATORIALE FRANCESE
SUDAN ANGLO EGIZIANO
Kamina Douala
CAMERUN Invasioni di francesi e inglesi; RIO MUNI spagnola il 26 resa dei tedeschi CONGO Settembre 1914 FRANCESE
CONGO BELGA
Oceano AFRICA ORIENTALE TEDESCA
Gli Alleati prendono Douala, segue una lunga campagna. Resa dei tedeschi il 18 febb. 1916
N. RODESIA
Impero ottomano Possedimenti tedeschi Possedimenti belgi Possedimenti italiani Impero britannico
Oceano
AFRICA SUDOCC. TEDESCA
Atlantico
Agosto 1914
AFRICA ORIENTALE PORT.
S. RODESIA MADAGASCAR
Windhoek
UNIONE DEL SUDAFRICA
I tedeschi si ritirano nella capitale Windhoek. I sudafricani la prendono il 20 maggio 1915; resa tedesca il 9 luglio
1914-1918 Lunga campagna, combattuta dalle forze tedesche fino nell’Africa orientale portoghese
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P. GHISALBERTI
Dar es-Salaam
BECHUANALAND
Possedimenti portoghesi Zona di conflitto
Indiano
ANGOLA
Possedimenti francesi
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GLI ASCARI Nella foto, artiglieri coloniali tedeschi. In Africa le Schutztruppen avevano una miscellanea di pezzi d’artiglieria, spesso obsoleti. A lato, un ascaro (o askari, termine arabo che significa “soldato”) del Mozambico, allora colonia portoghese, del 1915 e (quello calzato) un ascaro dell’Africa Orientale Tedesca (oggi Tanzania) del 1914. In alto, un fuciliere dei King’s African Rifles, i reparti britannici reclutati nei possedimenti subsahariani inglesi Nyasaland, Kenya, Uganda e Somalia britannica.
N
SOMALIA FR. SOMALIA BR. ABISSINIA . IT A I AL AFRICA M O ORIENTALE S INGLESE
TOGO
6-8 agosto 1914
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ERITREA
L’Afri rica aall’ini nizioo de del ’9 ’900 00 era suddivisa in zone di influenza sotto l’egida delle grandi potenze europee. L’obiettivo delle potenze alleate era quello di conquistare le colonie dell’Impero tedesco. Ecco perché la Prima guerra mondiale ebbe la sua estensione africana in una serie di azioni belliche che si concentrarono sul Togo, il Camerun, l’Africa Sudoccidentale Tedesca (l’odierna Namibia) e l’Africa Orientale Tedesca (corrispondente agli attuali stati di Tanzania, Ruanda e Burundi). Solo la vasta Africa Orientale resistette fino al 1918, le altre colonie vennero occupate nei primi due anni di guerra. Azioni minori ci furono anche in Libia e in Marocco. La Ca Camp mpag agna na ddell’l’Af Afri rica ca Orien entale le Ted edes esca si risolse in un’azione di guerriglia guidata dal colonnello Paul Emil von LettowVorbeck. Durò fino alla fine del conflitto e registrò due battaglie con un alto numero di perdite (quella di Tanga, di cui parliamo nell’articolo, e quella di Jassin). Il comandante tedesco si ispirò alle tattiche utilizzate dai boeri in Sudafrica all’inizio del secolo, dove pochi combattenti irregolari avevano messo in grave difficoltà l’esercito britannico. Anche se la fase africana del conflitto fu marginale, lo fu molto meno l’apporto del continente alla Prima guerra mondiale: circa 200mila africani furono inviati a combattere nelle trincee in Europa e altri 300mila furono impegnati nella contesa per le colonie tedesche. In definitiva, i soldati africani, gli ascari, pagarono anch’essi un pesante tributo di sangue.
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Gastone Breccia Thomas E. Lawrence O Lawrence d’Arabia (1888-1935), l’ufficiale inglese della guerriglia contro i turchi condotta nella Penisola Arabica dagli arabi di re Faisal. Cacciò gli ottomani da Suez e appoggiò la campagna di Allenby in Palestina, entrando per primo con i suoi beduini a Damasco (1918).
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A
ll’inizio del 1915, nel tentativo di trovare una soluzione strategica alternativa allo stallo sul fronte occidentale, il Primo Lord dell’Ammiragliato Winston Churchill riuscì a far approvare dal War Cabinet britannico il piano per un ambizioso attacco anfibio al “ventre molle” della coalizione nemica, l’Impero ottomano.
L’idea era di sbarcare un forte corpo di spedizione sulla penisola di Gallipoli, all’imboccatura occidentale dei Dardanelli, da dove poi puntare su Istanbul: la Turchia sarebbe stata costretta in breve a chiedere la pace, garantendo alle forze dell’Intesa un successo di enorme prestigio e grandi prospettive di ulteriori sviluppi favorevoli nei Balcani. Fiasco. Ma l’operazione, lanciata il 25 aprile del 1915, non andò secondo i piani. Errori umani (il contingente australiano e neozelandese, per esempio, venne portato a terra in un luogo sbagliato) ed enormi difficoltà logistiche giocarono la loro parte; ma fu la tenace resistenza della V armata ottomana, guidata dal generale tedesco Otto Liman von Sanders, e soprattutto della 19a divisione agli ordini di Mustafa Kemal – il futuro Atatürk (nella foto), il creatore del moderno Stato turco – a rendere vani tutti gli sforzi britannici. Dopo otto mesi e mezzo, gli ultimi reparti del corpo di spedizione vennero reimbarcati tra il 7 e l’8 gennaio 1916, ponendo fine a una delle più dure e controverse campagne della Grande guerra – oltre che, momentaneamente, alla carriera politica di Winston Churchill.
I SOLDATI DELLE COLONIE DANNO ALLE POTENZE EUROPEE UN CONTRIBUTO ALTISSIMO IN VITE UMANE LA FORZA AEREA 1915, ascari delle truppe coloniali tedesche davanti a un aeroplano. La Schutztruppe poteva contare su una forza aerea di due biplani, un Aviatik e un Roland al comando del tenente Alexander von Scheele.
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Il disaastrro di Galllipo olii
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ta il più a lungo possibile, e così facendo indurre i britannici a inviare in quel teatro di guerra secondario uomini e materiali in quantità sempre maggiore, privandosi di risorse che sarebbero state molto più utili altrove. Per riuscire in un simile intento, come leggiamo nelle sue memorie, “bisognava considerare che le forze avversarie si sarebbero lasciate trattenere solo se noi avessimo attaccato, o almeno minacciato il nemico in qualche punto per lui davvero importante”, come la Uganda railway – l’arteria principale dell’Africa britannica – che correva a poche giornate di marcia dal confine, e quindi alla portata delle mobilissime compagnie di ascari della Schutztruppe. Per questo, durante buona parte del 1915, le Feldkompanien tennero un atteggiamento aggressivo, mettendo continuamente in pericolo la sicurezza della vitale linea di comunicazione che univa Mombasa, sull’Oceano Indiano, al Lago Vittoria, e costringendo i britannici a presidiare o pattugliare centinaia di chilometri di strada ferrata. S . Von Lettow sapeva di non poter vincere; come molti altri combattenti irregolari prima di lui, era consapevole che la sua vittoria dipendeva da ciò che fossero riusciti a fare altri eserciti su altri fronti di guerra. Ma poteva impegnare il nemico e imporgli costi umani ed economici altissimi, comunque del tutto sproporzionati all’importanza della posta in gioco. Per riuscire nel suo compito, von Lettow utilizzò a proprio vantaggio tutte le possibilità della guerriglia, basata sulla mobilità e sulla sorpresa, e soprattutto, nel suo caso, sullo sfruttamento dello spazio. Durante quattro anni di lotta costrinse gli Alleati a mettere in campo oltre 100.000 uomini: ma ne sarebbero stati necessari molti di più per limitare davvero la libertà di movimento degli ascari della Schutztruppe nella vastità selvaggia del bush africano. È interessante notare come von Lettow non fosse un guerrigliero per vocazione, ma in un certo senso avesse fatto di necessità virtù. Colse perfettamente le possibilità strategiche della campagna in Africa Orientale, ma non fu altrettanto abile e coerente sul piano tattico: troppo spesso, infatti, cercò soluzioni di forza, per le quali non aveva né uomini né mezzi adeguati, andando incontro a perdite difficili da rimpiazzare. Mentre negli stessi anni Thomas Edward Lawrence , in Arabia, rifuggiva sempre dal combattimento, ritenendo del tutto inutile “uccidere turchi”, von Lettow continuava a considerare lo scontro campale come il mezzo migliore, e forse insostituibile, per tenere in costante apprensione il nemico; restava convinto anche della necessità morale di affrontarlo a viso aperto, sia per mantenere vivo lo spirito marziale delle proprie truppe, sia per intimidire quelle avversarie. In questo, dimostrava di essere un ufficiale europeo di vecchia scuola: un maestro della guerra irregolare, ma professionalmente incline all’uso diretto della forza, quando si fosse presentata l’occasione. La campagna della Schutztruppe resta comunque un modello di risolutezza e di efficacia: poche altre volte, nella storia militare, si può osservare una così evidente sproporzione tra le risorse disponibili e i risultati ottenuti applicando i principi fondamentali della guerriglia. (
Cacccia allla naave co orsaraa
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IN AZIONE
il cargo City of Winchester, una delle prime vittime di una nave corsara tedesca; in seguito non ebbe molta fortuna, tanto che il 20 settembre 1914 il capitano Loof decise di attaccare il porto di Zanzibar, dove sorprese e affondò il piccolo incrociatore britannico HMS Pegasus. In trappola. A corto di carbone e con una caldaia danneggiata dopo lo scontro vittorioso, il Königsberg fu costretto a rifugiarsi nell’estuario del fiume Rufiji, dove venne bloccato dalla squadra navale del contrammiraglio King-Hall. La sua semplice esistenza continuava a costituire una
grave minaccia per il nemico; soltanto nel luglio 1915, quando arrivarono in Africa Orientale due pontoni corazzati a basso pescaggio, armati con due cannoni da 6 pollici ciascuno, l’incrociatore Königsberg venne raggiunto e danneggiato al punto da costringere il capitano Loof a ordinarne l’autoaffondamento. Non prima però di aver trasferito a terra i pezzi d’artiglieria ancora efficienti, mettendoli a disposizione della Schutztruppe del generale von Lettow, con la quale i marinai superstiti continuarono a combattere fino alla fine della campagna in Africa Orientale.
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Sopra, pattuglia di ascari che aveva partecipato agli attacchi contro la Uganda Railway nel luglio 1915. Lo stesso mese l’incrociatore Königsberg (a destra), dislocato nell’Africa Orientale Tedesca, viene affondato da unità britanniche nel delta del fiume Rufiji. A lato, berretto da sottufficiale della Schutztruppe dell’Africa Sudoccidentale e (sotto) Seitengewehr (baionetta) 1871/84 istoriata, con fodero.
incrociatore leggero SMS Königsberg – varato nel 1905, 3.600 tonnellate di stazza, 10 cannoni da 105 mm e 322 uomini di equipaggio, capitano di fregata Max Loof – venne inviato a Dar es-Salaam nel giugno del 1914 in vista di una possibile missione corsara nell’Oceano Indiano. Soprannominato dagli abitanti del luogo “Manowari no bomba tatu”, “la nave da guerra dai tre fumaioli”, immediatamente prima dello scoppio delle ostilità l’incrociatore prese il mare per sottrarsi alla sorveglianza britannica. Il 6 agosto il Königsberg intercettò e affondò al largo di Aden
SAPE SA PERN PE RNE DI PPIÙ IÙ
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Guerrilla, E. Hoyt (Res Gestae). L’arte della guerriglia, G. Breccia (Il Mulino).
UNIFORMOLOGIA
I GUERR RIER RI DE EL GIA APPO ONE E FEU UDAL LE VIVEVANO DI RITUALI C UR AN NDO O LA SP PAD DA CO OME LA LORO ANIMA
LA CASTA DEI
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aburau, “servire”. Da questo verbo deriva il nome samurai, i “servi” guerrieri delle isole giapponesi. I loro costumi e le loro armi avevano una unicità che li distingueva da altri guerrieri medievali. Al pari dei popoli delle steppe, dei Mongoli e dei Cinesi, anche per questi cavalieri del Sol Levante un singolo elemento era alla base dell’armamento di difesa: un piccolo pezzo di metallo, in genere di forma rettangolare, che andava a comporre le strutture lamellari di armature e protezioni leggere e flessibili, adatte a correre contro il nemico con la spada sguainata (la tipica katana giapponese) o a scoccare frecce in sella a un cavallo in corsa.
L . Ma poi la classe guerriera del Giappone mutò le forme del suo vestire introducendo varianti estetiche. L’armatura lamellare, che dal V secolo d.C. aveva fornito l’elemento primario del vestito militare, andò evolvendosi integrando parti metalliche con eleganti e coloratissimi lacci e stringhe di seta; o ancora con imbottiture di cuoio trapuntato, o ricoperte di anelli metallici. Un’evoluzione che si fermò solo in piena età moderna, nell’epoca Edo (16031868), quando il samurai perse di centralità sul campo di battaglia (proprio come avveniva allora con la cavalleria europea), lasciando il posto alle fanterie armate di archibugi, i teppou-ashigaru, meno blasonati ma più efficaci dei nobili combattenti con spada e arco. # Giorgio Albertini
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ARAA AATE K KAM AMAK AKUR URA XI UR XIII SSEC EC. 4 HAR
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Nel periodo Kamakura (XIII-XIV sec.), le classi di samurai meno agiate indossavano semplici armature dette haraate. Queste proteggevano solo la parte frontale del corpo e i fianchi, lasciando libere la schiena, le braccia e le gambe. Il capo è coperto con un tradizionale tate-eboshi (il copricapo nipponico) e, oltre a una naginata (lancia), il samurai è armato con grosse frecce simili a giavellotti.
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HATA-S -SAS ASHI HIMO MONO NO XVI VI SEC EC. EC 1 HA
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3 TAR ARDO DO H HEIAN AN X XII II SSEC EC.
Tra fine ’500 e inizio del ’600 l’armatura tousei-gusoku si arricchisce di accessori, come gli hata-sashimono, stendardi di forme variabili: dagli ombrelli alle ali di farfalla, dai palloni di stoffa alle bandiere con il simbolo del proprio signore. Per aumentare l’effetto coreografico, il kabuto (l’elmo) di questo samurai è ornato con corna di bufalo d’acqua e associato con una maschera facciale detta menoshitabou.
Tra IV e V secolo, l’influenza delle armature continentali, soprattutto coreane, penetra nella produzione giapponese. Un nuovo modello di protezione, il tenkou, l’armatura a grosse piastre, si impone abbinato con manopole e schinieri in cuoio cotto.
Per secoli, fino quasi alla fine del Medioevo, il samurai è principalmente un arciere a cavallo. Nel tardo periodo Heian, XII secolo, l’armatura ooyoroi è alta dal collo al ginocchio tra gli 80 e i 90 cm e la parte alta del braccio è protetta da ampie oosode (spallacci). L’elmo, il kabuto, è composto da placche metalliche rivettate. Un foro al culmine permette al copricapo eboshi di fuoriuscire.
5 MO MONACO CO GUE UERR RRIE IERO RO XII II SSEC EC.
MENN-OU OU-K -KOU OU N NAR ARA AR A 7 ME VIII II SEC EC.
Nel Giappone medioevale anche preti e monaci combattevano. Il monaco buddista guerriero, Sohei, indossava una successione di indumenti tradizionali: pantaloni, kimono e veste monacale kesa (in grigio). Il corpo è protetto da un’armatura lamellare doumaru legata da lacci di pelle di cervo. L’arma in asta è una naginata.
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AMISHI HIBA BA IV V SE SEC. C. 6 KAM Nel IV secolo d.C., nel periodo Kofun, l’industria produttiva del ferro rivoluziona il modo di difendersi dei guerrieri nipponici. Grossi elmi in metallo pesante vengono associati ad armature in cuoio imbottito come quella riprodotta su una statua nel sito archeologico di Kamishiba.
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Il periodo Nara, VIII secolo, vede la prima unificazione del Giappone, centralizzato seguendo il modello cinese. A questo modello si rifanno anche le armature men-ou-kou create per i soldati di truppa, in cuoio imbottito e forse rinforzate al loro interno da lamelle metalliche.
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Nel XVI sec. nasce “l’armatura moderna”, il tousei-gusoku. Il dou (protezione del torace) diventa un corpo unico al quale sono appese con lunghe stringhe le kusazuri (protezioni lamellari del ventre). Ampie haidate proteggono le gambe, mentre le mani sono protette da yubinuki-gote (manopole). I kabuto di questo periodo conoscono una varietà infinita di forme; questo generale ha un eboshi-nari-kabuto, perché nella forma ricorda il tradizionale copricapo eboshi.
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MUR ROM OMAC ACHI AC HI X XV V SE SEC. C. 8 MU Un potente samurai del periodo Muromachi indossa un’armatura pesante doumaru. La struttura lamellare delle protezioni viene estesa anche alla parte superiore delle gambe con le houdou haidate (paracosce dalle placche metalliche) e al collo con il nodowa (gorgiera). Sempre in metallo anche gli schinieri, shinosuneate, e le manopole, shinogate. Il grande elmo kabuto aumenta di dimensione e si arricchisce di un triplice corno, il mistukuwagata.
9 MI MINA NAMI MIK KAT ATA A II SSEC EC. EC Non tutti i guerrieri del Giappone antico erano samurai. Nel II secolo d.C. le armature delle élite guerriere erano composte da piastre di legno legate tra loro da lacci, in un modo che già anticipa la struttura delle armature medievali. Il modello rappresentato è stato trovato nel sito archeologico di Minamikata.
IAN IX X SE SEC. C. 11 HEIA
NANB NBOK OKUC UCHO HOU HO UX XIV IV SSEC EC. 13 NA
È all’inizio del periodo Heian, tra VIII e IX secolo, che si incomincia a definire la classe di guerrieri legati alla corte imperiale con il termine samurai. L’armatura lamellare ooyoroi si contraddistingue dalla presenza di quattro parti (fronte, retro, lato destro e sinistro) legate tra loro con un sistema di lacci. La parte toracica, tsurubashirigawa, è ricoperta di cuoio e seta.
Durante il periodo Nanbokuchou, verso la fine del XIV secolo, l’armatura si accorcia, arrivando a essere alta circa 60 centimetri. Il kabuto, l’elmo, si allarga e il grosso kuwagata, la caratteristica decorazione a corna di cervo stilizzate, diventa comune. Accorciandosi l’armatura è necessario per i samurai una protezione per le gambe; dunque ai calzoni vengono cucite placche metalliche dette haidate. Si calzano ancora le antiche scarpe di pelo tsuranuki.
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12 KE KEIK IKOU OU V VII SSEC EC. EC Le armature keikou si rafforzano di elementi fino a diventare pesantissime. Lamelle e piastre si alternano – sempre legate da lacci di cuoio – a coprire ogni parte del corpo. L’arma per eccellenza non è ancora la spada katana ma lo shigetou, l’arco lungo asimmetrico giapponese fatto di legno laminato e laccato.
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NELLA A PA ANOPLIA C’ERAN NO K ATAN A, WAK KIZ Z A SH I E NAG GIN ATA, MA ANCHE AR RC O E ARCH H I BU G I O
14 TE TEPPOU OU-H -HAS ASHIGA GARU GA RU XVI VI SSEC EC.
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Durante la metà del XVI secolo gli Ashigaru diventano la parte rilevante delle armate giapponesi divisi in yari-ashigaru, picchieri; yumi-ashigaru, arcieri, e teppou-ashigaru, archibugieri. Si difendevano con una semplice armatura gusoku e un copricapo in metallo, il kasa. I teppou-ashigaru usavano un fucile a miccia introdotto dai portoghesi in quegli anni e che non subì migliorie fino alla seconda metà dell’800. Alcuni bastoni detti karuka erano usati per pulire e caricare la canna.
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OMOE OE G GOZ OZEN OZ EN, EN 15 TOM KAM AMAK AKUR URA UR A XI XIII II SSEC EC.. EC Sui campi di battaglia del Giappone medievale non era insolito incontrare donne samurai. Molte sono famose eroine, come Tomoe Gozen che si guadagnò un posto nella letteratura epicocavalleresca nipponica. L’armatura doumaru del periodo Kamakura è più corta di quella del periodo precedente di una decina di centimetri. La katana è custodita in un saya (fodero) rivestito di pelle di tigre.
16 KEIK IKOU OU V VI SE SEC. C. Nel VI secolo, un altro modello si affianca al tenkou, è il keikou, l’armatura lamellare. È una tipologia che arriva sulle isole nipponiche dalla Cina ed è un sistema difensivo di successo universale. Negli stessi anni le popolazioni migranti delle steppe, i barbari, lo portano fin sotto le mura di Roma. È una vera globalizzazione. Tutto ormai è diventato di metallo, anche manopole e schinieri.
PROTAGONISTI
IL GRAN
CAPITANO
IL VINCITORE Gonzalo Fernández de Córdoba (14531515), detto il “Gran Capitano”, osserva il cadavere del duca di Nemours che ha affrontato nella Battaglia di Cerignola (28 aprile 1503).
enza le Guerre d’Italia , il terreno di confronto militare più prestigioso dell’età rinascimentale, un condottiero come Gonzalo Fernández de Aguilar de Córdoba non sarebbe stato che un generale di secondo piano nell’epopea della Reconquista , terminata nel 1492 con la caduta del regno moresco di Granada. All’epoca aveva già 39 anni e si era dimostrato un valido e affidabile subalterno. Rampollo di una nobile famiglia castigliana, aveva iniziato la carriera come paggio della corte reale e si era guadagnato l’attenzione generale nell’assedio di Montefrío, roccaforte mora di cui aveva scalato le mura alla testa dei suoi uomini, mostrando uno straordinario sprezzo del pericolo. Fu dunque a lui che il re Ferdinando il Cattolico pensò di affidare il contingente di intervento in Italia, forte di 21.000 uomini, a sostegno di Alfonso d’Aragona, re di Napoli, spodestato dall’invasione delle truppe francesi di Carlo VIII nel 1494. Iniziava la seconda e più prestigiosa fase della carriera di Gonzalo, che nella penisola italiana si sarebbe guadagnato il soprannome di “Gran Capitano”. Spostatosi in Sicilia nel maggio 1495, dove si riunì all’erede del trono napoletano, Ferdinando d’Aragona, mise subito alla prova le sue capacità tattiche contro i francesi di Stuart d’Aubigny, luogotenente generale del sovrano transalpino, che affrontò il 21 giugno a Seminara, vicino a Reggio Calabria. Finì in un disastro a causa di un’incomprensione con Ferdinando: quando i francesi attaccarono, de Córdoba fece arretrare i suoi per consentire loro di schierarsi; i napoletani interpretarono i movimenti degli alleati come una ritirata e, presi dal panico, si diedero alla fuga, lasciando gli spagnoli privi di appoggio e costringendoli al ripiegamento. U . Il condottiero si rese conto che il motivo principale della sconfitta era stata la scarsa preparazione delle armate alleate: i napoletani erano più deboli dei transalpini, e gli iberici erano ormai fiaccati da decenni di blanda guerra contro i mori, caratterizzata soprattutto dalla guerriglia. Per affrontare gli eserciti dei regni europei, temprati da lunghe guerre fatte di battaglie campali senza esclusione di colpi, ci voleva ben altro. Si concentrò pertanto sull’addestramento delle truppe, per renderle più coese e determinate in campo aperto, e costruendo le basi per quella formazione inarrestabile che sarebbe stata il tercio spagnolo nel XVI e XVII secolo. A suo merito va ascritta l’intuizione delle potenzialità dell’artiglieria non solo negli assedi, dove era stata usata in prevalenza fino ad allora, ma anche negli scontri campali. Ciò lo avrebbe portato a sviluppare come nessun altro l’unità tattica definita coronelía , composta da dodici compagnie, che combinava la coesione della falange, riportata in auge dopo l’età antica dagli svizzeri, con la potenza di fuoco degli archibugieri; questi ultimi ammontavano a un quinto della formazione, per il resto composta in massima parte di picchieri e anche di combattenti dotati di spadoni a due mani. Contemporaneamente, però, de Córdoba mise a frutto quanto aveva appreso dai mori durante la Reconquista, ostacolando con una costante guerriglia le operazioni di approvvigionamen-
GONZALO FERNÁNDEZ DE CÓRDOBA ECCELLEVA NELL’ARTE DELLA GUERRA, CHE MISE AL SERVIZIO DEGLI SPAGNOLI CONTRO I FRANCESI NELLA CONQUISTA DEL REGNO DI NAPOLI
Guerre d’Italia Gli otto conflitti combattuti nella penisola dal 1494 a 1559 che si spostarono dalla scala locale (le rivendicazioni francesi sul Regno di Napoli e sul Ducato di Milano) a quella della supremazia in Europa (per il coinvolgimento di Spagna e Sacro romano impero).
MUSEO NACIONAL DEL PRADO
Reconquista Riconquista dei Regni moreschi musulmani di al-Andalus (Spagna e Portogallo) da parte dei sovrani cristiani spagnoli. Coronelía Evoluzione delle vecchie compagnie di milizia, era composta da 6.000 uomini all’ordine di un colonnello. Fra questi c’erano 3.000 picchieri, 1.000 archibugieri e 2.000 fanti armati di spada e targa (piccolo scudo in legno curvato, carta pressata e metallo, quadrato o trapezoidale, si impugnava con la sinistra per difesa e si accompagnava alla spada da lato).
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UOMINI, A ME!
IBERFOTO/ARCHIVI ALINARI M.C.ESTEBAN/IBERFOTO
1486, Gonzalo guida per primo l’assalto a Montefrío, in Andalusia. È un episodio cruciale della guerra contro il sultanato di Granada, che Isabella di Castiglia e suo marito Ferdinando d’Aragona condussero per la riconquista dei territori dominati dal sultano dei Nasridi Boabdil.
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l Gran Capitano decide di lasciare Barletta e di trasferirsi a Cerignola, a una quindicina di chilometri di distanza. Quando i francesi lo vengono a sapere, muovono a loro volta verso la città. Vi arriva prima il de Córdoba, che dispone di 10.000 uomini. Decimati dall’arsura e dalle imboscate della cavalleria nemica di Prospero Colonna, i francesi arrivano in 11.000 a Cerignola nel pomeriggio del 28 aprile 1503. Il loro comandante, il duca di Nemours, decide di attaccare subito, mandando all’assalto gli svizzeri. Qualche colpo finisce sulle munizioni spagnole facendole scoppiare, e de Córdoba, per evitare lo
scoramento nei suoi uomini, si affretta a definirlo un segno divino, un annuncio di vittoria così certa che non c’è bisogno di artiglierie di riserva. In rotta. Intanto l’assalto francese si infrange nel fossato davanti al campo iberico, e lo stesso Nemours è ferito a morte. La caduta del comandante determina la fuga dei francesi, che il Gran Capitano trasforma ben presto in una rotta ordinando l’immediato contrattacco; ma la notte sta già calando, e non può condurre a lungo l’inseguimento. La vittoria gli frutta comunque le salmerie e l’artiglieria che i nemici si lasciano dietro insieme a 3.000 tra morti, feriti e prigionieri. I tercios spagnoli a Cerignola.
to del nemico, che aveva allungato a dismisura le proprie linee di comunicazione. Costrinse pertanto i transalpini ad abbandonare tutte le loro posizioni più meridionali, assumendo gradualmente il controllo dell’intera Calabria senza bisogno di affrontarli in campo aperto. Quando tuttavia apprese che il nemico stava preparando una controffensiva per obbligarlo allo scontro, lo anticipò con una brillante azione notturna: muovendo da Castrovillari attraverso uno scacchiere irto di difficoltà, piombò sui francesi che si andavano radunando a Laino sul Sapri. L’iniziativa gli valse la cattura di diversi personaggi di spicco, che decapitò l’armata francese più meridionale. Poté così avanzare verso Atella, per partecipare al blocco che aragonesi e veneziani stavano ponendo al d’Aubigny, costretto alla resa nel giugno 1496. Restavano da spazzare gli ultimi rimasugli dell’armata francese nello Stato della Chiesa. De Córdoba conseguì l’obiettivo entro il 1498, quando conquistò il castello di Ostia ed entrò trionfalmente a Roma. M . . La prima fase delle guerre franco-spagnole era conclusa. Il Gran Capitano se ne tornò a casa, guadagnandosi altre benemerenze due anni dopo, quando aiutò Venezia a sottrarre Cefalonia agli ottomani. Ma nel 1502 in Italia si combatteva di nuovo per il Regno di Napoli, preso ancora una volta di mira dal nuovo re francese Luigi XII. Ferdinando il Cattolico inviò il suo uomo migliore nella penisola, ma senza una quantità adeguata di truppe; de Córdoba non poté far altro che asserragliarsi a Barletta, dove sostenne Ettore Fieramosca nella famosa “disfida”. Le condizioni delle sue truppe, oppresse dalla fame e dalla peste, si fecero via via più drammatiche, ma il condottiero poté muoversi solo in primavera, dopo aver ricevuto i rinforzi, con i quali ottenne la sua più celebrata vittoria, nell’aprile 1503 a Cerignola (v. riquadro sopra). La sua avanzata fu inarrestabile e gli valse la conquista di Napoli, Aversa e Capua, costringendo i francesi a ripiegare lungo il fiume Garigliano. Il fronte si stabilizzò lì, dove i francesi, attestati sulle alture del Traetto, occupavano le posizioni migliori, che consentivano loro di bersagliare gli spagnoli a piacimento. Sotto la copertura dell’artiglieria, il comandante Ludovico II di Saluzzo fu in grado di costru-
ire un ponte, con il quale poter effettuare sortite o sferrare una controffensiva per riguadagnare Napoli. Tra i francesi, poi, militava il celebre cavalier Baiardo, un pezzo d’uomo che le cronache hanno definito in grado di tenere a bada 200 nemici da solo. Non sembrava esserci modo di ribaltare la situazione, sempre più favorevole ai transalpini. I suoi subalterni consigliarono al condottiero spagnolo di ripiegare, ma de Córdoba rispose di preferire “al presente, la sua sepoltura un palmo avanti che, col ritirarsi indietro poche braccia, allungare la vita cent’anni”. I suoi uomini, consapevoli che il condottiero ascoltava anche il parere del più umile dei fanti e si esponeva al pericolo in prima linea, avevano imparato a venerarlo; ma lo spettro della sconfitta stava diffondendo lo sconforto tra le file iberiche. Il Gran Capitano era quindi obbligato a un’azione di forza per rompere lo stallo e ridare fiducia alla truppa; tentò il tutto per tutto quando ricevette i rinforzi da Venezia e dagli Orsini, che portarono le sue truppe ad assommare 900 uomini d’arme, 1.000 cavalieri leggeri e 9.000 fanti. Come a Laino, fu ancora una volta un’operazione notturna a guadagnargli la vittoria, frutto anche della sua grande elasticità mentale: in un’epoca in cui i comandanti non concepivano altro che i grandi attacchi di massa, de Córdoba era capace di ricorrere a reparti di manovra. Il 27 dicembre, approfittando dell’oscurità, il suo subordinato Bartolomeo d’Alviano costruì un ponte di barche sul fiume, a monte di quello francese. Così gli spagnoli poterono transitare sull’altra sponda e aggredire da tergo il nemico. I francesi badarono solo a sottrarsi all’accerchiamento, e lo stesso Ludovico II riparò a stento a Gaeta. La vittoria spagnola si rivelò decisiva, inducendo i transalpini a richiedere una tregua e infine a rinunciare alle loro mire sul Regno di Napoli. Il Gran Capitano ne divenne il temporaneo viceré, finché Ferdinando non lo sostituì col proprio nipote richiamandolo in Spagna per provvedere alla riorganizzazione dell’esercito. Nella penisola iberica de Córdoba sarebbe morto nel 1515 di malaria, che si portava dietro fin dalle Guerre italiche. La storiografia militare lo avrebbe ricordato come il vero artefice del trapasso dall’età medioevale a quella moderna. ! Andrea Frediani
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La Battaglia di Cerignola
APPROFONDIMENTI
SFIDA ROMA lutarco racconta una storiella poco credibile ma assai suggestiva su Gaio Mario , che nel 98 a.C., ormai vecchio eppure mai sazio di onori e gloria, non trovando a Roma una carica politica degna del suo passato, se ne andò in Oriente in una sorta di esilio volontario. Secondo il biografo, il trionfatore di Cimbri e Teutoni, che puntava a conseguire un nuovo comando in guerra, non si sarebbe fatto scrupolo di aizzare contro Roma il sovrano più potente dell’Asia Minore. Si trattava di Mitridate VI Eupatore, a capo di un grande regno di matrice persiana, il Ponto, che aveva il suo fulcro sul Mar Nero: il suo espansionismo rappresentava da tempo una minaccia per gli Stati satelliti di Roma nello scacchiere, in particolare per il re della Bitinia Nicomede III. Al di là delle presunte trame del vecchio condottiero, gli interessi di Roma e del Ponto erano destinati a entrare in rotta di collisione. Non a caso, i governatori che si succedettero in Oriente in quegli anni avevano il preciso compito di tenere d’occhio Mitridate; toccò anche a Silla che, sul finire degli anni ’90, da propretore della Cilicia tolse il trono della Cappadocia al figlio del re pontico restituendolo al filoromano Ariobarzane. Poi però arrivò la Guerra sociale, il conflitto che Roma fu costretta a combattere con i suoi alleati italici, e il fronte orientale passò in secondo piano; almeno fino a quando i venali commissari romani d’Asia, nella prospettiva di un ricco bottino, non indussero il nuovo re della Bitinia, Nicomede IV, loro creditore, ad attaccare il Ponto. L . . Fu come svegliare il can che dorme: fino ad allora, infatti, Mitridate si era mosso con una certa cautela, nel timore di fare la fine dei precedenti sovrani ellenistici che avevano osato sfidare i Romani, come Filippo V e Perseo di Macedonia, o Antioco il Grande di Siria. Ma una volta provocato, passò decisamente all’offensiva, travolgendo con disarmante facilità le truppe di Nicomede e gli scarsi effettivi a disposizione del governatore d’Asia sul fiume Amnias, e conquistando subito la provincia; si disse che, per dare un esempio della rapacità dei Romani, il re avesse fatto versare dell’oro fuso in gola al capo della commissione, Manio Aquino. Nell’Urbe ancora non lo si sapeva, ma era appena scoppiata la guerra contro il più irriducibile avversario che Roma avrebbe mai avuto. J. CABRERA
Gaio Mario (157-86 a.C.), fu sette volte console. Celebrato vincitore di Giugurta, di Cimbri e Teutoni, condusse una tenace guerra civile contro Silla, ma morì subito dopo aver prevalso sui suoi luogotenenti e riconquistato Roma, mentre il rivale era in Oriente.
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BEN BARDATI Cavalleria pesante del re del Ponto, che poteva contare su formazioni di catafratti, i “corazzati” dell’antichità. Sopra, testa in marmo di Mitridate VI Eupatore (132-63 a.C.).
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LA FANTERIA
J. CABRERA
L’esercito di Mitridate era costituito da una fanteria falangitica di modello ellenistico, oltre che dalla cavalleria leggera e pesante e dai carri falcati.
Silla rinnovò la pressione sul Pireo alle porte della primavera, lanciando un attacco in forze contro le mura. L’azione sembrò riuscire quando una torre prese fuoco, un tratto di muro crollò sotto i colpi degli arieti e un altro si sbriciolò perché minato con zolfo, stoppa e pece. Ma durante la notte Archelao riuscì a riparare le brecce e il giorno seguente a respingere l’assalto. Il condottiero romano si risolse allora a concentrare i propri sforzi sulla città, che circondò tagliandole le comunicazioni dal Pireo e, quindi, dal mare. Poi si limitò ad attendere la resa per fame: col trascorrere del tempo, girò voce che gli Ateniesi si nutrissero di un’erba simile alla camomilla che cresceva sull’Acropoli e perfino di cadaveri, e che bollissero pelli bovine e cuoio. D . Alla fine, il condottiero approfittò della scarsa sorveglianza delle mura del quartiere Ceramico per irrompere in città la notte del 1° marzo dell’86 a.C. e metterla a sacco. Poco dopo espugnò anche il Pireo, quindi andò in Beozia ad affrontare Archelao, che vinse a Cheronea, costringendolo a sgombrare la Grecia. I nemici si attestarono nell’Eubea, che usarono come testa di ponte per una nuova invasione in estate, quando sulla Grecia piombò un nuovo esercito di 80.000 uomini, con 15.000 cavalieri e 70 carri, al comando di un amico d’infanzia di Mitridate, Dorileo, che si congiunse alle forze di Archelao. Era una minaccia seria, per Silla. Tanto più che da Roma avevano inviato Valerio Flacco a sostituirlo. In autunno il condottiero marciò contro lo sterminato esercito nemico in Beozia, a Orcomeno. Una volta nei pressi del campo avversario, diede ordine ai propri sterratori di scavare buche davanti allo schieramento per vanificare la carica dei temibili carri nemici. I cavalieri pontici cercarono di impedirlo attaccando prontamente e sgominando l’ala sinistra della cavalleria romana; ma i legionari, esortati da Silla, che raggiunse subito la prima linea, riuscirono a metterli in fuga. Partì un secondo assalto con la falange asiatica, ma il comandante romano aveva ormai schierato il proprio esercito, su tre linee con ampi spazi tra le unità. Quando ebbe inizio la carica dei carri, la prima fila romana arretrò dietro alla seconda, davanti alla quale comparvero dei pali piantati nel terreno, contro cui si andarono a infrangere i cocchi; subito dopo, la fanteria leggera e la cavalleria romana uscirono dai varchi dello schieramento e i cavalli dei carri, spaventati, fecero marcia indietro andando a scompaginare la falange. L’attacco della cavalleria capitolina proseguì costringendo al ritiro quella di Archelao: gli arcieri, incalzati dai Romani, furono obbligati a usare mazzi di frecce a mo’ di spada, e infine a ritirarsi nell’accampamento. La pianura si coprì di 15.000 caduti pontici, mentre GETTY IMAGES
A Roma, nell’88 a.C., Mario e Silla iniziarono subito a litigare su chi dovesse rivestire il comando della guerra contro il Ponto: si prospettava un conflitto contro un regno prospero, che avrebbe potuto arricchire a dismisura i soldati, legandoli al loro generale e facendone il suo esercito privato in un’epoca in cui la democrazia stava dando segni di logoramento. Ma prima che Silla prevalesse e partisse per l’Oriente, Mitridate aveva rotto gli indugi e fatto massacrare 80.000 Italici in poche ore, poi era avanzato in Tracia e Macedonia minacciando la Grecia. Un valoroso legato propretore, Bruttio Sura, aveva arginato l’invasione sconfiggendo il generale pontico Archelao in tre successive battaglie in Beozia. Ma l’Attica e Atene si erano consegnate a Mitridate, eleggendo a dittatore il filopontico Aristione. Silla, che disponeva di 5 legioni e 6.000 cavalieri, pose l’assedio alla città nell’estate dell’87, senza ricevere alcun aiuto da Roma, dove nel frattempo era tornato a prevalere il partito mariano. O . L’impossibilità di ricevere rinforzi era solo uno degli ostacoli che rendevano straordinariamente complicata l’impresa. I Greci detenevano l’isola di Eubea, lì di fronte, e il porto del Pireo: pertanto avevano il controllo del mare, dal quale ricevevano i vettovagliamenti sufficienti a prolungare all’infinito la resistenza; la chiave della conquista era quindi il porto. Ma Silla aveva dovuto disperdere le proprie forze presidiando Beozia e Tessaglia, e gli uomini che aveva a disposizione erano perfino di meno di quelli che costituivano la guarnigione guidata da Archelao. Lasciati pochi effettivi davanti alla città, puntò dunque tutto sul Pireo, utilizzando 10.000 coppie di muli per azionare le sue macchine belliche e allestendo terrapieni su cui far operare le catapulte lungo i resti delle Lunghe Mura, lo sbarramento di 11 km che univa Atene al porto. Ma prima di andare a svernare a Eleusi, il comandante romano colse solo un paio di vittorie interlocutorie, respingendo altrettante sortite ateniesi grazie alla collaborazione di due schiavi del Pireo, che per mezzo di fionde scagliarono nel suo campo dei proiettili su cui erano scritte le date degli attacchi. Alla prima occasione, accolse il nemico con un’imboscata, assalendo sul fianco la cavalleria pontica lanciata contro i suoi sterratori; il secondo successo gli derivò dall’intervento decisivo di un gruppo di soldati degradati per indegnità, che di ritorno dall’approvvigionamento di legna aggredirono da tergo l’armata di Archelao, costringendola alla fuga. Il generale pontico rimase perfino chiuso fuori e dovette essere issato sugli spalti con le corde.
Silla, da spietato stratega a dittatore
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ucio Cornelio Silla (138-78 a.C., nel busto sopra) costruì la sua carriera militare dapprima come subordinato di Gaio Mario durante la Guerra giugurtina e quella germanica, poi come legato durante la Guerra sociale, e infine come console nella Guerra mitridatica, durante la quale agì sul fronte greco. Dimostrò la sua abilità tattica nelle Battaglie di Cheronea
e Orcomeno, ma anche nel difficile assedio di Atene (87-86 a.C.). Si dice che a una delegazione di Ateniesi venuta da lui a sciorinare la gloria passata della città, Silla abbia risposto: “Tornatevene da dove siete venuti, cari, e portatevi dietro questi discorsi; se i Romani mi hanno mandato ad Atene non è per istruirmi, ma per sottomettere i ribelli”.
Vincitore. Tornato in Italia, colse facili vittorie contro il resti del partito mariano e italico, culminate nel successo di Porta Collina (di fronte alle mura di Roma), prima di conquistare il potere assoluto con liste di proscrizione e dittatura. Indicò la strada a Giulio Cesare ma non andò fino in fondo, lasciando la sua carica e ritirandosi poco prima della sua morte.
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ALLA FINE,, FU U LA RIV VOL LTA A DE EL FIG GLIO FARN NAC CE A DE ETER R MINA AR E A SCO ONFIT T TA A DE EL RE ASSIA ATIC CO LA
LA LEGIONE
J. CABRERA
Legionario in lorica hamata, la cotta di maglia rinforzata sulle spalle con l’humeralis, ed elmo montefortino, pilum (il giavellotto), scudo e gladio.
Silla si portava a ridosso del campo nemico, ordinando per il giorno dopo un attacco che non trovò grande resistenza: molti asiatici morirono annegati nel vicino lago di Copaide. T . La clamorosa sconfitta contribuì a spingere Mitridate a stipulare la pace. Il trattato arrivò nell’agosto dell’85 a.C. (a Dardano, nella Troade, dove si tenne un incontro tra i due protagonisti), mentre Flacco era stato eliminato dal suo stesso legato, il mariano Fimbria, che avanzava con l’esercito in Asia mietendo stragi e devastazioni. Mitridate era scampato per un pelo alla cattura presso Pitane, e solo grazie al mancato accordo tra Fimbria, che lo aveva bloccato da terra, e il sillano Lucio Licinio Lucullo, capo della flotta, che non aveva fatto altrettanto dal mare per non sottrarre gloria al proprio comandante. Il sovrano, in difficoltà su più fronti e ancora in auge solo grazie ai dissidi interni tra i Romani, fu costretto ad accettare le condizioni imposte da Silla, che tutto sommato non erano troppo onerose: ritorno entro i propri confini abbandonando tutte le conquiste dall’inizio del conflitto, oltre alla consegna di 70 navi e 500 arcieri. I legionari rimasero molto scontenti di non aver racimolato il bottino di cui si favoleggiava; ma la realtà era che Silla aveva fretta di procedere contro i suoi nemici interni: di lì a poco, infatti, marciò contro Fimbria, che si suicidò prima di incontrarlo, e poi tornò in Italia a restaurare il proprio potere. Nessuno si illuse che la pace di Dardano fosse qualcosa di più di una tregua: i Romani avevano la sensazione di non aver vendicato i massacri subiti, e Mitridate non aveva digerito la rinuncia alle sue conquiste. Sarebbe toccato a Lucullo raccogliere il testimone del dittatore, lavorando ai fianchi il re pontico e il suo genero Tigrane, re dell’Armenia, per una serie di dure campagne, che lasciarono infine l’avversario senza alleati né truppe. A Pompeo Magno , giunto in Asia nel 66 d.C. per sostituirlo, sarebbe bastato il minimo sforzo per raccogliere il Ponto su un piatto d’argento, dopo che il tenace sovrano era stato costretto al suicidio dal suo stesso figlio Farnace. Nel corteo trionfale, il conquistatore avrebbe mostrato ai Romani solo lo scettro dell’uomo che aveva costretto l’Urbe a una serie di guerre durate ben un quarto di secolo, forse il terzo conflitto per importanza nella sua storia, dopo le Guerre puniche e quelle daciche. % Andrea Frediani Gneo Pompeo Magno (106-48 a.C.) Uno dei più titolati generali romani. Raccolse vittorie contro Sertorio in Spagna, gli schiavi di Spartaco in Italia, popoli asiatici e pirati cilici. Ma Cesare lo ridimensionò sconfiggendolo a Farsalo.
La Battaglia di Cheronea, 86 a.C.
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comandante pontico Archelao si attesta in posizione difensiva su un terreno frastagliato, nonostante disponga del triplo degli effettivi di Silla (da 60.000 a 120.000 per le fonti). Silla lascia il suo luogotenente Murena, all’ala sinistra, a controllare la falange pontica e piomba su un avamposto nemico i cui superstiti fuggono nel campo di Archelao, scompaginando i ranghi dell’armata. Il comandante
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romano ne approfitta conducendo un attacco con la cavalleria, che impedisce ad Archelao di lanciare la carica dei carri falcati. Ne partono solo 60 su 90, che finiscono facilmente preda dei Romani. Ma intanto la falange avanza, mentre 2.000 cavalieri pontici tentano l’aggiramento sulla sinistra di Murena. Oltre il fiume. Silla vorrebbe correre in aiuto al suo luogotenente, ma anche la sua ala destra è attacca-
ta, e ordina al generale Ortensio di aiutare Murena; poi preleva unità in vari settori e si lancia a dare manforte alla sua ala destra, che ricaccia Archelao oltre il fiume Cefiso. Anche Murena prevale e così l’esercito romano riunito insegue il nemico in rotta, facendone strage alla soglia dell’accampamento, le cui porte Archelao aveva fatto sbarrare per indurre i propri uomini a proseguire il combattimento.
WARS
LIVING HISTORY
REGOLE TEMPLARI A cura di Camillo Balossini
olto si è detto e scritto sui templari, dando luogo a leggende che ben poco hanno a che vedere con la loro storia e che, spesso, sconfinano nell’esoterismo o nel fantastico. L’ordine cavalleresco nato per difendere e scortare i cristiani durante il pellegrinaggio in Terrasanta ha generato da sempre miti e leggende. Colpiti da queste contraddizioni e mistificazioni sul mondo delle Crociate, un gruppo di appassionati di storia medioevale ha riportato in vita usi e costumi dell’ordine monastico. La Mansio templi parmensis, questo il nome dell’Associazione che ha sede a Parma ed è attiva dal 1998, basa la sua attività di living history su testimonianze storiche e ha come punto di riferimento la Regola del Tempio, il documento approvato nel Concilio di Troyes del 1129 che, con l’approvazione di Bernardo di Chiaravalle, istituiva i monaci guerrieri. P P . Lo studio di tali fonti ha permesso di ricostruire un campo con 8 tende, e fra queste la tenda usata dal tesoriere dell’Ordine, il commendatario, e la tenda cappella, il luogo adibito alla recita del mattutino, fulcro del tempio in movimento. Uno spaccato di vita quotidiana della metà del XIII secolo, con i suoi risvolti civili, militari e religiosi, riproposto al pubblico in un susseguirsi di tableaux vivants coinvolgenti per sfatare quelle credenze alle quali
A lato, cappella di un castello templare in Terrasanta: fratelli cavalieri e sergenti a messa prima della battaglia. Sotto, sergente balestriere, con cappello d’arme e cotta d’arme nera; pausa di riposo durante l’assedio di S. Giovanni d’Acri.
ci hanno abituato cinema e letteratura di genere. Si cura persino l’arte culinaria dell’epoca, con le sue pietanze sia occidentali che orientali, in una cucina da campo medioevale perfettamente attrezzata. Capita dunque di vedere un templare inginocchiato davanti all’altare della tenda cappella, nell’atto della preghiera e poco distante un sergente nell’atto di lucidare il proprio elmo pentolare, o un altro assistere alla cerimonia di investitura di due nuovi cavalieri, che si conclude con l’abbraccio fraterno di tutto l’Ordine. La Mansio parmense porta la sua missione anche nelle scuole per dare una lettura corretta di ciò che ha rappresentato l’Ordine dei cavalieri templari nel mondo delle Crociate. #
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MONACI GUERRIERI
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TRUPPE D’ÉLITE
ROYAL MARINES A cura di Stefano Rossi
el 1942 l’Inghilterra contrastava con tutti i mezzi i tedeschi in Europa e uno dei modi era quello di inviare piccoli gruppi di specialisti ben addestrati a compiere raid e incursioni limitate nei Paesi occupati “per creare un regno di terrore sulle coste nemiche”, come diceva Churchill. Già nel 1940 erano nati in tal senso i Commandos dell’esercito e ora in seno alle Combined Operations si crearono anCombined Operations Operazioni combinate: comando interforze che riuniva varie unità britanniche per compiere sbarchi e particolari operazioni sul suolo nemico.
che i primi reparti di Commandos dei Royal Marines, le truppe da sbarco di Sua Maestà. Dopo un addestramento durissimo sulle montagne scozzesi i RM Commandos furono presto impiegati in battaglia. Da Dieppe al Nord Africa, dall’ Operazione Husky allo sbarco a Salerno, dalle montagne dei Balcani alle paludi delle valli di Comacchio, dalle spiagge della Normandia all’Estremo Oriente, gli incursori dei Royal Marines Dieppe Fu il primo tentativo di sbarco in forze (7.000 uomini) in Francia, compiuto il 19 agosto 1942 da forze congiunte anglo-canadesi e in piccola parte Usa. L’esito fu disastroso. Operazione Husky L’operazione alleata di sbarco in Sicilia, iniziata il 10 luglio 1943, primo attacco diretto all’Europa nazifascista.
presero parte attiva a tutte le operazioni. Alla fine della guerra i RM assunsero tutta la responsabilità delle unità Commandos e furono mantenuti in servizio solo 3 dei 9 Commando operativi. Per mantenere tradizioni e onori ne fu scelto uno per ogni teatro di operazioni: il 40° per il Mediterraneo Medio Oriente, il 42° per l’Estremo Oriente e il 45° a rappresentare gli scontri in Europa. I RM Commandos, ora riuniti in una brigata (la 3a), furono chiamati ancora in azione ovunque ci fosse bisogno: in Malesia nel 1950, in Corea (con un Commando indipendente, il 41°), a Suez nel 1956, nel Brunei (1962), nelle Falklands (dove il 42° riconquistò la Georgia del Sud con l’Operazione Paraquet), in Iraq (dove giocarono un ruolo chiave per la conquista) o nell’attuale dispiegamento in Afghanistan. Oggi la 3a Brigata Commando è la punta di diamante della Fanteria di marina della Royal Navy. Oltre ai 3 battaglioni, ne fanno parte anche gli Commando Oltre a indicare il singolo incursore, in questo caso il termine ha anche una connotazione organica: in questi reparti speciali un Commando è un’unità a livello di battaglione.
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COMMANDOS IN AZIONE Nella pagina di sinistra (in alto), i Royal Marines Commandos a Comacchio nel 1945 e (in basso) in un’azione nel 1944. Sotto, il fregio del loro basco verde. A lato, addestramento anfibio oggi e (foto centrale) negli Anni ’60. Sotto, il Crest del 42° RMC. In basso, incursore armato di Bren, 1943.
specialisti dell’ SBS , la controparte “marina” del SAS , e gli uomini del 43° Commando Fleet Protection Group (già Comacchio Group), nato nel 1980 a protezione di armi nucleari navali e particolari installazioni, anche in funzione antiterrorismo. Ogni battaglione ha poi in organico specialisti di guerra in ambiente montano e artico, tutti istruttori di roccia, sci e combattimento in quota. I . . L’addestramento è uno dei più lunghi e duri al mondo: 32 settiSBS Special Boat Service, erede dello Special Boat Squadron. Unità per operazioni speciali in ambiente marino e fluviale. SAS Special Air Service. È uno dei reparti più addestrati al mondo per operazioni speciali e di antiterrorismo.
mane al Commando Training Centre di Lympstone, nel Devon, dove, attraverso quello che gli istruttori chiamano “State of mind”, con corsi durissimi si formano combattenti d’élite pronti all’azione. Le prove finali del corso basico, da effettuare tutte con arma ed equipaggiamento al completo, sono un esempio: 4 miglia di percorso di guerra di corsa, a tempo, e alla fine un test di tiro con almeno 6 centri su 10; un percorso aereo su funi, muri, discese in corda doppia da fare in 13 minuti; una corsa di 9 miglia e infine una marcia di 30 miglia da compiere in 8 ore (6 per gli ufficiali). Ed è quasi solo l’inizio della vita di un RM Commando. &
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Pugnali Fairbairn-Sykes (in basso, uno del 1942), simbolo dei Commandos. Fra le armi da fuoco oggi in dotazione, il fucile d’assalto L85A2 (sopra) e la mitragliatrice leggera L86A1.
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RECENSIONI
LETTURE SAGGISTICA A cura della Libreria Militare Via Morigi, 15 - 20123 Milano - tel/fax: 02 89010725 e-mail:
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Eredità di Roma. Storia d’Europa dal 400 al 1000 d.C. di Chris Wickham Questo interessante saggio contribuirà a gettare luce su quelli che vengono comunemente definiti “tempi bui”. La storiografia contemporanea ha già ampiamente rivalutato il Medioevo e spiegato le ragioni che hanno causato la fine dell’Impero romano, ma questo libro documentato e scorrevole aggiunge qualcosa in più. Intanto, ci permette di comprendere le complesse dinamiche che governarono l’immenso vuoto di potere lasciato dallo sgretolarsi della potenza romana; ma soprattutto evidenzia la preziosa eredità che la civiltà greco-latina ha consegnato al nostro continente. Laterza, pag. 755, € 38
Veicoli dei Carabinieri. 200 anni di storia di Giuseppe Thellung di Courtelary e Sergio Puttini Il duecentesimo anniversario di fondazione dell’Arma è ghiotta occasione per passare in rassegna la storia dei mezzi della Benemerita, in un volume di pregio illustrato con centinaia di foto d’epoca e attuali. Sia l’appassionato che il curioso potranno trovare immagini, dati tecnici e d’impiego di tutti i veicoli dei Carabinieri, da quelli ormai passati nell’immaginario collettivo, come le mitiche Alfette e Giuliette, ai moderni. Giorgio Nada editore, pag. 255, € 48
Alpini in copertina. La storia delle Penne Nere nella Domenica del Corriere dal 1899 al 1971 Illustrate da Achille Beltrame e Walter Molino, a cura di Gianni Oliva Per gli appassionati di grafica, Storia e montagna, le famose e insuperabili tavole della Domenica del Corriere dedicate agli alpini vengono raccolte e presentate cronologicamente a ricostruire la
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storia del Corpo. Fatti di guerra, imprese eroiche, abnegazione e sacrificio, generosità ed efficacia degli interventi a favore della popolazione civile rivivono e vengono consegnati alla memoria collettiva grazie anche ai commenti del curatore, già autore di una storia delle Penne Nere. Gaspari editore, pag. 127, € 24
VARIA A cura di Lidia Di Simone
Guerra e trementina di Stefan Hertmans L’orrore delle trincee delle Fiandre Occidentali nei ricordi di un novantenne che consegna al nipote il diario di quegli anni tremendi. Le pagine parlano di un ragazzino di Gand che sognava di fare il pittore e che lo scoppio della Prima guerra mondiale trascina su uno dei fronti più crudeli del conflitto. Come si può riuscire a conservare la propria umanità mentre il mondo intorno cade in pezzi? Lo aiuterà la passione per l’arte. Un romanzo toccante, un altro punto di vista sulla Grande guerra. Marsilio, pag. 306, € 18,50
Il mistero della corazzata russa di Luca Ribustini Si tratta di un’inchiesta ma si legge come un giallo questo libro sulla più grande corazzata della flotta sovietica, il Novorossiysk, che la notte tra il 28 e il 29 ottobre 1955 affondò nelle acque gelide del porto di Sebastopoli (Crimea). Nel luglio del 2013 un ex incursore del gruppo Gamma della Xa Mas rivela all’autore di essere il responsabile dell’esplosione. Ribustini ricostruisce gli eventi aiutandosi con i documenti recuperati da archivi militari, civili e dei servizi segreti. La nave batteva bandiera italiana, con il nome di Giulio Cesare, fino al 1949, quando fu ceduta ai russi come risarcimento di guerra. Questo spiega qualcosa? Luigi Pellegrini editore, pag. 144, € 15
La Grande guerra in Italia di Marco Gasparini e Claudio Razeto Il conflitto attraverso le cronache dei giornali, le immagini della propaganda e le lettere degli uomini e delle donne che l’hanno vissuta, una selezione di oltre 400 tra fotografie, manifesti, mappe, riviste e giornali recuperati dagli archivi storici. Castelvecchi, pag. 176, € 35
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