7 FEBBRAIO 2017 TRIMESTRALE
N.24 APRILE 2017 € 6,90
GLIE NE I SE COLI UNIFORMI
PERICOLO Sped. in A. P. - D.L. 353/03 art. 1, comma 1 NE/VR
RUSSIA MOSCA TORNA A ESSERE IL GRANDE NEMICO, MA QUANTO SONO DAVVERO TEMIBILI VLADIMIR PUTIN E LE SUE FORZE ARMATE?
I nemici di Roma, dagli Etruschi ai Daci, dai Volsci agli Unni
SECESSIONE Il piano per strangolare i sudisti del generale Lee aveva un nome eloquente: Anaconda
LA FALANGE Come si riconoscevano gli opliti greci nella mischia della battaglia
WARS
SOMMARIO
Chi ha paura della Russia?
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ANTICHITÀ
A COLPI DI SCUDO Con gli opliti e la falange i Greci avrebbero potuto conquistare il mondo, invece si annientarono fra loro.
Davvero dobbiamo aver paura dell’Orso Russo? L’attivismo di Mosca è sotto gli occhi di tutti, così come i successi di Vladimir Putin, primo fra tutti l’aver conquistato un porto al sole nella Siria di Assad. Ma quanto è davvero forza (militare), quella del Cremlino, e quanto invece è debolezza altrui, in particolare degli Stati Uniti e della Nato? In questo numero di WARS scopriamo fin dove potrà arrivare questa grande potenza nucleare... che però sul versante economico ha una forza appena paragonabile all’Italia. Jacopo Loredan direttore
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APPROFONDIMENTO
ANACONDA PLAN Ecco perché non funzionò il piano elaborato dai nordisti per strangolare la Confederazione.
RIMO PIA ANO 20 PR CHI HA PAURA DELLA RUSSIA? Mosca torna a essere il grande nemico pubblico, ma bisogna temere Putin? Che cosa c’è dietro la rinnovata aggressività dell’orso russo? Scopriamolo attraverso un’analisi dettagliata delle sue forze armate, dalla Guerra fredda a oggi. NATO E GLLI USA A 26 LAILA CONFRONTO TRA LE FORZE Le cifre parlano chiaro: in armi e uomini la NATO e gli USA investono molto più di Mosca.
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LA A GUERRA A FREDDA A
LO SCACCHIERE MONDIALE Così le due superpotenze si dividevano il controllo del mondo nel 1986-87.
WARS I NOSTRI ESPERTI
E E LE AR RMI 30 LEL’EATRUPPE RMATA RUSSA
GIORGIO ALBERTINI Milanese, 48 anni, laureato in Storia medievale, illustratore professionista per case editrici e riviste (giorgioalbertini.com).
Finito il tempo dei residuati bellici dell’era sovietica, l’apparato militare di Putin può contare su armi e mezzi di nuova generazione.
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GASTONE BRECCIA Livornese, 54 anni, bizantinista e storico militare, ha pubblicato saggi sull’arte della guerra, sulla guerriglia e sulla missione ISAF in Afghanistan.
19 944
OPERAZIONE BAGRATION Lanciando i suoi T-34 nelle steppe della Bielorussia, Stalin fermò la corsa di Hitler.
TRATEGIE E 40 ST LA GRANDE GUERRA PATRIOTTICA La risposta dell’Unione Sovietica all’aggressione di Hitler. Come fu sconfitta la Wehrmacht.
RAFFAELE D’AMATO Piemontese, 51 anni, studioso di storia militare romana e professore di storia e archeologia antica e medievale alla Fatih University di Istanbul.
A STORIA A 42 LAPRIMA DI PUTIN
ANDREA FREDIANI
UNIFORMI 48 LEI ESOLDATI
Romano, 53 anni, medievista, ha scritto vari saggi di storia militare e romanzi storici di successo (andreafrediani.it).
FABIO RIGGI Romano, 43 anni, si occupa di tematiche militari a livello professionale. Ha collaborato con riviste militari specializzate.
WARS L’ARMA
RUBRICHE
L’espansionismo russo attraverso le figure che ho hanno incarnato, da Ivan il Terribile agli zar.
Dai Vareghi della Rus agli streltsý, dai druzhnik ai cosacchi.
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UNIFORMOLOGIA
I NEMICI DI ROMA Erano tanti e bellicosi, sfidarono l’egemonia romana per duemila anni.
COMMERCIALI 64 GUERRE AL SERVIZIO DI SUA MAESTÀ Li conosciamo dai libri di Salgari: i soldati della Compagnia delle Indie sono stati per 4 secoli la mano armata del colonialismo inglese. EA
PAG. 4
SOLDATINI
PAG. 18
GENERAZIONE 2000
RAID
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Invisibilità ai radar, supermanovrabilità, supercrociera, multiruolo, ecco l’identikit dei caccia di ultima generazione.
LIVING HISTORY
PAG. 54
RECENSIONI
PAG. 82
IN COPERTINA Vladimir Putin (Getty Images); sopra, un carro T-14 Armata sfila sulla Piazza Rossa a Mosca, maggio 2016 (Getty Images); il caccia russo Sukhoi T-50 PAK FA (Alamy).
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PROTAGONISTI
IL SOGNO DI UNO STATO Il duca di Borgogna Carlo il Temerario fu uno dei grandi combattenti del ’400 e contribuì alla nascita degli eserciti moderni.
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WARS
L’ARMA
STURMGEWEHR 44
STG 44 Il progenitore dei moderni fucili d’assalto: lo Sturmgewehr 44 (o StG 44), prodotto dalla Germania del Terzo Reich. L’arma funzionava sia a colpo singolo che a raffica, combinando precisione e potenza d’impatto a distanza ravvicinata.
ella storia dell’evoluzione delle armi da fuoco portatili un posto d’onore spetta allo Sturmgewher 44, considerato come il capostipite dei moderni fucili d’assalto. Il progetto destinato a rivoluzionare l’armamento della fanteria partiva da uno studio fatto in Germania negli anni ’30. Analizzate le distanze medie fra opposte fanterie in combattimento, i risultati avevano mostrato che la cartuccia 7,92x57 – la munizione standard dei fucili tedeschi in quel momento – risultava troppo potente rispetto alle reali necessità. Nel 1938 venne così sviluppata una nuova cartuccia: la 7,92x33 “Kurz Infanterie Patrone”. Era meno capace in termini di gittata, ma per il suo impiego poteva essere progettato un fucile più leggero e compatto, consentendo così anche al singolo soldato di portare con sé un quantitativo maggiore di munizioni. Dopo la realizzazione di alcuni prototipi, nel 1943 apparve la Maschinen PiMunizione standard Nella classificazione del“munizionamento”per le armi da fuoco, il primo dato numerico indica il calibro, il secondo – dopo il segno“x”– indica la lunghezza del bossolo. Quest’ultimo contiene la carica propellente di lancio e di conseguenza determina la potenza della cartuccia stessa.
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I fanti tedeschi in azione con il fucile StG 44 durante la Seconda guerra mondiale.
stole 43 (MP 43): era un’arma di peso e ingombro minori dei fucili tradizionali, ma garantiva comunque una gittata e una potenza maggiori rispetto alle pistole mitragliatrici (comunemente dette “mitra”), che fino a quel momento andavano a integrare l’armamento della fanteria con la loro capacità di sparare a raffica a distanza ravvicinata. Dal disegno decisamente innovativo, la MP 43 dimostrò subito che era in grado di unire la capacità di tiro a distan-
SZ PHOTO/AGF (2)
INTERFOTO / ARCHIVI ALINARI, FIRENZE (2)
A cura di Fabio Riggi
za, accettabile seppur minore rispetto ai fucili tradizionali, con l’elevato volume di fuoco derivante dal tiro automatico (comunemente detto “a raffica”) proprio delle pistole mitragliatrici. L’a armam mento sta andar rd. Gli organi tecnici tedeschi decisero quindi che il fucile chiamato in seguito “Sturmgewehr” 44 (la parola significa “fucile d’assalto”) o StG 44 avrebbe sostituito completamente i fucili e le pistole mitragliatrici, diventando così l’ar-
POTENZA DI TIRO La canna era lunga 419 mm, contro una lunghezza del fucile di circa 93 cm; la cadenza di tiro era di 500 colpi/minuto.
LE MUNIZIONI
mamento standard del fuciliere tedesco. L’arma si affermò subito come uno strumento affidabile ed efficace, in grado di sparare sia a colpo singolo che a raffica grazie a un meccanismo di funzionamento “a presa di gas”: questo è basato sull’utilizzo dei gas di sparo, una parte dei quali – quando ancora si trovano nella canna – viene deviata in un cilindro parallelo alla canna stessa e da qui convogliata verso la camera di cartuccia. In questo modo si mettono in movimento le parti meccaniche destinate a garantire il caricamento, ed eventualmente lo sparo automatico se il tiratore mantiene la pressione sul grilletto. Caratterizzato da un peso di 5,2 chilogrammi, una lunghezza di 933 millimetri e alimentato da un caricatore con 30 colpi, lo StG 44 era in grado di sviluppare nel tiro in automatico una cadenza di tiro di circa 500 colpi al minuto. Lo Sturmgewehr 44 deve essere considerato un vero spartiacque nella storia delle armi da fuoco: da allora e fino a oggi il concetto di “fucile d’assalto” indica la più importante arma individuale dei soldati in tutto il mondo.
ULLSTEIN BILD VIA GETTY IMAGES
Raro modello di doppia cartucciera dello StG 44: in cuoio di recupero e tela, poteva contenere 6 caricatori da 30 colpi. La cartuccia era la 7,92x33 Kurz: ebbe il suo debutto sul fronte russo. Raggiungeva una velocità di 700 m/secondo.
IN DOTAZIONE Sopra, a Berlino nel 1957 ufficiali della Volkspolizei della Germania Est; sono equipaggiati con il fucile d’assalto StG 44, come il soldato tedesco (a destra) sul fronte occidentale durante la Seconda guerra mondiale.
ANTICHITÀ
CON N GL LI OPLIITI E AN GE I GR EC I LA FALA AVR REBB BER RO POTU TO CON NQU UISSTA AR E NDO O, IN N V EC E IL MON SI ANNIIEN N TAR RO N O FRA A LO ORO O
i sono davvero pochi dubbi sul fatto che la Grecia avrebbe potuto dominare l’Europa e l’Asia Minore al posto di Roma, se non avesse fatto harakiri. Le pòleis possedevano, infatti, lo strumento bellico più micidiale della storia antica, la falange, e i guerrieri più preparati, gli opliti; e con armi simili avrebbero potuto costituire un impero se solo non le avessero rivolte verso loro stesse. A iniziare le lotte intestine furono i Greci dell’età classica che, vinti i Persiani, si affrontarono e logorarono tra di loro fino a sfinirsi e a lasciarsi sottomettere dai Macedoni; poi fu la volta dei Greco-macedoni eredi di Alessandro, che se le diedero di santa ragione per decenni e per più generazioni, lasciando una penisola ellenica frazionata e litigiosa, facile preda dei Romani.
C. GIANNOPOULOS
A COLPI DI SCUDO
T R AC I A
L AT I N I MAC E D O N I A
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Pella t
Cuma t t Napoli
Bisanzio t 405 a.C. Egospotami t Cizico t t 410 a.C. Lampsaco
422 a.C. Anfipoli t
C A LC I D I C A
GRECIA
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Atene e alleati
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IMPERO PERSIANO Sardi t t Smirne t
Atene
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413 a.C.
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Sparta e alleati Stati neutrali
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Potidea t 432 a.C. Larissa t ia T E S
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La Guerra del Peloponneso
EPIRO
t Melo 415 a.C.
Rodi
C R E TA Campagne Ateniesi
Campagne Spartane Battaglie attagli
LA LEZIONE DI DELIO Atene affronta Tebe e i suoi alleati nella battaglia di Delio (424 a.C.): la falange oplitica ateniese viene messa in rotta più che dall’altra falange dall’intervento della cavalleria.
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BATTAGLIA DI DELIO: TEBE VS ATENE SCUDI TEBANI A lato, queste ricostruzioni ci mostrano esempi di deigmata, i blasoni degli scudi oplitici. Ecco quelli dei Tebani e dei loro alleati Beoti a Delio nel 424 a.C.
HALIARTOS
TESPIAE
TESPIAE
Questa città della Beozia recava sull’hôplon il tridente della divinità Poseidon Orchestos.
Altra città della Beozia: mostrava sullo scudo rotondo la luna crescente della cosiddetta Afrodite Nera.
Questa è una versione più tradizionale dello stesso simbolo, sempre la luna dell’Afrodite Nera.
ATENIESI E ALLEATI Qui di fianco, ecco gli scudi di Atene, la città capofila, e dei suoi alleati nella battaglia di Delio contro Tebe e le pòleis della Beozia.
VAVRONA
ATENE
ATENE
Era una città dell’Attica: il simbolo era la luna crescente di Artemis con il globo solare di Helios-Apollo.
Questo è il tradizionale scudo con la lettera Alpha, iniziale del nome della città di Atene.
L’occhio apotropaico vigilava e proteggeva il combattente della città-Stato più importante.
BATTAGLIA DI MANTINEA: ARGO VS SPARTA SPARTANI A lato, scudi di Sparta a Mantinea (418 a.C.). A destra, l’hôplon in sezione: convesso, da 1,2 m a 90 cm di diametro, aveva un cuore di legno e due strati di cuoio rinforzati da un bordo di bronzo, impugnatura centrale (porpax) e laterale (antilabe) in bronzo e corda. 8
ORCOMENO
SPARTA
MANTINEA
Questa città della Beozia portava come deigmaton (simbolo) la spiga di grano contornata da una corona d’alloro.
Reso famoso da tanti film, ecco il tradizionale scudo con la lettera Lambda, iniziale di Lakedaímôn, nome greco della città di Sparta.
Gli opliti di questa città dell’Arcadia si riconoscevano dal tridente di Poseidon.
TESPIAE
TEBE
Ancora una variante del medesimo blasone, ma questa volta con una doppia luna crescente.
Era la città più grande della Beozia, a capo della Lega beotica. Sullo scudo recava la clava di Eracle.
ATENE
ATENE
Altro scudo ateniese: questo apparteneva agli opliti della Marina e recava il simbolo del delfino.
L’Eros adulto che impugna un fulmine alato apparteneva allo scudo personale del generale ateniese Alcibiade.
L’OPLITA E IL SUO HÔPLON ÔPLON
N
ella compatta formazione a falange, l’elemento distintivo del guerriero greco era proprio lo scudo, che dava il nome all’oplita. In un’epoca in cui l’uniforme non esisteva, i simboli impressi sugli scudi (deigmata) permettevano a nemici e amici, nel corso della mischia e durante i movimenti delle formazioni di battaglia, di individuare l’appartenenza di un esercito a una determinata città, demos o quartiere. I segni. All’inizio i blasoni incisi o dipinti sugli scudi avevano un carattere puramente individuale, usualmente disegni geometrici o mitici animali e uccelli sacri agli dèi. Più tardi le pòleis usarono questi segni per evitare errori di identificazione durante le battaglie; gli opliti, infatti, anche se appartenenti a diverse città, avevano solitamente un equipaggiamento simile. Spesso il blasone di una città-Stato non era altro che la lettera iniziale del nome della pòlis: gli esempi più clamorosi furono la lettera Alpha di Atene (A) e la lettera Lambda di Sparta (Λ = Lakedaímōn). R. D’AmatoHÔPLON
C. GIANNOPOULOS
NELLA MISC CHIIA GLI OPLITI DIST TINGU UEV VAN NO GLI A MIC CI R AZ Z IE E AI SEGN NI DAI NEMICI GR RESSII SU UI LOR RO S C U D I IMPR Sparta, Atene, Tebe: tutte le principali pòleis hanno avuto la loro occasione per trovarsi a capo di una federazione che potesse fungere da base per costituire un impero; e tutte hanno fallito, per la scarsa tolleranza che, a differenza dei Romani, hanno dimostrato nei confronti dei subalterni e per l’incapacità di venire a patti con gli oppositori. L’evento cardine di questa cronica incapacità, quello che ha posto ineluttabilmente fine ai sogni di gloria degli Elleni, è senza dubbio la Guerra del Peloponneso, il trentennale conflitto che alla fine del V secolo a.C. contrappose Atene a Sparta prosciugandone le risorse tanto da coniare il noto detto “Se Atene piange, Sparta non ride”: tre decenni con le falangi al massimo del loro potenziale bellico, di campagne mirate a devastare il territorio nemico per estinguere i suoi canali di vettovagliamento, di scontri navali imponenti, di battaglie campali tra eserciti ai quali nessuno avrebbe saputo resistere, se uniti insieme. Questa guerra senza quartiere alla fine non avvantaggiava nessuna delle città avversarie, e con un nulla di fatto finivano spesso anche le singole battaglie: gli scontri tra falangi finivano per essere statici e terminavano solo con l’oscurità, ma senza un vero vincitore; un’ammissione di sconfitta, di solito, era il reclamare una tregua per portare via i caduti. Parola d’ordine. Due forze eguali e contrarie, dunque, si affrontavano senza sostanziali differenze di armamento, di piani tattici, di capacità dei comandanti; tanto che per distinguere il compagno dal nemico nella mischia, quando anche i pochi simboli di distinzione venivano ricoperti da polvere, sangue e perfino feci, si usava diffondere una parola d’ordine poco prima dello scontro. Gli opliti duellavano con le lance, cercando di colpire l’avversario sopra o sotto lo scudo, alla gola, all’inguine e alle cosce, dopo aver percorso al ritmo di 8 km l’ora gli ultimi 200 metri che li separavano dalla linea nemica, con lo scudo davanti al corpo p e la lancia in posizione d’attacco, sia sotto che sopra spalla. La falange coesa e organizzata potevva sfondare con relativa facilità un’armata m dalle caratteristiche diverse, come quelle persiane, ma la sua potenza finiva per spegnersi di fronte a uno schieramento quasi gemello. E allora a decidere la battaglia era la spinta: si spingeva tutti insieme e non era più una questione di abilità con le armi, ma di forza e di coesione, di fisico e disciplina. Lo scopo era aprire un varco in cui insinuarsi, cosa che avveniva quando qualcuno non riusciva a conservare lo scudo o più opliti cadevano nello stesso settoera come se a un un muro venisse sottratto un mattone. Strane battaglie, dunque, quelle che si combatroono tra Sparta e Atene, con i loro alle, durante la Guerra del Peloponneso: schie9
418 a.C. Battaglia di Mantinea Agide sbarra la strada agli avversari con i lochoi (sottounità) spartani al centro, affiancati dagli alleati. Argo è allora costretta a schierarsi: gli Argivi al centro, gli Ateniesi a sinistra e i Mantinei a destra (1a Fase). I due eserciti iniziano il tipico movimento verso destra, dovuto al fatto che ciascun componente della falange oplitica tende a cercare la protezione dello scudo del compagno. Prima dello scontro, per evitare l’accerchiamento, Agide ordina a Sciriti e uomini di Brasida di allargarsi a sinistra, ma la manovra non riesce. Gli avversari si incuneano nello schieramento spartano (2a Fase) e l’ala sinistra spartana cede. Al centro e a destra, invece, la guardia di Agide e i Tegeati costringono alla fuga Arcadi, Argivi e Ateniesi, scoperti sul fianco (3a Fase). Agide, con la vittoria in pugno, manda un drappello in soccorso alla sua sinistra e provoca la rotta dei nemici.
Cavalleria ateniese
1A FASE 1
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1 Mantinei 2 Arcadi 3 Argivi (epilektoi) 4 Alleati 5 Ateniesi
5 Cavalleria spartana
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3
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1 Sciriti 2 Spartani liberati, guidati da Brasida 3 Arcadi di Agide 4 Spartani (lochoi) 5 Tegeati
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2A FASE 1
1
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Cavalleria ateniese
3 FASE A
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Cavalleria spartana
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C. GIANNOPOULOS (2)
3
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4
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4
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L’ARGIVO L’OPLITA. Epilektos di Argo del 418 a.C. UNIFORME E ARMI. Indossa il tradizionale elmo corinzio, proprio degli opliti che operavano nel Peloponneso, sormontato da un’alta cresta (lophos) di crini di cavallo, che secondo Plutarco le donne tingevano a colori vivaci per gli uomini. Come deigmaton (fregio, simbolo) dello scudo su sfondo bianco c’è l’Hydra di Lerna. Primi in Grecia a ricevere questo nome, gli epilektoi (“truppe scelte”) formarono un corpo di 1.000 combattenti d’élite a Mantinea, dove si distinsero per il loro coraggio. R. D’Amato
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ramenti speculari, dinamismo inesistente e movimenti ridotti all’essenziale. Un puro scontro fisico nel quale a prevalere erano le armate con gli elementi più giovani e atletici. La prima battaglia campale delle rivali Sparta e Atene di cui abbiamo notizia ebbe luogo nel 457 (Prima guerra del Peloponneso), prova generale del conflitto vero e proprio che sarebbe scoppiato 26 anni dopo. Ebbe luogo a Tanagra, sul fiume Asopo (in Beozia, Grecia Centrale), ma ne sappiamo ben poco. Di certo fu un classico scontro di fanteria pesante, soprattutto perché la cavalleria tessala degli Ateniesi abbandonò subito il campo, e terminò a sera senza vincitori né vinti, o con una leggera prevalenza spartana. Sappiamo che vi partecipò anche Pericle, ma in un ruolo subordinato. Tanag gra. Più dettagliate le notizie sul primo grande scontro del conflitto principale, avvenuto nel 424 a.C. In quella circostanza gli Ateniesi idearono una strategia a tenaglia per sottrarre a Tebe l’egemonia della Beozia, fomentando ribellioni nell’area per sostenere la loro azione. Lo stratego Ippocrate marciò lì con un’armata di 7.000 opliti e 1.000 cavalieri, oltre a truppe
GLI OPLIITI DELLA FALAN NGE GRECA A DO OVE EVAN NO AVE ERE E ABBASTA ANZA DEN NARO PER AC CQUISTAR RE LA A PA ANO OPL LIA AE PARECCH HIA FORZA A PER SOSTE ENERE E IL PESSO DE ELLE ARM MI leggere; si accampò presso il santuario di Apollo Delio, a Tanagra. Dopo tre giorni trascorsi a fortificare il sito, l’ateniese apprese che il collega Demostene, per mare con la flotta, non era più in grado di raggiungerlo, pertanto tornò in Attica. Ma nel frattempo i Tebani avevano allestito un esercito e, quando gran parte delle truppe leggere ateniesi erano già ripassate in Attica, il loro comandante Pagonda si lanciò all’attacco con un numero equivalente di opliti e cavalieri, supportati da 10.000 soldati leggeri. Ippocrate non si sottrasse alla battaglia, distaccando solo 300 cavalieri a guardia delle fortificazioni. I Tebani si
L’ATENIESE L’OPLITA. Ekdromos ateniese del 440 a.C. UNIFORME E ARMI. Nelle spedizioni contro i Traci agivano opliti armati meno pesantemente (ekdromoi) con l’elmo (kranos) più leggero e un chiton imbottito a colori vivaci. Le armi erano la lancia (dory), lo scudo oplitico e la spada corta (xiphos), senza corazza (thorax) né schinieri (knemides). Lo storico militare Sekunda attribuisce a tale periodo l’inizio dell’alleggerimento complessivo dell’equipaggiamento oplitico, poi completato dalle riforme di Ificrate. R. D’A.
schierarono con un’ala destra molto profonda, su 25 file, puntando allo sfondamento dell’ala sinistra di Ippocrate, mentre gli Ateniesi avanzavano contro l’ala sinistra nemica. La sinistra ateniese si sfaldò sotto la superiore pressione nemica e finì in rotta: tra gli opliti in fuga ci fu anche Socrate. Pagonda, intanto, mandò a supporto della propria ala sinistra un contingente di cavalleria, che frenò il nemico e lo costrinse alla ritirata. Gli Ateniesi lasciarono sul campo un migliaio di opliti, i Tebani la metà, e poco dopo anche il contingente di cavalleria a Delio fu costretto alla resa. In questo caso, i due schieramenti adottarono un atteggiamento speculare, ciascuno cercando di sfondare la sinistra nemica; prevalsero i Tebani perché ebbero l’accortezza di accentuare la profondità della loro ala destra, aumentando quindi la propulsione della spinta – una caratteristica che oltre mezzo secolo dopo, durante l’egemonia tebana, Epaminonda avrebbe portato al massimo sviluppo con il tipico “ordine obliquo” – e perché il loro comandante utilizzò la cavalleria in funzione difensiva, per arginare il ripiegamento della propria ala in crisi. Mant tinea. Diverso fu l’andamento della grande battaglia campale combattuta a Mantinea nell’agosto del 418. Allora Atene si fece coinvolgere nella lotta tra Argo e Sparta, mandando nel Peloponneso un contingente di rinforzo all’esercito di Argo, Elea e Mantinea, che si accingeva ad affrontare il re spartano Agide II. Ma non ci fu combattimento e parte degli eserciti se ne tornò a casa, mentre gli Argivi e i loro alleati residui marciavano contro Tegea. Agide, con meno di 6.000 uomini tra Spartani, Tegeati e Arcadi, si attestò a Mantinea per sbarrare la strada agli avversari, che si posizionarono su un’altura. Per spingerli a battaglia, il re fece deviare il fiume che portava acqua alla città; solo allora gli Argivi si schierarono, concentrando le proprie truppe al centro e ponendo Ateniesi a sinistra e Mantinei a destra. I due eserciti, come spesso accadeva negli scontri tra falangi, produssero uno speculare spostamento verso destra in fase di avanzata, perché ogni oplita ricercava istintivamente la protezione dello scudo del compagno di destra. Agide ordinò allora alla propria ala sinistra di spostarsi verso l’esterno per evitare l’aggiramento, ma ciò produsse una falla tra il fianco e il centro, nella quale si insinuò l’ala destra dei Mantinei. Tuttavia il re riuscì a infilarsi a sua volta tra il centro e l’ala sinistra nemica, costringendo gli Ateniesi sul fianco al ripiegamento, seppur protetto dalla loro cavalleria; poi completò l’accerchiamento della metà destra dello schieramento avversario, investendo gli Argivi. I Mantinei, ancora impegnati a sgominare l’ala sinistra nemica, videro gli alleati in fuga e scapparono anch’essi, permettendo agli Spartani di fregiarsi della vittoria al costo di 300 uomini; tra i nemici, 700 furono i caduti argivi e arcadi, 200 i Mantinei e altrettanti gli Ateniesi. In questo caso, la naturale deriva a destra di entrambi gli schieramenti aprì degli spazi al centro, il cui sfruttamento fu determinante per l’esito dello scontro: il più bravo ad approfittarne, ovvero il re spartano, poté accerchiare la metà di destra dell’esercito nemico, secondo modalità simili a quelle che avrebbero consentito a Napoleone di vincere ad Austerlitz. Andrea Frediani
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APPROFONDIMENTO
ECCO PERCHÉ NON FUNZIONÒ IL PIANO ELABORATO DAI
ANACONDA
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NORDISTI PER STRANGOLARE LA CONFEDERAZIONE
PLAN NORD VS SUD
GETTY IMAGES (3)
A destra, il generale Winfield Scott (17861866), comandante in capo dell’esercito degli Stati Uniti (detto unionista o nordista). Fu lui a concepire il piano Anaconda (nella mappa a sinistra), l’offensiva per stritolare in una morsa i sudisti. Sotto, il generale Robert E. Lee (1807-1870), comandante delle forze sudiste (o confederate).
llo scoppio della Guerra di secessione americana il comandante in capo dell’esercito degli Stati Uniti, il generale Winfield Scott, era un an nziano ed esperto combattente, veterano della guerra contro l’Inghilterra del 1812, di vvarie campagne indiane e della Guerra messiccana del 1848. Consapevole di non essere più ù in grado di guidare i suoi uomini in battaglia,, il 17 aprile del 1861 Scott offrì il comando d delle truppe al colonnello Robert E. Lee, virgiiniano come lui, “di gran lunga il miglior sold dato” che avesse mai conosciuto; ma lo stesso giorno la Virginia si pronuciò per la secessione s e Lee, a malincuore, scelse di restare fedele al proprio Stato d’od rigine. Il comando venne affidato allora al generale Irvin McDowell: ma la proposta di Scott e il rifiuto di Lee sono rivelatori della grande incertezza, dei dubbi e delle contraddizioni di una generazione di ufficiali divisi tra il forte legame con la terra d’origine – dove molti di loro avevano proprietà e interessi – e la lealtà all’Unione. Si andava prospettando una guerra tra fratelli: per questo Scott era riluttante a pianificare una lotta all’ultimo sangue, e si mise invece all’opera per elaborare una strategia capace di piegare la volontà dei secessionisti senza che fosse necessario sconfiggere le loro forze sul campo e conquistare ampie porzioni di territorio. 13
BRIDGEMAN/MONDADORI PORTFOLIO
A DISPETTO DELL’INFERIORITÀ DI MEZZI E UOMINI, L’ESERCITO
CONFEDERATO RIUSCIVA COMUNQUE A RESISTERE I SETTE GIORNI
GETTY IMAGES
La croce del Sud svetta a Glendale, durante una delle “battaglie dei sette giorni” (1862), che i sudisti di Lee combatterono contro le truppe di McClellan riuscendo a guadagnare tempo.
DELUDENTE Il generale George McClellan (1826-1885) doveva essere la risposta nordista alle strategie di difesa messe in atto da Lee. Si rivelò invece molto più debole del previsto.
La morsa a let tale e. Scott espose le proprie idee al presidente Lincoln all’inizio dell’estate del 1861. Il suo piano – più tardi soprannominato Anaconda – puntava a soffocare la ribellione senza grandi battaglie, ed era basato su un presupposto fondamentale: Scott era convinto che la scelta di separarsi dall’Unione fosse da ricondurre a pochi personaggi privi di sostegno popolare, e che sarebbe stato quindi sufficiente esercitare una forte pressione militare, bloccando le fonti di approvvigionamento degli Stati del Sud, per determinare un crollo del morale interno, costringendo anche i secessionisti più accesi ad ammettere l’errore politico e a intavolare trattative per un ripristino dello status quo ante. Purtroppo Scott era in errore: una volta iniziate le ostilità, infatti, la gente del Sud avrebbe mostrato una irriducibile dedizione alla causa secessionista, affrontando per quattro q anni sacrifici enormi in condizioni di ogggettiva inferiorità. Ma il suo Anaconda Plan vennee scartato per un motivo diverso: l’opinione pubbblica dell’Unione era convinta che i ribelli poteessero essere facilmente sconfitti con una brevee campagna che puntasse senza esitazioni sulla s loro capitale Richmond (Virginia), distante appena un centinaio di migliia da Washington. Risu ulta ato o: un fa alllim mento o “nap p oll eon n ico o ”. Al generale McDowell venne dunque ordinato di attaccare in direzione di Richmond, ma le sue truppe subirono una sanguinosa battuta d’arresto nella prima battaglia di Bull Run (21 luglio 1861). McDowell fu rimosso dal comando; il generale Scott ripropose nuovamente la strategia “di soffocamento”, ma si rese conto che le sue idee continuavano a essere impopolari e il primo novembre rassegnò le dimissioni. Al suo posto il presidente Abramo Lincoln scelse come nuovo comandante in capo il generale George McClellan. Giovane, ambizioso e convinto sostenitore della strategia “napoleonica” (reinterpretata sulla base dei testi di teoria militare del barone de Jomini, che all’epoca facevano scuola), lo stratega unionista si mise all’opera per vibrare un colpo mortale all’avversario. Il primo insuccesso venne attribuito alle scarse risorse messe in campo e all’inesperienza: restava l’illusione di poter spezzare la volontà del nemico grazie a una grande offensiva, da concludere con una battaglia campale “decisiva”. Ma non accadde nulla del genere: McClellan, in realtà molto meno risoluto di quel che
affermava in pubblico, procedette con estrema lentezza nei preparativi, e venne poi sconfitto dall’Armata della Virginia Settentrionale, passata agli ordini del generale Lee, in una serie di scontri sanguinosi che gli storici avrebbero ricordato come “le battaglie dei sette giorni” (25 giugno-1° luglio 1862). Queste operazioni permisero ai sudisti di salvare Richmond e di prolungare la guerra. I caduti si contavano nell’ordine delle decine di migliaia, ma la resistenza dei ribelli si era fatta ancora più tenace, e attorno alle vittorie conquistate sul campo si stavano creando una identità e un orgoglio nazionale che avrebbero reso più difficile la vittoria finale dell’Unione. L ’Anaconda sopravvive. Nel frattempo la grande strategia del generale Scott non era stata del tutto abbandonata. Il Piano Anaconda prevedeva operazioni coordinate ma distinte: il blocco marittimo dei porti confederati, da affidare alla marina da guerra e a corpi di spedizione da far sbarcare sulle coste nemiche, e la conquista del corso del Mississippi, che avrebbe permesso di tagliare in due il territorio della Confederazione. Fin dal primo anno di guerra venne istituito a Washington il Blockade Strategy Board (Ufficio strategico del blocco marittimo) – con il difficile compito di raccogliere e coordinare l’impiego delle forze necessarie a isolare i porti nemici. All’Unione, nonostante il grande potenziale delle sue industrie, mancavano le risorse necessarie per mettere in atto in maniera davvero efficace l’Anaconda Plan: troppo estese le coste confederate, troppo numerosi i porti, troppo limitate le capacità operative dei vascelli da guerra disponibili, troppo abili e audaci i blockade runners nemici. Il Board dovette chiedere aiuto all’esercito, che tentò ripetutamente di espugnare le fortificazioni costiere ribelli: particolarmente dura, prolungata e sanguinosa fu la lotta per Charleston, ai cui moli attraccavano la maggior parte dei vascelli capaci di forzare il blocco. Il 7 aprile 1863 l’ammiraglio Samuel Du Pont tentò l’attacco contro Fort Sumter, che controllava l’imboccatura del porto, ma fu respinto perdendo una nave; l’11 luglio successivo venne lanciata un’operazione anfibia contro Fort Wagner, all’estremità meridionale della rada di Charleston, ma i difensori confederati – comandati da un oriundo italiano, il generale William Taliaferro – fecero strage della fanteria unionista, respingendo un secondo e ancor più violento assalto una settimana dopo. L’Anaconda di Scott sopravviveva, ma non riusciva a soffocare del tutto la preda. 15
FRA LE OPERAZIONI PIÙ BRILLANTI DELL’INTERA GUERRA CIVILE AMERICANA, LE MANOVRE DI GRANT NEL 1863
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vestiario e un flusso costante di munizioni – ovvero quanto bastava per restare efficiente sul campo di battaglia, tutto grazie ai rifornimenti trasportati nelle stive dei blockade runners che raggiungevano i porti di Charleston e Wilmington. Per vincere la guerra l’Unione dovette portare un esercito nel cuore del territorio nemico, devastandolo spietatamente: proprio quello che la strategia gia di Winfield Scott avreb avrebbe voluto evitare a ogni costo. Solo la celebre “marcia fino al maare” del generale William T. Sherman, che nel tardo autunno del 1864 condusse le sue truppe da Nashville al porto di Savannah, riu uscì a infliggere un colpo mortale alla Confeederazione. Ma l’Anaconda Plan, mai del tu utto abbandonato, era stato certamente deciisivo per indebolire lo sforzo militare degli Stati secessionisti, rendendo inevitabile il loro trracollo finale. Gastone Breccia
BRIDGEMAN/MONDADORI PORTFOLIO
La conquista del Mississippi venne invece portata a termine con successo nel terzo anno di guerra. Alla fine di aprile del 1862 le cannoniere corazzate dell’ammiraglio David Farragut forzarono le difese di New Orleans e costrinsero la città alla resa: la flottiglia unionista prese a risalire il corso del fiume fino alla grande piazzaforte di Vicksburg, chiave dell’intero Mississippi, che venne investita già alla fine del 1862. Il generale Ulysses S. Grant – che dal luglio 1862 guidava le forze unioniste nel teatro di guerra occidentale, tra i Monti Appalachi e il Mississippi – riuscì ad aggirare le posizioni confederate sulla riva sinistra, tra Vicksburg e Jackson: il 4 luglio del 1863, dopo oltre due mesi di manovre e combattimenti che costituiscono una delle più brillanti operazioni militari dell’intero conflitto, la guarnigione del generale Pemberton, ormai completamente isolata, depose le armi. Con la conquista di Vicksburg le armate dell’Unione acquisivano una libertà di manovra eccezionale, mentre lo sforzo bellico sudista subiva un colpo tremendo: almeno una delle grandi campagne previste dalla strategia di Scott aveva raggiunto il suo scopo. Una a valu utaz zion ne finale. L’Anaconda Plan può essere considerato una strategia più moderna della guerra cui doveva essere applicata. L’idea di strangolare la Confederazione bloccando i suoi commerci con l’estero e tagliando fuori una parte del suo territorio sarebbe stata infatti assai più efficace nei confronti di un’economia sviluppata: la società agraria degli Stati del Sud riuscì invece a sopravvivere grazie alla sua stessa arretratezza, utilizzando al meglio, in ogni area, le proprie limitate risorse e facendo tesoro di quelle importate nonostante il blocco marittimo. Era difficile prevedere l’eccezionale resilience della Confederazione, capace di mantenere per più di quattro anni le proprie armate in condizione di combattere nonostante l’evidente sproporzione di forze. L’avventura dei blockade runners costituisce un capitolo a parte del lungo conflitto, la cui importanza è stata spesso sottovalutata: basti pensare che le merci introdotte dagli agili piroscafi sudisti, spesso specificamente concepiti per sfuggire alle navi dell’Unione, furono distribuite alle truppe ribelli fino agli ultimi mesi di guerra: l’Armata della Virginia Settentrionale di Lee, trincerata a difesa di Richmond e Petersburg, benché non contasse ormai più di 70.000 effettivi, ricevette nella fase finale del conflitto 167.000 paia di scarpe, oltre 350.000 capi di
IL COLPO DI GRAZIA A destra, il generale unionista Ulysses S. Grant, che diede ai sudisti la spallata decisiva a Viksburg. Sotto, il reggimento di volontari dell’8° Wisconsin partecipa alla presa di Viksburg portando in battaglia l’aquila Old Abe, la l mascotte più ù famosa f della Guerra civile, chiamata così in onore di Abramo (“Abe”) Linc
S. STANLEY GETTY IMAGES
xxxx Armata xxx Corpo d’armata xx Divisione x Brigata
La conquista di Vicksburg
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lysses S. Grant tentò inizialmente di investire direttamente la piazzaforte di Vicksburg – chiave del medio corso del Mississippi – da nord-est, ma senza successo (dicembre 1862-marzo 1863). Il generale unionista decise allora di portare la sua Armata del Tennessee, forte di circa 50.000 uomini, sulla sponda destra del fiume, aggirando la fortezza, e di qui di nuovo su quella sinistra a sud della città: manovrando abilmente
riuscì a interporsi tra la guarnigione di Vicksburg, agli ordini del generale Pemberton, e l’armata di soccorso guidata dal generale “Joe” Johnston, in avvicinamento da est. Si prepara il disastro. Dopo aver respinto quest’ultimo, Grant riuscì a sconfiggere in maniera decisiva le forze di Pemberton nella battaglia di Champion Hill (16 maggio 1863); al generale confederato non restò altra scelta che ripiegare al riparo delle
fortificazioni di Vicksburg, ormai completamente isolata. Dopo sei settimane di assedio, e dopo aver respinto numerosi assalti (v. la mappa sopra) la guarnigione sudista esaurì viveri e munizioni e fu costretta alla resa (4 luglio 1863). Agli ordini di Pemberton si consegnarono al nemico 14 generali e circa 30.000 uomini con 250 cannoni: un disastro da cui la Confederazione non si sarebbe mai più risollevata.
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WARS
SOLDATINI
AGOR RDAT T, 27 GIIUGNO O 1890 0
BERSAGLIERI D’AFRICA A cura di Marco Lucchetti
el 1889 la campagna italiana contro i ras etiopici del Tigré stava dando buoni frutti, riuscendo a espandere la colonia italiana oltre Massaua, fino ad Asmara e Agordat. Ma in questa zona gli italiani si scontrarono con i dervisci del Mahdi, il capo militare e religioso sudanese che aveva assediato Karthoum massacrando il generale britannico Gordon nel 1885. Si trattava di guerrieri pericolosi, che si spingevano in sanguinosi raid in terra eritrea massacrando le popolazioni allora sotto la protezione del governatorato italiano. Il bersagliere raffigurato nel modellino è ripreso dalle truppe che combatterono e vinsero contro i dervisci nel 1890, l’anno in cui la colonia assunse il nome di Eritrea. La a stor ria.. Il 1° Battaglione bersaglieri, al quale apparteneva il nostro soldatino, era stato costitui-
to con le prime quattro compagnie formate tra il 1836 e il 1843. Aveva combattuto alla battaglia di Goito (30 maggio 1848), durante la Prima guerra d’indipendenza, il battesimo del fuoco per i bersaglieri. In seguito il battaglione aveva partecipato alla Guerra di Crimea (1853-56), alla Seconda guerra d’indipendenza (1859), alla campagna del 1860 in Umbria e nelle Marche e alle prime fasi della guerra contro il brigantaggio (1861). Dopo avere assunto il nome del fondatore del Corpo, Alessandro La Marmora, il 31 dicembre 1861 il 1° Battaglione era andato a costituire, insieme con il 7° e il 9° Battaglione, il 1° Reggimento bersaglieri. L’unità aveva preso parte alla Terza guerra d’indipendenza (1866), alle campagne di Eritrea (1885-96) e Libia (1911-12), alla Prima e alla Seconda guerra mondiale e alla Guerra d’Etiopia (1935-36).
SCHEDA TECNICA
IL FIGURINO DELLA DITTA SOLDIERS È REALIZZATO IN LEGA DI STAGNO DA MARCO LUCCHETTI E DIPINTO CON TECNICA MISTA OLIO-COLORI ACRILICI DA ROBERTO GABRIELLI
Uniforme del 1° Battaglione bersaglieri, battaglia di Agordat, Africa Orientale, 27 giugno 1890 Il bersagliere della 4a Compagnia, 1° Battaglione bersaglieri del corpo speciale d’Africa (2° Battaglione misto del contingente di occupazione), indossa l’uniforme di marcia in cotone di colore “bronzo chiaro” introdotta nel 1887, con bottonatura a un solo petto e due tasche laterali tagliate verticalmente, con pantaloni della stessa stoffa e colore. Sugli scarponcini marroni porta uose (ghette) di tela. Il casco coloniale di sughero è rivestito di tela caki con fregio anteriore e piumetto dei bersaglieri fissato sul lato destro. Il bersagliere indossa le giberne mod. 1888, una per le cartucce e l’altra per i caricatori, entrambe sostenute da un’apposita bandoliera di cuoio. Sul petto si incrociano le cinghie della borraccia e del tascapane e, arrotolata, la mantella di colore turchino scuro. Il fucile è il Vetterli mod. 70/87 con la corta baionetta a sezione quadrangolare adottata dal corpo speciale per l’Africa. Medaglie Il 1° Reggimento Bersaglieri annovera il maggior numero di onorificenze al valore militare di tutte le forze armate italiane (2 Croci di cavaliere dell’Ordine militare d’Italia, 1 MOVM (Medaglia d’oro al valor militare), 2 MAVM (d’argento) e 11 MBVM (di bronzo) e la prima Medaglia d’oro al valore dell’Esercito a una donna, Monica Graziana Contrafatto, nel 2012.
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PRIMO PIANO BISOGNA TEMERE PUTIN? MOSCA TORNA A ESSERE IL GRANDE AGGRESSIVITÀ DELL’ORSO RUSSO? ECCO UN’ANALISI DELLE SUE
CHI HA PAURA
ALAMY
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bbiamo smesso di aver paura dell’orso russo nei convulsi giorni dell’estate del 1991, quando venne sciolto il Patto di Varsavia, cambiando d’un colpo la situazione strategica europea e mondiale. Dopo settant’anni l’Unione Sovietica si stava disgregando sotto i nostri occhi: la Guerra fredda finiva con la schiacciante vittoria del blocco occidentale guidato dagli Stati Uniti, un trionfo ottenuto – per buona sorte comune – senza nemmeno la concreta minaccia di un confronto militare diretto. L’Armata Rossa, che per quasi mezzo secolo era stata il più potente esercito terrestre del pianeta, doveva sgombrare i Paesi già alleati dell’URSS, abbandonando ingenti quantitativi di materiale bellico, per rischierarsi – drasticamente ridotta in termini di uomini, mezzi e capacità operative – all’interno dei nuovi confini russi.
DELLA RUSSIA? LO ZAR VLADIMIR
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IN CECENIA Soldati russi prendono posizione nei pressi di Grozny con il loro APC (veicolo trasporto truppe o Armoured Personnel Carrier) BTR-80. La guerra in Cecenia è andata avanti dal 1994 al 1996, e poi di nuovo dal 1999 al 2009. A sinistra, Putin ispeziona una delle basi della Flotta del Nord.
ato a Leningrado (oggi San Pietroburgo) il 7 ottobre 1952, Vladimir Vladimirovič Putin ha fatto carriera nei servizi di sicurezza sovietici e russi, diventando nel 1998 direttore della FSB (sigla dei Servizi federali per la sicurezza della Federazione russa, la struttura che ha ereditato il personale e i compiti del KGB e della polizia segreta sovietica). Supercapo. Nel pieno della crisi della presidenza di Boris Eltsin venne nominato deputato e poi primo ministro (1999); il 31 dicembre dello stesso anno, quando Eltsin rassegnò le dimissioni, Putin divenne presidente ad interim della Federazione russa, per essere poi confermato nella carica suprema dal voto popolare del 26 marzo 2000. Da allora, con vari espedienti, Putin non ha più lasciato il vertice dello Stato russo: riconfermato presidente nel 2004, allo scadere del secondo mandato ha favorito l’elezione del suo fedelissimo collaboratore Dmitrij Medvedev, che lo ha subito nominato primo ministro; il 4 marzo del 2012, vincendo facilmente le nuove elezioni presidenziali, Putin ha ripreso il suo posto alla guida della Federazione russa iniziando il terzo mandato. È considerato dall’autorevole rivista americana Forbes l’uomo più potente del mondo.
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NEMICO PUBBLICO, MA CHE COSA C’È DIETRO LA RINNOVATA FORZE ARMATE, DALLA GUERRA FREDDA AI GIORNI NOSTRI
IN AZIONE A destra, i russi bombardano un villaggio ceceno (1996); marinai su una nave russa a Sebastopoli, in Crimea (luglio 2016); il T-14 Armata, ultimo nato e vanto dell’esercito di Putin, sfila a Mosca sulla PIazza Rossa.
La cortina di ferro diventava di colpo un relitto del passato: nuove prospettive geopolitiche si spalancavano di fronte ai vincitori, mentre alcuni politologi vagheggiavano l’ormai imminente «fine della Storia». Ma la Storia non è finita. Il crollo del blocco comunista ha aperto un’epoca di grande complessità, affollata di protagonisti le cui azioni sfuggono alle tradizionali categorie dei conflitti tra Stati sovrani, moltiplicando i rischi; e forse abbiamo smesso troppo presto persino di aver paura dell’orso russo. Superato il contraccolpo della dissoluzione dell’Unione Sovietica, superate anche le umiliazioni della guerra in Cecenia (1994-96) e dell’allargamento a est della NATO (Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca ne sono entrate a far parte nel 1999, seguite tre anni dopo dalle repubbliche baltiche), il governo di Mosca ha ricostituito una forza militare potente, sfruttando la stabilità economica raggiunta nei primi anni del terzo millennio e i ricchi proventi delle esportazioni di petrolio e gas naturale. Sotto la guida politica di Vladimir Putin, e grazie alla competenza del ministro della difesa Anatolij Serdyukov (in carica dal 2007 al 2012), la Russia ha riorganizzato e almeno parzialmente rimodernato le proprie forze armate, raggiungendo livelli di efficienza di tutto rispetto, benché su scala ridotta rispetto all’epoca della superpotenza sovietica. Oggi le risorse militari di Mosca, pur non essendo in grado di competere con la NATO in uno scontro globale – che continua a essere inconcepibile grazie all’esistenza di arsenali nucleari capaci di annientare comunque l’avversario – sono certamente adatte a conseguire scopi più limitati, in un clima di tensione internazionale crescente che presenta rischi molto diversi, ma non meno gravi di quelli dell’epoca della Guerra fredda.
DIPL LOM M AZ Z IA A, EX XPORT DI GAS NAT TUR R ALE E E, SE E NEC CESSA ARIO, IL CONFL LIT T TO APE ERTO O: EC CCO O LE AR MI DEL LLA RUSSIA A O G GI 22
La za ampata. Georgia, Ucraina, Crimea: l’orso difende la sua tana. Dobbiamo davvero tornare ad aver paura della Russia? Il solo modo per saperlo è analizzare l’impiego delle forze armate di Mosca nei conflitti degli ultimi anni. Dopo lunghi anni di letargo, si iniziò con una brutta sorpresa per l’Occidente. L’8 agosto del 2008, quando il presidente georgiano Michail Saakashvili, alleato di Washington, decise di invadere le regioni separatiste dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia, protette da Mosca, le sue forze armate andarono incontro a una rapida disfatta. In soli cinque giorni le forze russe, appoggiate dalle milizie locali, contrattaccarono e sconfissero i georgiani, costringendo Saakashvili a firmare un tregua umiliante già il 12
SUL CONFINE Truppe russe in esercitazione a Stavropol, ai confini con la Cecenia (2015). Il soldato imbraccia un fucile d’assalto Kalashnikov AK 74.
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agosto. La Russia inviò nei territori contesi circa 30.000 uomini, in parte per via aerea, dimostrando notevoli capacità organizzative e logistiche: le unità della 58a Armata impegnate sul campo (19a e 42a Divisione motorizzata, 76a Divisione di assalto aereo e 33a Brigata da montagna, oltre a elementi delle forze speciali) operarono con grande efficienza e professionalità. Ricognizione preventiva, identificazione degli obiettivi, attacchi con forze numericamente superiori nei punti più vulnerabili del dispositivo nemico – per la verità schierato in maniera piuttosto dilettantesca dai comandanti georgiani, convinti di dover affrontare soltanto l’opposizione dei gruppi di ribelli separatisti – garantirono ai russi un decisivo successo tattico. Ma la cosa più impressionante, dal punto di vista militare, fu la perfetta valutazione, da parte del governo di Mosca, dei rischi e dei benefici strategici dell’operazione: una vittoria fulminea avrebbe privato l’Alleanza atlantica di qualsiasi possibilità di reazione, perché di fronte al fait accompli nessun governo occidentale avrebbe mai convinto la propria opinione pubblica a scatenare una guerra per l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia. Nelle vicinanze della sua tana, l’orso russo poteva usare gli artigli. Qualcosa di simile, ma su scala maggiore – e con pericoli più gravi per la sicurezza globale – è accaduto in Ucraina a partire dal 2014. Anche in questo caso, di fronte a un cambiamento geopolitico ostile ai propri confini, Mosca ha reagito con realismo, utilizzando abilmente la propria forza militare. Lo scopo strategico era chiaro: non perdere il controllo della Crimea, con la vitale base navale di Sebastopoli, e del bacino del Don (Donbass), regione ricca di risorse naturali, abitata per la maggior parte da popolazione di lingua russa. Uno scontro diretto con le forze ucraine era da escludere, perché in questo caso
I nuovi mezzi corazzati russi
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no dei simboli della potenza militare di Mosca sono sempre state le formazioni corazzate, i cui mezzi ai tempi della guerra fredda sfilavano orgogliosamente sulla Piazza Rossa mostrando al mondo la forza dell’esercito sovietico. L’industria della difesa russa ha una lunga tradizione nella progettazione e produzione di carri da battaglia; nell’ambito degli sforzi di rinnovamento delle forze terrestri, il 9 maggio 2015 è stato presentato pubblicamente nella tradizionale parata che celebra la vittoria nella Seconda guerra mondiale quello che dovrebbe essere il mezzo destinato a equipaggiarle in futuro: il T-14 Armata (sopra). La novità. Questo carro dal peso di più di 50 tonnellate, con un motore di oltre 1.500 cavalli di potenza e un armamento principale costituito da un cannone da 125 mm ad anima liscia, caratteristiche in linea con quelle dei principali mezzi di questa categoria, presenta però anche alcune soluzioni progettuali del tutto innovative: tutto l’equipaggio, di tre elementi, è sistemato in una “cellula di sopravvivenza” posta nella parte anteriore dello scafo mentre la torretta, completamente controllata elettronicamente, è dotata di un sistema di caricamento automatico per il cannone. Inoltre il T-14 risulta dotato, oltre che della tradizionale corazzatura, anche di un si-
stema di protezione “attivo” che può rilevare missili o proietti ad alta velocità in avvicinamento e intercettarli prima che possano colpire il carro. Ma l’esercito russo è intenzionato a rinnovarsi anche mettendo in servizio, oltre al T-14, una completa famiglia di nuovi mezzi corazzati. Essa si compone di due modelli di veicoli cingolati da trasporto e combattimento per la fanteria: il T-15, che rappresenta la versione “pesante” per questo ruolo, anch’esso designato come “Armata” in quanto condivide con il T-14 lo chassis, e il “Kurganets-25”, più leggero del primo. Entrambi sono dotati della torretta KBP EPOCH, completamente automatizzata, nella quale trovano posto un cannone da 30 mm, una mitragliatrice da 7,62 mm e quattro tubi di lancio del sistema missilistico controcarro “Kornet-EM”; oltre a questo pesante armamento i veicoli sono in grado di trasportare una squadra di fanteria di 8/9 soldati. A completare la serie di nuovi mezzi vi è poi il “Boomerang”, un altro veicolo trasporto truppe, in questo caso però in configurazione ruotata 8x8 e con capacità anfibia, destinato a sostituire la diffusissima famiglia di blindati BTR in seno all’esercito russo. Questo veicolo, nella sua variante più pesantemente armata, monta la stessa torretta EPOCH del T-15 e del “Kurganets” e trasporta un massimo di 9 fucilieri. Fabio Riggi
Cannone . La maggior parte dei cannoni per carri di ultima generazione non hanno la bocca di fuoco rigata, come generalmente tutte le armi da fuoco e le artiglierie, bensì “liscia”, in modo da sfruttare totalmente l’energia della carica di lancio e massimizzare la velocità iniziale dei proietti. Di conseguenza, ne risulta incrementata anche la capacità di penetrazione dei mezzi corazzati avversari, bersagli primari per qualsiasi carro armato.
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Ruggine e cannoni: la “nuova” flotta la portaerei Kuznetsov a ricevere il battesimo del fuoco. La rincorsa. Tra il 1956 e il 1985 fu l’ammiraglio Sergey Gorshkov a guidare la rincorsa sovietica nei confronti della potenza navale americana. Pur costruendo una flotta d’altura che nel 1989 contava 5 portaerei, 3 incrociatori da battaglia nucleari, e decine di incrociatori, caccia e fregate, la vera sfida si combatté sotto i mari. Gorshkov fece costruire centinaia di sommergibili, convenzionali e nucleari, coi quali mirava a tagliare le linee di comunicazioni atlantiche, vitali per portare i rinforzi USA in Europa in caso di invasione sovietica, e minacciava di distruzione le città americane, grazie ai missili balistici a testata atomica imbarcati. Negli anni ’70 e ’80 furono costruiti autentici gioielli: come gli “Alfa”, capaci di raggiungere gli 80 km/h in immersione, con scafo in titanio, o i giganteschi sottomarini lanciamissili classe “Tifone” (quelli del film Caccia a Ottobre Rosso, per intenderci), grandi come una nave da battaglia della Prima guerra mondiale. Alcuni battelli completati poco prima della caduta dell’URSS (quando erano in servizio 183 unità nucleari e un centinaio convenzionali), come i “Kilo” e gli “Akula”, erano considerati non troppo inferiori agli standard occidentali. Giuliano Da Frè
L’aviazione russa fra passato e futuro
L
russa corona la ’ aviazione sua riscossa attaccando l’Isis
e altri jihadisti in Siria dal 30 settembre 2015. Ma il suo ritorno nei cieli era iniziato già il 17 agosto 2007, quando Putin aveva ricostituito le pattuglie dei bombardieri a lungo raggio, scomparse dal dicembre 1991 con il crollo dell’Unione Sovietica. In Siria ha debuttato il nuovo Sukhoi Su-34, bombardiere tattico che porta 12 tonnellate di bombe e missili. Operativo dal 2014, oggi ce ne sono 100 in servizio, ma raddoppieranno per il 2020. Caccia da superiorità aerea è invece il Su35, in linea dal 2012 in 48 esemplari. Operante dal 1996 è invece il Su-30, intercettore consegnato in 85 unità ai russi, ma esportato in 500 esemplari in molti Paesi tra cui Cina, India, Vietnam e Malesia. I bombardieri strategici sono ancora esemplari ex-sovietici revisionati e aggiornati, come
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il supersonico Tupolev Tu-160 “Beliyi Lebed” (“cigno bianco”), dalle ali a freccia variabile, come il Tornado, ma molto più grosso, lungo 54 metri e pesante 260 tonnellate, con carico di 40 tonnellate di ordigni, fra cui missili a testata nucleare. Enorme anche il Tu-95, che sembra antiquato perché mosso da eliche, ma in realtà ben armato e con raggio d’azione fenomenale di 15.000 km. Il Tu-95 è ancora temuto dalla flotta americana, che lo incontra su oceani lontani. L’unica portaerei russa, la Admiral Kuznetsov entrata nel Mediterraneo a novembre 2016, imbarca caccia supersonici fra cui Mig-29K. I russi “spremono” progetti ereditati dall’URSS, ma ne fanno di nuovi. Il caccia sperimentale Sukhoi PAK FA vola dal 2010 e continua i collaudi, con entrata in servizio prevista nel 2018. Mirko Molteni
BASSTON NE E CA ARO OTA, ESTO O IL METO OD O USAT TO QUE DAL LLA RUSSSIA A CO ON I PAESSI LIM MITRO OFI, A SEC CONDA CH HE SIAN NO ALLE EAT TI O MEN NO sarebbe stato troppo alto il rischio di un intervento della NATO: un colpo di mano incruento in Crimea poteva invece riuscire, visto che anche nella penisola la popolazione era a favore di un’annessione alla Russia, mentre un appoggio militare “coperto” ai ribelli separatisti del Donbass sarebbe stato sufficiente a congelare la situazione in attesa di tempi migliori. Oggi la Crimea è saldamente in mano russa, mentre nel bacino del Don il conflitto tra l’Ucraina e le auto-proclamate Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk è in fase di stallo – a tutto vantaggio di Mosca, che ha raggiunto i propri obiettivi strategici con un minimo dispendio di forze. Siria a : il sogno deg gli z ar dive enta realltà?? La terza mossa militare di Putin è stata la più audace, anche perché in questo caso non ha riguardato un’area ai confini russi. Per secoli gli zar di Mosca avevano coltivato un sogno: una base navale nelle acque calde del Mediterraneo o del Golfo Persico, per non restare ostaggio dell’accerchiamento dei ghiacci. La Russia è sempre stata una potenza terrestre: per giocare un ruolo globale le mancava il libero accesso ai mari del mondo. Per questo motivo nel 1905 lo zar Nicola II si lasciò coinvolgere nella disastrosa guerra col Giappone, che diede il primo colpo al suo impero; esattamente 110 anni dopo, nell’ottobre 2015, Vladimir Putin ha giocato con un simile obiettivo ma con abilità maggiore le proprie carte militari in Siria, sostenendo il governo di Assad nella guerra civile contro i ribelli sunniti. Grazie alle missioni di attacco al suolo compiute da una ventina di cacciabombardieri, all’impiego di una brigata di artiglieria pesante e di qualche centinaio di uomini delle forze speciali, e al lancio di missili da crociera dalle navi della flotta del Caspio, Mosca ha ottenuto infatti un duplice risultato strategico: prima di tutto ha evitato il crollo del governo amico di Damasco, mantenendo così il controllo della base navale di Tartus e di quella aerea di Latakia, ovvero un saldo punto d’appoggio nello scacchiere del Mediterraneo; in secondo luogo, ha dimostrato (soprattutto all’Occidente) che le milizie dell’ISIS e delle altre organizza-
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er 40 anni aveva fatto tremare la NATO. Poi si era trasformata in un ammasso di scafi rugginosi, che si tenevano a galla per scommessa. Ma nell’ultimo anno, la flotta russa, rinnovata da Putin, ha iniziato a superare una serie di test di maturità, stupendo anche gli osservatori più smaliziati. Tutto è iniziato il 7 ottobre 2015, poco dopo l’intervento russo in Siria, quando alcune navi della flottiglia del Mar Caspio, in navigazione a 1.500 miglia dai bersagli, hanno lanciato una salva di missili cruise Kalibr, che hanno colpito con notevole precisione il Califfato islamico. Una prima assoluta, per Mosca, con un ritardo di un quarto di secolo sulle analoghe azioni occidentali, ma con una marcia in più, dato che a lanciare i missili non sono state grandi unità come cacciatorpediniere o incrociatori, ma piccole fregate e corvette. L’aver lanciato l’azione da un teatro operativo marginale come il Caspio, poi, rappresenta non solo una nuova esibizione di muscoli da parte di una Marina fino a 15 anni fa considerata un ammasso di ferraglia, ma anche un bel biglietto da visita per l’industria militare russa. Nei mesi successivi gli attacchi si sono ripetuti; e il 17 novembre a lanciare missili cruise è stato per la prima volta un sommergibile, mentre un anno più tardi è stata
AD ALEPPO
AP/ANSA
Militari russi del Genio nelle strade devastate di Aleppo. La foto, fornita da fonti ufficiali, mostra l’appoggio di Mosca alle truppe siriane di Assad. A sinistra, iI presidente georgiano Saakashvili a Tbilisi (2008). All’epoca del conflitto con la Georgia, i russi difendevano le regioni separatiste georgiane dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud.
zioni integraliste islamiche potevano essere sconfitte sul campo, se solo si aveva la determinazione di attaccarle a fondo. Ma questa volta “l’orso non ha scavalcato le montagne”, come si diceva ai tempi della campagna sovietica in Afghanistan: Putin è riuscito infatti a coniugare una notevole intraprendenza strategica con un’altrettanto chiara consapevolezza dei limiti delle forze a sua disposizione. In altre parole, lo zar del terzo millennio non ha alcuna intenzione di impegnarsi a fondo in un conflitto mediorientale: meglio continuare a combattere una proxy war, una “guerra per procura” affidata alle forze di Damasco e agli
alleati sciiti, conservando intatto il proprio potenziale per difendere l’integrità del territorio e la libertà di manovra politica della Grande Madre Russia. Qualle futur ro? Oggi che a Washington sta per insediarsi un presidente pronto a stringere accordi con Mosca, la situazione può cambiare in maniera inattesa. Se Donald Trump ha davvero intenzione di concentrarsi sul confronto economico e strategico con la Cina, disimpegnandosi progressivamente dal Medio Oriente e dall’Europa, è chiaro che i motivi di attrito con Putin si ridurranno quasi a zero. A quel punto l’orso russo potrà pensare a riconquistare alcune delle posizioni perdute in Asia Centrale e nello scacchiere baltico: non con azioni militari che metterebbero immediatamente in crisi i rapporti con gli Stati Uniti, ma grazie all’uso indiretto della forza, “convincendo” gli avversari a piegarsi agli interessi di Mosca. Che poi è l’uso più intelligente, economico ed efficace che si possa fare di aviazione, marina ed esercito. Gastone Breccia
IN RASSEGNA Nel 2009 l’allora presidente russo Medvedev (a ds.) e il ministro della Difesa Serdyukov visitano le truppe di una forza di intervento rapido creata nell’ambito di un trattato col Kazakhstan.
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LE CIFRE E PARLANO O CHIAR RO: IN ARMI E UO OMINI LA NATO O E GLI USA A INVEST TONO O MOLT TO PIÙ Ù DI PU UTIN N
Il onfronto tra le A cura di Gi
IA TRUPPE ATTIVE 3,48 MILIONI
TRUPPE ATTIV
ESERCITO 230.000 AERONAUTICA MILITARE 148.000 MARINA MILITARE 130.000
4A DIVISIONE CORAZZATA DELLA GUARDIA RUSSA ESERCITO 1,75 MILIONI
AERONAUTICA MILITARE
La 4a Divisione corazzata è un reparto d’élite della Guardia dell’esercito russo schierato nel Distretto occidentale. Alle dipendenze della ricostituita 1a Armata corazzata della Guardia, la divisione è basata fuori Mosca, schiera 12.000 militari e sarà la prima unità a sostituire i tank T-90 con i nuovi T-14 Armata.
692.610 VERY HIGH READINESS JOINT TASK FORCE NATO
MARINA MILITARE 598.650
26
Composta da 5.000 militari da schierare in pochi giorni in aree di crisi, elevabili fino a 15.000 (tre brigate), la Very High Readiness Joint Task Force (VJTF) è stata istituita nel 2014 come punta di lancia della Nato Response Force, un corpo d’armata di pronto intervento alleato che comprende 40.000 uomini.
13 1 SOTTOMARINI NUCLEARI 22 12 SOTTOMARINI D’ATTACCO 120 50 NAVI DA GUERRA D’ALTURA corvette, fregate,
cacciatorpediniere e incrociatori
310 106 VEICOLI DA COMBATTIMENTO DELLA FANTERIA 10.815 5.125 ARTIGLIERIA mortai pesanti, obici e lanciarazzi campali 12.700 6.000
SPESE MILITARI
forze
L’ultimo rapporto dell’istituto britannico di ricerche IHS Maekit sulle spese militari globali (calcolate in USD) evidenzia come la Russia abbia speso nel 2016 un diciassettesimo della Nato per le forze armate e meno della sola Gran Bretagna (53,8 miliardi di dollari), complice anche il calo del rublo sul dollaro.
USA
622 miliardi di $
EUROPA
219 miliardi di $
NATO
841 miliardi di $
RUSSIA
48,5 miliardi di $
AEREI DA COMBATTIMENTO
UIG VIA GETTY IMAGES
AFP/GETTY IMAGES
TASS
3.8911 1.2 1
EF-18E SUPER HORNET
S KHOII
In attesa dei nuovi F-35, i Super Hornet della McDonnell Douglas costituiscono il grosso delle forze aeree da combattimento di Marina e Marines Usa, mentre l’Aeronautica schiera F-16, F-15 e i caccia stealth F-22. Bimotore, raggiunge i 2.000 km/h e dispone di un cannone e fino a 8 tonnellate di bombe e missili.
Insieme ai Su-30 e Sutitu t is isce ce l ultimaa evoluzione dei caccia Su-27 “Flanker”, in attesa del velivolo di quinta generazione T-50 PAK FA. Testato in battaglia nel conflitto siriano, il Su-35 è un bireattore, raggiunge i 2.500 km/h e imbarca un cannone e 8 tonnellate di armi. Attualmente è un serio competitor dell’F-35.
PORTAEREI CLASSE “NIMITZ”
PORTAEREI ADMIRAL KUZNETSOV
Le 10 portaerei a propulsione nucleare classe “Nimitz” sono le più grandi navi militari del mondo, protagoniste di tutti i conflitti degli Usa negli ultimi 40 anni: 100.000 tonnellate, 332 metri di lunghezza, oltre 5.000 uomini d’equipaggio e fino a 85 aerei ed elicotteri imbarcati (standard 64).
È la prima portaerei russa convenzionale e l’unica in servizio. Ammiraglia della Flotta del Nord, è stata schierata anche nel Mediterraneo in questi ultimi mesi della guerra in Siria: 67mila tonnellate, 306 metri di lunghezza, imbarca 2.000 uomini d’equipaggio e fino a 50 aerei ed elicotteri (standard 30).
CARRO LEOPARD 2A7 Veloce su ogni terreno, è considerato il più potente carro armato occidentale, ultima evoluzione del modello tedesco Leopard 2. Con un equipaggio di 4 uomini, pesa 67 tonnellate per 11 metri di lunghezza e dispone di un cannone da 120 millimetri, ll 2 mitragliatrici e corazzatura resistente alle armi antticarro.
RALPH ZWILLING/PICTURE-ALLIANCE/DPA/AP IMAGES
Standard 64 (o 30) Equivale a dire quanti aerei vengono realmente imbarcati dalla portaerei (64 o 30), anche se poi la capacità della nave è maggiore.
Protagonista delle receenti battaglie in Siria, il carro armato o T-90 è lungo 9,5 metri, pesa 6,5 tonnellate, ha 3 uomini d’equipaggio o, dispone di un cannone da 125 millimetri, 2 mitragliatrici e di pro otezioni attive e passive contro o le armi anticarro. Presto sarà affiancato a dal nuovo MBT (Main Battle Tank) T-14 Armata, fiore all’occhieello di Putin.
AP/ANSA
T-90
CARRI ARMATI 9.460 2.600
COSÌ LE DUE SU UPERPOTENZE SI DIIVIDEVANO IL
Lo scacchiere RAZIONALIZZARE I MEZZI
ELICOTTERI
Gli Usa puntavano sulla qualità e avevano, rispetto all’Urss, una minore varietà di mezzi militari, che nasceva anche dall’esigenza di razionalizzare la produzione e la logistica. L’aviazione era un settore di eccellenza.
AEREI
CACCIABOMBARDIERI
metri 10
20
AH-64“Apache” 300 km/h 240 km NO
20 10 0
AH-1T“Sea Cobra” NO 260 km/h 340 km
F-106“Delta Dart” F-15“Eagle” F-16“Fighting Falcon” 2,0 mach 2,5 mach VELOCITÀ: 2,0 mach 1.240 km 1.200 km AUTONOMIA: 1.110 km
F-111 2,5 mach 1.100 km
F-4 “Phantom II” 2,0 mach 425 km
A-7 “Corsair II” 0,9 mach 800 km
A-10 “Thunderbolt II” 0,6 mach 460 km
AH-1“Huey Cobra” NO 260 km/h 260 km CH-46“Sea Knight” 240 km/h 190 km 24
80
DA TRASPORTO metri
BOMBARDIERI
60
UH-1“Iroquois” 200 km/h 200 km
40
CH-53“Sea Stallion” 35 280 km/h 460 km
20
9
UH-60“Black Hawk” 260 km/h 300 km 13
0
C-5B“Galaxy” TRUPPE TRASPORTATE: 300 4.200 km AUTONOMIA:
C-141B“Starlifter” 200 3.950 km
C-130“Hercules” 90 1.850 km
B-52 VELOCITÀ: 0,9 mach AUTONOMIA: 8.000 km
NAVI
CH-47“Chinook” 260 km/h 190 km 33
FB-111 2,5 mach 1.480 km
B-1B 1,25 mach 7.500 km
SOTTOMARINI
15
metri
D’ATTACCO
10
Classe SKATE propulsione nucleare Classe NIMITZ PORTAEREI Dislocamento: 91.400 t
30
A MEDIO RAG GGIO
Tomahawk ALCM (2.500 km) (2.500 km) testate: 1 testate: 1
GLCM Pershing II (2.500 km) (1.800 km) testate: 1 testatee: 1
INTERC CONTIN NENTALI
20
metri
Classe PERMIT propulsione nucleare
MISSILI NUCLEARI DA CROCIERA
5 0
Classe SKIP JACK propulsione nucleare
Classe IOWA NAVE DA BATTAGLIA Dislocamento: 58.000 t Classe STURGEON propulsione nucleare
10 0
Classe LOS ANGELES propulsione nucleare Classe VIRGINIA INCROCIATORE Dislocamento: 11.000 t
PER MISSILI NUCLEARI BALISTICI Classe POSEIDON 16 tubi di lancio Classe TICONDEROGA INCROCIATORE Dislocamento: 9.600 t Classe OHIO 24 tubi di lancio per Trident 75
150
Classe ARLEIGH BURKE CACCIATORPEDINIERE Dislocamento: 8.300 t
0
metri
0
100
200
metri
28
Titan II Minuteman II Minuteman III Peacekeeper (12.000 km) (12.500 km) (>11.000 km) (>11.000 km) testate: 1 testate: 1 testate: 3 testate: <10
CARRI ARMATI M60A1 VELOCITÀ: 50 km/h CALIBRO: 105 mm
M1A1 70 km/h 120 mm
ARTIGLIERIA
10
Classe OLIVER HAZARD PERRY FREGATA Dislocamento: 3.900 t 300
metri
STATI UNITI D’AMERICA
metri
CACCIA INTERCETTORI
TRASPORTO VELOCITÀ D’RAGGIO AZIONE TRUPPE 0
5 0
Pooseidon (4.000 km) testate: 10
Trident (7.400 km) testate: 8
M109A2 OBICE: 155 mm GITTATA: 18,1 km
M110A2 203 mm 22,9 km
M198 155 mm 18,1 km
CONTR ROLLO O DEL L MONDO NEL 1986687
mondiale Puntare sulla massa d’urto
ELICOTTERI TRASPORTO VELOCITÀ D’RAGGIO AZIONE TRUPPE Mi-28 300 km/h 240 km
AEREI
NO NO
Mi-24 320 km/h 160 km
13
Mi-8 250 km/h 200 km
26
Mi-6 300 km/h 300 km
70
metri
20
Ka-50 350 km/h 250 km
85
Su-24 2,0 mach VELOCITÀ: AUTONOMIA: 1.300 km
10 0
VELOCITÀ: AUTONOMIA:
MiG-25 2,8 mach 1.450 km
Su-15 2,0 mach 1.000 km
Su-27 2,0 mach 1.500 km
60
CACCIABOMBARDIERI 20 10 0
MiG-27 1,7 mach 600 km 60
metri
Marina
Ka-25 220 km/h 250 km Varianti per la Marina
Su-17 2,1 mach 550 km
Su-25 0,8 mach 300 km
MiG-21 L 2,0 mach 750 km
20
T-72 60 km/h 125 mm
M-1976 152 mm 28,5 km
0
SS-4 SS-20 (2.000 km) (5.000 km) testate: 1 testate: 3
An-12 90 1.400 km
Classe KIEV portaerei dislocamento: 37.100 t
Classe KIROV incrociatore a ppropulsione p nucleare dislocamento: 28.000 t
Classe dislocamento: Cl UDALOY cacciatorpediniere i di i di l 88.000 000 t
Classe ALFA propulsione nucleare Classe SOVREMENNYY cacciatorpediniere dislocamento: 7.300 t
0
AS-15 SS-13 SS-11 (3.000 km) (13.000 km) (9.400 km) testate: 1 testate: 1 testate: 1
SS-1 Scud B
0
PER MISSILI NUCLEARI BALISTICI
Classe DELTA I, II, III e IV 12 o 16 tubi di lancio per SS-N-8 16 tubi di lancio per SS-N-18 o SS-N-23
Classe YANKEE propulsione nucleare
Classe TYPHOON 20 tubi di lancio per SS-N-20
100
SS-21
SS-23
100
Classe SIERRA propulsione nucleare
10 0
200
Classe YANKEE I e II 16 tubi di lancio per SS-N-6 12 tubi di lancio per SS-N-17
LANCIATORI MOBILI Frog-7
metri
Classe MIKE propulsione nucleare
metri 200
SS-25 SS-18 SS-19 SS-17 (10.000 km) (11.000 km) (10.000 km) (10.500 km) testate: 4 testate: >10 testate: 6 testate: 1
Il-76 140 4.600 km
NAVI
Classe VICTOR III propulsione nucleare
INTERCONTINENTALI ERC
20
20 0
Classe OSCAR propulsione nucleare
30
metri
20
Classe CHARLIE II propulsione nucleare 2S7 2S4 203 mm MORTAIO: 240 mm 30 km GITTATA: 9,7 km
M M-44 0,85 mach 5.600 km
40
Classe TANGO propulsione diesel
DA CROCIERA
10
Tu 160 Tu-160 2,0 mach 7.300 km
AEREI DA TRASPORTO A
40
Classe KILO propulsione diesel
20
Tu-22M M 2,0 mach 4.000 km
An-22 TRUPPE TRASPORTATE: 175 4.200 km AUTONOMIA:
0
metri 200
100
0
15
metri
metri
A MEDIO RAGGIO
Tu-95 0,8 mach 8.300 km
D’ATTACCO
MISSILI NUCLEARI 30
20
SOTTOMARINI
T-80 70 km/h 125 mm
ARTIGLIERIA 2S1 2S3 2S5 OBICE: 122 mm 152 mm CANNONE: 152 mm GITTATA: 15 km 27 km GITTATA: 28,5 km
BOMBARDIERI
0
T 22 T 16 0,85 mach 1,4 mach VELOCITÀ: AUTONOMIA: 3.100 km 2.900 km
CARRI ARMATI T-64 70 km/h 125 mm
MiG-31 2,4 mach 2.100 km
MiG-29 2,3 mach 1.150 km
40
60
BOMBARDIERI
40
0
T-62 50 km/h 115 mm
MiG-23 2,3 mach 1.150 km
YaK-28 1,8 mach 900 km
0
Ka-27 260 km/h 300 km Varianti per la
T-54/55 VELOCITÀ: 50 km/h CALIBRO: 100 mm
Tu-128 1,5 mach 1.500 km
10 5 0
Scaleboard
SS-N-6 SS-N-8 SS-N-17 SS-N-18 (3.000 km) (9.000 km) (3.900 km) (6.500 km) testate: 1 testate: 1 testate: 1 testate: 3-7
SS-N-20 (8.300 km) testate: 6-9
SS-N-23 (8.300 km) testate: 10
UNIONE SOVIETICA
Mi-26 300 km/h 370 km
CACCIA INTERCETTORI
metri
0
metri
10
metri
20
metri
metri
30
L’Urss ha sempre puntato sulla quantità, e aveva una grande varietà di mezzi anche perché tendeva ad affiancare le nuove linee di produzione a quelle già esistenti. Punti di eccellenza: carri armati e missili balistici.
PRIMO PIANO RUSSIA
MAIN BATTLE TANK T-72B3. Ecco il carro da battaglia
TASS/GETTY IMAGES (2)
(MBT, ovvero Main Battle Tank) russo modello T-72B3. Questa versione modernizzata del diffuso T-72 ne ha migliorato tutte le caratteristiche, montando un motore più potente e nuovi visori ottico-elettronici per la visione e il puntamento. Inoltre, è dotato di piastre di corazzatura “reattiva” di nuova generazione. La corazza reattiva (ERA, Explosive Reactive Armour) contrasta gli effetti dei proietti e dei sistemi missilistici anticarro con una contro-esplosione che deflagra verso l’esterno.
FINITO IL TEMPO DEI RESIDUATI BELLICI DELL’ERA SOVIETICA, L’APPARATO MILITARE DI PUTIN PUÒ CONTARE SU ARMI E MEZZI DI NUOVA GENERAZIONE
L’AR ATA
RU SA A cura di Fabio Riggi
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IL TIRATORE SCELTO LO SNIPER russo è qui ripreso con l’ottica di puntamento del suo fucile di precisione. Indossa la cosiddetta Ghillie suite, la combinazione mimetica diventata uno standard per questi soldati specializzati negli eserciti di tutto il mondo. La capacità di rimanere occultati senza rivelare la loro posizione è un requisito essenziale per gli operatori destinati a questo specifico compito. Le forze armate russe vantano una lunga tradizione nel tiro di precisione, infatti durante la Seconda guerra mondiale l’Armata Rossa annoverava tiratori che realizzarono i migliori record di uccisioni di tutto il conflitto.
TASS/GETTY IMAGES (5)
ELICOTTERO DA COMBATTIMENTO
LE CONTROMISURE
L’ALLIGATOR. Un Kamov Ka-52 “Alligator” (Hokum-B in codice NATO) mostra la sua potenza di fuoco. Altamente manovrabile, è la variante biposto del modello precedente, Ka50. Si tratta di elicotteri caratterizzati da una configurazione “a rotori controrotanti”, grazie ai quali possono fare a meno del tradizionale rotore di coda (che ha la funzione essenziale di compensare la rotazione del rotore principale, evitando alla macchina di girare su se stessa).
FLARES. Un elicottero da combattimento Mil Mi-28 (Havoc in codice NATO) nella fase di rilascio dei “flares”, ovvero contromisure usate contro i missili con sistema di guida agli infrarossi (guida IR): vengono lanciate a distanza per rappresentare esche in grado di riprodurre la stessa immagine nella lunghezza d’onda degli infrarossi emessa dal velivolo. Ingannando il sensore del missile diretto verso il bersaglio, questa immagine-esca lo fa deviare dalla sua traiettoria.
LA RUSSIA SCOMMETTE SUL CARRO T14 ARMATA, RIVOLUZIONARIO IL TANK IN AZIONE UN CARRO T-72B attraversa il ponte galleggiante gettato da un reparto del Genio. Il lungo cilindro montato sulla sommità della torretta è lo snorkel, un sistema che consente al mezzo di effettuare guadi profondi immergendosi completamente. Derivato da quello più noto usato dai sommergibili diesel-elettrici, consiste in un cilindro che fuoriuscendo dalla superficie dell’acqua provvede a rifornire di aria sia l’equipaggio che il motore; allo stesso tempo consente la fuoriuscita dei gas di scarico.
CACCIA MULTIRUOLO IL SU-27. Un caccia da superiorità aerea Sukhoi Su-27 “Flanker” ripreso in virata e con i postbruciatori inseriti. Questo velivolo da combattimento rappresenta uno dei maggiori successi dell’industria aeronautica russa ed è stato prodotto in diverse versioni, compresa la variante cacciabombardiere multiruolo. I differenti modelli sono esportati in molti Paesi.
IL MISSILE BALISTICO SS-26 STONE. Un missile balistico tattico a corto raggio Iskander-M 9M723 (SS-26 Stone in codice NATO) viene caricato sul suo veicolo di trasporto e lancio. L’esercito russo ha sempre fatto molto affidamento su questa tipologia di sistemi missilistici, che possono essere dotati di testate sia nucleari che di esplosivo convenzionale.
SECONDO GLI 007 DELL’OVEST
LANCIO DEL DRONE
33
REUTERS/CONTRASTO
IL MINI-UAV. Un soldato russo lancia un mini-UAV (Unmanned aerial vehicle). Le forze armate russe si sono dotate ormai da tempo di questo tipo di sistemi, fondamentali per le attività di ricognizione, sorveglianza e acquisizione obiettivi nelle moderne operazioni militari.
PRIMO PIANO RUS SSIA
L’ARMATA ROSSA NEL 1944
L’
I GENERALI A destra, 1944: il maresciallo Žukov. In qualità di rappresentante dello Stavka, ebbe la responsabilità di sovrintendere e coordinare l’operazione Bagration. Fu il generale più importante dell’Armata Rossa nella Seconda guerra mondiale ed è considerato come uno dei principali artefici della vittoria finale.
GETTY IMAGES (3)
Armata Rossa protagonista delle offensive dell’estate 1944, con le quali sferrò un colpo mortale alla Wehrmacht, era molto diversa dall’esercito che nel 1941 fu colto largamente impreparato dall’invasione nazista subendo le iniziali, devastanti, sconfitte della guerra. Le dure esperienze di un triennio di battaglie avevano fatto maturare velocemente una nuova generazione di comandanti che ora erano all’altezza dei loro blasonati avversari. Anche le unità che essi guidavano erano bene addestrate, in grado di manovrare applicando procedimenti tattici che in molti casi le ponevano a un livello superiore rispetto ai tedeschi, determinando di fatto una situazione diametralmente opposta a quanto era avvenuto tre anni prima. Arte operativa. L’Operazione Bagration viene considerata ancora oggi come il trionfo della cosiddetta “arte operativa” sovietica. Con essa viene indicato il livello intermedio di pianificazione e condotta delle operazioni, ovvero tutto quello che sta tra la direzione strategica di un conflitto (il livello più alto) e l’impiego tattico delle forze sul terreno (il livello più basso). L’efficace coordinamento delle forze di ben 4 Fronti, che operarono su una vastissima area sferrando una serie di offensive in rapida sequenza, rappresenta uno degli esempi più alti in questo campo. Il “Fronte” era la formazione più grande nella struttura dell’esercito sovietico ed era equivalente al gruppo di armate degli altri eserciti, con ognuno di essi che inquadrava un numero variabile di armate. Queste ultime erano fondamentalmente di tre tipi: armate di fanteria, d’assalto (con un’aliquota maggiore di reparti corazzati in supporto) o corazzate. La fanteria era basata su divisioni fucilieri, mentre le forze mobili erano organizzate in corpi d’armata corazzati e meccanizzati, a seconda di quante unità carri li componevano. Alle armate, divisioni o corpi che si erano particolarmente distinti in combattimento veniva concesso il titolo “della Guardia”, un retaggio del passato zarista. Tale denominazione viene tutt’oggi usata per alcune formazioni dell’esercito della Federazione russa.
FRA I BOSCHI Bielorussia, 1944: carro sovietico guada un corso d’acqua. A sinistra, fanteria russa mentre va all’assalto con il supporto di un cannone anticarro M-1937 da 45 mm.
LANCIA ANDO I SU UOI T334 NEL LLE ST TEP PPE E DELLA BIELO ORUSSIA A, STAL LIN FER R MÒ L A CO ORSA DI HIITLE ER
O
B
lle 5:00 del 23 giugno 1944 il fronte a est non venne illuminato del sorgere del sole, ma dal bagliore delle vampe di migliaia di pezzi di artiglieria. Il primo diluvio di granate si abbatté sulle trincee tedesche. A queste si aggiunsero subito dopo i sibili di altri ordigni in arrivo, scagliati dai lanciarazzi multipli Katyusha e seguiti dal fragore assordante delle esplosioni. In una sequenza micidiale, all’infernale concerto si unirono i cacciabombardieri Ilyushin Il-2 Šturmovik, che sfrecciarono rombando a bassa quota, bersagliando le linee nemiche con bombe e razzi. Dietro la linea del fuoco, nella bruma mattutina delle pianure della Bielorussia, c’erano centinaia di migliaia di uomini e decine di migliaia di mezzi corazzati di ogni tipo, pronti a scattare all’attacco e realizzare la grande vendetta delle armi sovietiche contro l’aggressione nazista di tre anni prima. La riscossa. Una valanga di fuoco e acciaio si stava riversando contro le forze tedesche nel settore centrale dell’immenso fronte russo. Con questa imponente applicazione di uno dei più importanti e immutabili principi dell’arte della guerra, quello della massa, iniziò la definitiva riscossa dell’Armata Rossa nella “Grande Guerra Patriottica”, la lunga campagna che doveva portare alla vittoria finale sulla Germania. Dopo il fallimento dell’ Operazione Zitadelle e la sconfitta nella battaglia di Kursk del luglio 1943, la Wehrmacht aveva perso definitivamente l’iniziativa strategica sul fronte orien-
I
tale. Nell’autunno-inverno 1943-44 le forze sovietiche avevano ricacciato i tedeschi fino ai margini degli Stati baltici, a nord, e della Bielorussia, al centro, mentre a sud avevano riconquistato gran parte dell’Ucraina, superando il fiume Dnepr, fino alla vecchia linea di confine del 1941 con la Polonia Meridionale e la Romania. Nella primavera entrambi gli schieramenti si preparavano alla campagna estiva, quando con il disgelo il dissolversi del fango avrebbe nuovamente consentito operazioni su larga scala. Ma il 6 giugno 1944 lo sbarco in Normandia e l’apertura di un nuovo fronte avrebbe cambiato tutto per i tedeschi. Camu uffamen nto. A metà aprile Stalin programmava la nuova offensiva, alla quale venne dato il nome di Operazione Bagration : il settore dove dare la grande spallata era la Bielorussia, al centro del fronte. Vista la capacità di resistenza che le truppe tedesche avevano ancora mostrato di possedere nelle precedenti battaglie, era fondamentale che il nemico ignorasse i piani sovietici fino all’ultimo momento. Quando lo Stavka (l’abbreviativo di Stavka Verchovnogo Glavnokomandovanija, ovvero “Alto comando delle forze armate dell’Unione SovietiOperazione Zitadelle L’attacco nel luglio 1943 sferrato dalla Wehrmacht al saliente di Kursk, che si incuneava profondamente nelle linee tedesche. È ritenuto da molti il momento cruciale della Seconda guerra mondiale. Bagration In ricordo del principe russo Pëtr Ivanovič Bagration, uno dei comandanti dell’esercito dello zar nelle campagne contro Napoleone, caduto nella battaglia di Borodino nel 1812.
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MOSCA INGANNAVA IL NEMICO PREPARANDO UN FALSSO NO PIANO DI ATTACCO, COME IN UN GIOCO A RIMPIATTIN
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nato. Per la copertura dal cielo, il Gruppo di armate C ca”) pianificò Bagration, predispose a tale scopo un complesCentro poso piano di inganno . Questo genere di attività, che nella dotteva contare solamente sulla 6a Luftflotte (la flotta aaerea), che trina militare dei russi prendeva il nome di maskirovka (“caa sua volta disponeva di circa 830 velivoli o poco più ù in totale, muffamento”), era volta a distogliere l’attenzione del nemico tra i quali solo una quarantina di caccia. dai veri obiettivi. In realtà, gli alti comandi tedeschi e lo stesso Il fat ttore so orpressa. Effettivamente, uno dei ffattori che Hitler, già nella primavera del 1944 erano convinti che l’offentendeva a far considerare improbabile un attacco su vasta scasiva sovietica si sarebbe sviluppata in Ucraina. Secondo le erla in Bielorussia era che in questa regione, contrariam mente alle rate valutazioni tedesche, infatti, le vaste distese pianeggianestese pianure ucraine piatte e prive di ostacoli, vi eraano ampie ti di questa regione favorivano operazioni offensive condotte zone con grandi foreste, corsi d’acqua e acquitrini, un n’area non da grandi formazioni corazzate, come quelle di cui i russi diideale per la manovra di unità corazzate. Eppure, ffu proprio sponevano ormai largamenquesta una delle chiaavi del piate. I sovietici iniziarono così no sovietico: sceglieere un tera mettere in atto sofisticate reno teoricamente meno m favotecniche (tra le quali un fitrevole, ma idoneo a favorire la tizio intensificarsi del trafsorpresa. Un’altra importanfico radio e dell’attività aete serie di azioni preeliminari a rea) volte a inscenare ingenfavore dell’offensivaa sovietica ti concentramenti di truppe dalle unità fu quella compiuta d nel 3° Fronte ucraino. partigiane che operaavano nelI pian ni veri. L’Operaziole retrovie tedeschee: a queste ne Bagration, invece, non l’8 giugno venne datoo ordine di prevedeva un unico colpo, riattivare le preceden nti Operama consisteva in una serie di zioni “guerra della fferrovia” i ”e offensive strettamente coor“concerto”, che consistevano in Bielorussia, 1944: fotogiornalisti dell’esercito sovietico. dinate. Il complesso di forze sistematiche azioni di sabotaggio delle linee di comunicaziodestinato a eseguirle era forne e delle infrastrutture logistiche tedesche, a cui si aggiungemidabile: quattro interi Fronti si sarebbero avventati contro le va anche una capillare e preziosa opera di raccolta informatiunità del Gruppo di armate Centro schierato in Bielorussia; esva sulle unità e le posizioni difensive avversarie. si erano, da nord a sud: il 1° Fronte del Baltico (4a Armata d’asDal canto loro, i tedeschi avevano sfruttato la relativa transalto, 6a Armata della Guardia e 43a Armata) il 3° Fronte biequillità del fronte centrale nei mesi precedenti per rafforzare lorusso (11a Armata della Guardia, 5a, 31a, 39a Armata e 5a Arle proprie opere difensive: al riguardo, un aspetto fondamenmata corazzata della Guardia) il 2° Fronte bielorusso (33a, 49a e 50a Armata) e il 1° Fronte bielorusso (per “fronte” si intentale fu l’espresso ordine di Hitler di trasformare le più imporde un ragguppamento di più armate, in questo caso la 3a, 28a, tanti città in piazzeforti, le cosiddette Feste Plätze (“posizio48a, 61a, e 65a Armata ) per un totale di 118 divisioni fucilieri, 8 ni fortificate”), da non abbandonare se non per sua espressa corpi d’armata corazzati e meccanizzati, 6 divisioni di cavalleautorizzazione. ria, 13 divisioni di artiglieria e 14 di artiglieria controaerei, apniversar rio. La data di inizio per l’Operazione BagraL’ann poggiate dall’aria da 4 armate aeree, di cui facevano parte un tion fu fissata al 19 giugno 1944, ma a causa di problemi logitotale di 30 divisioni aeree, che allineavano oltre 5.300 velivostici fu rinviata poi al giorno 23, quindi a quasi tre anni esatli tra aerei da caccia, cacciabombardieri tattici e bombardieri. ti dall’inizio dell’invasione nazista dell’Unione Sovietica. DoDi fronte al volume di fuoco che si stava abbattendo su di lopo una prima fase di attacchi diversivi a nord e a sud e un imro, il Gruppo di armate Centro, agli ordini del feldmaresciallo ponente fuoco di preparazione su tutto il fronte da parte di Ernst Busch, poteva contrapporre 4 armate (4a, 9a, 2a e 3a Couno schieramento di artiglieria senza precedenti, il primo colrazzata) con non più di 34 divisioni di fanteria, 2 divisioni da po venne sferrato contro entrambi i fianchi del saliente di Vicampagna della Luftwaffe , 7 divisioni di polizia (con compiti tebsk (difeso dal LIII Corpo d’armata tedesco della 3a Armata di sicurezza delle retrovie in funzione anti-partigiana) e solacorazzata), dal 1° Fronte del Baltico sul lato nord e dal 3° Fronmente 2 divisioni Panzergrenadier e una Panzerdivision; alcute bielorusso su quello sud. Si trattò della prima manovra di acne importanti unità corazzate tedesche erano state assegnante al Gruppo di armate Nord Ucraina, schierato più a sud, a testiDivisioni da campagna della Luftwaffe Questo tipo di unità vennero formate a partire dall’ottobre 1942, per compensare almeno in parte le pesanti perdite subite dalle divisioni di fanteria dell’esermonianza del fatto che la maskirovka sovietica aveva funziocito regolare (Heer). Inganno La terminologia militare definisce“inganno”quel complesso di misure intese a fuorviare il nemico mediante la manipolazione, la distorsione o la falsificazione di elementi o circostanze reali e a ostacolarne la corretta valutazione della situazione operativa. 3, 28, 48, 61, 65 Sono state riportate solo le armate del 1° Fronte bielorusso che presero effettivamente parte all’Operazione Bagration, in quanto le altre cinque schierate sul fianco meridionale parteciparono solo in un secondo momento all’Offensiva Lvov-Sandomierz.
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Panzergrenadier Ovvero“granatieri corazzati”: costituite durante la guerra, queste divisioni erano basate su un nucleo di due reggimenti“Panzergrenadier”, a loro volta composti da un mix variabile di battaglioni di fanteria motorizzata (su autocarri) e corazzata (su semicingolati da trasporto). Completavano l’organico altre unità di supporto tattico divisionale (artiglieria, genio, trasmissioni ecc. ) e in particolare reparti di carri armati o di cannoni d’assalto/cacciacarri, comunque sempre in misura inferiore rispetto alle Panzerdivision standard.
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CANNONE D’ASSALTO Il tedesco Sturmgeschütz III, ricavato dallo scafo del Panzer III.
IL T-344 RUSSO
IL TEDESCO
Il nerbo deelle formazioni corazzate sovietiche fu il carro T-34. Entrato in servizio nel 1940, aveva peculiari caratteristiche come i larghi cingoli, c gli consentivano una ottima m ilità su terreni soffici e innevati e le piastre di corazzatura inclinate, concepite per mi gliorane la protezione. La ser T-34/76 a eva un cannone da 76 mm. Durante l’Operazione Bagration i reparti corazzati russ erano pre alentemente dotati del T-34/76 M 1943, ma anche di un buon nu ero della nuova, più potente, variante, il T-34/85 ( p ) armato coon un cannone da 85 mm
IL SOLDATO. Capocarro Stturmartillerie. UN NIFORME E ARMAMENTO. I mezzi corazzati più numerosi presenti nelle formazioni del Grupppo di armate Centro tedesco eranoo gli Sturmgeschütz (cannone d’assalto). Le unità dotate di queesti mezzi appartenevano alla Sturmartillerie (artiglieria d’assaalto) nata a metà anni ’30 da unn’iniziativa del colonnello Von Manstein. M Il capocarro indossaa l’uniforme con i bordi delle mostrreggiature nel color rosso dell’artiglieria. Il Waffenfarbe (“coloore del corpo”) è un sistema, in usoo ancora oggi nell’esercito tedescoo, che identifica le varie armi e specialità con diversi colori.
IL SO IETI
LE ARMI VINCENTI
G. ALBERTINI (2)
IL SOLDATO. Razvedc (“esplora ore”). UNIFOR E ARMAMEN . Nell’Ope zione Bagration unità Razzvedchik vennero im piegate me avangua ia unità sov etiche. Infiltrandosi in profondi nelle difese tedesc , e cooperaando con i partigiani, assolsero il compito di raccog ere informazioni sulle forze nemiche. Sono considerati gli antesignani delle mo rne forze specia (Spetsnaz) dell’esercito russo. soldato i dossa una tuta mimeti ca e impugna un fucile Mosin-N gant 189 30 calibro 7,62x54mm corredatoo di ottica di puntamento. Tra i R zvedchik figuravano anche n ei di tiratori sce
artiglieria russa contava sul lanciarazzi multiplo BM-13“Katyusha”: si trattava di autocarri di diversa tipologia che montavano da 16 a 48 rotaie di lancio per razzi da 132 mm; usati in massa, compensavano la relativa precisione e i lunghi tempi di ricarica producendo un fuoco di saturazione su vaste aree.
L’aereo. Nel ’44 la VVS (Forza aerea sovietica) aveva ormai la superiorità aerea e poté impiegare i velivoli da attacco al suolo: il modello più importante fu l’Ilyushin Il-2 Šturmovik, monomotore pesantemente corazzato, armato nella versione Il2M3 con 2 mitragliatrici da 7,62 mm e 2 cannoni da 23 mm e fino a 600 kg di bombe.
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Operazione Bagration 1944
I
SZ/AGF
S. STANLEY
niziò il 23 giugno e venne condotta con una serie di offensive coordinate portate avanti dalle forze di quattro Fronti (equivalenti ai gruppi di armate) dell’Armata Rossa contro il Gruppo di armate Centro tedesco. La prima serie di attacchi andò a buon fine, con l’effetto di produrre un gigantesco accerchiamento: il 3 luglio le unità del 3° e del 1° Fronte bielorusso conquistarono Minsk chiudendo in una sacca la 4a e la 9a Armata tedesca, così il cerchio era chiuso. Dopo questa prima grande vittoria, l’esercito sovietico reiterò i suoi sforzi con due nuove offensive: lungo la direttrice Lvov-Sandomierz e ancora più a sud contro il Gruppo di armate Nord Ucraina. Il successo ottenuto anche da queste successive operazioni consentì ai sovietici entro il 27 luglio di entrare in Polonia creando le prime teste di ponte oltre la Vistola, spianando loro la strada verso l’Europa Orientale e il cuore del Terzo Reich.
ALL’ASCOLTO Operatore radio tedesco nei pressi di un posto comando. Indossa la casacca invernale (Wintertarnuniform). La guerra sul Fronte orientale si protrasse in territorio russo dal giugno 1941 all’estate 1944, con operazioni condizionate da inverni durissimi.
cerchiamento dell’operazione, ed ebbe un rapido successo: la sera del 24 il LIII Corpo tedesco si ritrovava già isolato ed entro il 26 aveva già cessato di esistere come forza combattente. Più a sud, una delle principali direttrici dell’offensiva corrispondeva all’autostrada Mosca-Minsk e su di essa operavano le altre unità del 3° Fronte bielorusso: per la difesa di questo importante asse stradale, i tedeschi avevano predisposto un forte sbarramento difeso dalla 78a Divisione Sturm. In questo settore gli attacchi russi iniziali incontrarono non poche difficoltà, ma il giorno 25 le forze attaccanti ebbero ragione delle difese avversarie grazie a una riuscita azione di aggiramento: passando attraverso un bosco acquitrinoso a nord della strada, aprirono un varco per consentire l’inserimento delle formazioni corazzate, che si lanciarono in avanti sfruttando il successo. Il buon esito dello sfondamento venne decretato nella notte tra il 26 e il 27 giugno con la caduta della Feste Plätze di Orsha.
Le armate sovietiche poterono così puntare verso il fiume Beresina e verso la città di Minsk. Mentre, ancora più a sud, il 2° Fronte bielorusso eseguiva a sua volta forti attacchi nell’area di Mogilev per tenere impegnate le forze nemiche nel suo settore, nell’area ancora più meridionale il 1° Fronte bielorusso attaccava a nord delle grandi paludi del Pripet, nell’area di Bobruisk. Anche qui gli assalti iniziali del 23 giugno si infransero contro la forte resistenza della 9a Armata tedesca posta a presidio di quella zona; tuttavia il giorno 24, con una massiccia azione di appoggio dell’artiglieria e dell’aviazione, pure in questo tratto del fronte le difese tedesche cedettero inesorabilmente. Il 29 cadde anche Bobruisk e le unità corazzate sovietiche si lanciarono a nord-ovest, sempre in direzione Minsk. Accerchiati. A questo punto lo schema di manovra dell’alto comando sovietico era chiaro: mentre il 2° Fronte bielorusso teneva agganciate le forze nemiche al centro, il 3° Fronte bielorusso a nord e il 1° Fronte bielorusso a sud eseguivano una gigantesca manovra di accerchiamento sulle due ali del Gruppo di armate Centro. Di fronte al dilagare delle forze russe, i tedeschi ricorsero a misure disperate, gettando nella fornace le poche riserve corazzate disponibi-
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LA CATTURA L’artiglieria sovietica durante un’azione di fuoco. Sopra, 17 luglio 1944: circa 55.000 tedeschi catturati dai sovietici marciano nelle strade di Mosca verso i campi di prigionia.
li: tra il 28 giungo e il 2 luglio la 5a Panzerdivision si scontrò a più riprese contro i carri della 5a Armata corazzata della Guardia (3° Fronte bielorusso) a nord-ovest di Minsk, rivendicando la distruzione di 295 mezzi corazzati, 128 dei quali a opera dei carri Pzkfw VI “Tiger” I dello s.Pz.Abt. 505 Schwere Panzerabteilung (“reparto carri pesanti”). Ma nonostante l’eroismo e la perizia dei carristi tedeschi, fu tutto inutile, compresa la sostituzione avvenuta il 29 giugno del feldmaresciallo Busch con il parigrado Walter Model, che proveniva dal comando del Gruppo di armate Nord Ucraina. Nel quadrante meridionale l’intervento della 20a Panzerdivision non riuscì a puntellare il fronte della 9a Armata, e il 3 luglio anche le formazioni del 1° Corpo corazzato della Guardia (appartenente alla 65a Armata) presero parte all’attacco su Minsk. Quest’ultimo faceva parte del 1° Fronte bielorusso proveniente da sud-est e la sua apparizione a Minsk significava che i due bracci della gigantesca tenaglia si erano chiusi alle spalle della 4a Armata tedesca e dei resti della 9a Armata. La città cadde dunque nello stesso giorno. Fu questo l’epilogo della principale manovra di accerchiamento di tutta l’Operazione Bagration. Entro il 9 luglio le principali concentrazioni di unità tedesche tagliate fuori furono annientate; si ritiene che dei 15.000 uomini della 9a Armata solo 900 riuscirono a fuggire verso ovest per tornare entro le linee tedesche. L’intero Gruppo di armate Centro venne virtualmente annientato da questa grande manovra realizzata dall’Armata Rossa, un capolavoro simile all’accerchiamento dei Romani a Canne a opera di Annibale nel 216 a.C., ma su una scala immensamente più grande. Anche se una cifra esatta sulle perdite tedesche non fu mai definita, le stime più accreditate parlano di 350-400.000 uomini tra morti, feriti e prigionieri, 55.000 dei quali furono fatti sfilare il 17 luglio a Mosca, sulla Piazza Rossa, per celebrare la più grande vittoria conseguita dall’Unione Sovietica fino ad allora. Ormai Berlino era in vista. Le conseguenze strategiche di questo grande successo furono di vasta portata: il 13 luglio i sovietici sferrarono un altro potente colpo, questa volta a sud, contro il Gruppo di armate Nord Ucraina, portato dall’ala meridionale del 1° Fronte bielorusso e dal grosso del 1° Fronte ucraino in direzione del grande asse Lvov-Sandomierz, mentre a nord le unità corazzate russe sfruttarono a fondo l’immenso vuoto creato nel settore centrale del fronte spingendosi sempre più in profondità. L’effetto combinato di queste folgoranti vittorie portò le truppe sovietiche a entrare in Polonia: entro il 27 luglio venne stabilita la prima testa di ponte sulla riva ovest della Vistola, a Magnuszew, e il 1° agosto vennero raggiunti i sobborghi di Varsavia. L’Armata Rossa si ritrovò così, in quell’estate del 1944, alle porte dell’Europa Orientale, pronta a compiere il nuovo balzo verso Berlino, il cuore del Terzo Reich. La storia dell’Europa stava cambiando. Fabio Riggi
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LA GRANDE GUERRA PATRIOTTICA A cura di Gastone Breccia
L’AVANZATA OFFENSIVA DI DNEPR ago-dic 1943
Stalin lanciò l’Armata Rossa su 850 miglia di fronte per controllare il granaio ucraino e le industrie del Donbas.
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uando la Wehrmacht attaccò l’Unione Sovietica, il 22 giugno 1941, l’Armata Rossa era gravemente indebolita dalle purghe staliniane del 1937 – che avevano falciato gli alti gradi, compresi elementi di grande valore come il maresciallo Tuchacevskij, padre delle forze corazzate sovietiche – e stava attraversando una fase di profonda trasformazione e modernizzazione, ben lontana dall’essere compiuta. Lo Stavka (l’alto comando sovietico) venne colto di sorpresa, e nelle prime settimane l’avanzata germanica fu inarrestabile. Per buona sorte dell’URSS, tuttavia, i tedeschi commisero alcuni errori strategici che li privarono della possibilità di ottenere una vittoria decisiva prima dell’inverno: l’Operazione Barbarossa, scattata con due mesi di ritardo a causa della Campagna balcanica, venne condotta lungo tre direttrici divergenti – Leningrado, Mosca, Kiev – costringendo i vari Panzergruppen ad aprirsi a ventaglio negli immensi spazi russi. I sovietici subirono perdite spaventose – 500.000 tra morti e prigionieri nella sola Ucraina, in settembre – ma alla fine dell’estate la Wehrmacht non aveva ancora raggiunto nessuno degli obiettivi principali. L’Armata Rossa, aiutata dal Generale Inverno, riuscì a imporre una prima sanguinosa battuta d’arresto al nemico di fronte a Mosca nel dicembre 1941. Stalin fu in grado di consolidare il fronte interno chiamando il popolo alla “Grande Guerra Patriottica” (nella foto a destra, un manifesto di propaganda dell’epoca): vennero mobilitate le immense risorse umane dell’Unione Sovietica e fu completato lo spostamento delle industrie pesanti, essenziali per lo sforzo bellico, nelle zone sicure a est degli Urali. Hitler decise di tentare lo sfondamento a sud nell’estate del 1942: la Wehrmacht raggiunse le vette del Caucaso e il Volga, ma la strenua resistenza dell’Armata Rossa a Stalingrado fu all’origine della seconda e decisiva sconfitta germanica. La resa della 6a Armata di Von Paulus, il 2 febbraio 1943, rappresentò la svolta dell’intera campagna: da quel momento i tedeschi tentarono disperatamente di ritardare una sconfitta ormai inevitabile, spinti indietro dal “rullo compressore” sovietico fino a Budapest, a Vienna e a Berlino.
C Battaglia di Smolensk 7 agosto-2 ottobre 1943 D Battaglia di Kiev 3 novembre-22 dicembre 1943 E Battaglia della Narva 2 febbraio-10 agosto 1944 F Battaglia di Tannenberg 25 luglio-10 agosto 1944 G Sacca di Curlandia- Offensiva del Baltico 14 settembre-24 novembre 1944 H Battaglia di Belgrado 28 settembre-20 ottobre 1944 I Battaglia di Debrecen 6-29 ottobre 1944 L Rivolta di Varsavia (fallita) 1° agosto-2 ottobre 1944
BAL
M Battaglia di Budapest 29 dicembre 1944-13 febbraio 1945
DANIMARCA
Berlino
GERMANIA Praga
L’artiglieria sovietica, regina delle battaglie
U
CECOSLOVACC
n elemento essenziale del “rullo compressore” sovietico fu l’uso concentrato di imponenti masse di artiglieria pesante campale (obici da 122 e 152 mm, cannoni da 122 mm). La tattica d’impiego era basata su due principi essenziali: un accurato e prolungato bombardamento preliminare sulle posizioni nemiche, seguito da un’avanzata dei pezzi al seguito della fanteria e dei corazzati, per appoggiare prima possibile col tiro diretto, a vista, gli ulteriori balzi offensivi. Alla forza distruttiva dell’artiglieria si sommava poi l’effetto demoralizzante dei Katyusha, gli “organi di Stalin”, i lanciarazzi multipli BM-8 da 82 o BM-13 da 132 mm, poco precisi ma capaci di seminare il terrore con il loro devastante “fuoco di saturazione” (che si ottiene concentrando la massima potenza di fuoco disponibile su un’area delimitata, senza mirare a obiettivi specifici).
Lend-lease: gli aiuti statunitensi all’Unione Sovietica
P. GHISALBERTI
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L’Armata Rossa iniziò la liberazione della Crimea con i Fronti ucraini 1°-2°-3° e 4° e con 1° e 2° Fronte bielorusso.
A Battaglia di Kursk 5 luglio-16 luglio 1943 B Offensiva di Belgorod-Kharkov 3-23 agosto 1943
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o sforzo bellico sovietico venne sostenuto dagli Stati Uniti grazie all’invio di rifornimenti di ogni tipo (aerei, autocarri, benzina, locomotive e vagoni ferroviari) con il programma di prestiti agevolati detto lend-lease, sulle navi che percorrevano la pericolosa rotta dell’Artico, sfidando i sommergibili e l’aviazione tedesca. Si tratta di una pagina poco nota di eroismo e sacrificio: vennero affondate decine e decine di mercantili, ma i convogli alleati riuscirono comunque a scaricare nei porti sovietici materiale strategico essenziale per un valore di circa 11 miliardi di dollari. È stato calcolato, per esempio, che circa un terzo dei camion utilizzati dall’Armata Rossa tra il 1942 e il 1945 fosse di produzione americana: un aiuto indispensabile alla logistica del più imponente esercito schierato contro la Germania nazista.
Si aprì con la liberazione della città e la sconfitta del Gruppo armate Nord a opera dei Fronti guidati da Popov.
OFFENSIVA DI DNEPRCARPAZI dic 1943-apr 1944
BATTAGLIE CRUCIALI
La guerra partigiana rima ancora dell’inizio dell’invasione Hitler aveva chiarito ai gerarchi nazisti e ai più alti gradi della Wehrmacht che sul fronte orientale sarebbe stato necessario condurre una guerra di sterminio, per la distruzione del bolscevismo. Di conseguenza le operazioni militari assunsero caratteri di ferocia inaudita e la popolazione dell’URSS – con l’eccezione dei paesi Baltici e in parte dell’Ucraina – resistette tenacemente all’invasione. Imponenti formazioni partigiane si organizzarono fin dall’estate del 1941 nelle retrovie del fronte creando grosse difficoltà alla logistica e alle comunicazioni dell’esercito tedesco: per quanto sia sempre difficile valutare gli effetti della guerriglia, è certo che le bande irregolari sovietiche diedero un grande contributo alla vittoria dell’Armata Rossa nella Grande Guerra Patriottica.
OFFENSIVA DI LENINGRADONOVGOROD gen-mar 1944
Monaco
ITALIA
Vienna
AUSTRIA
OPERAZIONE BAGRATION giu-ago 1944
OFFENSIVE DI JASSY-KISHI V, BUDAPEST E BELGRAD ago-d
Un milione di sovietici dispiegati su 300 miglia per annientare il Gruppo armate Nord, i più duri.
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Il 2° e 3° Fronte ucraino dilaga o attraverso la Romania per pr ndere le città chiavve di Budapest, Buccarest e Belgrado e aaprire la strada per Berlino. GETTY IMAGES
I sovietici si aprirono la strada per Varsavia distruggendo la 4a Armata e la 9a Armata del Gruppo di armate Centro.
OFFENSIVA DEL BALTICO set-nov 1944
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1943
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Danzica PRUSSIA ORIENTALE
al 14 AGOSTO
1944
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Bucarest
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a capacità di spostare centinaia di industrie pesanti a est degli Urali, sottraendole all’avanzata germanica, fu certamente uno dei fattori decisivi della vittoria sovietica. Quando le forze della Wehrmacht si avvicinarono a Kharkov (o Ch’arkov), nell’ottobre del 1941, il grande stabilimento locale – specializzato nella produzione di carri armati – fu smontato e trasferito a Nizmij Tagil, sugli Urali, dove venne integrato alle Officine Dzerzinskij per dar vita alla colossale Uralvagonzavod (Fabbrica di vagoni ferroviari degli Urali), la più importante fabbrica di mezzi corazzati del mondo, da cui negli anni successivi uscirono decine di migliaia di T-34, e che ancora oggi produce i nuovissimi T-14 Armata, i carri russi dell’ultima generazione.
PRIMO PIANO RUS SSIA
L’ESPAN NSIO ONIISM MO RUSSSO ATT TRA AVE ER S O LE FIGURE CHE LO HAN NNO O INCA ARN NATO, DA IVAN N IL TE ERR RIB BILE E A PIETR PIIETRO RO IL L GRA ANDE DE
Occidente continua a chiedersi quale sia il segreto del successo di Putin, come questo presidente-padrone possa tenere in pugno un Paese grande quanto un continente conservando intatta la sua enorme popolarità. Forse la risposta è semplice: ai russi Putin piace. Perché questo ex uomo del Kgb ha promesso loro la Grande Russia, una nazione che annette la Crimea e lambisce gli Stati baltici, che minaccia l’Ucraina e fa paura all’Unione Europea, che seduce i separatisti georgiani e punisce la Cecenia, che va dalla Transnistria alla “Novorossija”, nomi che a noi europei dicono poco, ma che ai suoi seguaci evocano un passato glorioso e mai di dimenticato. i U Una strategia i iimperiale i l proiettata i anche h oltre l oce-
IL PRIMO ZAR Ivan III di Mosca, detto il Grande, fu il primo zar (o Czar, ovvero Cesare). Alla sua sinistra, i principi lituani. Questo monumento, il Millenario della Russia, fu eretto a Velikij Novgorod, seconda capitale della Rus, nel 1862 per celebrare i mille anni dall’arrivo di Rjurik.
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ano, tanto che si parla della longa manus del Cremlino dietro le elezioni americane. Questo disegno è comunque vecchio quanto la Russia, da secoli lo ritroviamo infatti nelle politiche espansionistiche dei predecessori di Putin. Ma esiste un dna russo? C’è un istinto bellico comune, un’attitudine alla guerra che lega gli uomini forti di questo Paese, da Ivan il Terribile a Pietro il Grande, dai sovrani di Kiev allo zar Nicola I, prima ancora delle strategie di Stalin e dell’attuale presidente? Agli inizi dell ’ l’Impero russo inglobava tutta l’Asia Settentrionale e una bella fetta dell’Europa Orientale. Questa vasta unione di terre e di popolazioni aveva avuto origine dall’insediamento di di un principe straniero, Rjurik (v. riquadro sotto),
CAPOSTIPITI Sopra, Ivan il Terribile (1530-1584). Sotto, Rjurik, capostipite della dinastia dei Vareghi che diede origine alla Rus di Kiev.
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a questione delle origini del “Paese russo” è di vecchia data. La Cronaca dei tempi passati, redatta nel 1110, ci racconta che il primo signore di queste terre fu un principe straniero, Rjurik, venuto “d’oltremare”. Questo avventuriero vichingo partito dalla Svezia fondò la grande città di Velikij Novgorod e, nel IX secolo, impose una dinastia nordica sugli slavi che da tempo immemore vivevano in quelle terre. I Rus, gli uomini di Rjurik, erano dunque Vichinghi, come hanno ormai dimostrato le fonti arabe, greche, latine e scandinave che parlano di loro. In cerca di ambra, oro e pellicce, questi Vareghi spinsero i loro veloci drakkar sui fiumi Volga, Don e Dnepr, aprendo la strada che dalla Scandinavia arrivava fino al “Paese dei Greci”, cioè all’Impero romano. Dai porti del Mar Nero essi salpavano alla volta di Miklagard, la “Grande Città”, Costantinopoli, centro del mondo allora conosciuto, crocevia di razze, dove i valorosi nordici potevano trovare bottino e ricchezza con la guerra, o con l’arruolamento nella guardia imperiale romana. La prima, vera capitale: Kiev. Fu Oleg, successore di Rjurik, che appese il suo scudo d’oro sulle porte di Costantinopoli, dopo aver riscosso un ingente riscatto dai Bizantini. Oleg portò la capitale da Novgorod a Kiev (oggi in Ucraina). I Rus adottarono il linguaggio degli Slavi e fondarono lì il loro principato. A Kiev governò poi Igor, figlio di Rjurik, che cominciò a espandere il territorio del principato verso il Volga. Le sue mire si infransero davanti
alle mura di Bisanzio, quando nel 941 la sua flotta venne bruciata dal fuoco greco dei dromoni imperiali. Ma quarant’anni dopo, suo nipote Vladimir strinse con i Romani un’alleanza militare e politica che portò, nel 988, a una conseguenza epocale: il battesimo del popolo russo e la conversione dei pagani slavi e dei Rus al cristianesimo ortodosso. Vladimir non era più solo principe di un piccolo regno, ma un Cesare unto dall’imperatore e benedetto da Dio. Da allora i successori di Vladimir furono grandi principi di Kiev, di Pskov e Novgorod, di Vladimir, di Rjazan, di tutte le città dei Rus, a loro volta governate dai principi minori. Uno di essi, Douri Joulgoroski, fondò un piccolo centro destinato a ricoprire un grande ruolo: Mosca. Contro gli eredi di Gengis Khan. Nel 1240 però tutti questi principati – che da Kiev si estendevano verso il Grande Nord – furono sottomessi col ferro e col sangue dai Mongoli. L’Orda d’oro – così si chiamava la parte occidentale del gigantesco impero asiatico – impose ai russi una schiavitù di circa due secoli, fatta di tributi e scorrerie, che solo il coraggio di principi come Alexandr Nevskji seppe attenuare. Nel 1380 Dimitri Donskoj, principe di Mosca e granduca di Vladimir, discendente di Rjurik, distrusse le orde dei Tartari e dei Mongoli nella battaglia di Kulikovo. Nel 1475 il suo pronipote Ivan III liberò la Russia dall’oppressione dell’Orda d’oro e impose il principe di Mosca come Gosudar, il sovrano di tutte le Russie.
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Quando si chiamava Rus
NATIONAL GEOGRAPHIC
EREDITÀ ROMANA L’aquila dei Romanov; lo stemma imperiale dei sovrani russi attesta l’origine bizantina, e quindi romana, degli zar (o Czar). A destra, Pietro il Grande alla battaglia di Poltava (1709).
LO ZAR RIFORMISTA
LA STRANIERA
Pietro il Grande (16721725) con i membri della sua corte. Il bassorilievo fa sempre parte del Millenario di Novgorod.
Seduta, la zarina Caterina la Grande (1729-1796), di origine tedesca. Pietro e Caterina fecero entrare la Russia nell’Occidente.
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SCALA
LO ST TESSSO ZA AR PIETR RO I LAV VORÒ Ò CO OME CARPE EN TIIERE L A COSSTR RUZ IO ON E ALL DELLA FLO OTT TA RU USSSA e delle sue genti, che non erano né russe, né slave, ma vichinghe. La vera origine dell’espansionismo russo è da ricercare però nel tardo Medioevo. Lo splendido Cremlino di Mosca, costruito da Ivan III il Grande, attesta la potenza del suo granducato nel XV secolo. Egli è considerato l’unificatore e il primo autocrate o Czar (Cesare) di tutte le Russie. E con pieno diritto. Sua moglie, Sofia Paleologina, era la figlia di Tommaso, despota di Morea e fratello dell’ultimo imperatore di Costantinopoli, Costantino XI. Da Ivan III gli Czar russi divennero unici signori e principi delle terre russe, e l’aquila bicipite (a due teste) dell’ultima dinastia romana divenne il simbolo dei signori di Mosca. Con lui iniziò l’espansionismo della Russia, a spese della Lituania e della Polonia. Da lui venne contrastata la minaccia mongola. bile e la Terza Rom ma. Questa eredità fu racIvan il Terrib colta da Ivan IV, il vero creatore della potenza russa. Egli più di ogni altro proclamò Mosca come Terza Roma, insignendosi dei simboli esteriori dell’imperatore romano e creando una vera e propria guardia pretoriana, gli Streltsý. Ivan il Terribile, detto così per la sua energica personalità, stroncò con energia il potere dei nobili russi, i boiardi, che avevano avvelenato sua madre e reso amara la sua giovinezza. In politica estera annientò gli ultimi avanzi dell’Orda d’oro dei Mongoli a Khazan ed estese la potenza russa in Europa: arrivò infatti a stringere alleanza con Elisabetta d’Inghilterra e a contendere il Baltico alla Svezia, annientando l’ordine dei cavalieri di Livonia (la regione baltica intorno a Riga) e guerreggiando contro Polonia e Lituania. La Russia divenne così una potenza di rilevanza europea, capace di affrontare Turchi e Tartari di Crimea per i porti del Mar Nero. Nel 1582 vennero oltrepassati gli Urali e iniziò la penetrazione russa in Siberia. Le navi di Ivan, discendenti dei drakkar, le agili imbarcazioni dei Vichinghi che avevano colonizzato l’area, guidate dagli avventurieri Stroganov e dal tartaro Yermak, vinsero le truppe dei Tartari siberiani. Ondate di coloni si riversarono in Asia dal territorio moscovita. La Russia era divenuta un territorio immenso che abbracciava due continenti. Pietr ro il Grande, sovr rano o de el Balt tico o. La zarevna Sofia osservava divertita suo fratello, lo zarevič Pietro, giocare alla guerra con i suoi compagni. Per lei quelle esercitazioni con i bastoni erano un amusement pour enfants, giochi da bimbi. Era l’anno 1683: Sofia, che esercitava il potere come reggente, non poteva immaginare che qualche anno dopo quei soldati in miniatura avrebbero aiutato Pietro a privarla del potere e a trasformare la Russia in una potente nazione. Tra XVI e XVII secolo l’impero aveva superato la devastante guerra civile seguita alla morte di Ivan IV. Al potere era salita la dinastia cadetta dei Romanov, che aveva soppiantato i discendenti di Rjurik sul trono degli Czar, e agli albori del XVIII secolo guidava una delle nazioni più potenti del mondo, grazie al genio e alla modernità dello zar Pietro I, meglio noto al mondo come Pietro il Grande. Il nome di questo sovrano incarna la modernizzazione e l’occidentalizzazione della Russia: fra i suoi obiettivi c’erano il potenziamento dell’esercito, l’allestimento di imponenti cantieri 45
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LA CRESCITA DELL’IMPERO RUSSO Territorio Russo nel 1462
Acquisizioni 1598-1619
Estensione dell’impero nel 1795
Acquisizioni 1855-1914
Acquisizioni 1462-1533
Acquisizioni 1619-1689
Acquisizioni 1796-1855
Acquisizioni 1533-1598
Acquisizioni 1689-1795
Acquistato dagli Usa nel 1867
Sfera d’influenza data di acquisizione 1881
Nell’800 la massima espansione: il dominio dei Romanov
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l fratello e successore di Alessandro I venne soprannominato il “gendarme d’Europa” e certamente non fu popolare. Nicola I Romanov non fu amato in Polonia, che ridusse al rango di provincia soggetta, non fu amato in Ungheria, dove aiutò a debellare la rivolta contro gli Asburgo. Fu però sotto di lui che la Russia raggiunse lo zenit della sua espansione territoriale: 20 milioni di chilometri quadrati. Nicola si batté contro le potenze europee occidentali – in particolar modo Piemonte, Francia e Inghilterra – nella Guerra di Crimea sempre per il solito vecchio motivo: guadagnare il libero sbocco sul Mar Nero per poi affacciarsi verso Costantinopoli a spese della Turchia ottomana. A capo di uno Stato cristiano ortodosso, lo zar rivendicava
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di nuovo l’eredità di Roma e di Bisanzio e sognava un impero panslavo con capitale Costantinopoli. Una cosa che le potenze europee non potevano accettare, allora come oggi. La guerra in Crimea fu persa e la fortezza di Sebastopoli cadde, nonostante il valore dei cosacchi. Nemico dell’umanità. La morte dello zar, nel 1855, provocò un’ondata di gioia all’estero, ma anche in Russia, dove Nicola era stato chiamato “il nemico del genere umano”. Con suo figlio Alessandro II, che abolì la servitù della gleba nel 1861, si fece sentire una ventata di modernità. Non per questo lo zar trascurò la politica estera e interna. Il suo generale Bariatinskji represse la rivolta nel Caucaso. Le propaggini dell’impero si estesero fino all’estre-
mità dell’Asia, ai confini del Mar del Giappone, mentre i potentati dell’Asia Centrale, gli antichi khanati del Turkestan, di Bukhara e di Khiva cadevano sotto i colpi dell’esercito zarista. Il primo marzo 1881, il sovrano fu ucciso in un attentato, dovuto alla difficile gestione della questione polacca, la cui nuova insurrezione era stata repressa nel sangue. La sua ultima grande impresa era stata la vittoriosa guerra balcanica con la Turchia, nel tentativo di estendere il protettorato russo sulle nazioni slave ancora soggette all’Impero ottomano. Le potenze straniere interferirono anche allora e i russi dovettero rinunciare alla riconquista cristiana di Constantinopoli. L’agonia dell’impero. Il successore, Alessandro III, tornò ad agire come un
autocrate convinto, esercitando i poteri supremi del sovrano, mentre il Paese affondava nei moti rivoluzionari. Sotto di lui, nonostante l’opposizione inglese, venne completata la conquista del Turkmenistan. E fu siglata anche la traballante alleanza dei “tre imperi” (Russia, Germania e Austria), nata già azzoppata visti gli interessi confliggenti che tali nazioni avevano nei Balcani e sul Baltico. Alessandro alla sua morte (1894) lasciava in eredità al figlio un impero in agonia. Nicola II Romanov, l’ultimo “piccolo padre”, concluse i suoi giorni nelle mani dei bolscevichi e la Santa Madre Russia divenne comunista e sovietica. Ma sembra che l’eredità di Rjurik e il sogno imperiale siano oggi in mano a un moderno Czar.
QUAND D O NAPO OLEONE E ENT TRÒ A MO OSCA TROV VÒ LA CIITTÀ À CHE ARDEVA. KUTUZOV AVEVA A FA ATT TO TE ERRA A BRU UCIA ATA le rovine delle originali città greche e romane). Corrispondente dei più grandi filosofi francesi come Voltaire e Diderot, la zarina importò nel suo Paese i germi dell’Illuminismo. Le origini tedesche non le impedirono di rivaleggiare con l’eredità di Pietro. Quando morì, nel 1796, lasciò le redini al suo unico figlio legittimo, Paolo I, presto eliminato in una congiura. Era il 1801. Sul trono salì allora Alessandro I, lo zar che dovette fronteggiare uno dei più grandi geni militari di tutti i tempi: Napoleone Bonaparte. Vinse grazie al generale Kutuzov, conquistatore della Bessarabia, un’altra fettina dell’Impero ottomano. Kutu uzov, qua ando la Ru ussia a si difend de. L’esercito russo-austriaco aveva subito la disfatta di Austerlitz e aveva visto le aquile francesi raggiungere le porte di Mosca in un momento in cui la rivolta armata divampava tra le truppe. Invaso dalla Grande armée, con Mosca in fiamme, il Paese riuscì comunque a sopravvivere. Il “generale inverno” fece il grosso del lavoro, mentre il genio di Kutuzov, comandante in capo delle armate zariste, rispolverò la tattica di Quinto Fabio Massimo, il Temporeggiatore. Disturbando a intermittenza l’armata francese mentre si ritirava dal suolo della Santa Madre Russia, Kutuzov diede battaglia a Krasnoe, dove Napoleone perse 20.000 uomini. Lì Kutuzov ricevette il titolo di principe di Smolensk. Il disastroso attraversamento della Beresina completò l’opera. Così, dopo la caduta di Bonaparte, lo zar Alessandro I sedette da protagonista al tavolo della Pace di Vienna, nel 1815. Raffaele D’Amato
ALAMY
navali e lo spostamento della corte a San Pietroburgo. Lì Pietro fece costruire dal nulla una città sul modello delle metropoli occidentali. E dove si affacciava la nuova capitale? Sul Baltico, dominio degli svedesi, che avevano già colpito duramente lo zar nella battaglia di Narva (1700). Questa volta, però, andò diversamente e nella campagna di Poltava (1709) Pietro annientò Carlo XII di Svezia. Dunque, il piccolo principato medievale di Mosca era divenuto nel XVIII secolo una nazione leader, temutissima. Il Baltico era ormai un mare russo e l’impero degli Czar arrivava fino alla Persia, a minacciare i vecchi nemici, i Turchi. Dotata di una moderna flotta, che lo zar in persona aveva costruito con i suoi carpentieri imparando l’arte dai mastri d’ascia olandesi, la Russia si volgeva ora al Mar Nero, per contendere all’Impero ottomano l’eredità di Costantinopoli. Caterina la Grand de. Nel dna di questi condottieri dalle grandi ambizioni fu iniettato anche sangue tedesco: la sovrana più potente fu infatti straniera, moglie di un nipote di Pietro il Grande, Pietro III, detronizzato con un colpo di Stato. Venne incoronata zarina il 22 settembre 1762 sotto il nome di Caterina II e fece la Russia ancora più potente: la riformò nella sua amministrazione, la dotò di un sistema scolastico e della imponente flotta del Mar Nero, ne allargò il territorio sempre a spese di polacchi e Ottomani. Grazie al più famoso dei suoi amanti, Potemkin, Caterina fece della Crimea una penisola russa, strappandola completamente ai Turchi, e invitò i coloni stranieri a venire e prendere la loro residenza lì, fondando nuove città come Sebastopoli e Odessa (o meglio ripristinandole sul-
IL MARESCIALLO IL GENERALISSIMO Aleksandr Suvorov, il generalissimo (superiore a tutti gli altri generali), comandante delle forze austro-russe nella Campagna d’Italia (1799).
Michail Barclay de Tolly, feldmaresciallo russo e ministro della Guerra durante la Campagna di Russia del 1812.
L’AMMIRAGLIO IL MITO Il maresciallo di campo (o feldmaresciallo) Michail Kutuzov fu l’uomo che difese la Russia dall’invasione di Napoleone.
Dmitrij Senjavin contrastò la flotta napoleonica nell’Adriatico. Nicola I lo mise al comando della flotta del Baltico.
I. DZIS (5)
VAREGO RUS IX-X SECOLO Guerriero e mercante varego Rus, dell’epoca di Rjurik, IX-X secolo, ricostruzione tratta da una tomba della necropoli di Shestovitsy. Porta un alto berretto di feltro e un kaftan (caftano) sopra i suoi ampi pantaloni a sbuffo.
GUERRIERO DI NOVGOROD XIV SECOLO
GRANATIERE DI PIETRO IL GRANDE 1709-1715
Guerriero del principato di Novgorod, 1380 d.C. circa, probabilmente un druzhnik, ovvero membro della druzhina, la guarda personale del principe. La ricostruzione è stata fatta in base agli affreschi di Pskov e Novogorod: si notino la corazza a scaglie (pantsir), lo scudo (schnit) e la mazza (chekan).
Reggimento dei granatieri dell’esercito di Pietro il Grande, 1709-1715. I caftani militari delle nuove divise di Pietro erano prevalentemente di colore verde scuro, le maniche non raggiungevano le mani, attorno alle quali era visibile la camicia.
STRELTSÝ DI IVAN IL TERRIBILE 1545-1555
I soldati degli zar 48
Erano le guardie personali degli Czar, create da Ivan il Terribile e rimaste in servizio fino al 1720. Corpo di archibugieri ideati sul modello dei giannizzeri, gli streltsý (parola che significa tiratori) erano equipaggiati con achibugio o moschetto, sciabola e ascia (berdische). Indossavano il kaftan russo e il cappello di pelo (shapka).
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USSARO NERO DI CATERINA LA GRANDE 1766
COSACCO DEL KUBAN XX SECOLO
FANTE RUSSO PRIMA GUERRA MONDIALE
Luogotenente degli Ussari Neri dell’armata di Caterina II, 1766. Si noti il peculiare fodero della sciabola, in cuoio coperto di velluto. Era sospeso da tre cinghie sul lato sinistro e decorato con un monogramma.
L’armata dei Cosacchi del Kuban combatté al fianco dei Bianchi contro i bolscevichi, alleanza che dopo la fine della Grande guerra pagò con la repressione. L’uomo veste il lungo soprabito caucasico (cherkesska) con cartuccere ornamentali, il colbacco ed è armato della sciabola cosacca (shashka).
La lunga camicia a collo alto (gymnastiorka) derivava dagli abiti civili e divenne uniforme standard dell’esercito dal 1912. Arrotolato a bandoliera sulla spalla il fante porta il cappotto, che serviva anche da coperta. Sul berretto c’è la coccarda con i colori imperiali.
GRANATIERE DI NICOLA I 1825 Granatiere della Guardia dell’esercito dello zar Nicola I, 1825. Reclutate dal granduca Mikhail Pavlovic, fratello dell’imperatore, queste guardie del corpo personali dello zar dovevano essere tutte alte, di bell’aspetto, gentiluomini ed avere un’altezza non inferiore a 184 cm.
LE UNIFFOR R MI RISSEN TO ON O PRIM M A DEL LL’IINFFLUENZA A AVA E BIZA ANTIINA, SLA POII PRE END D ON NO FOG G GE TIPICAM MEN N TE RUSSSE OD OCC CID DEN N TA ALI A cura di Giorgio Albertini e Raffaele D’Amato
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WARS
RAID
OPERAZIONE NIMROD A cura di Fabio Riggi
GETTY IMAGES
lle 11:25 del 30 aprile 1980 la routine londinese venne bruscamente interrotta da un commando di sei militanti del Fronte di liberazione dell’Arabistan, un gruppo separatista che si batteva per la secessione del Khuzestan (Iran). Il gruppo fece irruzione nell’ambasciata iraniana a Prince’s Gate, nel quartiere di South Kensington, sequestrando 26 persone. Iniziò così un drammatico assedio. Dopo serrate trattative, nei successivi 4 giorni si riuscì a ottenere il rilascio di 5 ostaggi. Ma i terroristi richiedevano la liberazione di 91 prigionieri arabi detenuti nelle prigioni iraniane, minacciando di far saltare in aria lo stabile con tutti i suoi occupanti. Lunedì 5 maggio gli eventi subirono una drammatica evoluzione: l’ostaggio Abbas Lavasani, addetto stampa dell’ambasciata, venne trucidato a sangue freddo e, poco dopo le 18:20, il suo corpo gettato fuori dall’edificio. La vicenda era giunta a un punto di non ritorno: era il momento di far intervenire le forze speciali. SA AS in azione.. Rispetto ad altri Paesi, nel Regno Unito era stato adottato un approccio diverso per fronteggiare la minaccia del terrorismo: invece di creaMembri del SAS ricostruiscono in un documentario l’assedio all’ambasciata iraniana.
re un reparto ad hoc, il compito era stato affidato al 22nd Special Air Service Regiment, noto con l’acronimo SAS, corpo che deteneva un immenso patrimonio di esperienza e aveva dimostrato la sua efficacia in azione. Già allora questa unità era considerata la capostipite di tutte le forze speciali del mondo: al suo interno nel 1973 era stata costituita la cellula CRW (Counter Revolutionary Warfare) per mettere a punto tattiche e procedure da usare negli interventi di antiterrorismo. Ognuno dei quattro Sabre Squadron, che ancora oggi compongono il SAS, era stato addestrato allo scopo, pronto a intervenire con minimo preavviso. Lo squadrone in allerta assumeva la denominazione di Special Projects Team: quella primavera aveva appena iniziato il suo turno lo Squadrone B. Ap ppesi alle e co ord de.. I cercapersone del SAS presero a suonare alle 11:48 del 30 aprile, a 23 minuti dall’inizio dell’emergenza. Lo Special Projects Team arrivò in Prince’s Gate nelle prime ore del 1° maggio e diede avvio alle attività preliminari. L’Operazione Nimrod era iniziata. Quando giunse l’ordine di entrare in azione, espressamente autorizzato dall’allora primo ministro britannico
Aprile 1980, sei uomini prendono in ostaggio 26 persone nell’ambasciata iraniana a Londra. Ambasciata iraniana a Prince’s Gate
LONDRA
Margaret Thatcher, il piano era pronto e definito nei minimi dettagli: organizzati in due gruppi d’assalto, i membri del SAS avrebbero fatto simultaneamente irruzione nei diversi piani dell’edificio. Il primo gruppo, denominato Red Team, era sua volta suddiviso in due squadre di 4 elementi ciascuna: la prima sarebbe entrata nel terzo e quarto piano, penetrando nella tromba delle scale da un lucernario, mentre la seconda si sarebbe calata con una discesa in corda lungo la facciata posteriore entrando dalle finestre del secondo piano. Più in basso, tre squadre del Blue Team avrebbero fatto irruzione al piano terra e al primo piano passando dai balconi di un edificio adiacente. Il blitz z. Alle 19:23 del 5 maggio nei ricevitori radio degli operatori risuonò la parola in codice: “Hyde Park”. Era il Discesa in corda Si tratta di una tecnica utilizzata per effettuare una discesa controllata da una posizione sopraelevata, grazie all’azione di frenaggio, regolata dall’operatore, ottenuta tramite il passaggio di una fune attraverso i due anelli di uno strumento metallico a forma di otto, chiamato“discensore”.
GETTY IMAGES (3)
Il lato frontale dell’ambasciata, con il fuoco che fuoriesce dalle finestre. A destra, un inglese che era all’ambasciata per un visto viene fatto uscire dal balcone da un operatore SAS. Sotto, la polizia in attesa.
segnale per il Red Team di agganciarsi alle corde, seguito subito dopo dall’esecutivo “London Bridge”, l’ordine di iniziare la discesa e lanciare l’azione. L’assalto iniziò con la detonazione di una carica esplosiva in un altro lucernario del terzo piano, che doveva fungere da diversivo. Subito dopo tutte le squadre partirono per l’intervento. Quello che sarebbe diventato uno dei più famosi blitz nella storia delle forze speciali britanniche visse momenti di alta drammaticità, soprattutto quando i superaddestrati soldati del SAS andarono incontro a un incidente: durante la sua discesa in corda, il comandante del Red Team restò impigliato nella fune, bloccato davanti a una finestra. Nel tentativo di liberarlo, uno dei suoi uomini infranse involontariamente i vetri, rischiando di vanificare l’effetto sorpresa. Ma grazie al loro sangue freddo, i militari del SAS cambiarono repentinamente parte del piano: rinunciando a usare le cariche esplosive per infrangere i vetri antiproiettile delle finestre – e questo per non ferire l’operatore rima-
sto bloccato –, i membri dei due team sul retro della facciata entrarono ugualmente mandando in frantumi i cristalli delle finestre con le mazze. Poi lanciarono all’interno granate stordenti e candelotti di gas lacrimogeno. Contemporaneamente, anche i membri del Blue Team entravano in azione ai piani inferiori. Il fuoc co. Le granate stordenti flashbang innescarono un incendio tale che le fiamme fuoriuscirono dalla finestra ustionando il soldato ancora impigliato; l’uomo venne però liberato dai suoi colleghi, che tagliarono la fune. Precipitato nel balcone sottostante, questi si rialzò continuando l’azione all’interno. I terroristi reagirono uccidendo uno degli ostaggi, ma quattro di loro vennero eliminati dai colpi precisi delle pistole mitragliatrici Heckler & Koch MP5 e delle pistole Browning HP in dotazione al SAS. I membri dei due Team “ripulirono” metodicamente tutte le stanze dell’ambasciata, mettendo in sicurezza gli altri ostaggi. Uno dei militanti si mischiò con i prigionieri e, mentre questi imboccavano le
scale, cercò di far esplodere una bomba a mano. Un operatore del SAS, non potendo sparare per timore di colpire gli ostaggi, prima lo abbatté a terra sferrandogli un colpo con il calcio dell’arma e poi lo eliminò con una raffica. Un secondo terrorista cercò di approfittare della confusione mescolandosi con i prigionieri quando questi furono evacuati all’esterno, ma venne identificato e arrestato subito dopo. Fu comunque l’unico militante del commando a sopravvivere. Ge e sti cora agg giosi. Tra gli eroi di quella giornata vi fu anche uno degli ostaggi stessi, il poliziotto Trevor Lock, che al momento dell’irruzione del SAS si lanciò contro il capo dei terroristi, eliminato poi dagli operatori. Alle 19:40, dopo 17 minuti esatti dall’inizio dell’assalto, tutte le restanti 19 persone tenute prigioniere erano state portare in salvo e 5 dei 6 terroristi giacevano a terra, mentre uno di loro era agli arresti. L’Operazione Nimrod era stata portata a termine con successo. Il leggendario Special Air Service guadagnava le prime pagine dei giornali. 53
WARS
LIVING HISTORY
19172017 LA RITIRATA A cura di Camillo Balossini
uel colore che dà il nome al gruppo di rievocazione storica I Grigioverdi del Carso fu la vera innovazione uniformologica del Regio Esercito durante la Grande guerra. Prima del conflitto le divise dei soldati italiani erano blu scuro, una tinta che risultava assai più appariscente nelle trincee. Il grup ppo. Dal 2005 i membri dei Grigioverdi si occupano di rievocare le fasi salienti delle battaglie che hanno martoriato il Carso, curando in pri-
mo luogo i resti bellici sul Monte Cosich e tra Ronchi dei Legionari e Doberdò del Lago. Siamo sui luoghi del Parco tematico della Grande guerra, gli stessi delle Dodici battaglie dell’Isonzo di cui fa parte Caporetto, nome che per l’Italia evoca l’onta della sconfitta ma anche la forza di reagire fino alla vittoria. Qui il gruppo storico lavora da anni alla sistemazione di una trincea sicuramente occupata dalle truppe italiane nel 1917. Le foto di questo servizio sono scaturite dall’idea di ricordare un evento che
ha segnato la Storia italiana, tanto più in vista del centenario del 1917: questo fu l’ultimo anno di guerra sul fronte dell’Isonzo, con le aspre fasi vissute dal nostro esercito prima dello spostamento sul fronte del Piave. I Grigioverdi del Carso si sono impegnati dunque a far rivivere i giorni di Caporetto, anche se per questioni logistiche il servizio fotografico è stato realizzato sul Monte Cosich (che fu la zona d’azione della 3a Armata italiana). Ciò ha portato alla decisione di non ambientare
ELMETTO RINFORZATO
FOTO DI CAMILLO BALOSSINI
Il gruppo Grigioverdi del Carso rievoca i giorni di Caporetto: qui c’è la sentinella austriaca in trincea, che indossa un elmetto Mod.16 prodotto dall’alleato tedesco. Dopo l’11a battaglia dell’Isonzo la Germania mandò infatti uomini e mezzi in soccorso agli austriaci stremati. L’elmo ha una placca di rinforzo fornita solo alle sentinelle perché troppo pesante da usare negli assalti.
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DI CAPORETTO la rievocazione in un luogo e in un momento preciso del fronte, ma si è preferito dare un’idea generale dei possibili avvenimenti in un arco temporale più lungo, comprendente i mesi precedenti l’offensiva austro-tedesca, subito dopo l’Undicesima battaglia dell’Isonzo. Al centro della scena sono stati messi i lavori di sistemazione della trincea dopo gli ultimi scontri, l’attesa delle sentinelle e le ispezioni lungo il fronte degli austro-tedeschi in preparazione all’attacco, oltre alla vita quotidiana su entram-
bi i fronti. E con cura filologica sono stati scelti materiali e uniformi per rappresentare l’ottobre del 1917. Il set. Una seconda parte del lavoro è stata svolta, invece, lontano dalle trincee, nei paesi di Staranzano e Medea, entrambi in provincia di Gorizia. Il prit
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WEB
www.facebook.com/Gruppostorico-culturale-I-Grigioverdidel-Carso-122117457866465 http://igrigioverdi.blogspot.it www.igrigioverdidelcarso.it
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mo ha visto l’allestimento di un piccolo posto di comando italiano in una vecchia stalla, diventata per l’occasione luogo di interrogatorio dei disertori e dei prigionieri. Il paese di Medea ha fatto poi da sfondo alle scene posteriori allo sfondamento del fronte della 2a Armata davanti a Caporetto. I Grigioverdi hanno rievocato la ritirata dei soldati italiani stanchi e atterriti, assistiti dai civili, quella stessa gente del Friuli che avrebbe poi seguito le truppe italiane verso il Piave, durante l’avanzata austriaca.
UOMINI IN GRIGIOVERDE In alto, soldati italiani rinforzano le trincee con sacchi di sabbia e trovano ristoro tra la popolazione. Indossano l’uniforme grigioverde, derivazione del feldgrau austriaco, e l’elmetto Adrian fornito dai francesi. A sinistra, austriaci in marcia verso il fronte. Sopra, l’interrogatorio di un disertore austriaco.
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UNIFORMOLOGIA
ER R ANO TANT TI, ERAN NO BEL LLIC COSSI E SFIDARO ONO L’EG GEMON NIA ROM M A NA PER OLTR RE DUEM MIL A ANN NI
I NEMICI DI ROMA ella sua bimillenaria storia la Res Publica romana dovette affrontare nemici agguerriti, che resero la sua ascesa e la conquista del mondo allora conosciuto impressionanti. Pur considerando solo il periodo antico della storia di Roma (753 a.C.-476 d.C.), vediamo come l’Urbe nacque in mezzo alle insidie dei popoli latini, subendo per un certo periodo la pressione della Lega etrusca. Acquisì il dominio sul Centro Italia attraverso guerre senza sosta contro i bellicosi Equi e Volsci, mentre rimaneva sempre aperto il fronte con l’Etruria. Nello stesso anno in cui le armi di Furio Camillo presero Veio, intorno al 396 a.C., i Romani conobbero la ferocia e la brutalità dei Celti Senoni, che arrivarono a saccheggiare l’Urbe. Questo non fermò le mire di Roma: le vittoriose guerre con i Sanniti, confederazione di popoli detentori di una rigida casta militare, portarono Roma anche alla conquista del Sud e a misurarsi con i Greci italioti; questi, però, elessero a loro campione Pirro d’Epiro e costrinsero le legioni a confrontarsi con le tattiche ereditate da Alessandro Magno. La nemica Cart tha ago. La lotta per la Sicilia e per il Mediterraneo Occidentale fu teatro di tre devastanti guerre con la fenicia Cartagine: il confronto sanguinoso, che mise Roma spesso in ginocchio, si concluse alla fine con la distruzione della potente rivale. Da quel momento l’Urbe controllò il Mediterraneo: le legioni annientarono nel giro di due secoli i più grandi eserciti ellenistici del mondo allora conosciuto, in particolare la Macedonia, la Siria e il Ponto, impadronendosi dell’O56
riente. La penisola spagnola, nonostante la fiera resistenza degli Iberici, divenne parte integrante del dominio di Roma, così come accadde alla Numidia e al Nord Africa. Con Giulio Cesare l’Urbe conquistò le Gallie; poi, sotto l’impero di Claudio, estese con le armi la sua civiltà fino alla lontana Britannia. Combattendo contro i fieri Germani, gli Illiri, i Traci e i Daci fissò a nord-ovest e a est i suoi confini, lungo i fiumi Reno e Danubio. Nel Ponto (in Asia Minore) l’Impero romano si oppose con successo ai Sarmati, mentre in Oriente le province conquistate furono aspramente contese al grande impero rivale, quella Persia prima governata dai Parti arsacidi e poi dalla dinastia nazionale dei Sassanidi. La conquista della Dacia fu l’ultima impresa espansionistica. Dal III secolo, orde di Goti, Franchi e Alamanni riuscirono più volte a penetrare i confini dell’impero. L’ordine ristabilito da Diocleziano e Costantino vide il dominio dell’Urbe consolidato contro i nemici persiani e germanici. La cadu uta dell’Urb be. La crisi del V secolo, che vide la fine dell’Impero d’Occidente e la sua frammentazione in potentati germanici, fu aggravata dalla devastante invasione degli Unni, che, pur se senza successo, lasciò un ricordo indelebile di indicibili barbarie. Dalle ceneri dell’Occidente sarebbero sorte le nazioni europee: in Oriente lo Stato romano sarebbe continuato tra alterne vicende fino alla caduta di Costantinopoli e Trebisonda, nel 1461, dopo 2.214 anni di bellicosa esistenza. Raffaele D’Amato. Illustrazioni Giorgio Albertini
500-400 a.C.
ARCIERE CAERITANUS Questo etrusco, copiato dalle placche dipinte di Caere, brandisce un arco composito (arcus sinuosus).
495 a.C.
GUERRIERO VOLSCIO
321 a.C.
EQUES CAMPANO
Porta una maschera metallica come il Sannita coperto da un cardiophylax principe di Capestrano effigiato in una metallico composto da tre dischi, a statua. Ha il pettorale e una xiphos greca, la protezione di petto e schiena, con elmo spada delle fanterie elleniche. calcidico sormontato da un lophos (cresta).
280 a.C.
UFFICIALE EPIROTA Un elmo (kranos) in ferro argentato, uno scudo (aspis) di bronzo e una corazza muscolare (statos) in ferro distinguono questo ufficiale dei Chalkaspides reali (soldati scelti della falange).
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190 a.C.
205 a.C.
FALANGITA SELEUCIDE
CAVALIERE IBERICO DELLA COORTE SEDETANA
L’elmo, di tipo tracio, si accompagna a un aspis di bronzo e a una armatura di cotone e lana imbottita (kasas).
Membro della classe di élite degli equites, con una corazza a scaglie e un elmo in bronzo di stile celtico.
202 a.C.
UFFICIALE DELLA BANDA SACRA L’impressionante pelle di leone, in onore di Eracle Melqart (nume tutelare della città fenicia di Tiro), copre il capo di questo ufficiale cartaginese, difeso da una corazza di lino (linothorax) policroma.
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118 a.C.
GUARDIA REALE L’equipaggiamento di questo numida risente dell’influenza punica (nell’elmo), romana (per il thorax alusidotos in maglia di ferro) ed ellenistica (lo scudo con dragone).
NON FU U UNA A STORIA T TO ORIE E IN NFIN NIT TE, DI VIT TUTT’ALTRO, M A RO OM A SA APEV VA PER RDE ERE E E IN NCASSSARE,, POI RISSPO ONDEV VA E AL LLA FIN NE DO OMINAVA
83 a.C.
ARCIERE DEL PONTO EUSINO L’equipaggiamento di questo ellenista non era dissimile da quello degli arcieri cretesi, ma la spada alla coscia mostra una chiara influenza sarmata.
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CO ON L A NA ASCIITA DE ELL’IM MPE ERO I NEM MIC C I SI MO OLTIIPL LIC C A RO N O DALL’ESST AL LL’O OVEST T
53 a.C.
EQUES DEGLI ALVERNI Cavaliere di Vercingetorige coperto dalla pesante gallica (cotta di maglia) e da una variante dell’elmo di tipo Agen-Port.
63 a.C.
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53 a.C.
PIRATA CILICIO
ARCIERE PARTICO ASBARAN
Levantino della Cilicia, ricostruito sulla base dei reperti archeologici dell’area di Tarsus. Si noti la spada di tipo partico.
Questo cavaliere iraniano è armato non solo del suo arco composito (xamān) ma anche di una forma iniziale di martelletto da cavalleria (čakōč).
9 d.C.
GUERRIERO DEI BRUCTERI Il Germano dell’esercito di Ermanamer (Arminio), coperto di pelli, è armato da una rudimentale mazza e da due giavellotti, secondo il costume germanico.
19 d.C.
48 a.C.
CHILIARCA TOLEMAICO L’ufficiale dell’esercito di Tolomeo XIII porta un thorax statos rafforzato da una piastra pettorale, ed è armato con una kopis (spada monofilare) ricurva.
NOBILE GETO-DACIO Coperto da un elmo con frontalino, secondo la tradizione nord-italica, questo guerriero è armato di un’hasta e di una corta sica (la spada curva in vita). Da sotto lo scudo spunta appena la lunga spatha celtica.
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73 d.C.
ZELOTA, MASADA Una corazza a scaglie (squama) protegge il corpo di questo arciere, mentre la sua arma principale è l’arco composito fatto di corno di stambecco.
III sec. d.C.
SAVARAN, PERSIA Questo nobile sassanide porta un berretto di feltro a punta (bashlyk) sopra il suo elmo e un’armatura lamellare corredata di guanti corazzati (bazpan).
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circa 300 d.C.
NOBILE ALANO-SARMATA Il capo coperto da una spangenhelm di origine romana (elmo di Kichpek), questo principe delle steppe eurasiatiche protegge il suo corpo con una squama.
III sec. d.C.
GUERRIERO GOTO BOSFORANO Scudo, framea (asta con una corta punta di ferro) e spada con impugnatura d’aquila, a imitazione di quelle romane, formano la panoplia di questo predatore del Mar Nero.
QUAND O I BA A R BA R I IN NVASERO L’IIMPER RO S I SC CONT T R A RO N O CO ON ALTRI BARBA ARI EN TR ATI NE ELL L’O O RG A N I C O DEL LLE E LEGIO ON I
circa 450 d.C. NOBILE UNNO
I corredi delle tombe unne del periodo ci mostrano guerrieri coperti di monili e diademi in oro, muniti di cotte di maglia e di armi di origine bizantina decorate con oro e con la pietra preziosa almandino.
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ESERCITI PRIVATI
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AL SERVIZIO DI
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LE TRUPPE
La East India Company era una società per azioni, composta da investitori che compravano quote di spedizioni commerciali per fare profitto. Le merci più ambite erano le spezie, seguite da stoffe, sete e preziosi. Per potere commerciare con profitto in terre lontane, straniere e potenzialmente ostili non era sufficiente una “patente” del sovrano, ma servivano alleati e “soci” oltremare, nonché permessi rilasciati
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dalle autorità locali, come l’Impero moghul in India (sopra, mappa dell’India nel XVIII secolo). Incentivi. Allo scopo di fondare filiali commerciali e battere sugli stessi mercati la concorrenza delle altre compagnie europee, i rappresentanti di queste imprese dovevano continuamente corteggiare i governanti locali per migliorare la loro posizione coprendoli di regali, promesse, favori e mazzette.
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Una S.p.a. in battaglia
L’Army Madras di fine 800 di questa illustrazione deriva direttamente da uno dei 3 eserciti che componevano le forze armate della East India Company. A sinistra, lo stemma della Compagnia (1730).
Sandokan facevano un baffo. Il pirata della Malesia inventato da Emilio Salgari li abbatteva come birilli, quei soldatini ridicoli in giubba rossa e piedi scalzi. Eppure di risibile l’esercito della East India Company aveva ben poco. Oggi potrebbero avvicinarsi alla figura dei contractors, ieri erano il mezzo con cui il Regno Unito dominava il mondo. Un pe ezzo di storiia inglese. La Compagnia delle Indie Orientali, la più grande impresa commerciale che l’Impero britannico abbia mai avuto, fu istituita dalla regina Elisabetta I per decreto reale il 31 dicembre 1600: con tale documento la sovrana, come a breve avrebbero fatto Francia, Spagna, Portogallo, Olanda e Danimarca, conferiva a un gruppo di commercianti riunitisi nel Governor and Company of Merchants of
London trading with the East Indies il monopolio del commercio con tutte le terre a est del capo di Buona Speranza e a ovest dello Stretto di Magellano. Sir James Lancaster guidò nel 1601 il primo viaggio delle navi della Compagnia, chiamata ben presto East India Company o informalmente John Company, alla volta delle coste del subcontinente indiano e di Sumatra, dove a Bantam fu aperta la prima base commerciale. Nel 1618, dopo tre anni di assidui abboccamenti, sir Thomas Roe, ambasciatore in India e funzionario della Compagnia, ottenne dall’imperatore moghul Jahangir il permesso di commerciare nel subcontinente indiano. Per tutto il XVII secolo, grazie alle basi di Bastra, nel Golfo persico, di Bombay, nel Malabar, e di Madras, nel Coromandel, la Compagnia delle Indie Orientali crebbe fino a diventare una delle società più redditizie e stabili del Regno Unito. Calcutta, che sarebbe diventata la sede principale, fu fondata nel 1690 in un sito acquitrinoso lungo il fiume Hooghly, a circa 150 km dal Golfo del Bengala. Conc correnz z a arm m ata a . Non furono sempre anni facili, perché la competizione fra le Compagnie sfociava spesso in scontri armati, sia navali che terrestri. I funzionari furono perciò costretti fin dall’inizio a reclutare mercenari per proteggere le basi commerciali e fornire di cannoni i propri vascelli. Le truppe erano reclutate fra europei, indipendentemente dalla lo-
1746-48 1748-54 1756-63 1757 1766-69 1775-82 1780-84 1789-92 1799 1803-5 1806 1814-16 1817-18 1823-26 1839-42 1839-43 1845-46 1848-49 1852-53 1856-60 1856-57 1857-58 1867-68
Prima guerra del Karnataka Seconda guerra del Karnataka Terza guerra del Karnataka Battaglia di Plassey Prima guerra anglo-mysore Prima guerra anglo-maratta Seconda guerra anglo-mysore Terza guerra anglo-mysore Quarta guerra anglo-mysore Seconda guerra anglo-maratta Ammutinamento di Vellore Guerra anglo-nepalese Terza guerra anglo-maratta Prima guerra anglo-birmana Prima guerra anglo-afghana Prima guerra dell’oppio Prima guerra anglo-sikh Seconda guerra anglo-sikh Seconda guerra anglo-birmana Seconda guerra dell’oppio Guerra anglo-persiana Il grande ammutinamento Spedizione britannica in Abissinia
A CALCUTTA Robert Clive, comandante dell’esercito britannico, batte il nababbo del Bengala e i suoi sodali francesi e riconquista Calcutta nella battaglia di Plassey (1757); qui è con il suo alleato indiano Mir Jaffa. Clive fu il primo a organizzare i sepoys del Bengala in battaglioni. ALAMY
Cronologia Campagne combattute dalle truppe della Compagnia Inglese delle Indie Orientali
IL DUCA DI WELLING GTON CO ONSE EGUÌÌ I PRIM MI SU UCC CESSSI NELL LE GU UERRE E CON N TRO O IL MYSO ORE E E I MAR R ATT TI
HAVILDAR
G. ALBERTINI
IL SOLDATO. Havildar della Compagnia delle Indie, 1780-84 (Seconda guerra anglo-m mysore).. LA STORIA. Tra le truppe native, havildar era il graddo corrispondente al sergennte negli eserciti europei. Il soldatoo, di etnia karnataka o maratta, appartiene all’esercito di Maadras e indossa il tradizionale turbante di stoffa da cui penzola laa nappina argentata simbolo del d suo grado. L’uniforme copia quella q della fanteria inglese, conn tanto di risvolti, colletto e polsini gialli. Al posto dei tradizionali ppantaloni lunghi (jodphurs o pijijamas) sono indossati i jangheass, pantaloncini corti decorati.
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ro nazionalità, ed eurasiani. La prima vittoria militare della John Company è datata addirittura novembre 1612, quando al largo di Suvali, lungo la costa del Gujarat, quattro galeoni inglesi sconfissero una piccola flottiglia portoghese. Tre eserciti. Le cose cambiarono alla fine del ’600 quando, contemporaneamente all’incremento dei traffici commerciali in India, l’Inghilterra e la Francia diedero inizio a una serie di guerre che le avrebbe viste rivali sino alla fine di giugno del 1815. Gli scontri tra le due potenze, oltre che in Europa e sui mari, si allargarono alle colonie americane e caraibiche e ai possedimenti commerciali delle rispettive Compagnie in Africa, India e Asia, il che costrinse la John Company a incrementare il numero dei propri soldati fino a costituire un esercito permanente. In realtà si trattava di tre eserciti, quello del Bengala,
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1757 PLASSEY AL MERITO
di Madras e di Bombay, che pur operando separatamente obbedivano tutti al governatore generale, comandante in capo e rappresentante della Compagnia insediato a Calcutta. Furono arruolati anche nativi, che presero il nome di sepoys. Le autorità britanniche, a causa degli alti costi di queste guerre, non potevano permettersi di mantenere truppe in India e ricorsero così alle truppe della Compagnia e dei suoi alleati locali. L’org ganizzazione milit tare e. I soldati indù e musulmani furono organizzati inizialmente in compagnie, equipaggiate e guidate da ufficiali britannici alla maniera delle truppe europee. Gli ufficiali, seppur dipendenti della Compagnia, indossavano le stesse uniformi dei colleghi dell’esercito di Sua Maestà, seguivano la medesima carriera, ma, oltre a ricevere uno stipendio inferiore, non potevano essere trasferiti presso reparti britannici. Nel 1721 a Madras vi erano tre compagnie per un totale di 345 uomini, di cui 245 europei ed eurasiani: i primi provenivano dalle isole britanniche, in maggioranza irlandesi e scozzesi, ma vi erano anche francesi, olandesi e portoghesi. Gli altri erano invece i discendenti di bianchi che avevano sposato donne indiane. Nel Bengala le truppe della Compagnia erano costituite solo da 150 soldati, per lo più olandesi ed eurasiani, mentre
Medaglia d’argento conquistata a Plassey. Clive fu l’uomo chiave della Compagnia in India nel XVIII secolo; anche a lui si deve al creazione del British Raj, l’impero anglo-indiano, cioè l’insieme dei domini e protettorati indiani del Regno Unito.
La tigre italiana
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ra la fine del ’700 e la prima metà dell’800 numerosi ufficiali europei, soprattutto al termine delle Guerre napoleoniche, offrirono i loro servigi come istruttori e comandanti presso i regni orientali. Tra loro vi era Paolo Avitabile, ufficiale napoletano, ex-cannoniere, prima con Murat, poi con i Borbone
e, alla fine delle Guerre napoleoniche, assoldato dallo Shah di Persia per fare pagare le tasse ai curdi, prima di finire alla corte di Ranjit Singh, il fondatore dell’Impero sikh, che lo nominò governatore della turbolenta città di Peshawar. Lo spauracchio. Conosciuto come Abu Tabela, una traslitterazione del suo nome, divenne una figura leggendaria anche per gli inglesi, i quali sostenevano che: “Gli afghani guardano Avitabile con la paura e la reverenza con cui gli sciacalli guardano la tigre”. Ancora oggi, per frenare i figli troppo irrequieti, le madri di Peshawar minacciano di chiamare Abu Tabela.
nel 1742 Bombay oltre a una flotta disponeva di 1.593 uomini di cui solo 346 europei. Nel 1763 l’esercito di Madras contava 9.000 uomini, saliti a 48.000 nel 1782 e a 64.000 nel 1805, quello del Bengala 6.680 (52.400 nel 1782 e 64.000 nel 1805) e quello di Bombay 2.550, arrivati nel 1805 a 26.500: cosa aveva portato a un tale incremento di truppe in quel breve lasso di tempo? Le ba attaglie e. Era successo che le guerre combattute contro i francesi e i loro alleati locali in India avevano portato la Compagnia ad acquisire nuovi territori, mercati che andavano tutelati con l’impiego di forze militari sempre più numerose. Nel 1748 il maggiore Stringer Lawrence, ritenuto da molti il padre dell’esercito indiano (Indian Army), costituì a Madras il primo reggimento di nativi e nel 1757 Robert Clive, comandante dell’esercito inglese alla battaglia di Plassey, fu il primo a organizzare i sepoys del Bengala in battaglioni. Lo scontro tra i 3.000 soldati di Clive e i 58.000 uomini del nababbo del Bengala Siraj-ud-daulah vide la vittoria degli inglesi e decise il destino di un impero. Si usa dire che dopo questa vittoria l’India cadde nelle mani della Gran Bretagna, ma in realtà il subcontinente era ancora lungi dall’essere conquistato: ci sarebbero voluti altri 90 anni perché la Compagnia controllasse direttamen67
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IL L PRIMO REG G GIMEN TO L AN NCIE ER I DEL B E N GA L A PRENDE ORIG GINE DA JAM MES SK K I N N ER , UOMO DE ELL LA CO OM MP PA AG GNIA A
1799 SERINGAPATAM NEL MYSORE La medaglia d’oro mostra “il vittorioso leone di dio”, ovvero il leone britannico che trionfa sulla tigre del sultano Fateh Ali Tipu, governatore del regno di Mysore, ucciso in azione durante l’assedio di Seringapatam (1799).
IL SOLDATO. Naik (caporale) del 40th Madras Native Infantry, 1839 (Prima guerra dell’oppio). LA STORIA. Il naik è vestito all’inglese, con pantaloni blu scuro al posto di quelli bianchi indossati durante la stagione calda. Il turbante che imitava lo shako europeo risultava talmente scomodo e impopolare tra le truppe che veniva indossato solo in parate e cerimonie: nelle altre occasioni veniva sostituito con il più pratico forage cap. Le truppe native calzavano sandali locali al posto delle scarpe chiuse. L’equipaggiamento è lo stesso della fanteria britannica, con il fucile East Indian Pattern Brown Bess.
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G. ALBERTINI
IL SEPOY
te o attraverso i rajah e i nababbi alleati tutto il territorio. Ma al tramonto del 23 giugno 1757, Clive aveva ribadito il controllo inglese sul ricco Bengala. Entro il 1765 cancellò la presenza delle altre Compagnie europee e ottennne dall’imperatore moghul il dewanato (il possesso) di Bengala, Karnataka, Behar e Odisha: John Company si affermava per la prima volta come potenza militare e di governo su territori appartenenti ai moghul. La Gran Bretagna, appoggiando ormai ufficialmente la Compagnia, aveva iniziato quel processo che avrebbe trasformato i suoi possedimenti coloniali e mercantili in un vasto impero territoriale con il baricentro spostato dall’Atlantico al subcontinente indiano. Fu per questo motivo che a Plassey, per la prima volta, un reggimento reale, il 39th Infantry Regiment, combatté al fianco di q quelli della Compagnia. Da quel momento tutte le campagne miliitari condotte nel subcontinente videro l’impiego contemporaneeo di reparti regolari dell’esercito britannico e di quelli della John Company: armate comandate da generali della Corona che prendevano ordini dal governatorre generale dell’India, massimo esponente della Compagniia. Le due realtà andavano identificandosi e la società diventavva sempre più il braccio armato della Gran Bretagna: questa sfru uttava un gran numero di soldati che non era costretta a pagaree, limitandosi a impiegare pochi reggimenti propri come garanzzia di questa strana alleanza. Un’a arm mata. Lo sviluppo di questo esercito privato fu continuo per tu utta la prima metà del XIX secolo fino a farlo diventare il più nu umeroso e potente di tutta l’Asia e addirittura di molte nazioni europee. I battaglioni della Compagnia furono riorganizzati in i reggimenti, che mantenevano la denominazione della Presiidenza di appartenenza (Bengala, Madras e Bombay). Ognuno d dei tre eserciti possedeva tre reggimenti composti da europei e numerosi da sepoys (l’armata del Bengala arrivò ad avere addirittura 74 reggimenti di fanteria di nativi!). Tali reggimenti eran no equipaggiati e organizzati come quelli britannici: indossavan no la giubba scarlatta con risvolti, colletti e polsini dei colori distiintivi, imbracciavano i fucili inglesi Brown Bess (anche se ormai erano fabbricati insieme alle munizioni in India presso l’arsenale di Dum Dum, nei sobborghi di Calcutta) e portavano in battaaglia la bandiera reale e quella reggimentale su cui erano cuciti gli stessi onori concessi ai reggimenti regolari inglesi. Anche le decorazioni e le medaglie erano le stesse dei soldati della Corona. C A partire da fine ’700 agli ufficiali britannici erano affiancati anche nativi. I reggimenti di fanteria erano, come quellli inglesi, composti da 10 compagnie, 8 di fucilieri e 2 di granatieeri per i nativi, 8 compagnie di fucilieri, una di granatieri e una di fanti leggeri per quelli europei. I reggimenti nativi di Madrass e di Bombay erano misti e non tenevano conto della religione n né delle caste, perché “le religioni erano riposte nello zaino quan ndo le bandiere garrivano in battaglia” (What life was like in the jewel j in the Crown: British India, Ad 1600-1905, Time-Life Books). L’esercito del Bengala, invece, reclutava i suoi sepoys soloo tra le caste superiori delle “razze marziali” e divideva i reggim menti o le compagnie in funzione del credo religioso, di cui assecondava riti e festività. La Compagnia possedeva anche artiglieria da campagna, a cavallo e d’assedio oltre a reparti del genio, un’importante flotta militare (i cui vascelli erano soprannominati IIndiamen) e una forza di marina con base a Bombay. I tre eserrciti erano inizialmente impiegati nelle zone limitrofe alla propria Presidenza, ma in seguito affiancarono i reggimenti realii dove fosse necessario, anche oltre i confini nazionali.
Fino agli inizi del XIX secolo le unità della Compagnia erano quasi tutte di fanteria e artiglieria, ma le masse di cavalleria impiegate dagli eserciti indiani nemici convinsero gli inglesi a organizzare numerosi reparti montati. Il primo reggimento irregolare di cavalleria che entrò a far parte dell’esercito del Bengala fu, nel 1803, lo Skinner’s Horse, dal nome dal suo fondatore, il colonnello James Skinner, figlio di un capitano scozzese e di una principessa rajput. Ne seguirono tanti altri, diventati famosi come Lancieri del Bengala. Soldati della John Company e “reali” combatterono insieme dal 1757 al 1858 nelle guerre contro il regno di Mysore, i Maratti, i Sikh, gli Afghani e i Birmani, contribuendo alla conquista e al controllo di tutto il territorio indiano. Dalla rivolt ta dei sepoyys alllo sciiogllime ento o. Agli inizi del 1857 l’armata indiana era composta da reggimenti di fanteria, cavalleria, artiglieria, genio, polizia militare e forze locali per un totale di 351.500 uomini di cui 38.000 erano britannici! I sepoys, a parte qualche piccolo episodio di ammutinamento, rimasero sostanzialmente fedeli finché, sempre nel 1857, l’ammutinamento di numerosi reggimenti nativi sconvolse l’esercito della Compagnia. La Rivolta dei sepoys, come è più conosciu-
ta da noi, fu sedata nel sangue dopo una lunga serie di battaglie e assedi. Gli inglesi inviarono in India numerosi reggimenti reali che affiancati dalle truppe della Compagnia rimaste fedeli (i sikh, i reggimenti europei del Bengala e quelli del Punjab) ripristinarono la situazione. Ma la posizione della Compagnia, che ormai era una organizzazione obsoleta in cui imperava una sfrenata corruzione, era compromessa: si decise per il suo scioglimento già al termine del Grande ammutinamento (i moti indiani del 1857, v. sotto) con la Corona britannica che assumeva da quel momento il controllo diretto dei territori appartenuti alla Compagnia e dei suoi tre eserciti: al posto del Governatore Generale veniva nominato in India un Viceré. Il 1° gennaio 1874 la Compagnia inglese delle Indie Orientali cessava ufficialmente di esistere. I reggimenti europei della John Company entrarono a far parte ufficialmente dell’esercito britannico, rinumerati dal 101 al 109, mentre quelli nativi andarono a comporre il nucleo del futuro Indian Army, che combatté per l’Impero britannico fino al termine della Seconda guerra mondiale. Marco Lucchetti
L’ESECUZIONE
GETTYIMAGES
1857, i sepoys in rivolta vengono giustiziati in maniera crudele e spettacolare, legati alla bocca del cannone e fatti saltare in aria.
Chi erano i sepoys
I
l grosso dell’esercito della Compagnia delle Indie Orientali era costituito da militari indigeni, chiamati sepoys, dal persiano sephai (soldato). La maggior parte di queste truppe proveniva dalle caste più elevate della società ed era quindi gelosa dei propri privilegi e delle proprie usanze religiose, tanto che l’esercito, pur guidato da ufficiali britannici, era dotato comunque di un regolamento che
teneva conto delle complesse prescrizioni e usanze legate al sistema delle caste indiane. I sepoys erano arruolati anche tra i sikh, i gurka e gli indiani di religione musulmana. Al momento dell’arruolamento i sepoys prestavano giuramento di fedeltà alla Compagnia delle Indie e si impegnavano a combattere non solo a difesa dei confini dell’India e contro altri eserciti indiani, ma anche all’estero, come in
Afghanistan, Birmania e Cina. Indian mutiny, i moti indiani. Nel maggio del 1857 gli uomini del 3° Cavalleria del Bengala si rivoltarono a Meerut contro gli ufficiali inglesi, con la scusa che le cartucce dei loro fucili erano ingrassate con grasso di bue e di maiale. Poiché i sepoys dovevano morsicare la cartuccia per versare la polvere da sparo nella canna, sia i soldati di religione indù che quelli musul-
mani si sarebbero contaminati con cibi loro vietati. Probabilmente fu solo una diceria, ma la voce si sparse e la rivolta si allargò a quasi tutti i reggimenti indigeni dell’esercito del Bengala della Compagnia Inglese delle Indie Orientali. I pochi inglesi, aiutati dai sikh, che rimasero loro fedeli, riuscirono a resistere; grazie all’arrivo dei rinforzi, domarono poi la rivolta, soffocata nel sangue entro la fine del 1858.
GUERRA AEREA L’EVOLUZ ZIONE DEI CA ACC CIA A IV V
INVISIBILIITÀ AI R ADAR R , SUP PERM M ANOV VRAB BILIT TÀ, PERCROC CIERA. NELL’U ULTIMO VEN N TEN NNIO O SI SO ON O SUP AFFERM M ATI GLI AEREI DA CAC CCIA PIÙ Ù SO OFIST TICA ATI E COST TOSII, DI SEMPRE, DAI RAFFALE AGLI EUR ROFFIGHTER,, AI SU300 70
IL FRANCESE Aerei Rafale sui cieli francesi. I caccia sono partiti dalla base di Istres, vicino a Marsiglia. Sotto a sinistra: nonostante siano stati soppiantati dai Rafale, ci sono ancora in circolazione molti Mirage, come questo che si sta rifornendo in volo da un’aerocisterna. Sotto: un Rafale sul ponte della portaerei Foch, nave da guerra francese della classe Clemenceau.
isale al 28 marzo 2007 il debutto in un teatro di guerra dell’aereo francese Dassault Rafale, erede dei Mirage: la prima missione del nuovo caccia multiruolo prodotto Oltralpe consistette nel bombardare con ordigni a guida laser GBU-12 le milizie di talebani che assediavano i soldati olandesi della forza multinazionale ISAF. L’aereo era uno dei tre Rafale in carico all’Aeronautica francese, l’Armée de l’air, dislocati nella base di Dushanbe, nel vicino Tagikistan, affiancati da altri Rafale della Marine Nationale, imbarcati sulla portaerei Charles De Gaulle nell’Oceano Indiano. In seguito, dal 2009 al 2011, i Rafale dell’Aeronautica vennero spostati nell’aeroporto afghano di Kandahar. Mult tiruolo. Il Rafale è solo un esempio della generazione più recente, comparsa negli ultimi 25 anni e destinata, dati gli enormi costi, a restare in servizio oltre il 2030. Caccia che rispecchiano la tendenza odierna: dall’iniziale vocazione al combattimento aereo, questi velivoli si sono convertiti al prevalente attacco di obiettivi terrestri divenendo “multiruolo”, ovvero capaci di effettuare differenti tipi di missioni, come supplire alla scomparsa del “bombardiere puro”, fungere da caccia intercet-
tore o da cacciabombardiere, svolgere missioni di ricognizione, attaccare al suolo. Ecco perché i conflitti degli ultimi anni hanno visto l’aviazione intervenire contro forze di terra, anche semplici guerriglieri e terroristi, senza i duelli aerei del passato. Missione Libia. Lo stesso copione si ripeté in Libia nelle operazioni contro Muhammar Gheddafi: un Rafale francese bombardò per primo, il 19 marzo 2011, un convoglio di truppe governative libiche in marcia a Bengasi, avviando l’Operazione Harmattan. Con questa, il presidente Nicolas Sarkozy chiuse i conti col dittatore di Tripoli, imitato dal presidente americano Barack Obama e dagli altri alleati della NATO, aprendo però il vaso di Pandora dell’instabilità nel Paese africano. Per la guerra in Libia, l’Armée de l’air mobilitò 19 Rafale sulla base di Istres, in Provenza; dal 24 marzo si aggiunse poi la marina con la portaerei Charles De Gaulle, che giunta in zona iniziò a catapultare i suoi Rafale. Nei cieli libici c’era anche l’Aeronautica militare italiana, che dal 29 marzo inviò di pattuglia i suoi Eurofighter Typhoon, per far rispettare la Zona di Non Volo decretata dall’ONU contro l’aviazione libica, che infatti rimase inchiodata a terra dalla minaccia dei caccia occidentali. 71
PROPULSIONE Un pilota sul suo caccia multiruolo Rafale. Il velivolo dispone di due motori turbofan e di radar multimodale, capace di ingaggiare fino a 8 bersagli contemporaneamente.
EUROFIGHTER TYPHOON Produttore
Quota massima operativa
Eurofighter Company, consorzio di aziende che fanno capo a Germania, Gran Bretagna, Spagna e Italia
16.765 metri
Primo volo
Velocità di crociera
Velocità max 2.470 km/h (Mach 2)
27 marzo 1994
1.050 km/h
In servizio dal 2003
Raggio di combattimento
Equipaggio q p gg 1 Peso vuoto 11 tonnellate
1.389 km
I motorii Due turboventole Eurojet 200 conn 9.072 kg di spinta ciascuno
Massimo peso al decollo 23,55 tonnellate ton
MISSILI aria-aria a corto e medio raggio
Il caccia dell’Unione europea opra Tripoli, all’epoca volavano quindi due aerei fratelli: il Rafale e l’Eurofighter. Erano frutto, infatti, di un accordo sottoscritto a partire dal 1983 da Italia, Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna: il programma European Fighter Aircraft, volto a realizzare un caccia europeo per gli anni Duemila, all’insegna della supermanovrabilità. Già si pensava a un’ala a delta arricchita da alette “canard” nel muso. Nel 1985 i francesi scelsero di fare da soli, dando vita al Dassault Rafale. Fecero volare dal 4 luglio 1986 il dimostratore tecnologico Rafale A, seguito da prototipi culminati con i primi esemplari di serie nel 1999, destinati alla portaerei Charles De Gaulle. Fu infatti la Marina francese la prima a dichiarare operativo il Rafale nel 2001, seguita dall’Aeronautica nel 2006. Il consorzio europeo produceva intanto, nel 1986, l’aereo sperimentale EAP, che già anticipava le forme definitive. Questa la ripartizione del lavoro fra le aziende capofila: 33 % alla tedesca DASA, 33 % all’inglese British Aerospace, 21 % alla nostra Aeritalia-Alenia e 13 % alla spagnola CASA. Il vero prototipo dell’Eurofighter Typhoon volò il 27 marzo 1994 in Germania, ai comandi del pilota collaudatore Peter Weger. L’entrata in servizio vera e propria risale invece al 2003, prima in Germania, poi in Spagna, Italia e Gran Bretagna. Sullo o spazio aereo o di casa nosstr ra. Gli Eurofighter italiani hanno iniziato a operare per proteggere il nostro spazio aereo nel 2005, con il 4° Stormo di base a Grosseto, poi con il 36° Stormo di Gioia del Colle e il 37° Stormo di Trapani. Typhoon e Rafale denunciano la medesima origine nella somiglianza: entrambi con le alette “canard” progettate instabili per massimizzare l’agilità, tanto che un computer di bordo aiuta il pilota con micro-correzioni dell’assetto. I costi risultano simili, sopra 100 milioni di euro a esemplare, a dimostrazione che progettare un aereo sofisticato in consorzi multinazionali non sempre fa risparmiare. Se all’inizio si guadagna ripartendo gli investimenti, poi si perde tempo nel metter d’accordo più soggetti. In piccolo, la Svezia ottenne un risultato simile alla Francia col suo SAAB JAS-39 Gripen, anch’esso agilissimo delta canard autostabilizzato dal computer. Nati nel 1988, già nel 1997 i primi Gripen erano in linea nello stormo Skaraborga dell’Aviazione svedese, arrivando nel gennaio 2013 a una punta di 134 esemplari operativi. 72
BOMBE a guida laser
IL RADAR La risposta europea al caccia americano F-16 Falcon e ai russi MIG-29 Fulcrum e SU-27 Flanker cela nel muso un radar Captor. Pur avendo una bassa RCS (superficie riflettente al radar), non è un caccia di ultima generazione, cioè uno stealth.
BOMBE a frammentazione
LE ARMI Il Typhoon può caricare combinazioni multiple di armamenti: missili a corto raggio (ASRAAM) e missili aria-aria a lungo raggio (AMRAAM), bombe a guida laser Enhanced Paveway II (EPW II) e quasi 5 tonnellate di bombe a frammentazione. Ha in dotazione anche un cannone Mauser da 1.06 pollici.
5,28 m
DIMENSIONI
LA PROPULSIONE 15,96 m 15
rtu ra ala re 10 ,95 m
Superfi ficie alare 52 mq
IL CARBURANTE Ha tre serbatoi nella fusoliera e 4 nelle ali. Può inoltre portare un serbatoio esterno in aggiunta. Il sistema di controllo è full-digital.
Ap e
Il Typhoon ha capacità bisoniche, raggiunge cioè due volte la velocità del suono, montando 2 motori turbofan EJ200. Può volare in supercrociera (ossia a regime supersonico senza l’utilizzo dei postbruciatori) sempre che non trasporti le proprie armi esternamente.
LA CONFIGURAZIONE Ala a delta canard, presa d’aria squadrata ventrale suddivisa in due sezioni, timone singolo verticale.
LA BOMBA JDAM
N
ell’ultimo ventennio, l’arma più interessante impiegata dai caccia è stata la bomba planante guidata JDAM, da Joint Direct Attack Munition. Più che un’arma in sé, è un kit applicabile alle bombe “stupide” per renderle “intelligenti”. Prodotto dalla Boeing, è un computer con navigatore inerziale collegato alla rete satellitare GPS che muove gli alettoni di coda per direzionare la bomba.
Memorizzando le coordinate del bersaglio e correggendo la caduta balistica in base al GPS, la JDAM ha margini d’errore fra i 7 e i 13 metri. Poco, trattandosi di potenti ordigni che pesano da 227 a 907 kg. Il kit JDAM si può montare su tutta la gamma di bombe dell’US Air Force e delle aviazioni alleate. Un caccia da alta quota può rilasciarla da una distanza massima di 28 km. Ha debuttato in Kosovo nel 1999, poi
in Afghanistan dal 2001 e in Iraq dal 2003. A differenza delle armi a guida laser o televisiva, la JDAM non risente di nebbia, pioggia o fumo. La Boeing ha poi sviluppato dal 2005 una bomba planante più piccola e precisa, la GBU-39 da 110 kg, che apre ali come un aliante e, sempre a guida GPS, ha margini d’errore fra i 5 e gli 8 metri. È stata usata in Afghanistan dal 2006 e anche contro l’Isis in Iraq dal 2014.
Un Su-30 sgancia le sue bombe sulla Siria.
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F35, UNA SOAP OPERA
I
l discusso Lockheed Martin F-35, studiato come caccia “invisibile” (ma non molto) condiviso fra USA e alleati, lamenta costi in continuo aumento. Nel 1994 l’US Air Force varò il programma Joint Strike Fighter, concretizzato nel 2000 in due prototipi concorrenti, il Boeing X-32 e il Lockheed Martin X-35. Fu scelto il secondo, da cui sarebbe derivato il vero F-35 di preserie; questo volò il 15 dicembre 2006. Da allora gli esemplari costruiti sono stati 180, su una previsione totale di 2.443 per gli USA, più 724 per 11 Paesi alleati, fra cui l’Italia. Il nostro governo stabilì nel 2009 di comprarne 131, fra Aeronautica e Marina, dato che la versione F-35B ad atterraggio verticale è
destinata alla portaerei Cavour. Nel 2012, l’ordine fu tagliato a 90. Nella base di Cameri, in Piemonte, si faranno assemblaggio e manutenzione degli F-35 europei. Lì ha volato il 7 settembre 2015 il primo F-35 assemblato in Italia. I difetti. I primi velivoli “pronti al combattimento” sono, dal 2 agosto 2016, la dozzina del 34° Fighter Squadron dell’USAF, di base nello Utah. Ma gli americani ammettono che solo nel 2017 il sofisticato aereo sarà davvero pronto. Vanno sistemati il software di bordo che permette il data link sui bersagli (cioè la trasmissione di dati in tempo reale grazie alla connessione web), ma anche altre complicanze, dal casco “intelligente” del pilota alle minicamere panoramiche.
LA GEOMETRIA DELLE ALI COME GLI ANGOLI A 120° È FONDAMENTALE PER NASCONDERE I CACCIA AI SISTEMI DI RILEVAMENTO L’ULTIMO RUSSO: T50 PAK FA
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ur ancora sperimentale, l’ultimissimo caccia russo, il Sukhoi T-50 PAK FA si prepara a dar filo da torcere ai rivali. Il primo prototipo ha volato il 29 gennaio 2010 ed è stato seguito da altri cinque esemplari di prova, di cui il più recente s’è staccato dalla pista il 27 aprile 2016 (nella foto, il quarto prototipo). Finiti i test, il velivolo entrerà in produzione nel 2017, con un ordine iniziale di 60 esemplari. Il nome. PAK FA è la sigla russa per Perspektivny Aviatsionny
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Kompleks Frontovoy Aviatsii, traducibile con “sistema aereo futuro per l’aviazione tattica”. Primo aereo russo progettato fin dall’origine con sagoma stealth, ricorda il caccia F-22 americano. Come il Raptor, ha stive interne per l’armamento, 4 missili ariaaria a lungo raggio e 2 a corto raggio, oltre a un cannone da 30 mm. Gli si accredita una supercrociera di 1.700 km/h. I russi pensano di condividerne, almeno in parte, la tecnologia con l’India.
Il fighter americano li Stati Uniti hanno sempre avuto spalle abbastanza larghe per sviluppare da soli aerei molto costosi. Negli anni hanno messo anche loro in cantiere un caccia di nuova generazione, ma con una sfida in più, renderlo “stealth”, ovvero invisibile ai radar, grazie a forme e materiali speciali, nonché accorgimenti come portare tutte le armi in stive interne, anziché sfoggiare missili appesi sotto le ali. Fra i requisiti, la cosiddetta “supercrociera”, la capacità di volare per lunghi periodi a velocità supersonica senza accendere i postbruciatori dei motori. Gli americani hanno avviato nel 1983 il programma ATF, Advanced Tactical Fighter, per un caccia tattico avveniristico. Da questo sono scaturiti due prototipi concorrenti, il Northrop YF-23 e il Lockheed YF-22, che hanno compiuto i primi voli a distanza di un mese, rispettivamente il 27 agosto e il 29 settembre 1990. Il caccia YF-23, con la strana ala romboidale, era più “invisibile” e anche più veloce nella supercrociera, con 1.700 km/h contro i 1.600 del rivale. Ma il modello YF-22 era più agile, grazie agli scarichi angolabili dei turbogetti, detti “a spinta vettoriale”. Per questo il 23 aprile 1991 ha vinto la gara. All’inizio si prevedeva una produzione da 750 esemplari, per un totale di 26 miliardi di dollari, ma la scomparsa del nemico sovietico, l’aumento dei costi e altri fattori hanno portato a ritardi e tagli. Il primo esemplare di serie, siglato F-22 Raptor, ha debuttato il 7 settembre 1997 entrando in servizio nell’USAF a fine 2005, perfezionato con una supercrociera di 1.900 km/h e una velocità massima di 2.400 km/h. La produzione dell’F-22 si è fermata nel dicembre 2011 a 187 aerei. Il costo totale del velivolo s’è gonfiato fino a un totale di 62 miliardi di dollari, fra sviluppo e produzione, pari a 330 milioni di dollari a esemplare. Gli americani hanno posto un veto sulla sua esportazione, infatti non verrà mai venduto nemmeno a Paesi alleati. Missiili. L’armamento tipico del Raptor è di 6 missili ariaaria a lungo raggio AIM-120 AMRAAM, più due AIM-9 Sidewinder a breve raggio in tre stive interne, oltre a un cannone da 20 mm la cui bocca da fuoco è occultata da uno sportellino. Ma può portare anche ordigni per l’attacco al suolo, specie le bombe JDAM a guida GPS. È stato proprio nell’attacco a terra che il caccia F-22 ha conosciuto il combattimento, lasciando per ora inutilizzate le sue doti nel duello aria-aria, fra cui la precisione e il grande raggio d’azione del suo radar AN/APG-77, che può scoprire bersagli volanti fino a distanze di ben 400 km. La notte del 22 settembre 2014 alcuni F-22 decollati dalla base americana di Al Dhafra, negli Emirati Arabi Uniti, hanno partecipato a una delle prime incursioni contro il califfato dell’Isis, gettando bombe JDAM nella regione siriana della diga di Tishrin. L’impiego del Raptor è stato però limitato. Solo il 23 giugno 2015 due F-22 hanno compiuto la loro prima missione di supporto aereo ravvicinato, intervenendo per distruggere batterie di artiglieria dell’Isis su esplicita richiesta radio delle truppe governative irachene. Al luglio 2015, in dieci mesi, avevano compiuto solo 204 missioni belliche, sganciando 270 bombe, anche perché ogni ora di volo di questo “gingillo” costa 21.500 dollari.
STEALTH, INVISIBILE AL RADAR
I
primi aerei stealth (“furtivi”), cioè invisibili ai radar, nacquero negli Usa; non erano caccia, bensì bombardieri. Segreti fino al 1988, erano il piccolo Lockheed F-117, spigoloso come un prisma per infrangere in mille direzioni l’eco radar, e il grosso Northrop B-2 Spirit, al contrario sinuoso
SU-27
e smussato, un “tutt’ala” simile a una manta. Il caccia F-117 fu poi cancellato perché la forma lo faceva volare male, ma anche perché nel 1999, nella Guerra del Kosovo, si rivelò vulnerabile alla contraerea serba. Il B-2, invece, è operativo nell’US Air Force fin dal 1993 e tutt’oggi usato.
J-20
Come funziona. Per ridurre la traccia radar è importante sia la forma del velivolo, sia il materiale di rivestimento RAM ( “materiale radar assorbente”). Le onde radar in parte sono assorbite, in parte riflesse dalla geometria dall’aereo. Con l’F-22 gli americani hanno trasferito la tecnologia sui caccia,
T-50 PAK FA
imitati da altri. Ma l’invisibilità non è mai totale: se le armi vengono portate internamente per non spezzare la sagoma sfuggente, ci si rende però visibili quando si aprono i portelli per lanciarle; lo stesso accade accendendo i postbruciatori, che lasciano la “firma” infrarossa del calore.
F-22A
Fra questi caccia l’unico non stealth è il il Su-27, le cui ali riflettono le onde radar, che tornando indietro segnalano la posizione del velivolo.
L’epopea dei Sukhoi n Siria, nella campagna aerea contro l’Isis e altre formazioni islamiste come Al Nusra, hanno iniziato a operare dal 30 settembre 2015 anche i russi, sfoderando caccia Sukhoi Su-30 e aerei d’attacco Su-34 dislocati sulla base di Hmeimim, vicino a Latakia. La Russia ha sviluppato dal 1992 al 2010 una serie di caccia supermanovrabili derivandoli dal primordiale Su-27 degli anni Ottanta. Uno di essi, il Su-34, è diventato un bombardiere veloce biposto, gli altri sono rimasti caccia intercettori ad alta maneggevolezza, in alcune versioni dotati anche di alette canard nel muso, seppur più piccole di quelle del Rafale e dell’Eurofighter. La vasta famiglia dei Sukhoi comprende anche il Su-33, versione “navalizzata”, imbarcata sulla portaerei Admiral Kuznetsov, che è arrivata nelle acque siriane pochi mesi fa. I Su-33 decollanti dalla nave russa hanno iniziato a bombardare i jihadisti siriani dal 15 novembre 2016. Dalla Russia a ai ve elivo oli cinesi.. Dai Sukhoi russi, i cinesi hanno derivato una loro copia, chiamata Shenynag J-15, per l’impiego a bordo della portaerei Liaoning. La Cina si è inoltre lanciata come gli Usa nei caccia con velleità stealth, il grosso Chengdu J-20, primo volo nel 2011, che assomiglia al dimenticato prototipo russo Mig-1.44, e il più snello Shenyang J-31, che ha debuttato nel 2012 e ricorda un po’ il caccia F-22, ma più leggero. Pechino vuole così tenersi al passo con gli americani e spera già nel 2018 di avere 36 J-20 operativi. È però presto per dire se l’enfasi sull’invisibilità radar, anche a scapito delle qualità di volo, sia azzeccata nelle strategie future, dato che causa un aumento ulteriore di costi, già altissimi nello sviluppo degli attuali aerei militari. Non è escluso che in futuro le aviazioni migliori si rivelino quelle in cui potranno operare fianco a fianco un piccolo numero di caccia sofisticati e costosi, insieme a un gran numero di velivoli più semplici ed economici, che facciano un po’ da “fanteria” del cielo. Mirko Molteni
EFFICIENZA Un Sukhoi Su-30, secondo molti esperti ancora oggi, a trent’anni dalla sua entrata in servizio, uno dei migliori caccia in circolazione.
PROTAGONISTI
RMN/ALINARI
IL DUCA DI BORGOGNA, CHE DA VASSALLO AMBIVA A FARSI RE, FU UNO DEI GRANDI COMBATTENTI DEL ’400 E CONTRIBUÌ ALLA NASCITA DEGLI ESERCITI MODERNI
CARLO IL TEMERARIO
IL SOGNO DI UNO STATO 76
DE AGOSTINI/GETTY IMAGES
ilippo l’Ardito, Giovanni Senza Paura, Carlo il Temerario: i soprannomi con cui sono passati alla Storia i duchi di Borgogna la dicono lunga sulla volontà di questa casata di costituire nel cuore dell’Europa un potentato pari a quelli che lo circondavano. All’inizio era solo un vassallo l’uomo che nel 1467 ereditò il ducato: il trentaquattrenne Carlo il Temerario, in effetti, era soggetto al re di Francia per i suoi territori settentrionali (le Fiandre e i Paesi Bassi) e all’imperatore Federico III d’Asburgo per quelli meridionali (la Borgogna propriamente detta, la Franca Contea e il ducato di Lorena). All’epoca questi due sovrani se le davano di santa ragione, ma un nemico comune avrebbe cambiato le cose.
L’ASSEDIANTE Carlo I di Borgona (1433-1477), il Temerario, ereditò il ducato dal padre Filippo III il Buono. A sinistra, il duca all’assedio di Beauvais, nel 1472.
I CRONISSTI LO DESSCRIVONO CO OME UOM MO DI VA ASTA A CUL LTUR R A, AUSTERO O, ARDITO O E CON UNO SPICC CATO O SENSO O DEL LL’ON NORE E Ambiizioso. Carlo aveva mostrato di avere le idee chiare prima ancora di subentrare al padre alla guida del ducato disputando al suo signore francese, il re Luigi XI, l’area lungo la Somme e la Mosa, cui puntava per rendere più omogenei i possedimenti di famiglia. Spinto dalle sue mire espansionistiche, fin dopo l’ascesa al trono ducale intraprese una guerra dietro l’altra, ma alla fine ottenne solo l’effetto contrario: la scomparsa del ducato dalla mappa d’Europa. Ma non precorriamo i tempi. Già nel 1469 il giovane e coraggioso condottiero si era fatto ingolosire dal duca d’Austria Sigismondo d’Asburgo, figlio dell’imperatore Federico III, com-
prandogli per 50.000 fiorini territori in parte contesi dall’impero alla temibile confederazione svizzera. Non contento, andò a cercar guai anche contro la corona francese, cui tentò nel 1472 di soffiare la Normandia; ma le sue forze si arenarono davanti alle mura di Beauvais. La repentina espansione del ducato guadagnò a Carlo un’ostilità pressoché universale: il re di Francia sfruttò subito l’occasione per mettere d’accordo gli eterni rivali, la famiglia Asburgo e i cantoni svizzeri, in funzione antiborgognona; agli elvetici si unì la Basse Ligue, una lega nata nel 1473 tra le città renane, da Basilea a Strasburgo, vessate dai balivi di Carlo,
I NEMICI Carlo il Temerario e (alla sua sinistra) Guillaume d’Affry, il condottiero che comandò il distaccamento di Friburgo nella difesa di Morat dalle truppe borgognone.
GETTY IMAGES
BRIDGEMAN/MONDADORI PORTFOLIO (2)
PICCHE A MORAT L’esercito di Carlo nella battaglia di Morat (1476) contava 23.000 uomini; le truppe confederate arrivavano a 27.000, per lo più armate di picche, alabarde e asce da combattimento. La fanteria svizzera si trovava di fronte a una formazione moderna, equipaggiata di artiglieria, archibugi e arcieri, con migliaia di cavalieri armati pesantemente. La svolta. Un’avanguardia di svizzeri portò un attacco inaspettato aggirando l’artiglieria borgognona. La spinta delle picche svizzere fu articolata in una manovra a scaglioni (echelon) rimasta negli annali della tattica militare.
La compagnia d’ordinanza e la lancia
A
dall’ingaggio al congedo, dall’addestramento alle ispezioni, dal salario alla disciplina, dalle procedure per l’acquartieramento alle insegne. La composizione. La lancia, nella Borgogna di Carlo il Temerario, doveva essere composta di un uomo d’arme con un paggio a cavallo e un cavaliere dotato di spada (coustillier), tre arcieri a cavallo, un pétardier, ovvero un archibugiere ante litteram, un balestriere, un picchiere. Ne scaturiva un totale di 10.000 effettivi, suddivisi in dodici compagnie, nelle quali le varie classi di cavalleria erano di fatto abolite, per confluire nell’uomo d’arme. Ciascuna delle dodici compagnie era affidata a un conducteur, un condottiero, e vi erano aggregati anche un ufficiale per l’acquartieramento, un trombettiere e un chirurgo. A ogni squillo di tromba corrispondeva un successivo atto delle truppe. I ranghi dovevano sempre essere mantenuti durante la marcia, pena la decurtazione della paga in tempo di pace, la sottrazione
ppassionato di storia militare e assiduo lettore dei classici romani e greci, Carlo il Temerario riformò le forze armate borgognone per farne uno degli eserciti più efficienti d’Europa. Ma ebbe la sfortuna di scontrarsi con quello che, allora, era effettivamente il miglior esercito del continente, quello svizzero, e non poté raccogliere nulla di ciò che aveva seminato. Eppure, creando un abbozzo di esercito permanente, le sue ordinanze – sulla scorta dell’esempio dato da Carlo VII di Francia – fecero scuola e influenzarono profondamente le formazioni militari europee nel secolo successivo. Dotato di forze limitate, Carlo fece sempre molto affidamento sui mercenari, in particolare italiani. Tuttavia puntò sempre alla costituzione di un esercito permanente, almeno a partire dal 1471, quando emise un bando per formare 1.250 lance, che fece seguire da una serie di ordinanze, in modo da regolarizzare pressoché tutti gli aspetti dell’apparato militare, dalle uniformi all’equipaggiamento,
dell’equipaggiamento in tempo di guerra e addirittura la morte, se si era in territorio nemico. Le licenze erano sottoposte a una serie di vincoli e a una rigida approvazione in linea gerarchica, le ispezioni trimestrali. I salari venivano corrisposti spesso in ritardo di qualche mese, per scongiurare tentativi di diserzione dopo aver riscosso la paga. Non era permessa la presenza di più di una trentina di donne per compagnia, che si trattasse di prostitute o di mogli, ed era proibito il linguaggio scurrile. Il bottino veniva suddiviso in rigide percentuali, a seconda del grado. Assolutamente unici per il Medioevo, infine, erano gli ordini di battaglia del duca. Secondo l’ordinanza di Losanna, del maggio 1476 – poco prima di Morat –, la sua armata andava schierata su otto “battaglie” (ovvero, schiere); ciascuna di esse era praticamente un corpo d’armata, con la cavalleria sulle ali, e unità alternate di arcieri e fanti, questi ultimi disposti su tre linee successive di archibugieri, balestrieri e picchieri.
UOMO D’ARME COUSTILLIER
2° ARCIERE A CAVALLO 1° ARCIERE A CAVALLO 3° ARCIERE A CAVALLO
BALESTRIERE PÉTARDIER PICCHIERE
G. ALBERTINI
PAGGIO
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CARL LO FU SCHIAC CCIA ATO DA ALL L’AZ IONE E CONG GIUNTA DEL L RE DI FR R AN NCIA E DE ELL’IM MPERATO ORE E, CHE VED DEV VANO O MINA ACC CIAT TI I LOR RO DO OMINI che si ribellarono riconsegnandosi a Sigismondo d’Asburgo. Del tutto isolato, come Federico II di Prussia tre secoli dopo, Carlo scelse l’offensiva, ponendo l’assedio alla città imperiale di Neuss (Germania), che martellò con 229 cannoni; ma i difensori tennero duro ancorando il duca davanti alle mura della città per un anno, finché non arrivò in loro soccorso l’imperatore, che nel maggio 1475 si accordò con l’assediante. Nel frattempo, gli svizzeri avevano inflitto una sconfitta dopo l’altra alle armate borgognone, erodendo i territori del ducato; ma Carlo riuscì a capovolgere la situazione guadagnandosi l’appoggio di Sforza, Savoia e Ginevra, uniti nella Lega di Moncalieri, e soprattutto stipulando la pace con Luigi XI, grazie alla quale isolò gli elvetici. Con le spalle coperte, il duca poté ripartire all’offensiva in Lorena, occupandone la capitale, Nancy, il 30 novembre. Quindi si spostò a sud per recuperare il Vaud, espugnando nel febbraio del 1476 il castello di Grandson, sul lago di Neuchâtel, dove impiccò l’intera guarnigione svizzera. Il suo esercito di 11.000 effettivi incombeva su Berna e la minaccia indusse la confederazione a radunare un’armata di 20.000 uomini, che il 2 marzo sconfisse le forze di Carlo nei pressi del castello: il duca perse solo 300 uomini ma, quel che era più grave, ci rimise le salmerie, l’artiglieria e il tesoro per pagare i mercenari. Tuttavia Carlo non si scompose; dichiarava di non poter “vivere con la disgrazia di esse-
LA FINE
SCALA
La tenda del duca borgognone durante l’assedio di Nancy: qui Carlo fu sconfitto dalla schiacciante superiorità della coalizione elvetico-lorenese e dal tradimento di uno dei suoi, il napoletano Nicola di Montfort, conte di Campobasso.
IL RICONOSCIMENTO
UNO DEI RIVALI L’armatura di Federico III d’Asburgo, che incamerò la Borgogna tra i possedimenti imperiali tramite il matrimonio di suo figlio Massimiliano d’Austria con Maria, figlia di Carlo il Temerario.
girato il lago da settentrione per chiudere la strada al nemico completarono l’accerchiamento che non era riuscito a Grandson. In due ore 10.000 borgognoni furono spazzati via e l’intero parco artiglieria cadde in mano svizzera. Il disastro compromise irreparabilmente la reputazione del duca, ma non la sua temerarietà. In ottobre, infatti, lo ritroviamo di nuovo in pista, impegnato a riprendersi Nancy, che nel frattempo era tornata nelle mani del duca di Lorena, Renato. Dopo aver perso il suo tesoro a Morat, Carlo non poté ingaggiare più di 12.000 uomini, con i quali ripartì alla volta del ducato lorenese, ponendo l’assedio alla capitale il 22 del mese. Ma ancora una volta i difensori lo tennero impegnato fino all’arrivo dell’esercito di soccorso, composto da 20.000 uomini tra lorenesi, alsaziani e 8.000 mercenari della confederazione. Lo scontro ebbe luogo il 5 gennaio 1477 nei dintorni di Nancy, sotto una tormenta di neve, con i borgognoni stremati dal freddo e dagli stenti dell’assedio. La diisfatta di Nan ncy. I confederati aggredirono le truppe di Carlo con una manovra a tenaglia, di fronte e sul fianco, provocando il rapido sfaldamento dell’ala borgognona, mentre al centro Carlo resistette con tenacia. Decisivo fu l’intervento della guarnigione da Nancy, che costrinse i borgognoni a combattere anche da tergo provocandone infine la rotta. Il duca fu ferito da un colpo di alabarda alla testa mentre fuggiva col resto dell’esercito e, caduto a terra, venne finito a colpi di picca. Il suo corpo fu ritrovato qualche giorno dopo in uno stagno ghiacciato, sbranato dai lupi. I parenti più stretti lo riconobbero solo grazie alle unghie, che usava portare molto lunghe, e ai denti mancanti. Stavolta era finita davvero per il ducato: le sue terre, dopo una disputa risolta sul campo di battaglia con il re francese, toccarono all’erede al trono imperiale Massimiliano, che di Carlo aveva sposato la figlia Maria. Un altro effetto avevano avuto le vittorie sul Temerario, quello di rendere gli svizzeri consapevoli, ora più che mai, della loro abilità di guerrieri, inducendo molti di loro a rinunciare alle tradizionali attività di boscaioli e pastori per darsi al mestiere delle armi. AFP/GETTY IMAGES
re stato sconfitto da quella gente bestiale” e, dopo aver fatto arrivare 8.000 rinforzi dalla Borgogna, in maggio ripartì all’attacco puntando sulla roccaforte di Morat (Murten in tedesco, nel cantone svizzero di Friburgo) per assicurarsi le retrovie in vista dell’assalto a Berna. Ma il caposaldo resisté proprio grazie ai cannoni sottratti ai borgognoni a Grandson, dando così tempo ai confederati di allestire un esercito di soccorso, forte di quasi 27.000 uomini, 4.000 in più di quelli di cui disponeva il duca. nfitto da agli sv vizze eri. In previsione del loro arrivo, Scon Carlo aveva predisposto trincee e fortificazioni, ciononostante si fece sorprendere con metà del suo esercito distribuito intorno alla città. Nella tarda mattinata del 22 giugno 1476, sotto una fitta pioggia, il nemico uscì infatti dalla foresta di Birchen e si spostò a meno di un chilometro dalle sue linee a nord-est. Prima che l’avanguardia svizzera, costituita da 5.000 tra archibugieri e balestrieri, piombasse addosso ai borgognoni, solo 300 dei cavalieri a disposizione di Carlo ebbero il tempo di montare a cavallo e ben pochi furono i cannoni messi in batteria. Le magre forze schierate furono massacrate all’istante, quelle che giunsero in loro sostegno alla spicciolata non ressero l’urto della falange svizzera, e il lago di Murten alle spalle impedì ogni via di fuga agli uomini in rotta. La guarnigione di Morat, uscita per una sortita, e un contingente che aveva ag-
RMN/ALINARI
Ritrovamento del corpo di Carlo Il Temerario dopo la battaglia di Nancy (1477). Il cadavere fu rinvenuto tre giorni dopo, già preda dei lupi, il cranio spaccato fino ai denti da un colpo di alabarda.
Andrea Frediani
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Viking La nascita della Russia, l’epopea dei Vareghi e la conversione di Vladimir all’Ortodossia sono il soggetto dell’ultimo film di Andrei Kravchuk, regista russo già noto per il suo Admiral. Un affresco epico, pieno di azione, dove le imprese dei principi della dinastia di Rjurik (v. articolo a pag. 42) si susseguono in un vorticoso turbinio di battaglie e passioni. La vicenda, tratta con qualche libertà dalla Cronaca degli anni passati – resoconto di cronisti medievali che narrarono le origini della Russia – è ben nota. Vladimir, figlio di Svjatoslav, dopo avere eliminato i suoi fratelli e assunto il potere a Kiev si destreggia fra Peceneghi e Romani. L’alleanza con Bisanzio farà entrare la Russia nell’orbita romana e cambierà il destino delle nazioni slave. Ciò che però affascina di più, nel film, è la meticolosità con cui sono stati realizzati i costumi e le ambientazioni: dalla fangosa Kiev si passa agli splendori della romana Cherson (una città dell’attuale Ucraina), mentre gioielli, abiti, armi, cerimonie pagane e cristiane sono rappresentati con incomparabile dettaglio. Il dialetto scandinavo dei Vareghi svedesi si mischia allo slavo e al greco, dando una chiara idea della società multiforme e complessa del mondo slavo orientale. Ancora una volta la Russia insegna a Hollywood come dovrebbero essere fatti i film storici. Da non perdere! Produzione: Direktsiya kkino Uscita: ancora in atttesa di distribuzione per l’Italia
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