N°17 Giugno 2015 d € 6,90
SOLDATI E BATTAGLIE NEI SECOLI UNIFORMI
18 giugno 1815: a Waterloo si scrive la Storia
GUERRA NEL DESERTO
Sped. in A. P. - D.L. 353/03 art. 1, comma 1 NE/VR
524 A.C. GREAT SAND SEA L’ARMATA PERDUTA 53 A.C. CARRE GIORNO INFAUSTO PER ROMA 1578 ALCAZARQUIVIR LA SFIDA DEI TRE RE 1903 EL MOUNGAR LA LEGIONE STRANIERA 1941 NORDAFRICA ROMMEL IN CRISI SULLE DUNE 1942 BARCE LONG RANGE DESERT GROUP 1990-1991 IRAQ DESERT STORM
AUDIE MURPHY
Il soldato americano che divenne un attore di Hollywood
VIETNAM
I grandi reporter sul campo: le foto di Larry Burrows
PRUSSIANI
Fra i reparti di eccellenza, la Guardia di Federico il Grande
WARS
SOMMARIO
Vittorie e sconfitte tra le sabbie
Tutti ricordano El Alamein ma pochi, sono sicuro, hanno sentito parlare di episodi bellici come “73 Easting”, “Phase Line Bullet” oppure Carre, Hattin o Alcazarquivir. Tuttavia gli scontri dimenticati della Guerra del Golfo, quelli, in parte misteriosi, della guerra tra Roma e i Parti nel 53 a.C., dei Crociati contro il Saladino in Terra Santa, o della Sfida dei Tre Re in Marocco hanno molto in comune con l’epopea nordafricana del 1941-42. Per esempio la determinazione dei contendenti, l’abilità tattica dei generali, la sorte disperata degli sconfitti. E soprattutto un campo di battaglia estremo e impietoso: il deserto. Buona lettura. Jacopo Loredan d direttore
4 PROTAGONISTI UN AMERICANO TRANQUILLO
Audie Murphy, da soldato ad attore di Hollywood.
12 UNIFORMOLOGIA SOLDATI DI WATERLOO
Le divise del periodo napoleonico erano un inno alla stravaganza.
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PRIMO PIANO
LA GUERRA NEL DESERTO
Le battaglie combattute nel luogo più estremo e inospitale.
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GREAT SAND SEA 524 A.C.
L’ARMATA PERDUTA
Tra i misteri della Storia, c’è quello del persiano Cambise e dei suoi 50mila uomini dispersi nel grande deserto egiziano.
325 A.C. 24 GEDROSIA LA LUNGA MARCIA DI ALESSANDRO MAGNO
In questo deserto l’armata macedone patì più sofferenze che altrove.
53 A.C. 26 CARRE GIORNO INFAUSTO
Per l’ambizione di un generale Roma andò incontro alla disfatta tra le lande aride dell’Anatolia.
CAMMELLATE 30 TRUPPE L’AFRIKAKORPS DELL’URBE
I Romani avevano i Dromedarii, speciali unità di frontiera.
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HATTIN 1187
SCONFITTI SOTTO UN SOLE BRUCIANTE
La disfatta dei Crociati a opera del Saladino sui corni di Hattin.
WARS I NOSTRI ESPERTI
1578 36 ALCAZARQUIVIR LA SFIDA DEI TRE RE
GIORGIO ALBERTINI
Milanese, 46 anni, laureato in Storia medievale, illustratore professionista per case editrici e riviste (giorgioalbertini.com).
GASTONE BRECCIA
Livornese, 52 anni, bizantinista e storico militare, ha pubblicato saggi sull’arte della guerra, sulla guerriglia e sulla missione ISAF in Afghanistan.
ANDREA FREDIANI
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Nel deserto marocchino crollò per sempre la potenza portoghese.
EL MOUNGAR 1903
OLTRE AL NEMICO LA SETE
Nel deserto algerino i legionari si difendono fino allo stremo.
46 MEMORIE L’UNICA LEGIONE
Inimitabile, leggendaria, maledetta: la Légion étrangère.
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NORDAFRICA 1941
ROMMEL IN CRISI SULLE DUNE
Prima di El Alamein, la sconfitta nell’Operazione Crusader.
Romano, 51 anni, medievista, ha scritto vari saggi di storia militare e romanzi storici di successo (andreafrediani.it).
1942 56 BARCE MOSQUITO ARMY
STEFANO ROSSI
1990-1991 62 IRAQ DESERT STORM
Milanese, 55 anni, già ufficiale degli Alpini paracadutisti. Reporter di guerra, collabora con molte testate giornalistiche.
WARS LIVING HISTORY TRUPPE D’ÉLITE RECENSIONI
IN COPERTINA
RUBRICHE PAG. 9
PAG. 10 PAG. 82
Il generale Rommel (PPK/Scala) e i Crociati a Hattin (L. Tarlazzi).
Long Range Desert Group e Sas, la guerriglia in territorio africano.
66
La guerra contro Saddam, con le grandi battaglie di tank.
73 EASTING 1991
UNA TOMBA DI SABBIA
La disfatta dei T-72 battuti dagli Abrams americani.
70 RICOSTRUZIONI LA GUARDIA DEL RE DI PRUSSIA Era fra i reparti più importanti degli eserciti moderni.
76 MEMORIE UN PASSO DALL’INFERNO
La Guerra del Vietnam nelle foto di Larry Burrows. S
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AUDIE M Un americano PROTAGONISTI
IL SOLDATO CON PIÙ ONOREFICENZE DELLE FORZE ARMATE AMERICANE DIVENNE UN ATTORE DI HOLLYWOOD, INTERPRETANDO DECINE DI FILM WESTERN E POI ANCHE SE STESSO
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l film The red badge of courage (La prova del fuoco, in italiano) del 1951, tratto da un classico della letteratura americana sulla Guerra di secessione, narra di un ragazzo un po’ sbruffone durante l’addestramento, ma terrorizzato in battaglia, che riesce a riscattarsi compiendo un atto eroico. L’interprete principale era un attore di 26 anni, protagonista di vari film negli anni Cinquanta e Sessanta: Audie Murphy, occhioni sgranati su una faccia da bravo figliolo. Questa fu la sua migliore interpretazione, forse perché ci aveva messo qualcosa che ad altri invece mancava: la sua vera esperienza di guerra. Quell’eterno ragazzino, dal carattere tutt’altro che pavido, durante la Seconda guerra mondiale era stato il soldato più decorato d’America.
DA RECORD
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Audie Murphy (1925-1971) nella Seconda guerra mondiale conquistò più medaglie di chiunque, come scrisse Life fotografandolo così. Sopra, la Medaglia d’onore del Congresso.
Voglia di fuggire. Audie Leon Murphy era nato il 20 giugno 1925 a Kingston, in Texas, da una famiglia di mezzadri che conduceva una vita al limite della sopravvivenza. Lo stesso Audie la descriveva così nella sua autobiografia All’inferno e ritorno: “La miseria ci stava alle calcagna, a ogni passo. I figli venivano uno dopo l’altro, finché si arrivò a undici.[…] Appena fummo abbastanza grandi per maneggiare un aratro, un’accetta o una zappa, ci trovammo sbalestrati nella lotta per l’esistenza”. Il padre ben presto sparì e la madre tentò fino alla morte di tenere in piedi la famiglia. Già a dodici anni Audie andava a caccia di conigli con un vecchio fucile, col quale affinò le sue doti di tiratore, e per evadere dalla dura realtà sognava di diventare un soldato. Intanto però si divideva tra un po’ di scuola e il lavoro come raccoglitore di cotone, garzone di un distributore e aiuto in una bottega di riparazioni radio. Solitario e orgogliosissimo, col battagliero carattere irlandese ereditato dagli avi, spesso ingaggiava liti furibonde con altri coetanei. Quando i giapponesi colpirono Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941, Murphy, pur “crepando di rabbia” come ebbe a dire, era ancora troppo giovane per arruolarsi. Lo poté fare solo nel 1942, dopo la morte di sua madre, fingendosi maggiorenne con l’aiuto della sorella maggiore; la sua paura era che la guerra finisse troppo in fretta per parteciparvi! Provò a entrare nei Marines, ma fu scartato per il suo fisico pelle e ossa. Tentò nella neonata specialità dei paracadutisti, ma anche lì lo rimandarono indietro, consigliandogli di crescere un po’ “a latte e banane” prima di tornare a farsi pesare. Alla fine, il minuto Audie fu accettato in fanteria. Con le tasche vuote, piene solo di sogni, e un’ignoranza totale del mondo, fu inviato al campo di istruzione. Qui il mancato marine con la faccia da bambino passò un duro periodo: sveniva negli addestramenti, era deriso in continuazione per le sue fattezze e chiamato “baby”. I suoi superiori, benché si dimostrasse un eccellente tiratore, si opposero all’invio in guerra. Ma il suo orgoglio e la sua testardaggine finirono per prevalere. Private (“soldato”) Audie Murphy sbarcò in Nordafrica nel 1943 con i rincalzi per la Compagnia B, 1° battaglione, 15° reggimento della della 3a divisione di fanteria. Ma qui la guerra era già finita: gli italo-tedeschi si erano appena arresi in Tunisia.
ATTORE E SCRITTORE
Murphy in una scena del film To hell and back (1955), dall’omonimo romanzo autobiografico.
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COURTESY EVERETT COLLECTION/CONTRASTO
URPHY tranquillo
Dall’inferno della guerra al western
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SIERRA (3)
opo averci lavorato per due anni assieme al coautore (che non apparve mai in copertina) David McClure, tornando anche nei luoghi teatro
La guerra vera. Finalmente con lo sbarco in Sicilia, nel luglio 1943, Audie vide l’azione, accorgendosi subito che non era proprio come aveva sognato a dodici anni. La guerra era polvere, fango, fatica, puzza, sangue e soprattutto cadaveri: centinaia di uomini fatti a pezzi. Scrisse in seguito: “La campagna di Sicilia mi ha tagliato le gambe. Ho visto la guerra com’è veramente, e non mi piace. Ma continuerò lo stesso a combattere”. Con la squadra alla quale era assegnato, imparò a sopravvivere nelle mille situazioni che in battaglia fanno la differenza tra la vita e la morte. Il suo aspetto mingherlino fece sì che lo togliessero dal fronte per assegnarlo al comando come portaordini. Non avevano fatto i conti col suo carattere! Audie appena poté tagliò la corda per uscire con le pattuglie e gli esploratori; il capitano, capita l’antifona, lo promosse caporale e lo rimandò in linea, “fino a quando non sarai così nauseato che ti verrà da vomitare”, gli disse. Non solo Murphy non tornò indietro, ma durante l’avanzata sulla penisola italiana fece vedere a tutti cosa poteva fare un piccolo irlandese cocciuto. A settembre sbarcò a Salerno e, sulla linea del Volturno, con la sua squadra prese parte a diverse azioni. Al momento dello sbarco ad Anzio era già sergente; in un’occasione attaccò col suo plotone un carro armato e, strisciandogli vicino, lo mise fuori uso con le bombe a mano. Quando gli Alleati entrarono a Roma, il 4 giugno 1944, Audie Murphy era staff sergeant e aveva già collezionato varie decorazioni per atti di valore. In agosto sbarcò con la divisione nel sud della Francia e durante un’azione, per vendicare la morte di un suo compagno ucciso da una mitragliatrice, andò all’assalto da solo sotto il fuoco diretto, uccidendo sei tedeschi, ferendone due e catturandone undici. Atti eroici e ferite si susseguirono a ritmo serrato. Ferito. A ottobre fu promosso ufficiale “sul campo”. Era al comando del suo plotone, quando, sulla strada per Brouvelieures, i suoi uomini vennero colpiti da un gruppo di cecchini: riuscì a catturarne due prima di essere colpito lui stesso all’anca da un terzo, che però freddò con un tiro difficile prima di sve6
delle sue azioni, nel 1949 Audie Murphy pubblicò il libro autobiografico sulle sue storie di guerra. Scritto anche con una certa dose di cinismo e ironia, tipici di una certa categoria di veterani, il libro ottenne grande successo, fu rieditato più volte e tradotto in varie lingue. Qualche anno dopo, la Universal acquisì i diritti per farne un film e fu chiesto ad Audie di interpretare se stesso. Inizialmente declinò
l’offerta perché, ormai quasi trentenne, non se la sentiva di reinterpretarsi come un diciottenne e fu ingaggiato Tony Curtis. Nei suoi panni. Poi Murphy acconsentì e il film, diretto da Jesse Hibbs e girato con veri soldati a Fort Lewis e in una base d’addestramento vicino a Washington, uscì nelle sale con enorme successo di pubblico e critica il 17 agosto 1955, 10 anni esatti dopo il rientro di Murphy dalla guerra in Europa.
nire. La ferita era grave e si infettò; Audie rimase fuori dai combattimenti per un po’. Nel gennaio 1945 ritornò alla compagnia B, che ora combatteva nell’area di Colmar, nei Vosgi. Fu qui che meritò la Medaglia d’onore. Il 26, la compagnia venne attaccata da sei carri e circa duecento soldati tedeschi: Murphy ordinò ai suoi di sganciarsi e raggiungere postazioni più protette, e rimase da solo in una precaria posizione, da cui diresse con calma il tiro ravvicinato dell’artiglieria alleata. Poi salì su un M-10 americano semidistrutto, lì nei pressi e, sempre da solo, pur continuando a dirigere l’artiglieria, iniziò a sparare con una mitragliatrice cal. 50 aprendo ulteriori vuoti tra gli avversari. In un’orgia di rumore, urla, fumo e odore di cordite, per più di un’ora resistette sotto il fuoco proveniente da tre direzioni, e spazzò letteralmente via tutte le squadre che cercavano di sorprenderlo anche a distanza ravvicinata. I carri nemici, perso l’appoggio dei fanti, si arrestarono. Murphy era ferito a una gamba, ma sparò fino a finire le munizioni; poi scese dal carro, raggiunse i suoi e, nonostante la ferita, organizzò e guidò un contrattacco che costrinse i tedeschi a ritirarsi definitivamente. Quando, dopo la guerra, gli venne chiesto dove avesse trovato la motivazione per fare questo, molto semplicemente rispose: “Stavano ammazzando dei miei amici”. Promosso tenente, fu poi assegnato al comando di reggimento come ufficiale di collegamento Il rovescio della medaglia. Alla fine della guerra aveva collezionato una messe impressionante di decorazioni di vario tipo, circa una trentina in tutto, tra cui tutte quelle americane al valore e molte altre, anche straniere. La rivista Life lo presentò ai lettori in copertina, identificandolo come “il soldato americano più decorato” e rendendolo popolarissimo. Ma c’era anche un rovescio di queste medaglie: per tutta la vita soffrì di Sindrome da stress post-traumatico, che gli causò depressione, ansia e, a lungo andare, anche una dipendenza da farmaci, che però sconfisse chiudendosi volontariamente in una stanza per una settimana. Al ritorno in patria le celebrazioni non si contarono e la sua popolarità come soldato attirò l’attenzione del divo di Hollywood James Cagney, che incontrando Murphy a fine 1945 gli aprì le porte del mondo del cinema. Il ragazzo che sparava ai conigli, ora diventato eroe di guerra, a poco più di vent’anni si riciclò come attore (sebbene lui non si sia mai considerato un divo), recitando in una trentina di film – prevalentemente di genere western e d’azione – a partire dalla sua prima reci-
La 3a divisione di fanteria Usa
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oprannominata “Rock of the Marne” (roccia della Marna) per le azioni portate avanti nella Grande guerra, è una delle divisioni più famose dell’Us Army. Creata nel 1917 in Nord Carolina, fu inviata in Francia col Corpo di spedizione americano e nel 1918 protesse Parigi durante la Seconda battaglia della Marna.
Mentre molte unità si ritiravano, la 3a rimase sulle sue posizioni, come una roccia, appunto. A casa di Hitler. Nel Secondo conflitto mondiale fu una delle poche divisioni americane a combattere su tutti i fronti europei, dal Nordafrica all’Italia, alla Francia, fino a entrare in Germania dopo aver attraversato il Reno, nel marzo 1945. Il mese dopo
catturò la città di Norimberga dopo un durissimo scontro, casa per casa. Furono elementi della divisione a prendere il rifugio di Hitler a Berchtesgaden. Dopo aver combattuto in Corea, fu di stanza in Germania dal 1957 al 1996, maggiore forza della presenza Usa nella Nato, e si batté poi nella Guerra del Golfo, in Iraq e in Afghanistan.
SUL SET SI BATTÉ CON GLI APACHE, FECE IL BOUNTY KILLER E LA SPIA E POI RIPETÉ QUELLE AZIONI EROICHE DI CUI SI ERA RESO PROTAGONISTA IN ITALIA E IN FRANCIA
La 3a divisione di fanteria ad Acerno (Irpinia), dove gli americani combatterono dal settembre 1943, dopo lo sbarco a Salerno. In alto a sinistra, la copertina dell’autobiografia e la locandina di un film di Murphy, ritratto su Life (sopra).
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LA 3A DIVISIONE IN IRPINIA
Mauldin: guerra e comics
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el film migliore di Murphy, The red badge of courage, neanche a farlo apposta ebbe una parte da attore anche un’altra icona americana della Seconda guerra mondiale: Bill Mauldin (a sinistra con i suoi personaggi). Disegnatore per la 45a divisione di fanteria, con la striscia Willie and Joe (fanti americani a cui capitava di tutto) divenne una star tra i soldati. I suoi disegni apparivano su Star and stripes, il giornale dell’Us Army, e,
sebbene irriverenti, erano apprezzati anche dallo stesso generale Eisenhower perché erano una valvola di sfogo per le frustrazioni dei soldati. Premiato. Gli valsero anche un Premio Pulitzer nel 1944. Willie e Joe furono pubblicati su tante riviste americane ed estere. Dopo la guerra, salvo la breve parentesi come attore e scrittore, Mauldin tornò al disegno lavorando per il Chicago Sun-Times. Vinse un altro Pulitzer nel 1959.
A FINE CARRIERA INTERPRETÒ IL RUOLO DEL BANDITO JESSE JAMES DA VECCHIO, MA IL FILM NON USCÌ MAI
Stefano Rossi
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FINZIONE E REALTÀ
Murphy, caporale, in To hell and back: sull’elmetto e sulla spalla è ben evidente il distintivo della 3a divisione di fanteria americana.
THE LIFE COLLECTION/GETTY IMAGES
tazione in Beyond glory (Codice d’onore) del 1948, con Alan Ladd. Nel 1955, tra l’altro, interpretò se stesso nella pellicola autobiografica All’inferno e ritorno (To hell and back) tratta dall’omonimo libro in cui raccontava le proprie avventure di guerra dal ’42 al ’45. Appassionato di musica country, si scoprì anche un talento come paroliere e scrisse parecchi pezzi tra il 1962 e il ’70. Rimase al contempo nella Guardia nazionale del Texas (36a divisione di fanteria), arrivando al grado di maggiore. Nonostante lo avesse chiesto, non fu inviato a combattere in Corea. Fu in quegli anni che iniziò ad adoperarsi per attirare l’attenzione sui problemi dei veterani colpiti dalla sua stessa sindrome, chiedendo alle autorità di compiere studi e di estendere le cure mediche anche per questo disturbo. I suoi sforzi furono riconosciuti con delle leggi apposite; dopo la sua morte gli venne dedicato l’Audie L. Murphy Memorial VA Hospital a San Antonio. Appuntamento col destino. Dopo il cinema, Murphy si diede a investimenti sbagliati finendo sul lastrico nel 1968, anche per la sua propensione al gioco d’azzardo. Ma quando era già male in arnese, sebbene ancora richiesto, si rifiutò di interpretare pubblicità di alcolici e sigarette perché avrebbero potuto influenzare i giovani: “Non volevo dare un cattivo esempio”. Nel 1971 si era un po’ ripreso e dirigeva una società, la Telestar Leisure Investments, quando il 28 maggio, durante un giro d’ispezione, Audie si imbarcò ad Atlanta, con altri 5 colleghi, su un piccolo aereo a elica diretto in Virginia. Il tempo era pessimo. Attorno alle 12:00, a circa 20 minuti dall’atterraggio, il velivolo N601JJ della Telestar Aviation che, colmo d’ironia, era dipinto in bianco e blu, gli stessi colori della 3a divisione di fanteria, impattò 100 metri sotto la linea di cresta della Brush Mountain. Nessun superstite. A soli 46 anni, il 7 giugno 1971, il piccolo soldato passato attraverso tante battagle e vicissitudini, fu seppellito con tutti gli onori militari al Cimitero nazionale di Arlington. Nonostante le tombe dei decorati con la Medaglia d’onore del Congresso, l’onoreficenza più alta negli Usa, prevedessero fregi dorati, fu accolta la sua volontà di avere una lapide semplice e convenzionale, come quelle di un soldato qualunque. Ad Arlington, la tomba di Audie Murphy è la più visitata dopo quella del presidente John Fitzgerald Kennedy. d
WARS
LIVING HISTORY
NORMANNI A NAPOLI A cura di Camillo Balossini
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ella Napoli del XXI secolo è ancora possibile trovare testimonianze di quella che fu la civiltà normanna dell’XI e XII secolo. Le gesta e la vita quotidiana delle genti venute dal Nord dell’Europa e che colonizzarono il nostro Meridione a partire dall’Anno Mille riprendono vita attraverso l’opera della Reenactment Society. L’associazione, nata dall’esperienza e passione di alcuni rievocatori e artigiani, sin dall’inizio si è rivolta a una ricostruzione attenta basata sulle fonti disponibili. Gli epigoni degli “uomini del Nord” (questo significa la parola “normanni”) hanno potuto ricostruire repliche fedeli di armi, abiti e utensili di queste genti basandosi sui reperti archeologici. Sono riusciti così a raccontare la conquista del nostro Sud.
Duellanti all’arma bianca. I rievocatori della Reenactment Society accompagnano il pubblico in un viaggio nei secoli passati alla riscoperta di uno stile di vita arcaico, condividendo l’esperienza di un accampamento normanno e lo scorrere lento delle giornate scandite da attività elementari: come la raccolta della legna che servirà a cucinare i pasti, o le esercitazioni nel tiro con l’arco o nell’uso di lance e spade, un’arte della guerra appresa in interminabili ore di addestramento, con disciplina assoluta. I reenactors dell’associzione arrivano a un’immedesimazione totale con i guer•
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rieri medioevali. Fra loro ci sono fanti pesanti, fanti leggeri, arcieri equipaggiati di tutto punto con armature, scudi e armi bianche, e tutti si immergono nella parte proponendo duelli e combattimenti agguerriti. Ci si ritrova facilmente immersi in un’altra epoca ammirando la panoplia che avremmo visto a un fante della Battaglia di Hastings, come le asce da battaglia di un cavaliere pronto ad assediare Gerusalemme. Ma gli “ingredienti” di questo progetto riguardano soprattutto la riscoperta di un Medioevo napoletano, poco conosciuto e per questo ancora più affascinante. d
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http://www.reenactmentsociety.org/ https://www.facebook.com/ReenactmentSociety
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AGGUERRITI
C. BALOSSINI (3)
Sotto, all’assalto, fanteria leggera e fanteria pesante con cotta di maglia, elmo e camaglio; sono armati di scudo kite (a goccia) e spada. A lato, fante pesante normanno con arco (lo scudo dietro le spalle identifica il combattente di linea) e guerriero normanno dell’XI secolo.
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WARS
A cura di Stefano Rossi
TRUPPE D’ÉLITE
BASCHI AZZURRI AVIOLANCI
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Anni ‘30, aviolancio di parà sovietici da un Antonov 6. A lato, foto di propaganda delle VDV dei primi anni ‘70 del XX secolo.
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azionalizzate negli anni del post-comunismo, oggi la Russia vanta circa la metà delle imponenti 7 divisioni delle Forze aviotrasportate (Vozdushno-Desantnye Vojka o VDV) dell’Urss, comunque una forza di tutto rispetto se rapportata ai mutati scenari odierni. Ora, in organico alle VDV (che è una forza armata indipendente) ci sono le due Divisioni aviotrasportate (98a e 106a, con sedi a Ivanovo e Tula) e le due Divisioni d’assalto aereo (7a e 76a, dislocate a Novorossisk e Pskov) della Guardia, aviotrasportate e aviolanciabili. Sono considerate le meglio addestrate, equipaggiate, motivate e aggressive dell’intero panorama militare russo, specie in confronto al resto delle forze armate, decisamente di livello molto scarso, l’ombra della potenza bellica dell’Urss. Le VDV russe – eredi di quelle sovietiche e importante riserva strategica ai tempi della Guerra fredda – hanno conservato anche oggi le loro caratteristiche: possono essere rapidamente dispiegate pressoché ovunque, sia con aviolancio, sia con inserzione verticale con elicotteri (la 7a divisione è anche addeGuardia L’appellativo non designa unità d’élite nel senso stretto del termine, ma reparti sovietici (e poi russi) distintisi particolarmente in operazione. Il nome, che si rifà a tradizioni imperiali, fu reintrodotto nel 1941 (con ordine n° 308 del Comando supremo sovietico), durante l’offensiva di Yelnya. Le unità comprese nella Guardia e i loro singoli soldati ricevevano particolari insegne di distinzione.
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strata come reparto “da montagna”). I “Baschi Azzurri” sono sempre stati in primo piano nei recenti conflitti in Cecenia, Georgia e, ultimamente, in Crimea con alcuni reparti, così com’era stato in passato. La loro lunga storia parte infatti da ben più lontano, attorno al 1931, quando i sovietici – tra i primi al mondo – crearono un reparto di paracadutisti. Nel 1935 furono effettuati vicino a Kiev lanci di massa con oltre 2.000 uomini e, già nel 1939, i parà delle VDV iniziarono a combattere, prima nella Guerra russo-giapponese , poi duran-
te l’invasione in Polonia e nella guerra contro la Finlandia . Durante la Seconda guerra mondiale erano in organico già 6 brigate, che però vennero impegnate principalmente in ridotti aviolanci difensivi o dietro le linee nemiche, dove i parà combatterono con i partigiani in gruppi isolati. RicoGuerra russo-giapponese O Guerra di confine nippo-sovietica, combattuta dal gen. Zhukov tra 1938 e ’39 sul confine tra Mongolia e Impero del Manciukuo, presso il fiume Chalchin-Gol. Guerra contro la Finlandia O Guerra d’inverno, combattuta tra il 30 novembre 1939 e il 12 marzo 1940 nel tentativo dell’Urss di annettersi territori finlandesi di importanza strategica.
RUSSI
I PARÀ SULLA PIAZZA ROSSA
Sopra al centro, il distintivo delle VDV russe. Sopra, paracadutisti in sfilata a Mosca.
FORZE SPECIALI
A lato, due operatori delle Forze speciali (Spetsnatz) del 45° reggimento.
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stituite nel 1943, le Forze aviotrasportate furono portate a 6 divisioni, ma, sempre scarse di mezzi aerei, continuarono a combattere come fanteria d’assalto. Alcuni aviolanci di massa però furono compiuti oltre il Dniepr e in Crimea.
Durante la Guerra fredda le VDV furono equipaggiate anche con cingolati, carri aviotraportabili e aviolanciabili, artiglieria ed elicotteri, raggiungendo così la piena indipendenza operativa. I Baschi Azzurri dell’ex Unione Sovietica fu-
L’AKS74-U “Krinkov”, calibro 5.45 mm. Versione corta del fucile d’assalto AKS74, è usato da parà e Forze speciali.
rono presenti in Ungheria nel 1958 e 10 anni dopo in Cecoslovacchia, ma l’impiego più massiccio ci fu in Afghanistan (1979-1989): lì si fecero le ossa e l’esperienza gli odierni comandanti della Forza aviotrasportata russa che, in un futuro molto vicino, potrà contare su circa 73.000 uomini – per la maggior parte kontraktniki –altamente addestrati e preparati. d Kontraktniki Letteralmente “contrattisti”; designa i soldati professionisti, non quindi “di leva”, all’interno delle Forze armate russe. I primi kontraktniki furono impiegati all’inizio del 1990; nel 2008 erano già 140mila.
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UNIFORMOLOGIA
Soldati
ILLUSTRAZIONI DI G. ALBERTINI
NAPOLEONICI
LE DIVISE DEL PERIODO NAPOLEONICO
Brigadiere della compagnia d’élite del 1° squadrone del 5° reggimento ussari francesi. Impegnati soprattutto in azioni di ricognizione e inseguimento, il loro aspetto era l’apoteosi della leggerezza. Appoggiata alla spalla sinistra sventolava una giacca bordata di pelliccia, la pelisse, che arricchita di alamari e bottoni in ottone poteva costare più di 200 franchi. Completava la divisa una giacca simile ma di colore diverso e più leggera, il dolman.
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Brigadiere della 4a compagnia del 1° squadrone del 1° rgt. di corazzieri (corazzieri del re). Con i carabinieri, i corazzieri facevano parte della cavalleria pesante dell’esercito di Napoleone: scendevano in campo con armatura d’acciaio e cimiero. Questo era in stile neoclassico, detto “alla Minerva”, parzialmente ricoperto da pelliccia, con cresta ramata e coda di crini di cavallo. A sinistra, il ponpon che caratterizzava la compagnia. Gli stivali erano in cuoio semirigido fino al ginocchio.
di Waterloo L
Unteroffizier (sottufficiale) della compagnia moschettieri del 1° btg. del 6° rgt. di fanteria di linea prussiana. Rispetto al tradizionale blu scuro dell’habit-veste a doppio petto, ogni reggimento si differenziava per il colore di colletto e paramani; il modello di questa giacca era stato ammodernato per la Campagna dei 100 giorni. Lo shako di feltro era ricoperto di tela cerata e il cappottone grigio veniva chiuso intorno al torace da una custodia in pelle.
Fante della compagnia di centro del 3° battaglione di fanteria belga. Faceva parte della 3a divisione di fanteria olandese. L’esercito dei Paesi Bassi comprendeva nel 1815 elementi olandesi, belgi e lussemburghesi e vestiva per lo più con divise di ispirazione inglese: dallo shako, all’habit-veste, compresi pantaloni e ghette, fino alla buffetteria. Nella Campagna dei 100 giorni i belgi divennero, a detta degli inglesi, tristemente famosi per la loro codardia.
e guerre napoleoniche rappresentano il picco ornamentale della divisa militare, tra colori chiassosi, cordelle, ponpon, piumetti, alamari e cimieri. Se oggi è determinante il mimetismo delle uniformi, allora lo era la visibilità assoluta. Un inno all’estetica e alla stravaganza con effetti sull’economia dei Paesi che rivaleggiavano in questa corsa al colpo d’occhio. Una divisa completa per un fante della Grande Armée costava tra i 200 e i 250 franchi francesi mentre un cacciatore a cavallo della Guardia sfiorava i mille. Un corazziere con il suo carico di acciaio e ottone comportava una spesa di 2.000 franchi, quando un chilo di carne costava 70 centesimi e un chilo di pane tra i 20 e i 30; 10 tonnellate di pane per un singolo corazziere. Très chic! Le uniformi più lussuose erano quelle francesi: quelle della Guardia imperiale travolgevano per magnificenza, tanto da indurre Napoleone a sostituire al comando della Guardia stessa il suo miglior amico, Jean Lannes, con Jean Baptiste Bessières perché il primo spendeva selvaggiamente. I rivali di Napoleone rimasero più sobri, soprattutto i prussiani, con le loro divise blu scuro e nere e al massimo un paio di cambi. Un soldato di cavalleria della Guardia francese invece poteva arrivare ad avere fino a 10 differenti varianti della divisa: oltre alla tenuta da campagna c’erano quella da viaggio, da campo, di servizio, di guarnigione, da società, da città, da parata e da grande parata. d Giorgio Albertini
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ANGLO-PRUSSIANI
ERANO UN INNO ALLA STRAVAGANZA PER COLORI E ACCESSORI
Carabiniere del 4° reggimento di fanteria leggera francese. Era di colore azzurro la divisa della fanteria leggera francese, sia nella giacca modello 1812 che nei calzoni. Le alte ghette simulavano l’aspetto di uno stivale. Oltre allo zaino, sul quale era posto il cappotto arrotolato, sul petto s’incrociano le bandoliere della giberna e della sciabola. Il fante imbraccia un moschetto da dragoni, leggermente più corto di quello da fanteria.
SI SBIANCAVANO LE CINTURE CON L’ARGILLA E SI LUCIDAVANO DI CONTINUO BOTTONI E FREGI D’OTTONE
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Dragone della compagnia di centro del 1° squadrone del 13° reggimento dei dragoni francesi. La tradizionale giacca con le code lunghe (l’habit), che era stata comune a quasi tutti i corpi dell’esercito francese, subì il taglio delle code dopo il gennaio 1812, venendo rinominata habit-veste. Come le cavallerie pesanti, anche i dragoni proteggevano il capo con un elmo alla Minerva, ma di rame giallastro. In mano impugna una carabina da cavalleria modello An XI. Cannoniere di 1° classe della 1a compagnia del reggimento di artiglieria a cavallo della Vecchia guardia. I blocchi commerciali subiti dalla Francia nelle campagne napoleoniche ridussero l’arrivo di pelli d’orso dal Nord America così da limitarne l’uso solo ai pochi reggimenti della Vecchia guardia (per esempio, gli artiglieri a cavallo). Sotto l’habit indossavano un panciotto smanicato con alamari in stoffa.
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I REGGIMENTI SI DISTINGUEVANO PER IL COLORE DEI RISVOLTI DI POLSINI, COLLI E SPALLINE, MA ANCHE DI CALZONI E PANCIOTTI
Cacciatore della 1a compagnia dei Gelernte Jägers del battaglione di avanguardia del contingente di Brunswick. Come altri piccoli Stati tedeschi, anche il neonato Ducato di Brunswick partecipò alla coalizione anti-napoleonica nella Campagna dei 100 giorni. Gli Jägers erano un contingente di fanteria leggera, arruolati per le loro capacità di tiratori. La divisa era di foggia tradizionale con un habit-veste e pantaloni di lana grigia. Il cappotto era portato ad armacollo e come copricapo un cappello in feltro dalle falde impari.
Granatiere del 1° battaglione del 27° reggimento di fanteria “Enniskillen”. Il reggimento era arruolato nell’Irlanda del Nord, nella contea di Enniskillen appunto. Così come il blu e il bianco erano i colori francesi, tipico dei fanti inglesi era il rosso mattone delle loro giacche monopetto, spezzate solo dal bianco filettato delle bottoniere. Le giacche dei battaglioni dei granatieri e della fanteria leggera portavano alla sommità del braccio spallacci in lana. In battaglia lo shako era ricoperto da una tela cerata nera. Ussaro del 1° squadrone dell’8° reggimento ussari prussiani. Funerei nella loro divisa nera, come i settecenteschi ussari della morte, elementi di questo squadrone portavano ancora, sullo shako, il fregio dalla testa di morto sopra le due tibie incrociate. Alla ingombrante pelisse si preferiva il cappotto da cavalleria tenuto arrotolato sul petto. Intorno alla vita venivano arrotolate una fascia-cintura e una cintura vera e propria che sorreggeva la sciabola (sabre) e la sabretache.
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Sergente della 1a compagnia fucilieri del 29° reggimento di fanteria di linea francese. Il fante indossa la divisa per antonomasia del soldato napoleonico: lana blu con risvolti bianchi, sul braccio sinistro in basso il gallone di grado e, in alto, quello di anzianità di servizio, dieci anni. In testa, lo shako nero con placca modello 1810. Sulla spalla il moschetto a pietra focaia calibro 17,5.
MOLTI GENERALI PORTAVANO GALLONI D’ORO E D’ARGENTO E RIFINITURE PIUMATE SUI BICORNI
Lanciere del 1° squadrone (squadrone polacco) del reggimento cavalleggeri lancieri della Guardia imperiale. Un reggimento di volontari polacchi fu inquadrato dal 1807 come lancieri della Guardia di Napoleone. L’uniforme era composta da una giacca di lana blu scuro con risvolti cremisi, detta kurtka, più sovrapantaloni da cavallo con rinforzi in pelle. Lo strano copricapo, tipico dei lancieri originari dell’Est Europa, si chiama czapska e si contraddistingue per la calotta di stoffa romboidale. Capitano del 3° reggimento dei granatieri a piedi della Guardia imperiale. Il grande cappello di pelliccia d’orso era il carattere distintivo dei granatieri della Guardia: la sua altezza era di 37,9 centimetri e costituiva un’ottima difesa contro i fendenti di sciabola. Sulla placca metallica svettava un’aquila imperiale. Il capitano porta il cappotto arrotolato a tracolla e, cadente sul petto, una placca da ufficiale.
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Dragone del 1° squadrone del 2° reggimento dei dragoni (Scots Greys). Famosi per la carica a Waterloo, indossavano una divisa semplice paragonata ai loro omologhi francesi: habit-veste rosso monopetto bordato di azzurro e oro e sovrapantaloni grigi come le loro cavalcature (da cui lo pseudonimo), più berrettone alto di pelliccia d’orso con cordoni e fiocchi in oro. Oltre alla sciabola da cavalleria pesante, i dragoni portavano appesa alla bandoliera una carabina da cavalleria.
COPRICAPO SCENOGRAFICI, PENNACCHI E PONPON, MA POI NON C’ERANO DIFESE DA FREDDO E ACQUA
Fante della compagnia flanqueurs del 2° btg. leggero della King’s German Legion. La KGL fu un piccolo esercito composto da volontari tedeschi al servizio della corona inglese: il nucleo originario era un reparto di fanteria leggera. All’interno di questa formazione, i flanqueurs operavano come i volteggiatori nella fanteria di linea. A Waterloo il battaglione costituì la guarnigione di La Haye Sainte, che difese fino a esaurire le munizioni. La divisa era quella di alcune unità di fanteria leggera dell’esercito britannico. Sergente della compagnia granatieri del 1° battaglione del 79° reggimento di fanteria “Cameron Highlanders”. La divisa dei reggimenti arruolati nelle highlands scozzesi prevedeva giubba rossa e un elemento del costume tradizionale, il kilt. Ogni reggimento si differenziava per un proprio tartan. Il copricapo era ricoperto di piume di stuzzo. Il sergente è armato di spuntone e spada scozzese con elsa a gabbia.
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PRIMO PIANO
D
ifficile capire, per chi non lo ha mai subìto, che cosa si prova a stare giorni e giorni sotto un sole implacabile con intorno un paesaggio uniforme, terribilmente desolato, mosso solo dai miraggi provocati dal surriscaldamento del terreno. Aridità, sole accecante, tempeste di sabbia, assenza di acqua e di cibo erano solo alcuni dei problemi che un grande esercito, o anche un piccolo distaccamento, doveva affrontare per muoversi e combattere nel deserto. E nei secoli le condizioni non sono cambiate. Lo hanno constatato gli eserciti romani durante le Guerre giudaiche e le campagne di Traiano contro i Parti, o le armate dei Crociati contro gli eserciti musulmani. Ma è Erodoto a raccontarci la tragica fine dei cinquantamila Persiani in una delle prime descrizioni di operazioni nel deserto: nel 525 a.C. il re di Persia Cambise, che aveva appena conquistato l’Egitto, inviò un suo contingente contro i Libi stanziati nell’oasi di Siwa, dove si trovava l’oracolo di Amon: “Giunti all’incirca a metà strada […] si levò da sud un vento improvviso e fortissimo, che sollevò la sabbia fino a seppellirli tutti; e questa è stata la loro fine”. E ancora Curzio Rufo, nella sua Historia Alexandri Magni, racconta della marcia dei soldati di Alessandro attraverso i deserti della Sogdiana (nel 328 a.C.): “L’ardore del sole estivo accende le sabbie.[...] Inoltre la caligine, sollevata dal calore eccessivo del suolo, toglie la luce del giorno e la pianura prende l’aspetto di un mare vasto e profondo. [...] La siccità assorbe tutta l’umidità naturale, bruciando profondamente la bocca e le viscere”. La stessa cosa sperimentarono nei secoli a seguire i soldati francesi durante la Campagna d’Egitto di Napoleone o ancora i britannici che combatterono le armate del Mahdi in Sudan a fine ’800, o di nuovo i soldati del generale Graziani
durante la riconquista italiana della Cirenaica negli anni ’30. Ma il deserto, in effetti, non è così deserto per tutti: popolazioni come i Tuareg del Sahara, i beduini dell’Hegiaz e della Penisola Arabica o le tribù mongole dell’Asia Centrale, solo per citarne alcune, nei secoli si sono adattate a vivere in questi luoghi sfruttandone le peculiarità anche per combattere. Contro costoro un esercito convenzionale non ha quasi mai avuto scampo, salvo in rari casi legati più all’addestramento e all’organizzazione che ad altro. Erano questi uomini a fare la differenza nelle guerre nel deserto ed è per questo che gli eserciti stranieri fecero di tutto per poterli avere al loro fianco: un caso emblematico è quello delle Guerre puniche, vinte dei Romani solo perché potevano schierare come alleati Numidi e Mauritani. Ancora nel secolo scorso, popolazioni locali erano arruolate in eserciti europei per meglio controllare i territori desertici, com’è il caso dei nostri reparti sahariani e meharisti (questi ultimi montati sui veloci dromedari), utilizzati fino agli anni ’40 del ’900. Un terreno difficile anche oggi. Pur col mutare delle armi e dei mezzi e l’avvento della tecnologia, il deserto rimane “la terra eternamente senza padrone”, come lo definì il romanziere inglese D.H. Lawrence (da non confondersi con il condottiero); difficilmente infatti si può occupare militarmente il deserto, così come, per usare una similitudine solo apparentemente banale, non si può occupare il mare. Anche nelle moderne guerre di movimento, combattere nel deserto è come comSogdiana Regione storica dell’Asia Centrale, negli attuali Uzbekistan Meridionale e Tajikistan Occidentale, dove si sviluppò una civiltà iranica che conobbe il suo apice tra il V e l’VIII secolo d.C. I Sogdiani opposero tenace resistenza ad Alessandro Magno, che giunse a un compromesso, sposando una principessa locale. I Sogdiani vennero man mano assimilati da altri popoli asiatici.
IL LUOGO ESTREMO E INOSPITALE PER ECCELLENZA CONSERVA STORIE DI ARMATE PERDUTE E SOLDATI SFINITI DALLA SETE E DAGLI STENTI
LA GUERRA NEL
DESERTO 18
IL GENERALE CAMMELLATO
Napoleone in Egitto (1798-1801), dove sbarca dopo la Campagna d’Italia.
può costituire il paradiso della tattica, dall’altra, date le grandi distanze tra le pochissime zone abitate, è anche un vero inferno per la logistica. Per assurdo, chi perde e si ritira, riavvicinandosi maggiormente alle sue linee di rifornimento, riacquista più capacità combattiva, mentre il vincitore all’inseguimento allunga ulteriormente la sua catena logistica. Anche l’intelligence nel deserto è svantaggiata: non è quasi mai possibile avere informazioni dalle scarse popolazioni locali e tutto deve essere fatto con la ricognizione, resa però difficoltosa, anche con le moderne tecniche aeree, dalle enormi distanze. Un dominio senza padrone. Nonostante ciò, nei deserti si è sempre combattuto e si continua a farlo, come durante le Guerre arabo-israeliane o nelle recenti Guerre del Golfo Persico. Nel tempo sono state sviluppate nuove tecniche di combattimento e sono stati scritti numerosi manuali. Gli eserciti hanno creato unità specializzate, come nel caso della Legione straniera francese (v. articolo su El Moungar), i cui soldati hanno fatto di queste zone desolate una loro epopea, o ancora dello Special Air Service e del Long Range Desert Group britannici, studiati durante la Seconda guerra mondiale per ricognizioni, raid e colpi di mano nelle aride distese africane e orientali. Ma dopo ogni battaglia, dopo ogni guerra in cui “l’assordante silenzio” di queste zone inospitali è spezzato dal clangore delle spade o dall’eco delle cannonate, i deserti tornano a essere ciò che sono sempre stati: luoghi di misteriosa solitudine e spesso di grande bellezza. Senza padroni. d Stefano Rossi
Appiglio tattico Nel linguaggio militare, è un elemento del terreno utilizzabile, soprattutto in difesa, per la copertura e il controllo della zona circostante.
BRIDGEMAN/MONDADORI PORTFOLIO
battere in mare: le distanze sono enormi e, come sull’acqua, per mancanza di punti di riferimento si prova una sensazione di disorientamento; non è raro che, muovendosi solo con la bussola, intere unità si perdano durante gli spostamenti, come inghiottite da sabbia e pietraie. Ogni singolo carro armato o automezzo è come una nave: la polvere che il mezzo solleva viene avvistata a chilometri di distanza, esattamente come i fumaioli delle navi. Analogamente alle flotte in alto mare, a contatto col nemico il contingente deve manovrare spostandosi in posizione migliore per dare battaglia e, proprio come in acqua, deve concepire anche la fase difensiva in forma mobile, basandosi sulla superiorità specifica dei mezzi (siano essi corazzati o meccanizzati). Per mancanza o scarsità di punti di appiglio tattico , infatti, le posizioni statiche sono difficili da ottenere. Con la sabbia in bocca. La linea del fronte, poi, è labile: al massimo qualche striscia di anguste trincee scavate con grande difficoltà, nelle quali le truppe devono fare i conti con l’afa opprimente durante le ore di sole, il freddo notturno dovuto alla forte escursione termica, la polvere che impasta occhi e bocca e le tempeste di sabbia che durano anche vari giorni. Ne seppero qualcosa i soldati italiani nelle campagne in Nordafrica dell’ultima guerra mondiale: a El Alamein questi disagi continui minarono la loro capacità combattiva. Gli uomini, sottoposti a un regime alimentare di sole scatolette e bevendo acqua spesso non depurata, erano colpiti da continui disturbi intestinali. E poi c’erano le mosche, assolute padrone del deserto. Non si sapeva da dove arrivassero: assalivano a sciami, senza tregua; mani, occhi, viso erano di loro proprietà e non c’era pasto che non prevedesse di ingurgitarne. Il deserto, incapace di fornire risorse, se da una parte
LA GUERRA NEL DESERTO GREAT SAND SEA 524 A.C.
TRA I TANTI MISTERI DELLA STORIA CHE RIECHEGGIANO DALLA NOTTE DEI TEMPI C’È QUELLO DI CAMBISE E DEI SUOI 50MILA UOMINI DISPERSI NEL GRANDE DESERTO EGIZIANO
L’ARMATA PERDUTA
U
n tempo i cammellieri lo chiamavano Khamsin Dov’era finita la seconda armata persiana? Lo storico greco (“Cinquanta”) e lo descrivevano con toni tremendi: Erodoto, vissuto pochi decenni dopo i fatti, narra che in sette piombava da sud, uccideva molti, accecava altrettangiorni i soldati avevano raggiunto “Oasi, città abitata dai Sati, poi spariva fra le dune. Oggi carovane non ce ne mi” (alias Isola dei Beati) e che poi avevano proseguito verso sono più, ma lui imperversa ancora nel deserto fra Egitto e Libia: Siwa “attraverso la regione sabbiosa”. A metà strada però erano la sua furia può durare 50 giorni, come dice il nome; poi si chestati sorpresi dal famigerato Khamsin: “Mentre stavano prenta, perché il Khamsin non è un uomo ma un vento. dendo il rancio di mezzogiorno cominciò a soffiare E se potesse parlare, gli storici farebbero la fila per un vento insolitamente tremendo che, trasportando intervistarlo. Infatti l’ex-terrore dei cammellieri, cumuli di sabbia, li seppellì”. che spesso soffia fin sul Cairo, è depositario di un Soffio mortale. Ma è possibile che i resti di Si tratta della segreto che dura da 25 secoli: la sorte di un’armata tanti soldati con relative salmerie vengano sepolti percentuale di superficie del Great di 50mila uomini, sparita nel nulla mentre marciasenza lasciare traccia? A sentire gli esperti del Wesand sea coperta va fra le dune. Teatro del giallo è quel settore di Sastern desert sì: quando soffia il Khamsin il cielo didalle dune. hara che si stende sul confine Egitto-Libia e che gli venta viola, la visibilità cala a 2 metri, la temperatuatlanti segnalano con nomi diversi: Western desert ra sale e gli occhi sono mitragliati da milioni di grase i cartografi sono filo-egiziani, Libyan desert se sono filo-libinelli di sabbia, sparati come proiettili. Ripararsi è impossibile, ci e Great sand sea (“Grande mare di sabbia”) se sono neutrali. dormire idem: una tortura simile uccide psicologicamente. E Svaniti. Tutto risale al 524 a.C., cioè a un anno dopo che chi si lascia andare può morire anche nel fisico. E non sarebbe Cambise II , imperatore di Persia, aveva invaso l’Egitto e risalil’unica sparizione misteriosa: il Siwan manuscript, un diario to il Nilo fino alla capitale Tebe (oggi Luxor). Da lì il suo eserciche il giudice Abu Musallim compilò più di un secolo fa sulla to si divise in due colonne: una marciò sulla Nubia (oggi Nord base di testi della tradizione, narra di altre due colonne militadel Sudan), l’altra contro il Paese degli Ammoni (oggi oasi di Siri spazzate via dal vento vicino all’oasi. wa, nel Great sand sea). Nessuna delle due ebbe fortuna: i solNon è tutto: nel 1805, lontano dall’oasi di Siwa, finì male andati della prima, esaurite le provviste, finirono per mangiarsi che una terza carovana, in marcia dal Darfur (Sudan) ad Asyut l’un l’altro, tirando a sorte chi macellare; quelli della seconda (Egitto), i cui resti furono, però, ritrovati. È possibile che innon giunsero mai alla meta, né tornarono indietro. vece, nel caso dell’armata persiana, il vento abbia accumulato tanta sabbia da coprirne ogni traccia? La risposta è sì, almeno in teoria; infatti nei secoli il Khamsin ha coperto per due volte Cambise II Figlio di Ciro il Grande, fu il sovrano achemenide dell’Impero persiano, sul cui trono salì nel 529 a.C. Fu anche re d’Egitto dal 525. Morì nel 522 a.C. persino la Sfinge di Giza, alta 20 metri.
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Secondo il racconto dello storico greco Erodoto, nel VI secolo a.C. un esercito di 50.000 Persiani diretto all’oasi di Siwa fu inghiottito da una tempesta di sabbia.
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A. MOLINO
SABBIA NEGLI OCCHI
GUERRIERI ETERNI
© KAZUYOSHI NOMACHI/CORBIS
Gli Immortali, la guardia speciale del re persiano, nella scalinata del palazzo dell’Apadana a Persepoli (Iran).
ARABI E BATTRIANI, ALLEATI DEI PERSIANI, FORNIRONO DROMEDARI E CAMMELLI PER ATTRAVERSARE IL DESERTO GREAT SAND SEA 524 A.C.
Il Gran mare di sabbia, così si chiama il deserto egiziano, si estende su oltre 72mila metri quadrati e costituisce la frontiera settentrionale del Sahara: è la terza distesa di dune al mondo, oltre che la più arida. I Persiani vi penetrarono per raggiungere l’oasi di Siwa, dove si trovava l’oracolo di Zeus Ammon: erano 880 chilometri di marcia.
250 km
Mar Mediterraneo
Menfi
EGIT TO Oasi di Siwa (Paese degli Ammoni)
LIBIA
Nilo Bahrein
Presunta zona della tempesta di sabbia
Oasi di Bahariya
Oasi di Farafra
Tebe
Oasi di Dakhla Oasi di Kufra
Oasi di Zarzura
Ipotetico itinerario dell’armata di Cambise.
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Oasi di Kharga (Isola dei Beati)
Tragitto usuale (più lungo) da Tebe a Siwa.
Antica pista Kharga-Kufra.
Molti hanno percorso in lungo e in largo il Great sand sea, ma senza trovare una sola freccia o una sola tibia riferibile ai Persiani. D’altra parte, basta guardare l’atlante: in direzione nord-sud il Great sand sea misura quasi 1.000 km, da est a ovest poco meno. Insomma, è il più vasto erg (deserto sabbioso) del mondo. E gran parte della superficie è coperta da barkane, le tipiche dune a mezzaluna, a pendio dolce su un lato e ripidissimo sull’altro, che nessuna carta geografica riesce a disegnare perché si spostano di anno in anno e, nella stagione del Khamsin (cioè in marzoaprile), di settimana in settimana. Senza tracce. Da quell’oceano rovente spuntano 8 oasi abitate, di cui 5 in Egitto: da sud a nord, Kharga, Dakhla, Farafra, Bahariya e Siwa. L’Isola dei Beati, che la colonna persiana superò, è Kharga. Ora, Erodoto dice che il vento fece strage a metà strada fra l’Isola e Siwa, ma non nomina Farafra, che si trova a quella latitudine: quindi i soldati dovevano aver seguito una rotta più a ovest (a est di Farafra l’erg finisce), lontana dall’oasi (dove non tentarono di rifugiarsi). Che non si sia trovato nulla, là dove le barkane sono più alte che mai, è ovvio. A conti fatti, dunque, resta aperto un solo dubbio, quello sul numero dei militari: 50mila uomini sembrano davvero troppi per attaccare un’oasi che oggi conta 5.500 anime, compresi vecchi, donne e lattanti. Conclusione: “Che il numero dei soldati sia stato esagerato, è possibile; ma che un’armata persiana sia stata sepolta sotto le sabbie del deserto resta inconfutabile”. Il parere è dello storico delle oasi più autorevole di tutti i tempi, Ahmed Fakhry, già docente all’Università del Cairo, morto nel 1973. Oggi, superati molti dubbi, quasi tutti gli studiosi la pensano come Fakhry. Ma perché, se la storia dei Persiani spariti è vera, Erodoto o le sue fonti avrebbero dilatato il numero dei soldati? Forse per sottolineare l’importanza della missione. Infatti Siwa non era un’oasi qualsiasi: oggi nota soprattutto per i suoi ottimi datteri, allora lo era per un tempio, sede di un ora-
Un armamento troppo pesante
C
ome era equipaggiata l’armata di Cambise? Possiamo ricostruirlo con buona approssimazione grazie ai rilievi che decorano le rovine di Persepoli e Susa (Iran) e alla descrizione, tramandata da Erodoto, della spedizione di re Serse, che nel 480 a.C. (quindi pochi decenni dopo l’invasione dell’Egitto) affrontò i Greci alle Termopili. I soldati non avevano elmi, ma solo la “tiara” (un copri-
capo leggero e floscio, simile al berretto dei rivoluzionari francesi) e usavano scudi di vimini intrecciati, trasportabili senza fatica. In compenso erano appesantiti da corazze metalliche a squama di pesce e da un abbondante corredo di armi personali (lance, spade e soprattutto archi ed enormi faretre colme di frecce) che certo non facilitava le marce sulla sabbia. Per i bagagli collettivi, poi, l’esercito persiano
possedeva ottimi cavalli, poco adatti però al Sahara. Inadeguati. Tirate le somme, l’armata non era affatto un Afrikakorps a misura di deserto, anche perché in parte formata da soldati di etnie alleate che spesso avevano equipaggiamenti anche più pesanti dei Persiani: gli Assiri, per esempio, usavano elmi di bronzo, che sotto il sole cocente diventavano veri strumenti di auto-tortura.
colo di Amon, massimo dio egizio. A costruirlo era stato Amadi credere che i suoi uomini potessero imitare i carovanieri losi (579-526 a.C.), padre di Psammetico III, il faraone che regnacali, che del deserto conoscevano tutti i segreti. va al momento dell’invasione. Il racconto avrebbe potuto fermarsi qui. Ma nel 1996 due arSacrilegio. Ebbene: l’obiettivo di Cambise non era occupare cheologi di Varese, i fratelli Angelo e Alfredo Castiglioni, e un gel’Egitto per compiere qualche razzia di datteri, ma sottomettere ologo egiziano, Ali Al-Barakat, hanno trovato per la prima volta il Paese politicamente e culturalmente. Il sogno persiano era un ai margini del Great sand sea alcune punte di freccia, un pugnamondo globalizzato: quindi i simboli dell’identità nazionale dole, un bracciale, degli orecchini e un finimento per cavalli di orivevano sparire. Il primo a farne le spese fu Psammetico, costretgine persiana. I reperti erano nei pressi di una grotta, aperta in to a bere sangue di toro avvelenato. Seguì Amasi, la cui salma fu una falesia ai margini di una conca sabbiosa, in località Bahrein, esumata, flagellata e bruciata. L’ultimo fu Api, il toro sacro degli cioè a poco più di 100 km da Siwa. Probabilmente i soldati, sorEgizi, pugnalato in pubblico in un sadico rito blasfepresi dalla tempesta di sabbia, cercarono rifugio nelmo. In quel quadro, dopo Amasi si doveva bruciala grotta, ma inutilmente. Sulla nazionalità dei mire anche il tempio di Siwa, per spegnere la voce del litari non c’è dubbio: il finimento è identico a quelli dio nazionale. Proprio con questo obiettivo Cambiraffigurati sui rilievi di Persepoli (la capitale persiaI km di ampiezza se inviò i suoi soldati. Che forse non erano 50mila: na, oggi in Iran) e le frecce sono uguali ad altre reda nord a sud del Great sand sea dove secondo Erodoto si trattava di “un corpo scelto” (oggi cuperate a Pelusio, dove Cambise sconfisse l’esercisarebbe scomparsa li chiameremmo marines o parà) che prese la scorto di Psammetico III. l’armata persiana. ciatoia del deserto per risparmiare tempo. Dubbi sul percorso. Mistero risolto, dunCambise non lo sapeva, ma quella scorciatoia, que? No, perché Bahrein (un’oasi abbandonata, del tutto priva di pozzi, era ad alto rischio. Gli esperti calcolano in prossimità di due laghi salati che si aprono fra le dune) è che una colonna di 20mila uomini (cifra prudenziale) avrebbe del tutto fuori rotta rispetto all’itinerario indicato da Erodoto. bisogno di almeno 40mila litri d’acqua per ogni giorno di marDunque le ipotesi sono due: o Erodoto fu impreciso e l’armata cia e non potrebbe percorrere più di 30 km al giorno. Ora, la di Cambise seguì in realtà tutt’altra strada; oppure la pattuglia distanza Kharga-Siwa è di 640 km in linea d’aria (circa 900 redella grotta di Bahrein apparteneva a spedizioni militari sucali); per coprirla senza far scalo a Farafra, i Persiani avrebbero cessive; infatti, i Persiani tornarono altre volte in Egitto, con dovuto portare con sé 1.200.000 litri d’acqua, pari a 480 autoSerse I e con Artaserse III. botti della Forestale. Se le cose stanno così, l’armata di Cambise, “scomparsa” per Eppure, sempre secondo gli esperti, la traversata, benché l’archeologia ufficiale, potrebbe non essere affatto tale per i estrema, in teoria non sarebbe impossibile: una spedizione itatombaroli delle oasi. Non ci sarebbe da stupirsi se un domani liana nel 1982 ha ripercorso le ipotetiche orme dell’armata di le armi persiane, che tanti hanno cercato fra le barkane, ricomCambise per localizzare tra le dune vari alamat, i cippi di pieparissero in qualche collezione privata in Europa o in America. tre sovrapposte con cui i nomadi sahariani segnano la direzioÈ solo un’ipotesi, intendiamoci: sotto il sole del Sahara è facine da seguire. Quei segnavia provano che in un tempo imprele prendere alamat per piramidi, variante egiziana del nostro adagio su lucciole e lanterne. d cisato c’era davvero gente che attraversava il Great sand sea, Nino Gorio pur senza autobotti. Forse l’errore di Cambise fu “solo” quello
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PARE CHE IN QUESTO DESERTO L’ARMATA MACEDONE PATÌ PIÙ SOFFERENZE CHE IN ANNI DI BATTAGLIE
LA LUNGA MARCIA
DI ALESSANDRO MAGNO
GESTO NOBILE
A
lessandro Magno non è stato solo un grande condottiero, ma anche un esploratore di vaglia, probabilmente il primo ad aprire delle vie di comunicazione tra l’Occidente e l’Estremo Oriente. Questo almeno fu uno degli obiettivi che nel 325 a.C. si propose nel tornare a Babilonia dopo la sua campagna indiana, dividendo la sua armata in tre tronconi; quello guidato dallo stesso re, composto da 15.000 soldati, ma anche da non combattenti, donne e bambini, aveva il compito di procedere verso ovest lungo la Gedrosia, l’attuale Makran, sotto il Belucistan, per scavare pozzi e allestire scali per i rifornimenti 24
NATIONAL GEOGRAPHIC CREATIVE
Alessandro Magno di ritorno dall’India, nel deserto della Gedrosia, rinuncia all’acqua per patire gli stessi stenti della sua armata. Aveva attraversato il deserto (quello della Sogdiana) anche all’andata, tre anni prima.
favorendo le soste della flotta di Nearco, incaricata di esplorare i bracci dell’Indo. Ottenuta la resa delle popolazioni locali, Alessandro poté dedicarsi alla logistica per attraversare il deserto che lo attendeva. Il conquistatore macedone non trascurò nulla, dotando la sua colonna di cospicue vettovaglie fatte inviare dai satrapi centroasiatici e allestendo una lunga teoria di carri per il trasporto di acqua dolce. Eppure, lo storico Arriano afferma che “neppure l’insieme delle sofferenze del suo esercito in Asia può essere paragonato alle pene sofferte in questa zona”. Fu il primo. Si disse che Alessandro, amante delle sfide estreme, intendesse affrontare il deserto solo perché aveva
sentito dire che nessuno, prima di lui, se l’era cavata, tranne la regina assira Semiramide, in fuga dagli Indiani, che ne era uscita con soli 20 superstiti del suo esercito, e Ciro, figlio di Cambise, sopravvissuto con 7 soldati. Ma lungo la marcia Alessandro si trovò davanti a un ostacolo di cui nessuno lo aveva informato: la catena del Talai. Per aggirarla, virò verso l’interno, allontanandosi dalla costa e finendo nel cuore del deserto, con un caldo asfissiante e in un territorio senza risorse. I suoi uomini avrebbero dovuto percorrere 300 chilometri alla cieca, prima di raggiungere di nuovo il mare. I primi a morire furono gli animali da soma, sterminati dal-
GEDROSIA 325 A.C.
NIA
Alessandria della Carmania
Hormozeia (Hormuz)
Alor
IMPERO MACEDONE
AB
IA
Alessandria Rhambacia (Las Bela)
Pura (Iranshahr)
IA IND
GEDROSIA Gwadar
AR
Alessandria sull’Indo
Pasni
Mar Arabico
la sete, dalla sabbia infuocata e dal caldo, dalle dune che li inghiottivano come sabbie mobili, e dagli stessi uomini, che li uccidevano di nascosto per cibarsene. Di conseguenza, iniziarono presto a morire anche gli esseri umani, per lo più abbandonati lungo la strada perché non c’erano più bestie per tirare i carri su cui trasportare feriti e malati; altri, stremati dalle lunghe marce notturne, cadevano in preda al sonno e soffocavano nella sabbia. Ma si perdeva la vita anche davanti a una sorgente d’acqua: in una circostanza, donne e ragazzi affogarono lungo la sponda di un torrente a causa di una improvvisa piena, e in molte occasioni alcuni bevvero fino a star male o a morirne; Alessandro, che procedeva a piedi per condividere le sofferenze dei suoi subalterni, prese l’abitudine di fare accampare gli uomini a grande distanza dalle sorgenti, per evitare che vi accorressero tutti insieme e intorbidassero l’acqua o si danneggiassero a vicenda. Odissea. Una volta a Pasni, sul mare, la colonna si era lasciata dietro migliaia di morti per gli stenti subiti, soprattutto tra i civili, ma la sua odissea non si era ancora conclusa: i Macedoni avrebbero dovuto percorrere altri 650 km prima di ricongiungersi, a Galashkird, con l’armata principale, condotta da Cratero, e di riunirsi sullo Stretto di Hormuz con la flotta guidata da Nearco. d Andrea Frediani
Cocala Porto di Alexandrou Limen (Karachi)
Pattala
A
l termine della campagna indiana, Alessandro risale il corso del fiume Indo fino a Pattala, dove divide l’esercito in due: la flotta, condotta da Nearco, deve esplorare il delta del fiume e le sponde sud dell’Asia fino allo Stretto di Ormuz e al Golfo Persico, mentre il re conduce lungo la costa una colonna di supporto alla flotta, con 15.000 soldati, oltre ai civili, per scavare pozzi e allestire scali per i rifornimenti a Nearco. Un terzo troncone, il grosso dell’esercito, ha lasciato il sovrano all’altezza di Alessandria sull’Indo e procede attraverso l’Asia Centrale al comando di Cratero. Arduo cammino. La catena dei Monti Talai costringe Alessandro a deviare il suo cammino verso l’interno, facendolo finire in pieno deserto della Gedrosia (oggi Makran), che deve percorrere per 300 km, prima di riuscire a raggiungere di nuovo il mare all’altezza di Pasni. Dopo di allora la colonna, ormai decimata, prosegue di nuovo verso l’interno in direzione di Persepoli, ricongiungendosi a Cratero all’altezza di Alessandria Carmania (Galashkird).
G. RAVA (2)
MA
Ind o
CAR
Percorso di Alessandro via terra Percorso di Alessandro via fiume Percorso della flotta di Nearco Città fondate da Alessandro Città asiatiche
PEZETERI MACEDONI
I soldati della falange di Alessandro (pezeteri, o compagni a piedi) con la panoplia (equipaggiamento): schinieri (gambali), lance (a sin. quella lunga, la sarissa), lo scudo rotondo e l’elmo frigio (indosso all’oplita di sinistra).
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LA GUERRA NEL DESERTO CARRE 53 A.C.
PER L’A MBIZIONE DI UN GENERALE L’URBE ANDÒ INCONTRO ALLA DISFATTA TRA LE LANDE ARIDE DELL’ANATOLIA
GIORNO INFAUSTO
©RAVA/LEEMAGE
I CATAFRATTI
I Romani a Carre (53 a.C., sul confine tra l’attuale Turchia e la Siria), bersagliati dalle frecce dei Parti e annientati dai loro catafratti. In alto a destra, il capo dei Parti Surenas.
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ALAMY
Q
uesta storia ha una sola protagonista: la sete. La sete d’oro, che spinge Marco Licinio Crasso ad affrontare il deserto siriano con la sua armata, a caccia dei tesori mediorientali. Eppure l’impresa sembra sciagurata già dall’inizio: un tribuno della plebe, tale Capitone, ha sobillato i Romani e invocato su Crasso tutte le maledizioni possibili. Ma questo non dissuade il triumviro dal lasciare l’Urbe alle idi di novembre del 55 a.C. L’aggressione all’Impero dei Parti si rivelerà uno dei più grandi disastri militari della storia romana. E darà vita a una delle leggende più bizzarre, quella della legione scomparsa. Nel vuoto. Le caligae macinano distese di terra e sassi cotte dal sole a picco. La monotona, infinita marcia dei legionari si snoda in una regione che sembra disabitata, senza rilievi, alberi e acqua, una lastra calcarea abbacinante. Eppure il triumviro Marco Licinio Crasso ha deciso di giocarsi tutte le sue milizie in un inseguimento assurdo nel paesaggio lunare del deserto siriano, lontano dal corso dell’Eufrate, il confine tra le terre di Roma e quelle del nemico, che ha varcato presso Zeugma. Si è allontanato dal fiume in direzione est, seguendo la traccia segnalatagli da un traditore, anche se non lo sa. Davanti ha solo il deserto, vasto, vuoto. Gli ufficiali si lamentano, i rifornimenti cominciano a scarseggiare. Più di qualcuno se lo chiede. Perché sono lì? Per la gloria. Lo sterminato Impero partico non aveva fatto nulla per provocare i Romani – anzi vigeva un trattato di pace tra i due Stati – ma sembrava una preda facile quando era arrivato in Siria. C’era in atto una guerra civile tra i due figli del re Fraate, Mitridate e Orode II, anche se il vero potere militare era detenuto da Surenas, alleato del secondo: questi era un trentenne incipriato ed effeminato che girava sempre con duecento carri stipati di concubine al seguito. Crasso non lo considerava un avversario temibile. Ma ormai, deciso l’attacco, deve inseguirlo e sconfiggerlo se vuole mettere le mani su quell’angolo di Persia e le sue ricche città da spolpare. Forse dovrebbe aspettare ancora, magari la stagione invernale. Non può, non vuole. Ha lasciato l’Urbe alla testa di un esercito per aprire un nuovo fronte di guerra a Oriente e guadagnarsi una gloria pari a quella degli altri triumviri Giulio Cesare e Pompeo Magno. Vede davanti a sé quelle ricchezze che non gli bastano mai e quei successi che ancora gli mancano. Forse nell’attesa della battaglia ha trascurato di addestrare i suoi uomini ad affrontare i temibili catafratti e i micidiali arcieri a cavallo partici, sul cui valore in battaglia gli giungono via via notizie sempre più sconfortanti; probabilmente non ha dato troppo peso alla vittoria definitiva di Orode sul fratello, che lo mette di fronte a un regno nuovamente coeso; di certo ha ignorato il suggerimento del suo alleato, il sovrano armeno Artavasde, che gli ha consigliato di passare attraverso le montagne del suo Paese per assicurarsi i rifornimenti e rendere la vita difficile alla cavalleria nemica. Si dice che fossero i sopravvissuti Romani Anzi, ha deciso di varcare l’Eufrate per puntare diretalla sconfitta subita tamente su Seleucia con gli uomini che ha a disposidai Parti. zione: 28.000 legionari, 4.000 fanti leggeri e 400 cavalieri, oltre ai contingenti alleati. E questo lo ha costretto a percorrere la carovaniera nel punto più ampio della spianata, una “distesa oceanica di dune desertiche”, come scrive Plutarco Deve mostrarsi ottimista Crasso, anche se il gran calore fa ribollire la pelle sotto il cuoio e il ferro dell’equipaggiamento, minando ancor più il morale delle truppe. Ma lui, sordo alle fatiche e alle suppliche, apostrofa i suoi: “Credevate di trovare in questi
500
luoghi i giardini della Campania?”. Comunque, poco importa, finalmente Surenas è in vista: è il 9 giugno del 53 a.C. Quello che Crasso ignora è che sta per cadere nell’imboscata. Il suo umore cambia appena vede tornare decimata la sua avanguardia dopo un primo scontro col nemico, forte di 11.000 cavalieri pesanti e leggeri, appostati sul fiume Belik, tra Carre, l’odierna Harran (Turchia), e Icte. Il proconsole passa dall’esaltazione al panico, limitandosi a disporre l’esercito in agmen quadratum per fronteggiare l’assalto da qualunque direzione provenga: la formazione, con 12 coorti per ogni lato, ha la cavalleria a presidio di ogni coorte e la fanteria leggera in avanguardia. Crasso assume il comando del centro, affidando la sinistra, lungo il Belik, a Cassio Longino (il futuro cesaricida) e la destra, verso il deserto, al figlio Publio. Poi, a mezzogiorno rifiuta il consiglio dei propri ufficiali di far riposare e dissetare gli uomini sulle rive del fiume e porta l’esercito a contatto visivo del nemico. Ma quando i Romani giungono al cospetto delle forze di Surenas, vedono solo pochi contingenti che il generale partico fa affiorare oltre la sommità dei rilievi, dove ha appostato la sua armata, nascondendo con mantelli e pellame il luccichio delle armi. Dietro le dune. La gioia di Crasso e dei soldati per quella che si prospettava come una facile vittoria dura un attimo; in pochi istanti i tamburi nemici risuonano nella vallata e le forze di Surenas si palesano al completo, poi la cavalleria pesante dei catafratti si lancia alla carica, accompagnata dal tiro degli arcieri. I Romani si vedono circondare dai cavalieri nemici, che si aprono a ventaglio investendo anche le ali, e bersagliare dalle frecce che gli arcieri scagliano per poi tornare indietro ogni volta, sottraendosi al corpo a corpo. Crasso decide di fronteggiare la prima minaccia ordinando al figlio un contrattacco sulla destra, mentre per la seconda si limita a sperare che i Parti esauriscano le frecce; ma non sa che, dieAgmen quadratum Tito Livio menziona questo ordine di marcia dei Romani, che posizionavano in testa e in coda le due legioni consolari (la Legio I e II), ai lati le ali dei socii e al centro gli impedimenta (cioè le salmerie, viveri, munizioni, armi di riserva, bagagli) delle quattro unità menzionate.
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Andrea Frediani
SPERANZE PERDUTE
La morte di Marco Licinio Crasso a Carre (era nato nel 115 a.C.). Suo figlio Publio, già ferito, e altri generali si diedero la morte o si fecero uccidere dai commilitoni. Sopra a sinistra, una fase della battaglia.
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CARRE FU IL 3° DISASTRO DELLA STORIA DI ROMA DOPO ARAUSIO (100.000 CADUTI) E CANNE (80.000)
tro le dune, Surenas ha nascosto una carovana di cammelli con immense riserve di dardi, e il tiro nemico continua ininterrotto. Il giovane Publio finisce per staccarsi dallo schieramento con i propri Galli ingaggiando una mischia con i catafratti, che alzano intenzionalmente un polverone per isolare i nemici. I Celti dimostrano un grande valore, squarciando il ventre dei cavalli partici o aggredendo i cavalieri per sbalzarli di sella; ma alla fine Crasso si vede esibire davanti agli occhi la testa del figlio infissa su un palo. Pur devastato dal dolore, il comandante esorta gli uomini a continuare; ma quando a sera i nemici si ritirano, come loro costume, se ne rimane in disparte afflitto, mentre gli ufficiali superstiti discutono sul da farsi. Decidono per la fuga, abbandonando i feriti, che se ne accorgono e prendono a urlare. Così i commilitoni finiscono nelle mani dei Parti, impegnati nelle operazioni di rastrellamento. Crasso è tra quanti riescono a riparare a Carre. Surenas non esita a schierare i suoi uomini davanti alle mura della città. Nella notte i Romani si risolvono a scappare di nuovo: Crasso con quattro coorti finisce per perdersi, e solo all’alba raggiunge le colline, al riparo. Surenas tenta allora l’approccio diplomatico, proponendo al proconsole di scendere a valle per trattare. I soldati ne hanno abbastanza e lo costringono ad accettare la proposta. Quello che accade dopo non è stato mai chiarito, perché tutti i Romani che sono insieme al triumviro muoiono con lui in una colluttazione. Anche i legionari sulle alture sono catturati, portando il bilancio della disastrosa spedizione a 20.000 morti e 10.000 prigionieri. Le loro teste sfilano sui fasci littori dei cammelli, nella parodia di un trionfo che Surenas allestisce per le vie di Seleucia, mentre la testa di Crasso è esposta nel banchetto. La leggenda. Ma che ne è dei superstiti? Il destino degli uomini finiti nelle mani dei Parti a Carre ha dato luogo a leggende sulla fantomatica legione scomparsa, su colonie di occidentali in Oriente o in Estremo Oriente, tanto che negli anni ’50 del XX secolo un professore di Oxford si è spinto a ipotizzare che i legionari avessero combattuto come mercenari in Turkmenistan contro gli Unni, per poi finire in Cina nell’Impero Han. E poi si sarebbero insediati nel deserto del Gobi i cui abitanti, ancor oggi, presenterebbero tratti caucasici. d
Carre
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2 LA TATTICA
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CARRE 53 A.C.
A sinistra, si deve agli arcieri a cavallo partici la vittoria di Carre. Il loro arco ricurvo e composito, di corno, legno e tendine era micidiale, ma l’arma vincente era la tattica: si lanciavano sul nemico subissandolo di frecce e provocando il suo attacco, poi si ritiravano velocemente cercando di portare gli inseguitori verso i catafratti, che li avrebbero caricati contrattaccando.
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I cavalieri parti caricano il quadrato romano in colonna, cercando di romperne i ranghi, ma le legioni mantengono serrate le formazioni. Allora i Parti ripiegano, inducendo i Romani al contrattacco e tenendoli a distanza con raffiche di frecce. Publio Crasso, al comando dell’ala, si lancia con i suoi Galli contro i catafratti, che attuano un ripiegamento tattico. Quando Publio è ormai lontano dal corpo principale dei Romani, i Parti arrestano il loro ripiegamento e contrattaccano, dando luogo a una mischia. Publio è tagliato fuori dalle sue linee. Ormai circondato, si suicida per non cadere in mano nemica. Il corpo romano principale sostiene a stento le cariche nemiche e le raffiche di dardi dei cavalieri parti, ripiegando e limitando i danni finché non cala il buio.
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SAPERNE DI PIÙ
J. SHUMATE
Rome’s enemies five: the desert frontier, D. Nicolle (London, 1998). Le grandi battaglie di Roma antica, Andrea Frediani (Newton Compton). Dromedarii in the Roman army, E. Dabrowa (University of Exeter Press, 1991).
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I ROMANI AVEVANO I DROMEDARII, SPECIALI UNITÀ DI FRONTIERA MONTATE SULLE “NAVI DEL DESERTO”
TRUPPE CAMMELLATE
L’AFRIKAKORPS DELL’URBE
C
AA/MONDADORI PORTFOLIO
on le loro legioni lanciate alla conquista dei regni arabi del Vicino Oriente, i Romani impararono presto la grande importanza che in quelle regioni avevano il cammello e il dromedario. In quelle distese desertiche comparvero presto le prime unità cammellate dell’esercito romano: i Dromedarii, truppe di frontiera altamente specializzate e organizzate, che monitoravano il fronte orientale contro il nemico persiano, e pattugliavano le frontiere del deserto, dalla Mauretania fino alla Siria. Non era un lavoro da poco. Più della metà delle frontiere meridionali e orientali di Roma, a partire dall’epoca di Augusto, confinava con regioni desertiche. L’impiego di queste unità speciali di Dromedarii era pertanto una conseguenza logica. Furono soprattutto gli scontri con i Seleucidi prima e con i Parti dopo a indurre i Romani a utilizzare tali truppe. Se però consideriamo la vastità di questi territori (Nordafrica, Egitto, Siria e Gior-
dania), rimaniamo stupefatti nel constatare che il numero di questi Dromedarii fu quasi sempre relativamente piccolo. Le analisi delle lapidi e delle iscrizioni stimerebbero a circa un migliaio gli uomini appartenenti a questi corpi, almeno durante la metà del II secolo d.C. Le unità. Fu durante questo periodo che abbiamo menzione della prima unità effettiva di Dromedarii dell’esercito imperiale: l’Ala I Ulpia Dromedariorum Palmyrenorum, creata sotto l’imperatore Traiano, probabilmente poco prima dell’offensiva contro l’Arabia Petrea. Il nome la dice lunga perché i Palmireni erano gli Arabi che fornivano ai Romani le loro migliori truppe cammellate. Ma verosimilmente qualche unità esisteva già in precedenza, perlomeno fornita dagli alleati Nabatei e Palmireni, in quanto, prima e dopo, i Dromedarii giocarono un ruolo importante nella sicurezza esterna e interna dell’impero. Basti pensare che un loro distaccamento era ad-
dirittura incluso nella guardia personale del governatore dell’Arabia, residente nel palazzo di Bostra. Gli eserciti romani che si muovevano verso Oriente facevano ampio uso di cammelli che servivano per il trasporto delle armi e dei vettovagliamenti: ma i nostri Dromedarii erano vere e proprie unità di combattenti. Inquadrate nelle unità ausiliarie dell’esercito imperiale, specialmente nelle cohortes equitatae, i Dromedarii, prevalentemente reclutati fra gli abitanti delle province orientali, formavano una turma a sé, comandata da un ufficiale chiamato sesquiplicarius. Truppe di questo genere vennero usate dai Romani fino a che esistette una frontiera del deserto, cioè fino alle conquiste arabe del settimo secolo. L’equipaggiamento. Se uno si aspetta di vedere i Dromedarii vestiti da tradizionali legionari romani che montano goffamente un cammello, si sbaglia di grosso. Anziché essere influenzati dal costume militare romano, i popoli che fornirono all’impero le migliori truppe cammellate vestivano all’orientale, con ampie tuniche manicate e decorate e pantaloni a sbuffo di tipo persiano. Le stele di Palmira, Petra e delle altre località sono chiare al riguardo. Gli ufficiali usavano splendidi elmi di fattura ellenica. d Raffaele D’Amato
Truppe di Dromedarii sono state rinvenute nei bassorilievi delle tombe di Palmira (Siria).
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La lorica, di tipo grecoromano, era talvolta in cuoio, con il vantaggio di essere più leggera e di permettere una maggiore libertà di movimento. Era portata su un giustacuore (subarmalis) dotato di frange pendenti a protezione delle spalle e del basso ventre, il tutto indossato sopra una tunica di lana o lino, a seconda delle stagioni.
ELMO (cassis) Era di tipologia pseudo-attica.
LANCIA (hasta)
Lunga 1,75 m, era accompagnata da una daga e da un piccolo scudo rotondo.
SPADA (spatha) Misurava 90 cm e veniva usata dal dorso del cammello.
FARETRA con
frecce (gorytus).
BORRACCIA
per l’uomo e una sacca d’acqua per il cammello erano strumenti indispensabili per la sopravvivenza nelle aree desertiche.
SELLA Non solo l’uomo, ma
G. ALBERTINI
anche la bestia aveva il suo personale equipaggiamento, usualmente formato da un’alta sella legata sotto la pancia e da una coperta variopinta distesa sul dorso.
LA DISFATTA DEI CROCIATI A OPERA DEL SALADINO AVVENNE SUI CORNI DI HATTIN, TRA I CAMPI DI STOPPIE
SCONFITTI SOTTO
UN SOLE BRUCIANTE
L’
Alta Galilea alla fine del XII secolo era controllata dai cavalieri d’Occidente che quasi cent’anni prima l’avevano conquistata durante la Prima crociata, fondando il regno di Gerusalemme. Ma nell’estate del 1187 tra cristiani e musulmani si stava preparando la battaglia che avrebbe deciso le sorti della Terra Santa. Il re di Gerusalemme Guido di Lusignano e il Saladino, il Sultano Salah-adDin, si trovarono a scontrarsi sul terreno
CAVALLERIA
G. ALBERTINI (3)
Cavaliere crociato in Outremer (Oltremare, i domini dei crociati in Siria e Palestina fra XI secolo e inizi del XIV). La cavalleria pesante franca armata di usbergo, grande scudo “normanno”, e lancia era il fulcro delle armate crociate.
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Era Il prezzo in dinàr assegnato dal Saladino per ogni templare prigioniero condotto al suo cospetto dopo la vittoria di Hattin. Secondo una ricostruzione, ne furono decapitati a centinaia.
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roccioso dell’Alta Galilea, tra l’erba secca e i cespugli arsi da un’estate infuocata. Allo stremo. Era un’impresa spostare un esercito e combattere a quelle latitudini, in luglio, procurare cibo e acqua per migliaia di persone e un numero maggiore di animali, cavalli da guerra, palafreni e cammelli. Nelle ore più calde della giornata i crociati giunsero sull’altopiano di Hattin. La priorità dell’armata di Guido era di fare gli ultimi 15 km che la separavano dal lago prima del tramonto; ma il giorno era ancora lungo, i cavalli crollavano sfiniti sotto le pesanti armature. Guido decise per la sosta. La pozza di Lubya era secca, come le gole dei crociati, e “non ci fu né uomo, né cavallo, né bestia che bevve in tutta la notte”. La morsa dei Saraceni impediva a chiunque di lasciare il campo per avvicinarsi al lago di Tiberiade. Migliaia di arcieri musulmani si disposero per la mattina successiva: 400 carichi di dardi furono distribuiti quella notte. Arrivò l’alba del 4 luglio. Quel giorno i Franchi festeggiavano Saint Martin le bouillant (il bollente), il giorno più caldo dell’anno. I cavalieri erano già montati con le loro armi, che pesavano il doppio del giorno prima, quando i Muttawiyah, i soldati volontari della guerra santa, appiccarono il fuoco alle sterpaglie che coprivano la collina a nord dell’altopiano. Il vento portò il fumo sul campo cristiano. I fanti, pressati dalle fiamme, si spinsero a migliaia verso l’acqua del lago. I musulmani erano pronti: le fanterie siriane e quelle egiziane respinsero la pressione dei cristiani e li costrinsero verso un poggio. In quel modo i lati delle formazioni rimanevano scoperti aprendo varchi alla cavalleria pesante saracena, che finiva i cristiani a centinaia. Presi dal panico, questi retrocedevano disorientati o si gettavano ai piedi dei nemici chiedendo pietà. L’ultima carica cristiana fu neutralizzata dai nemici che si aprirono a ventaglio. Tutto ormai era perduto. d Giorgio Albertini
0
Kafr Hattin
Hattin
FU G A DI R A I MONDO DI T RI P OLI
Truppe crociate Truppe musulmane Grandi sorgenti d’acqua
6
Guido da Lusignano
d i Ti b e r i a d e
Magdala
Strade principali
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Strade secondarie
M. Turan Ayn Tur’an
Corni di Hattin
Baliano da Ibelin Meskenah
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Tiberiade
Raimondo di Tripoli
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Lubya
3 Mashhad
Hattin
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Lago
Taki ed-Din
Piccole sorgenti d’acqua
C A MPO C R OCIATO D I SEFORI A
2.5 km
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Saladino Muzaffar ad-din Kukburi Cafarsset C A MP O I SL A MI CO A SE NA BR A
Senabra
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GEOGRAFICA
no
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1
M. Tabor
HATTIN 1187
E
OSPITALIERI
Ruggero da Moulins, Gran Maestro dei Cavalieri dell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni, con uno scudiero. Indossano il tradizionale abito monastico nero.
CAVALLERIA SARACENA
Turcomanno della cavalleria leggera del Saladino. Era vestito con la semplicità di un pastore delle steppe e doveva tutta la sua forza al micidiale arco composto.
ra il 1° di luglio quando il Saladino guadò il Giordano (1) e pose il campo poco a ovest di Senabra. Aveva diviso l’esercito in tre tronconi, affidando l’ala destra a Taki ed-Din, quella sinistra all’emiro Muzaffar ad-din Kukburi e tenendo per sé il centro, il cuore dell’armata. All’alba del giorno successivo il Saladino si diresse verso Tiberiade e la mise sotto assedio (2). Ricevuta la notizia, prima che sorgesse il sole del 3 luglio, l’esercito crociato si mosse dal campo di Seforia (3) in direzione del lago di Tiberiade nel tentativo di liberare la contessa Eschiva, moglie del conte Raimondo III, dalla morsa del Saladino. Raimondo stesso guidava l’avanguardia, re Guido il centro e Baliano da Ibelin la retroguardia con gli Ordini militari. Accerchiati. Dopo una giornata di marcia, sempre bersagliati dalle cavallerie islamiche, i crociati stremati dall’arsura si accamparono sull’altopiano di Hattin (4). La mattina del 4 luglio l’esercito del Saladino strinse l’accerchiamento dell’esercito crociato (5). Raimondo caricò con la sua avanguardia le cavallerie nemiche e riuscì ad aprirsi un varco per una ritirata (6); il resto dell’esercito, comandato dal re di Gerusalemme, rimase alla mercé dei Saraceni e capitolò entro il pomeriggio.
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FOCUS WARS
4 NUMERI
LA GUERRA NEL DESERTO ALCAZARQUIVIR 1578
FU UNA BATTAGLIA NEL DESERTO MAROCCHINO A TOGLIERE PER SEMPRE DALLA RIBALTA LA SUPERPOTENZA PORTOGHESE
LA SFIDA DEI TRE
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zionali prospettive di sviluppo commerciale nel lungo periodo. L’esercito che Sebastiano riuscì a raccogliere era ben motivato e abbastanza numeroso per l’epoca, anche se in gran parte poco addestrato e privo di esperienza bellica; l’impresa era dunque rischiosa – come qualsiasi offensiva in un altro continente – ma una felice conclusione era possibile, se la campagna fosse stata condotta con avvedutezza e prudenza. Purtroppo Sebastiano I volle assumersi tutte le responsabilità militari senza averne le capacità: la sua azione di comando fu disastrosa e i portoghesi giunsero allo scontro decisivo contro un nemico molto superiore di numero e nelle peggiori condizioni immaginabili. In marcia verso la morte. La flotta portoghese aveva fatto vela da Lisbona il 24 giugno 1578; sulle navi erano stati imbarcati circa 16.000 combattenti, tra cui 2.000 volontari spagnoli e 4.000 mercenari, 36 cannoni con i loro artiglieri e alcune migliaia di civili al seguito. La preparazione dell’impresa era durata quasi due anni: a Fez, il sultano Abd al-Malik era dunque prontissimo a ricevere gli invasori, il cui primo obiettivo sarebbe stato con ogni verosimiglianza la città costiera di Larache, alla foce del fiume Loukkos, già colonia portoghese e uno dei principali porti atlantici del Marocco. Il 12 luglio, dopo aver fatto sosta a Tangeri per imbarcare l’alleato Abdallah Mohammed con 500 cavalleggeri, la flotta giunse ad Arzila: la mancanza d’acqua a bordo delle navi rendeva impossibile puntare direttamente su Larache e per due decisive settimane l’esercito rimase accampato fuori dalla cittadina in attesa di rifornimenti, mentre Abd al-Malik concentrava le proprie forze a Fez e si preparava ad avanzare a sua volta verso la costa. Il 28 luglio Sebastiano decise di prendere l’iniziativa. Contro il consiglio dei suoi ufficiali più esperti, invece di reimbarcarsi per Larache ordinò BRIDGEMANART/MONDADORI PORTFOLIO
“L
a zona che raggiungemmo era coperta di cadaveri e carcasse di cavalli al punto che era estremamente difficile attraversarla restando in sella. In alcuni luoghi era stato versato tanto sangue che ancora mi arrivava alle caviglie; e ovunque si udivano grida e lamenti, i vivi giacevano sopra i morti e i morti sopra i feriti, tutti fatti a pezzi, Cristiani e Mori stretti in un abbraccio terribile, agonizzanti…”. Così un sopravvissuto dell’armata portoghese descrive il campo di battaglia di Alcazarquivir (nell’entroterra marocchino tra Larache e Fez, sulla sponda destra del fiume Loukkos), dove il 4 agosto 1578 era caduto il suo re assieme al fior fiore della nobiltà lusitana e a migliaia di soldati: una completa disfatta, oggi quasi del tutto dimenticata, ma che all’epoca colpì profondamente la cristianità intera e segnò il destino del Paese sconfitto, rimasto privo di difesa, invaso e annesso de facto alla Spagna da re Filippo II solo tre anni più tardi. Sovrano ambizioso. Al tempo stesso responsabile e vittima del disastro era stato Sebastiano I, dal 1557 re del Portogallo e dell’Algarve, che aveva seguito l’ispirazione del proprio zelo religioso organizzando una grande spedizione contro il sultano del Marocco, Abd alMalik, con l’obiettivo di recuperare le posizioni perdute dai portoghesi in Africa Settentrionale, allontanare la minaccia di un’alleanza tra Mori e Ottomani e aprire nuove possibilità per il commercio verso l’interno del continente africano. Sebastiano I è stato descritto dagli storici moderni come uno sconsiderato sognatore di gloria. In realtà il sovrano portoghese tentò di cogliere un’evidente occasione favorevole per riaffermare l’egemonia lusitana sulla costa atlantica del Marocco – era stato chiamato in aiuto dal sultano Abu Abdallah Mohammed II, deposto due anni prima dallo zio Abd al-Malik con il decisivo sostegno turco, e poteva contare dunque su un alleato locale – e perseguì una strategia tutt’altro che illogica, perché il successo avrebbe garantito al suo Paese ecce-
RE ALL’ARMA BIANCA
La morte di Sebastiano I (1554-1578), re del Portogallo, ad Alcazarquivir per mano della cavalleria marocchina. A sinistra, una preziosa scimitarra datata 1550 circa di manifattura lombarda, cesellata dal maestro Daniele Serravalle che si specializzò in queste armi esotiche.
MARY EVANS/SCALA
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Pare sia il numero dei susperstiti che riuscirono a ritornare a casa per raccontarla.
DEA/SCALA
PIANO DI BATTAGLIA
Sopra, l’unica raffigurazione a noi pervenuta della Battaglia di Alcazarquivir mostra l’accerchiamento dell’esercito portoghese (schierato a sinistra).
GIORGIO ALBERTINI (2)
ARMI E SOLDATI
Archibugiere portoghese armato di fucile a miccia e di striscia (spada a lama lunga atta a colpire di punta). Il corpo è difeso da un “giacco” trapuntato e il capo da un morrione a zuccotto.
Questa fu la Canne del deserto
L’
impossibilità per l’esercito di Sebastiano di ampliare il fronte in modo da sottrarsi al doppio accerchiamento, e l’incapacità di sfondare rapidamente il centro nemico e aprirsi una strada verso la base di Alcazarquivir, consentirono alle ali della cavalleria marocchina di completare la sua manovra avvolgente e comprimere i soldati cristiani in uno spazio ristretto, dove era preclusa ogni manovra ed era difficile persino utilizzare con efficacia le proprie armi. Analogia bellica. Come a Canne circa 1.800 anni prima, si venne così a
creare una “killing zone” lungo i margini della sacca, dove i portoghesi esposti al contatto con il nemico cercavano di resistere senza retrocedere, mentre alle loro spalle la massa dei compagni, disperati e ormai convinti di poter trovare scampo soltanto nella fuga, premeva disordinatamente per aprirsi una via d’uscita dalla trappola. Una volta persa coesione, il destino dell’intero esercito era segnato: nel momento in cui re Sebastiano si lanciava nell’ultima carica incontro alla morte, sul campo cominciava il massacro delle sue truppe.
BRIDGEMANART/MONDADORI PORTFOLIO
RARAMENTE C’ERA STATA UNA VITTORIA COSÌ NETTA, ORA IL PORTOGALLO NON ERA PIÙ TRA I GRANDI di prendere la strada del deserto, circa 55 km da percorrere nel calore feroce dell’estate africana: il suo scopo era chiaramente quello di arrivare prima possibile a una decisiva battaglia campale, non perseguire una strategia di ampliamento graduale del dominio sfruttando la superiorità marittima. Abd al-Malik non poteva chiedere di meglio. La sera del 3 agosto l’esercito di Sebastiano, sfiancato da una settimana di marcia rallentata all’estremo dai cavalleggeri nemici e dalle temperature che superavano i 40 gradi, pose il campo appena oltre il guado sul Mekhazen, in una pianura sassosa priva di ostacoli, senza protezione sui fianchi e con il fiume alle spalle. Di fronte ai portoghesi e ai loro alleati si preparavano alla battaglia circa 40.000 uomini, tra cui 27.000 cavalleggeri e almeno 6.000 archibugieri a piedi, appoggiati da 34 cannoni – tutte armi moderne ed efficienti, fornite con generosità dai mercanti inglesi e dalla regina Elisabetta, alleata del sultano del Marocco.
TRA ORIENTE E OCCIDENTE
Jinete marocchino: la cavalleria leggera nordafricana, i jinetes, armata di lunga lancia e di armi da getto, era l’elemento più mobile e moderno dell’esercito marocchino. In alto, un moschetto di fabbricazione francese (XVI secolo).
Morti lentamente. All’alba del 4 agosto la sola speranza rimasta a Sebastiano era quella di sconfiggere le forze marocchine e puntare sulla loro base logistica di Alcazarquivir, dove i portoghesi avrebbero trovato rifornimenti d’ogni genere. Lo schieramento di Abd al-Malik, con due forti ali di cavalleria e il centro lieSAPERNE DI PIÙ vemente arretrato, rendeva fin dall’iniStoria del Portogallo, José Hermano Saraiva (Bruno Mondadori). zio palese che il suo intendimento era Battle of Alcácer Quibir, Frederic quello di replicare la tattica di Annibale P. Miller, Agnes F. Vandome, John a Canne , realizzando un doppio avvolMcBrewster (Alphascript, in inglese). gimento delle forze nemiche, inferiori di numero e schierate senza protezione sui fianchi; Sebastiano decise di attaccare con risolutezza proprio al centro, nella speranza di travolgere la linea avversaria prima che l’accerchiamento potesse concludersi. Il re si mise alla testa della cavalleria e caricò tra le prime file, puntando verso lo stendardo che segnalava la tenda del sultano; purtroppo gli ordini dati al resto dell’esercito non erano chiari, e la sua azione, benché coronata da successo, non venne adeguatamente appoggiata dalle altre forze portoghesi, preoccupate dal dispiegamento della cavalleria nemica sulle ali. Dopo tre ore di lotta furibonda nel calore crescente dell’agosto africano, la resistenza marocchina si irrigidì, anche se il sultano – vecchio e malato – era già morto per lo sforzo di montare a cavallo e recarsi dove la situazione era più critica. Quando la cavalleria marocchina riuscì a serrare verso il centro, causando il panico tra le file cristiane, la situazione si fece disperata: senza più nessuna possibilità di rovesciare le sorti della battaglia, alcuni nobili portoghesi si strinsero attorno al re, implorandolo di consegnarsi al nemico e tentare così di porre fine al massacro. “Morrer sim, mas devagar” (moriamo pure, ma lentamente), si narra abbia risposto lui. Non gli era mai mancato il coraggio; comunque era ormai troppo tardi per farsi riconoscere e arrestare la furia dei vincitori. Sebastiano si gettò di nuovo tra i nemici che premevano da ogni parte e sparì nel fitto della mischia; il suo corpo non fu mai ritrovato, anche se in seguito circolarono leggende sul fatto che fosse sopravvissuto alla carneficina. In realtà l’esercito portoghese venne praticamente annientato: 8.000 morti e altrettanti prigionieri, il cui riscatto avrebbe finito di rovinare l’economia del Paese. Anche il sultano deposto Abdallah Mohammed II morì mentre cercava di guadare il Loukkos: così tutti e tre i sovrani che quella mattina erano scesi in campo per contendersi il dominio sul Marocco erano morti prima di notte. d
Gastone Breccia
Canne Combattuta nel 216 a.C. in Puglia, durante la Seconda guerra punica, dall’esercito cartaginese di Annibale, che accerchiò le superiori forze romane annientandole.
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LA GUERRA NEL DESERTO EL MOUNGAR 1903
OLTRE AL NEMICO
GETTY IMAGES
LA SETE
E
l Moungar. Solo un puntino, a segnare dei pozzi di un’acqua quasi imbevibile sulla mappa dell’Algeria, qualche centinaio di chilometri a sud di Orano. A ovest il labile confine con il Marocco, a est l’inospitale Grande Erg Occidentale, una delle più vaste distese di dune del Nordafrica. El Moungar non è che uno dei tanti luoghi sconosciuti e insignificanti dove sono passati i legionari francesi, soldati con sabbia e pietre per letto e il cielo come solo testimone delle loro azioni; e così sarebbe rimasto se lì non fosse avvenuto uno dei combattimenti che hanno contribuito a far nascere il mito della Legione straniera, che lo commemora ancora oggi come l’esempio più rappresentativo del proprio valore, dopo quello di Camerone . Un capitano, un tenente, dei legionari, una missione: la scorta a un convoglio; e un combattimento impari, su un terreno apocalittico, ecco i fattori che hanno costruito il mito. Camerone Nel villaggio di Camerone, in Messico, durante l’intervento francese nel Paese, il 30 aprile 1863 un distaccamento di 64 uomini della Legione straniera al comando del capitano Danjou fu attaccato da 2.000 patrioti messicani. I legionari rifiutarono d’arrendersi e furono decimati. Quel giorno di gloria e sacrificio è tutt’oggi ricordato come la festa del corpo.
Ai primi del ’900 l’ovest dell’Algeria (possedimento della Francia, in quegli anni in piena espansione coloniale) a ridosso del Marocco, dopo un periodo relativamente calmo era tornato critico. Il confine dell’estremo Sud-Oranese (questo il nome dell’area) non era ben delimitato e le tribù berbere vi scorrazzavano attaccando e razziando gli insediamenti algerini; per evitarlo l’Armée d’Afrique aveva nuovamente preso le armi e occupato militarmente la regione di Zousfana e le oasi limitrofe. Venivano creati vari posti fortificati, comunicanti tra loro con piste carovaniere, da cui le truppe si spostavano per il controllo del territorio. Nonostante questo, le tribù guerriere non si fermavano e compivano attacchi in continuazione, spesso anche contro le forze francesi di cui facevano parte pure i due reggimenti della Legione straniera. Sotto minaccia continua. Nel 1903 gli assalti e i colpi di mano, diventati sempre più frequenti, erano quasi giornalieri. Dal 17 al 20 agosto anche il forte di Taghit fu assediato da 4.000 guerrieri che però, scoordinati, non riuscirono a espugnarlo. Una situazione inquietante. Tanto più che per rifornire i vari insediamenti e forti dovevano essere mobilitate carovane di
A EL MOUNGAR I LEGIONARI SI DIFENDONO FINO ALLO STREMO DALLE TRIBÙ BERBERE, CHE AL LORO FIANCO HANNO UN TEMIBILE ALLEATO
IN MARCIA
Legionari durante una marcia di addestramento nel sud dell’Algeria. A sinistra, la bandiera della Legione straniera: in questo caso, però, si tratta del 1er Régiment étranger d’infanterie (1er REI), non del secondo (2e REI) che si batté a El Moungar. In basso, beduini della tribù Shaamba.
centinaia di cammelli; il rifornimento, quindi, era una questione vitale, ma anche un potenziale ricco bottino per i razziatori, così le carovane dovevano muoversi sotto scorta. Uno di quei convogli periodici verso Beni Abbes, formato da quasi 1.200 cammelli, era previsto per la fine di agosto, ma quanto accaduto a Taghit lo aveva fermato a El Morra. Visti gli eventi si era deciso di aumentarne la scorta con plotoni di spahis , reparti di tirailleurs e 2 compagnies montées della Legione. In quel periodo in ciascuno dei due reggimenti sono presenti delle compagnies montées (compagnie montate, su muletti, uno ogni 2 uomini) che si dimostrano una vera forza mobile con grande raggio di autonomia e velocità d’azione. Anche per non accavallare centinaia di animali agli scarsi pozzi durante il tragitto, la grande carovana venne divisa in tre scaglioni. Il primo, partito da El Morra per Zafrani nella sera del 31
Tirailleurs Il termine, nato in epoca napoleonica, indicava truppe di fanteria leggera che compivano schermaglie davanti alle colonne principali. In seguito passò a indicare i fanti reclutati nei territori coloniali francesi nel XIX e XX secolo.
SIERRA (2)
Spahis Erano le truppe scelte della cavalleria ottomana. Il nome passò poi a indicare le truppe indigene a cavallo arruolate dalle potenze coloniali.
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I LEGIONARI CREANO BARRIERE CON ZAINI E SACCHI, MA NELL’IMBOSCATA CADE METÀ DELLA 2A COMPAGNIA MONTATA agosto, raggiunse Taghit senza incidenti. Del secondo scaglione, al comando del capitano Vauchez del 2° REI della Légion, facevano parte 2 guide, 20 spahis e metà della 22a compagnia montata con 111 legionari (divisi in due sezioni , la 3a e la 4a, con 64 muletti) e due ufficiali: lo stesso Vauchez e il tenente Selchauhansen. I diversi gruppi di cammelli che lo componevano, preceduti da alcuni spahis, lasciarono El Morra a ore differenti nella notte del 2 settembre, per poi riunirsi sulla pista. Vauchez con la scorta principale partì alle 3:45. In silenzio, con divieto assoluto di parlare e fumare, i legionari passarono progressivamente i gruppi e arrivarono all’inizio della colonna. A sorpresa. Verso le 9:30, non lontano dai pozzi di El Moungar, nei pressi del punto dove due anni prima un altro reparto della Legione era stato attaccato, venne ordinato l’alt alla colonna. Era solo una veloce sosta per permettere ai gruppi di serrare sotto e ai Legionari di fare il cambio sui muletti e consumare un fugace pasto. Erano stati segnalati da 300 a 400 guerrieri Shambaa che, dopo il fallito attacco a Taghit, vagavano senza controllo nel basso oued (o uadi, corso d’acqua) Zasfrana in cerca di prede. Ma Vauchez, noto per sottostimare le tribù beduine, considerando quella una sosta limitata non
mise in atto un vero dispositivo di sicurezza: solo pochi spahis a controllare i dintorni. Questi furono attaccati all’improvviso alle 9:40; due di loro vennero colpiti, un altro tornò al galoppo verso la scorta che intanto aveva imbracciato le armi. Neppure il tempo di formare una linea che i legionari della 3a Sezione finivano sotto un violento fuoco di fucileria proveniente da una leggera depressione a semicerchio sulla sinistra. Il tenente Selchauhansen, vicino ai muletti, fu colpito simultaneamente da tre pallottole: una alla spalla, una al ginocchio e una in testa; prima di cadere rifiutò aiuto, ordinando agli uomini di difendersi e sparare. Il capitano Vauchez si rese conto dell’entità dell’attacco, che adesso veniva portato anche da un’altra duna: i francesi
2° REI È uno dei due reggimenti di fanteria della Legione. Sciolto e ricostituito più volte, ha combattuto in tutte le guerre francesi dal 1841, distinguendosi soprattutto in Nordafrica, oltre che in Indocina negli anni ’50. Nel suo stemma c’è un ferro per muli, simbolo delle compagnie montate. La festa del reggimento è il 2 settembre, anniversario di El Moungar.
Le compagnies montées della Legione
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el 1881, colonne di soldati sono lanciate sulle tracce di tribù berbere in rivolta, ma i pesanti e lenti convogli non riescono a star dietro a un avversario veloce. Bisogna creare reparti più mobili, così nascono in seno alla Legione, unica che poteva accettare la sfida, le prime compagnie montate. Alla fine del secolo saranno pre-
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senti in ogni battaglione. L’idea è semplice: niente zaini, né carrette, un mulo da sella con equipaggiamento e razioni ogni due uomini. Uno marcia, l’altro si riposa sul mulo. Idea vincente. Con brevi soste per i cambi si poteva marciare per 15 ore al giorno e gli uomini erano sempre pronti a ingaggiare combattimento. I legionari,
che vi servivano al massimo per 2 anni, erano selezionati accuratamente per prestanza fisica e stabilità mentale, necessarie a sopportare le operazioni nel deserto che potevano portare l’uomo alla pazzia. Queste unità, simbolo di quel periodo eroico della Legione, operando in completa autonomia spesso a chilometri dalle basi, ottennero risultati incredibili.
G. RAVA
SIERRA (2)
Sezioni Normalmente, in molti eserciti, indicano un reparto da 7 a 12 soldati. In quello francese, la Sezione è invece equivalente a un plotone, 30 o più uomini, a seconda dell’impiego.
LA DIVISA DEL MITO
Il kepì con la foderina bianca e il cappottone blu scuro utilizzati in quegli anni identificano a prima vista il legionario di inizio ’900.
GEOGRAFICA
M o u n g a r
S PA H I S I N R E T R O G UA R D I A 2 G RU P P I D I C A M M E LLI S E PA R AT I
Gran di CONVOGLIO CAMMELLI
Cap. Vauchez Ten. Selchauhansen
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d el l’e r g (da 20 a 100 m di altezza)
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Avvallamenti dove si nascondevano gli arabi Collinette dove i legionari si piazzano a difesa
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* nell’esercito francese la Sezione corrisponde al Plotone
A RICORDO DEGLI EROI
pozzi di Zafrani 8 km
La carovana dei legionari avanza nel deserto. In basso, la stele in memoria del combattimento di El Moungar del settembre 1903.
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Spostamento in copertura di parte dei legionari
EL MOUNGAR 1903 17-20 AGOSTO Per quattro giorni, migliaia di uomini di tribù marocchine di confine assediano senza esito il forte di Taghit. I francesi perdono 9 uomini, i nemici 400. 17 AGOSTO La carovana periodica che doveva partire il 20 da Ain Sefra verso Beni Abbes con nota di servizio 23-688 del 6 agosto, a causa dei fatti di Taghit, è fermata. Riprogrammata per il 24, partirà poi il 28. 30 AGOSTO A Hassi el Mir la scorta riceve rinforzi e raggiunge El Morra. 31 AGOSTO La carovana è divisa in tre scaglioni: il primo,
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Attacchi degli arabi Pista della carovana
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Piccole dune
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El Moungar
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El Morra 52 km
scortato da legionari della 18a compagnie montée e da spahis, parte alla sera, raggiungendo Taghit senza problemi. 2 SETTEMBRE Il secondo scaglione, scortato dai legionari del capitano Vauchez (22a compagnie montée) e da altri spahis, parte da El Morra. Ore 3:45, la scorta, che segue in retroguardia i cinque gruppi di cammelli partiti scaglionati nella notte, lascia El Morra. Ore 6:00-6:30, viene effettuata una prima sosta per il caffè. Ore 9:30, seconda sosta, sulla piana di El Moungar, per un veloce pasto.
Ore 9:40, alcuni spahis sono assaliti, poi l’attacco è portato a tutta la colonna. I francesi sono presi alla sprovvista e reagiscono come possono. Ore 10:30, due spahis riescono a sganciarsi, cavalcando verso Taghit in cerca di rinforzi. Ore 13:30, caduti gli ufficiali e i sottufficiali anziani, il comando dei superstiti passa al sergentefuriere Tisserand. 0re 14:00, Tisserand è ferito due volte: adesso comanda il caporale Detz. Ore 16:30, mentre i francesi stanno per soccombere, il tiro nemico diminuisce e gruppi di berberi si sganciano.
0re 17:10 -17:20, il tiro cessa completamente Ore 17:30, i primi uomini inviati in soccorso da Taghit dal capitano de Subielle raggiungono la zona. 3 SETTEMBRE Il terzo scaglione della carovana, con la scorta del comandante Bichemin, raggiunge la zona di El Moungar alle 11:00. Ore 13:20, il convoglio, con i feriti e la salma del capitano Vauchez, riprende la marcia verso Taghit.
SIERRA (3)
L’epopea del tenente Selchauhansen
C
olpito tra i primi a El Moungar, Christian Selchauhansen (1871-1903) era in seno alla Legione un vero personaggio. Già ufficiale dell’esercito danese, a causa di un’avventura galante nel 1894 “riparò” nella Legione come sottotenente. Alto di statura, gran bevitore e sempre sopra le righe, era un ufficiale entusiasta. Aveva preso
parte a numerose campagne nel Sud-Oranese, in Tunisia, in Madagascar e nel Tonkino. L’eroe di Figuig. Nel maggio del 1903 si era particolarmente distinto durante i combattimenti a Figuig (sempre in Marocco), dove aveva salvato il governatore generale dell’Algeria e un generale da un attacco di dissidenti locali. Si narra che nel 1901 abbia rega-
lato un soldatino al principe Aage di Danimarca (di 14 anni), che poi negli anni ’30 sarebbe diventato un famoso ufficiale della Legione. Poco incline ai regolamenti, l’ufficiale era molto amato dai suoi uomini: a El Moungar, vistolo ferito, molti subirono la stessa sorte non volendo lasciarlo alla mercé degli attaccanti, noti per mutilare gli ufficiali nemici.
erano completamente allo scoperto, tra due fuochi, attaccati da almeno 3/400 nemici. Vauchez fece spostare la 4a Sezione dietro ai muletti, ma una seconda linea nemica uscì dalle dune e si portò su posizioni da dove poteva fare il tiro al piccione. I legionari subirono gravi perdite, era evidente che non avrebbero potuto resistere lì a lungo. Vauchez, colpito una prima volta al petto, ordinò ad alcuni di caricare, baionetta in canna, per permettere agli altri di ritirarsi sulla cresta vicina. Di slancio, la manovra riuscì e i legionari, abbandonati i muli con acqua e munizioni, si buttarono dietro a tre collinette a ovest della pista. L’ecatombe. Intanto morti e feriti crescevano: il sergente maggiore Tissier venne colpito alla coscia, Vauchez ricevette un secondo colpo nel ventre e di lì a poco un terzo nel collo, il sergente Dannert una pallottola nell’ombelico e morì tentando di estrarla col dito. Caddero i caporali Cachès e Terrasson, il legionario Hoff col bacino attraversato dai colpi e poi Petit, con tre ferite, e Trinquart colpito quattro volte. Vauchez, sebbene fosse ferito, continuò a incitare i suoi uomini alla lotta, ma la situazione era disperata. I legionari erano immobilizzati e la violenza del fuoco nemico era al massimo. Con l’energia della disperazione la 4a Sezione riuscì a riunirsi alla 3a che aveva ancora sottufficiali vivi. Insieme fecero fronte ai nemici, un gruppo dei quali li crivellò di colpi stando nascosto dietro ai cammelli della carovana. Il sergente Vander Borght fu colpito al piede destro, alla coscia, al fianco, al braccio destro, all’avambraccio sinistro, due volte alla testa e una alla mano, inoltre ricevette un colpo sul calcio e due sul fusto del fucile. Un altro sottufficiale, il sergente Charlier, fu ferito a coscia destra, gamba sinistra, braccio destro e alla testa. Un’ecatombe. Un inferno in terra fatto di fumo, rumore, sabbia e morte. Per interminabili ore legionari e spahis ancora in grado di sparare tennero le posizioni sotto un fuoco da più direzioni, mentre il sempre maggior numero di colpiti agonizzava per le ferite e la mancanza d’acqua. Gli arabi intanto riunirono gruppi di cammelli della carovana e li portarono via verso i pozzi di Hassi bou Amama. Mentre i nemici continuavano un movimento aggirante verso i legionari, a un certo punto, alle 13:30, il comando venne preso dal sergente-furiere Tisserand: pur ferito alla testa, era ormai il più alto in grado ancora in condizioni di combattere. Alle 10:30 era anche riuscito a far sganciare due cavalieri spahis, 44
G. RAVA
LA LEGGENDA DEI LEGIONARI CHE SFIDANO IL DESERTO E LA FEROCIA DEL NEMICO STA ANCHE NELLA STRENUA DIFESA DEI PROPRI FERITI
IL NEMICO BERBERO
Cavaliere beduino. Le tribù berbere marocchine colpivano gli insediamenti francesi in Algeria con metodi di guerriglia.
PRONTI ALLA PARTENZA
1900, l’altra Battaglia di El Moungar
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l 30 luglio 1900, quasi nello stesso luogo del combattimento qui descritto, che evidentemente si prestava alle imboscate, c’era stato un analogo attacco a una carovana di rifornimenti diretta verso El Morra. Alle prime luci dell’alba, 300 berberi a cavallo e 600 appiedati attaccarono la 14a compagnia montata
del capitano Sérant (2° REI) e i tirailleurs algerini del 4° battaglione del comandante Bichemin. Perdite contenute. I francesi reagirono formando un quadrato, così a subire fu solo una sezione di legionari, sorpresa in retroguardia in ordine di marcia. Dopo un’ora di assalti infruttuosi con gravi perdite
(circa 200 marocchini uccisi), gli assalitori fuggirono senza bottino verso il confine, inseguiti dagli spahis. Sul terreno rimasero 8 legionari morti e 8 feriti. Sul combattimento calò un rigoroso silenzio perché la Francia non voleva attirare l’attenzione delle potenze straniere sulle sue operazioni al confine col Marocco.
A lato, uno spahi. Sotto, un reparto di legionari pronto a partire dalla caserma di Saïda, sede del 2° Reggimento dal novembre 1886, verso il Sud Oranese.
SAPERNE DI PIÙ Fra i dannati della terra, Gianni Oliva (Mondadori). La storia della Legione straniera e dei suoi uomini in fuga, che hanno combattuto nelle aree più inospitali della Terra.
che a spron battuto erano corsi a Taghit in cerca di rinforzi. Il sottufficiale indirizzò con calma il fuoco dei Lebel sulle posizioni nemiche mentre Vauchez, sempre più debole, guardava in continuazione l’orologio cercando di calcolare l’arrivo dei rinforzi. Verso le 14, Tisserand fu ferito di nuovo al capo e cedette il comando. Il distaccamento della 22a, che era partito da El Morra con un capitano, un tenente e 6 sottufficiali anziani, ora era nelle mani del caporale Detz, che si mise a comandarlo con sangue freddo e decisione, urlando come un dannato. I sopravvissuti avevano accatastato i corpi dei caduti facendone delle vere trincee: anche da morti i legionari servivano allo scopo! Il sergente-maggiore Tissier, già gravemente ferito, alzò la testa dal riparo e venne colpito in fronte, accasciandosi vicino al capitano Vauchez. Ormai i francesi erano allo stremo, le munizioni scarseggiavano e il calore era insopportabile, così come la sete che costringeva alcuni uomini a inumidire con la propria urina i fazzoletti per bagnarsi le labbra. L’ultimo sorso. Verso le 16:30 il fuoco dei nemici si concentrò sui muletti superstiti ancora nella piana; forse volevano eliminare le ultime possibilità dei legionari di avere l’acqua. Questi si preparano al peggio, ma da quel momento il tiro perse d’intensità e gruppi di marocchini si sganciarono e si ritirarono. Attorno alle 17 il tiro nemico cessò completamente. Erano passate 7 ore e 40 minuti dall’inizio del fuoco e solo a quel punto alcuni uomini, con infinite precauzioni, scesero nella piana Lebel Il fucile in dotazione era il Mle 1886 M93 o fucile Lebel, dal nome del colonnello che l’aveva fatto adottare nel 1887. In calibro 8 mm, era robusto, sicuro e preciso anche a lunghe distanze. Resterà in dotazione fino alla Seconda guerra mondiale.
IN MANO AI SOTTUFFICIALI
Il revolver mod. 1873 in calibro 11 mm, in dotazione ai sottufficiali della Legione.
a cercare un po’ d’acqua sui muli abbattuti; riuscirono a trovarne un otre mezzo vuoto da distribuire ai feriti. Dei nemici neppure l’ombra, ma la polvere in lontananza ne spiega il motivo: “Cavalieri da sud!”, qualcuno urlò. Sono le colonne che arrivavano in soccorso da Taghit. Sulla piana si fece la tragica conta dei legionari: 35 morti, 48 feriti gravi e solo 30 superstiti ancora più o meno interi. Gli Shaamba erano scappati con un bottino enorme di più di 90 cammelli carichi, 25 fucili e oltre 5.000 munizioni. La mattina seguente giunse sul posto il terzo scaglione della carovana e i feriti poterono essere evacuati. Vauchez morì appena messo sulla barella per il trasporto. Selchauhansen spirò a Taghit. Per l’azione, rimasta per sempre nella storia del 2° Reggimento, il sergente-furiere Tisserand venne promosso ufficiale “sul campo”, il sergente Charlier ricevette la Légion d’honneur e altri otto la Médaille militaire . A tutti i sopravvissuti fu assegnata la Médaille coloniale . d Stefano Rossi
Légion d’honneur, Médaille militaire, Médaille coloniale La prima è un ordine cavalleresco e la più alta onorificenza francese, istituita da Napoleone nel 1802. La seconda, voluta nel 1852 da Luigi Napoleone Buonaparte, è concessa per atti di valore in azioni di guerra. L’ultima (1893) era assegnata per le operazioni di guerra in colonie o in protettorati; dal 1962 si chiama Médaille Outre-Mer.
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LE COMPAGNIE SAHARIANE
Anni ’50, l’uniforme della Compagnia sahariana portata dalla Legione straniera (CSPL): sui calzoni seroual si indossavano un camicione (gandourah) e i sandali adatti al terreno desertico (nails). La sciarpa (cheich) serviva a ripararsi il volto durante le tempeste di sabbia.
INIMITABILE, LEGGENDARIA, MALEDETTA: POSSIAMO SPRECARE GLI AGGETTIVI, MA IL FASCINO DELLA LÉGION ÉTRANGÈRE FRANCESE È TUTTO IN QUESTE FOTO
L’UNICA LEGIONE 46
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LA GUERRA NEL DESERTO MEMORIE
HIP/SCALA
FRONTE AFRICANO
1942, anche i legionari prendono parte alla Seconda guerra mondiale in Nordafrica. Qui sono in Libia, con una batteria da 75 mm.
I PIONIERI
1939, a Parigi per la tradizionale sfilata del 14 luglio, i legionari aprono la parata con un reparto di pionieri, barba lunga, grembiule di pelle e ascia sulla spalla. In azione i pionieri procedevano davanti a tutti per aprire la strada fra reticolati e opere di difesa.
ABITUDINI FRUGALI
ALAMY
Soldati di ogni nazionalità, i legionari superano le differenze di lingua e le origini più disparate nel consumare il loro pasto frugale, unico momento di pausa in una vita durissima.
SULLE DUNE ASIATICHE
RVA/ALINARI
Legionari del 1° REC, ovvero il Primo reggimento di cavalleria della Legione, su un mezzo anfibio alla Guerra d’Indocina (1946-1954).
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TANTI LEGIONARI RACCONTANO DI PUNIZIONI DISUMANE, MARCE ESTENUANTI, ADDESTRAMENTI FUORI DA OGNI REGOLAMENTO MILITARE. CHI ENTRA NELLA LEGIONE NE ESCE CAMBIATO PER SEMPRE
ULLSTEIN/ALINARI
RVA/ALINARI
TEST CONTINUI
La 1a compagnia sahariana. Anche oggi, come allora, l’addestramento è estremo e i test fisici e attitudinali durissimi.
PIEDE VELOCE
Un dromedario con palanchino per il trasporto delle salmerie. Queste bestie (mehara) venivano usate anche come cavalcatura per la loro velocità.
IL QUARTIER GENERALE
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Inizi del XX secolo, i soldati si schierano sul Plateau Bugeaud, la spianata della cittadina di Sidi bel Abbes, in Algeria, che fu il leggendario quartier generale della Legione straniera francese.
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LA GUERRA NEL DESERTO NORDAFRICA 1941
NELL’OPERAZIONE CRUSADER, CHE PRECEDETTE DI POCHI MESI EL ALAMEIN, IL GENERALE TEDESCO AFFRONTÒ LA PIÙ GRANDE BATTAGLIA DI CARRI MAI COMBATTUTA SUL SUOLO AFRICANO. PERDENDOLA
ROMMEL
IN CRISI SULLE DUNE LA VOLPE
Il generale Rommel con alcuni ufficiali della 15a divisione panzer nella zona tra Tobruk e Sidi Omar. Sopra a destra, carri armati inglesi Crusader della 7a divisione corazzata avanzano verso Tobruk. In basso, fascetta da polso dell’Afrikakorps.
AP/ANSA
Tobruk
EVERETT/CONTRASTO
proprio in base all’Operazione Crusader, cioè “crociato”, nome legato al debutto operativo dei nuovi carri armatiCrusader). Churchill vorrebbe attaccare subito a fine estate, ma Auchinleck lo convince ad attendere per dargli modo di preparare al meglio una grande offensiva. Auchinleck non è un esperto di guerra corazzata, né lo è il generale che sceglie come comandante dell’8a armata, Alan Cunningham. Entrambi vogliono impratichirsi con la guerra nel deserto prima di affrontare un abile nemico come Erwin Rommel, che di quel terrono è la “volpe”. Inoltre le truppe appena arrivate devono acclimatarsi nel teatro operativo nordafricano, non si può gettarle subito in battaglia. Ci vuole tempo per imparare a vivere e combattere in quel clima: caldo di giorno e freddo di notte, con nugoli di insetti, scarsità d’acqua (quella poca che c’è deve servire anche per l’igiene personale) e una dieta piuttosto povera. Così come non è facile imparare a muoversi su un terreno che non ti dà punti di riferimento precisi: occorre saper leggere le mappe, le stelle, la posizione del sole e avere anche una certa memoria fotografica. Adattarsi all’ambiente e usare le sue caratteristiche per nascondersi al nemico è la discriminante tra la vita e la morte in una battaglia nel deserto. Come dicevano i veterani inglesi: “Ci vuole del tempo per passare da un white knees a un desert-worthy” (cioè da un “ginocchia bianche”, ovvero uno appena arrivato al caldo, a un soldato “da deserto”). INTERFOTO/ALINARI
A
gli inizi dell’autunno del 1941 i due schieramenti contrapposti in Nord Africa hanno un problema similare: arrivare a Tobruk. Le forze dell’Asse l’assediano dai primi di aprile perché hanno assoluta necessità di entrare in possesso del suo porto, strategico scalo logistico senza il quale è molto difficile riuscire a invadere l’Egitto. Gli Alleati invece devono liberare la grossa guarnigione rimasta intrappolata a Tobruk dalla prima grande offensiva di Rommel nella primavera del 1941. Ci hanno già provato con l’Operazione Brevity a metà maggio, rimediando una sonora sconfitta, e poi ancora e con molti più mezzi e uomini con l’Operazione Battleaxe a metà giugno, ma nuovamente con zero risultati e molte perdite, ora davvero non possono più fallire. Il nuovo governo laburista australiano minaccia di ritirare tutte le sue truppe dal fronte africano se non si farà in modo di raggiungere la 9a divisione di fanteria che è l’autentica spina dorsale della guarnigione di Tobruk assediata. Situazione eslosiva.Winston Churchill decide che è ora di cambiare tutto: esautora, rinomina, sposta e invia uomini e unità. Le forze britanniche hanno un nuovo comandante in capo delle forze in Medio Oriente, sir Claude Auchinleck, una nuova unità operativa, l’8a armata inglese, in sostituzione della gloriosa Western Desert Force (che era solo un corpo d’armata), nuovi rinforzi, rimpiazzi e armi, e un nuovo simbolo, una croce gialla in campo bianco (scelto Tobruk Il porto meglio difeso del Nordafrica era in Cirenaica (regione che dal 1912 fu provincia d’Italia e dal 1934, con Tripolitania e Fezzan, divenne la colonia italiana chiamata Libia). La nostra base aeronavale cadde in mano britannica nel gennaio ’41 e fu assediata per mesi dalle forze dell’Asse. Il presidio britannico fu liberato con l’offensiva inglese del novembre ’41-gennaio ’42, finita con l’occupazione della Cirenaica. Gli inglesi lo cedettero ancora di fronte all’avanzata di Rommel nel maggio-giugno, ma se lo ripresero in seguito al successo dell’offensiva di El Alamein.
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SCALA WWW.SCALARCHIVES.COM
Rommel con il generale italiano Bastico, sulla carta suo superiore in Libia.
Un panzer III tedesco e sullo sfondo un veicolo britannico colpito.
CRUSADER, LE FORZE IN CAMPO
I
so sud-est. Strategicamente è un buon piano, può contare anche su una decisa superiorità aerea, ma non tiene conto di molte variabili sul piano tattico, compreso il modo in cui i tedeschi sono soliti condurre i loro scontri corazzati. Rommel in lite. Rommel, dal canto suo, ha tre grandi problemi: non riesce a sfondare il munitissimo perimetro difensivo di Tobruk; ha enormi difficoltà nel ricevere rifornimenti; ha continue discussioni e divergenze di vedute con quello che dovrebbe essere teoricamente il suo superiore, il generale italiano Ettore Bastico. Non ha forze sufficienti per poter attaccare in Egitto, per riceverle deve prima prendere il porto di Tobruk. Ma per colpa dei rifornimenti che arrivano a singhiozzo, continua a posporre il grande attacco finale alla fortezza nemica assediata. Ha ricevuto però i nuovi cannoni anticarro da 50 mm e questo lo ha reso felice. Rommel schiera quattro divisioni di fanteria italiane (Trento, Bologna, Pavia e Brescia) attorno ai 10 km del perimetro difensivo di Tobruk, poco più a est tiene raccolto il suo DAK (Deutsches Afrikakorps, su 15a e 21a divisione panzer e divisione speciale 90a Afrika), mentre a sud stanno la divisione corazzata Ariete e la motorizzata Trieste. Nelle postazio1941, OPERAZIONE CRUSADER: LO SCHIERAMENTO ni fortificate lungo la fascia di confine libico-egiziana (cioè nella zona di SolM a r M e d i t e r r a n e o lum) c’è la divisione Savona con eleTobruk xx 0 20 km menti della 21a panzer. Brescia Poco prima dell’inizio dell’O perazione Crusader il governo australiaxx xx xx 15 Via Balbia no riesce a ottenere l’evacuazione via xx El Duda Gambut Bologna mare della 9a divisione (probabilmen90 Trento Trig h Ca te la migliore unità di fanteria a dispoxx puzz o Sidi Rezegh Bardia sizione dell’8a armata), essa viene soPavia Sidi Azeiz xx stituita dalla 70a divisione inglese e da C I R E N A I C A 21 una brigata polacca. xx l piano operativo per l’Operazione Crusader prevede che il XXX corpo d’armata corazzato del generale Norrie (7a divisione corazzata – composta da 4a, 7a e 22a brigata –, 1a divisione di fanteria sudafricana, due brigate della Sudan Defence Force e la 22a brigata guardie) si inoltri nel deserto oltre l’ala destra nemica per poi risalire verso nord nella zona dove si suppone Rommel tenga le sue tre divisioni corazzate (15a e 21a panzer più l’italiana Ariete). Qui dovrebbe avvenire una decisiva battaglia di carri, che le unità corazzate inglesi possono vincere grazie al maggior numero di mezzi a loro disposizione (460 tra carri Crusader e nuovi carri leggeri americani Stuart, contro 250 carri tedeschi tra Panzer II, III e IV e 150 M13/40 italiani) e attirando i panzer contro campi di tiro ben preparati. Contemporaneamente il XIII corpo d’armata del generale Godwin-Austen (4a divisione indiana, 2a divisione neozelandese, 1a brigata corazzata) doveva impegnare, aggirare e poi travolgere le difese italotedesche di Sollum, quindi avanzare direttamente verso Tobruk lungo la via Balbia. La guarnigione di Tobruk deve concorrere al piano con una spinta offensiva ver-
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Logistica e tattica nel deserto
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a logistica è il vero incubo di chi combatte nel deserto: i problemi e le necessità dei soldati si amplificano e vi sono poche strade per movimentare i rifornimenti. I britannici hanno un buon sistema logistico in Egitto e lo sfruttano bene, solo quando si allontanano dalla frontiera cominciano ad avere problemi, che di solito superano con un sistema capillare di depositi. La logistica italiana (da cui dipendono i tedeschi) è pessima: vi sono carenze sia
L’efficienza tedesca. Dal punto di vista tattico i migliori in ambito desertico sono i tedeschi. Hanno sviluppato un ottimo sistema di combattimento che prevede l’appoggio reciproco di carri armati e cannoni controcarro, con questi ultimi che addirittura sopravanzano i panzer sul campo di battaglia; inoltre la fanteria del DAK, tutta motorizzata, sa interagire e integrarsi molto bene con i corazzati. La qualità degli ufficiali tedeschi di ogni grado è ottima, il loro
nella pianificazione di quanto materiale occorre, sia nella gestione dei depositi (“imballata” da burocrazia e sprechi), sia nel ripianamento delle perdite (in primo luogo, a causa della scarsa ricettività dei porti libici), sia infine nei trasporti da e verso le prime linee, ma soprattutto mancano i camion e le piste preparate nel deserto per portare i rifornimenti in linea. I pochi mezzi circolanti sono burocraticamente imballati a livello di corpo d’armata.
sistema di addestramento prevede ampia libertà di manovra ai subordinati, favorendo così lo sviluppo dell’iniziativa “in tempo reale” sul campo di battaglia. Le magagne nostrane. Gli italiani imparano a fare la guerra di movimento copiando dai tedeschi, gli inglesi invece la sanno fare, ma hanno mezzi corazzati molto inferiori ai panzer di Rommel e devono chiedere aiuto agli Stati Uniti per poter competere.
PARTE L’OPERAZIONE, LA PRIMA FASE
S
i tratta della più grande operazione corazzata che gli inglesi abbiano mai tentato. Il primo giorno i carri del XXX corpo si inoltrano non visti nel deserto, hanno il compito fondamentale di individuare e distruggere la forza corazzata di Rommel. È brutto tempo, la ricognizione aerea non è di grande aiuto, così il comandante della 7a divisione corazzata (nota come Desert Rats, “topi del deserto”), il generale Gott, decide di dividere le sue tre brigate per meglio coprire il vasto territorio in cui cercare i carri del tedesco. Azione alla tedesca. La 22° brigata corazzata si dirige a sudovest e va a sbattere nelle posizioni tenute dalla divisione corazzata italiana Ariete a Bir el Gobi. Ne segue una sorta di battaglia d’incontro che viene vinta dai carristi italiani, grazie all’uso di tattiche “tedesche”, cioè all’impiego combinato di carri, fanti e artiglieria. Pur subendo molte perdite (34 carri e 200 uomini), l’Ariete ne infligge di più pesanti agli inglesi (45 tra carri e autoblindo e un centinaio di uomini), ma soprattutto mantiene la coesione e non cede terreno. Per la tanto bistrattata arma corazzata italiana non è una novità da poco.
Alle altre due brigate di Gott va diversamente: la 7a arriva indisturbata quasi a Tobruk, catturando anche l’aeroporto di Sidi Rezegh, mentre la 4a viene a contatto con la 15a panzer e perde diversi carri armati. A Sollum comincia l’operazione di accerchiamento delle posizioni della Savona da parte del XIII corpo britannico. Rommel capisce di trovarsi di fronte a una grande offensiva alleata e reagisce immediatamente: manda i suoi carri verso le posizioni dei corazzati inglesi e chiede alle unità mobili italiane di tentare di congiungersi alle sue truppe.
IN QUESTA BATTAGLIA C’ERA DI TUTTO: LA GUERRA DI MOVIMENTO, LA TATTICA, LE CONDIZIONI PROIBITIVE
DAL 18 NOVEMBRE
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EGITTO
ULLSTEIN/ALINARI
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I panzer di cui Rommel dispone il 18 novembre. Il 23 novembre (Battaglia del Totensonntag) è il giorno in cui perde più carri, arrivando a 98; il 5 dicembre ne ha 55; in Tripolitania ne ritornano solo 37.
LA SECONDA FASE E IL RITIRO
A
ttorno a Sidi Rezegh si sviluppano i più accesi combattimenti, con nessuna delle due parti capace di prevalere sull’altra. Intanto vengono contenute alcune puntate offensive della guarnigione di Tobruk. Tra il 21 e il 23 novembre i panzer di Rommel, guidati dal generale Crüwell, riescono a riprendere l’aeroporto di Sidi Rezegh e a infliggere gravi perdite ai britannici. Ma mentre l’8a armata inglese ha grosse riserve da immettere in battaglia, il numero dei corazzati tedeschi va assot-
tigliandosi sempre più. La sera del 23 novembre Rommel può contare ancora solo su un centinaio di panzer, ma il nemico è stato respinto e al Quartier generale inglese l’atmosfera si fa tesa. Le truppe del XIII Corpo, che dovevano prendere alle spalle le difese italotedesche sul confine, sono state risucchiate a nord per aiutare quelle del XXX Corpo e stanno subendo gravi perdite dai panzer tedeschi. Il generale Cunningham è incerto sul da farsi e medita di dare l’ordine di ritirata. Auchinleck lo rileva dal comando e nomina il generale Ritchie nuovo comandante dell’8a armaDAL 23 AL 26 NOVEMBRE ta. Occorre insistere nell’azione offensiva, stavolta bene appoggiati dagli aerei M a r M e d i t e r r a n e o della RAF e dai bombardamenti navali 0 20 km Tobruk xx della Royal Navy. Confusione. Quello che segue è un Brescia x 7 confuso susseguirsi di battaglie a livello xx xx xx di reggimento, battaglione e compagnia 15 Via Balbia xx El Duda con la cosiddetta “fog of war” (la nebGambut Bologna xx 90 Trento 21 bia di guerra, ossia l’incapacità di sapeTrig h Ca xx puzz o Sidi Rezegh II Bardia re dove si trovi il nemico) a farla da paII xx 33 2 3 Pavia drone assoluto del campo di battaglia. Sidi Azeiz NZ x C I R Ex N A I C A Rommel vede assottigliarsi le sue forze 1 xx 4 in tutta una serie di piccoli scontri e deFort Capuzzo xx cide di azzardare una manovra a falce Trieste Sollum xx 1 SA
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Passo Halfaya
EGITTO
IN FIAMME
Un panzer III tedesco sfila di fronte a un carro Matilda inglese in fiamme nel corso di uno dei tanti scontri dell’Operazione Crusader. In alto i soldati italiani della divisione Ariete in Cirenaica nel novembre 1941.
RAVA/LEEMAGE
EL ALAMEIN 1942
Erwin Rommel, la “volpe del deserto”
D Afrikakorps in esplorazione.
L’OPERAZIONE CRUSADER È DA CONSIDERARSI IL PARADIGMA, LA REGINA DELLE BATTAGLIE NEL DESERTO
dria d’Egitto. Stratega brillante. Soprannominato “la volpe del deserto”, comandante geniale e trascinatore, era però poco incline a considerare altri aspetti: allungò troppo la catena logistica e le truppe italo-tedesche si trovarono bloccate nella stretta di El Alamein. Tra il 23 ottobre e il 4 novembre 1942, in quest’area dell’Egitto
fu battuto dagli inglesi nella più massiccia, dura e sanguinosa battaglia di tutta la campagna; lo scontro coinvolse 296.000 uomini, più di 1.600 carri armati e centinaia di aerei. El Alamein sancì la sconfitta in Nordafrica dell’Asse, che qui iniziò la ritirata verso la Tunisia, terminata solo con la resa definitiva nel gennaio 1943. Stefano Rossi
ERITREA 1912
Meharisti del Regio Esercito
A
l pari di altri eserciti, come quello francese, anche gli italiani ebbero reparti meharisti (montati sui “mehara”, veloci dromedari da sella), formati da personale locale al comando di ufficiali nazionali, per operare nei deserti delle nostre colonie. Nati in Eritrea nel 1912 con lo Squadrone cammellieri che controllava il desertico
Bassopiano orientale, nel 1913 i Meharisti furono istituiti anche in Libia, distinguendosi durante l’occupazione del Fezzan. I sahariani. Arrivarono fino a 4 squadroni, dotati di mitragliatrici e all’occorrenza appoggiati da artiglieria cammellata. Furono istituiti anche reparti di Zaptiè (i Carabinieri coloniali indigeni) meharisti. Nel 1939, il Comando
truppe sahariane aveva ancora in organico compagnie mehariste, che difesero alcune oasi durante la Seconda guerra mondiale. Nel dopoguerra, all’interno delle forze del Corpo di sicurezza dell’Amministrazione fiduciaria in Somalia (Afis) fu presente, nel biennio 1953-54, un nostro reparto cammellato: il Battaglione somalo. Stefano Rossi
ti su cui conta il suo nemico. Abbandona a se stesse le guarnigioni che ancora resistono a Sollum (si arrenderanno a fine mese) e ritira le sue forze prima a Gazala e poi in Tripolitania. L’Operazione Crusader può considerarsi il paradigma stesso degli scontri nel deserto. Altre battaglie, come El Alamein, sono più celebri, ma nessuna di esse può starle alla pari. La guerra di movimento, la sorpresa tattica, le SAPERNE DI PIÙ dure condizioni ambientali e logistiche, i continui rovesciamenti di fronte e la Diario di un combattente nell’Africa Settentrionale, capacità di incidere degli ufficiali al coO. Piscicelli Taeggi. Ricordi mando ne fanno la regina delle battaglie del capitano di artiglieria nel deserto. d che combatté nel deserto. Andrea Santangelo
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sulle linee di comunicazione nemiche. Lancia i suoi panzer in una folle corse verso Sollum per costringere l’8a armata a ritirarsi, ma è sfortunato e non incontra nessuna grande unità nemica, tranne quelle aeree della RAF che falcidiano i suoi carri. Seguono avvenimenti confusi, Rommel ha perso il controllo della battaglia, le sue unità sono mischiate a quelle inglesi. Il comandante della 21a Panzer si sbaglia e scambia una postazione neozelandese per tedesca e viene fatto prigioniero. La 2a divisione neozelandese riesce invece a prendere El Duda e si congiunge con le forze della guarnigione di Tobruk. Seguono giorni di combattimenti ancor più confusi e violenti. Bir el Gobi. Il 3 dicembre l’11a brigata indiana con uno squadrone di carri Valentine attacca in direzione di Bir el Gobi, ma è respinta dal gruppo battaglioni Giovani Fascisti (l’unica unità del Regio Esercito interamente composta da volontari: si trattava di circa 2.000 ragazzi tra i 17 e i 20 anni, provenienti dalla Gioventù Italiana del Littorio (la GIL), che avevano chiesto insistentemente di poter andare a combattere), facendo nuovamente di uno sconosciuto crocevia di piste desertiche un luogo simbolo della nostra storia militare. Nonostante molte vittorie tattiche, l’8 dicembre Rommel prende la decisione di ritirarsi: mentre gli inglesi riescono a recuperare i carri danneggiati sul campo di battaglia, lui non ha officine per farlo, né la facilità di avere rimpiazzi e rifornimen-
opo eccezionali comportamenti nella Grande guerra e sul fronte francese nel 1940, Erwin Rommel fu dal 1941 a capo dell’Acit (Armata corazzata italotedesca) che si batteva in Nordafrica contro le truppe britanniche. Il generale tedesco fu l’artefice della guerra di movimento nel deserto, che lo portò fino a 100 km da Alessan-
NELLE AREE DESOLATE DEL NORDAFRICA SCORRIDORI COME LONG RANGE DESERT GROUP E SAS COMBATTEVANO LE FORZE DELL’ASSE CON LE TATTICHE DELLA GUERRIGLIA
M SQUITO ARMY
SIERRA (3)
LA GUERRA NEL DESERTO BARCE 1942
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ono circa le 23:30 (ora britannica) del 13 settembre 1942, scorrazzando in ogni direzione. I kiwis lanciano bombe a maquando gli equipaggi di due carri leggeri L3 italiani no e investono baracche, depositi di carburante, autocarri e aepiazzati a controllo della strada che scende dal gebel cirei col fuoco delle mitragliatrici montate sui mezzi. Gli italiani renaico verso la costa nei pressi di Barce (80 km a nordreagiscono anche con i mortai, ma in maniera disordinata; soest di Bengasi) vedono una colonna di autocarri che procede no troppo disorientati e non capiscono chi e dove sia il nemico. verso di loro a fari accesi; nonostante l’interdizione del traffico La colonna. Sulla pista del campo vengono distrutti o dannotturno e l’invito alla massima allerta per la possibilità di patneggiati 32 aerei (16 da fonte italiana), tra caccia, bombardieri tuglie nemiche, i carristi, lontani dal fronte, pensano a un cone aerei da trasporto. Le camionette alleate, dopo un’ora di infervoglio amico e non si preoccupano più di tanto. Appena il conno e ormai a corto di munizioni, lasciano il campo senza alcuna voglio si avvicina, dagli automezzi lanciati a tutta velocità parte perdita. In scontri successivi presso la stazione ferroviaria la patun intenso fuoco che li coglie alla sprovvista. I piccoli L3, poco tuglia T1 perderà tre automezzi e alcuni uomini saranno cattupiù che postazioni di mitragliatrici con i cingoli, sono investirati; ciononostante riuscirà a esfiltrare e riunirsi con G1, che nel ti dai colpi che feriscono due uomini, mentre il convoglio, inefrattempo aveva infuriato a Barce, penetrando negli accampaquivocabilmente nemico, li passa a tutta velocimenti nemici e colpendo uomini e mezzi. La colontà dirigendosi verso la cittadina libica. na ora è nuovamente riunita e si dirige veloce verPoco dopo il convoglio si divide: da una parso il deserto quando, poco prima dell’alba, gli autote la pattuglia T1 che si muove verso l’obiettivo mezzi alleati sono però attaccati da aerei da caccia I km di autonomia che principale, il campo di aviazione della Regia Aee da una cospicua forza italiana che distrugge molti ogni automezzo del ronautica a nord di Barce; dall’altra la pattuglia veicoli uccidendo e ferendo parecchi uomini. LRDG poteva avere con il pieno di carburante. G1, che si dirige verso Campo Maddalena, seNonostante l’alto prezzo pagato, il raid su Barce fu de degli accampamenti di truppe, circa 3 km a considerato un successo per il modo in cui era stato sud-est dell’insediamento. Dopo aver incontrapianificato e condotto, oltre che per il limitato reSettimane di autonomia to un’unità italiana motorizzata che li scambia parto che lo aveva portato a termine, formato peaveva l’equipaggio per anch’essa per amici, i neozelandesi di T1, monrò da elementi di prim’ordine. A compiere l’azione acqua e razioni viveri. tati sulle loro veloci camionette da deserto, ragera stato un distaccamento del Long Range Desert giungono il campo d’aviazione provenendo dalGroup, che con 47 uomini montati su 5 Jeep e 12 la strada principale. Non aspettandosi un attacco, che nel caso autocarri Chevrolet attrezzati era partito per il raid (denominanon avrebbe dovuto arrivare da lì, gli italiani hanno la guardia to Operazione Caravan) 11 giorni prima dall’oasi egiziana di El abbassata; così, gli autocarri penetrano facilmente nel campo, Fayum, a sud del Cairo. Aveva attraversato 1.800 km di deserto, dalle grandi dune alle cocenti spianate sassose dette serir, senL3 Cingolato leggero da 3,1 tonnellate sviluppato dagli italiani tra le due guerre. Con corazzatura za incontrare altro che sabbia, scarsi pozzi di acqua salmastra e quasi inesistente e armato solo di mitragliatrici, era più adatto a compiti esplorativi che da battapochi punti di rifornimento predisposti all’occorrenza. L’ordiglia. Usato con efficacia in Spagna e in Etiopia, nella Seconda guerra mondiale era già obsoleto. ne, eseguito in pieno, era quello di “creare il più possibile danno e disorientamento al nemico”. E questa non era la prima volta che accadeva né sarebbe stata l’ultima. Anche lo stesso Erwin Rommel, il comandante dell’Afrikakorps tedesco e poi dell’ AIT in Nordafrica, avrebbe ammesso che il LRDG “causò più danno di ogni altra analoga unità britannica della stessa consistenza”. Idea vincente. Il Long Range Desert Group, prima unità britannica di questo tipo a essere impiegata nella Seconda guerra mondiale, era nato al Cairo nel 1940 (col nome iniziale di Long Range Patrol) da un’idea del maggiore Ralph Bagnold finalizzata alla creazione di un reparto autonomo, molto mobile, che potesse compiere esplorazioni a lungo raggio e missioni di intelligence – così come di controllo delle piste e trasporto di incursori – dietro le linee del nemico in pieno deserto, dove difficilmente avrebbero potuto muoversi reparti convenzionali. Bagnold si era basato sulle “pattuglie autotrasportate” impiegate durante la Grande guerra dagli stessi inglesi: unità eterodosse montate su autocarri Ford modello “T” – modificati con condensatori sui radiatori e armati con mitragliatrici Lewis – che avevano già dimostrato la loro utilità d’impiego per controllare le piste e le oasi del Western Desert e della Palestina contro la minaccia degli arabi Senussi.
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LE COLONNE
1942, i camion del Long Range Desert Group organizzati nelle “mosquito columns”, così chiamate dal generale Archibald Wavell, comandante in capo delle Forze britanniche del Medio Oriente, perché colpivano ed erano fastidiose come zanzare. Nel titolo, il loro distintivo, lo scorpione del deserto. In alto a sinistra, soldato libico di una Compagnia sahariana italiana.
Kiwis Soprannome dato alle truppe neozelandesi, dal nome del tipico uccello simbolo della Nuova Zelanda. AIT Acronimo per Armata Italo Tedesca (poi ACIT, Armata Corazzata Italo Tedesca) costituita nel ‘42 dal Deutsches Afrikakorps e da due corpi d’armata italiani. Anche se il generale Bastico ne era virtualmente il comandante, era Rommel ad averne il comando effettivo.
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SIERRA
MEHARISTI ITALIANI
IL LONG RANGE DESERT GROUP ERA ABBIGLIATO IN MODO INFORMALE PIÙ CHE STRETTAMENTE MILITARE Piena autonomia. Le prime settimane di vita del LRDG furono contrassegnate dall’improvvisazione, perché in Egitto in quei giorni vi era penuria di ogni cosa: quando Bagnold finì di recuperare le armi che gli servivano, al Cairo erano restate solo tre mitragliatrici. I veicoli furono presi in prestito dall’esercito egiziano o acquistati privatamente e poi modificati con armamento pesante (dalle mitragliatrici ai cannoni Bofors da 37 mm) e dotati di radio, serbatoi, materiali e viveri per permettere un raggio d’azione di circa 1.750 km e tre settimane di permanenza in autonomia nel deserto. Su tutto la supervisione dello stesso Bagnold, che volle anche equipaggiare i mezzi di bussola solare, piastre antinsabbiamento e condensatori per il radiatore, di sua invenzione. Le prime pattuglie, di circa 15 uomini e 5 veicoli, furono formate con personale volontario scelto tra le truppe neozelandesi: questi uomini, infatti, erano abituati più di altri ai disagi e alle fatiche prolungate. In seguito sarebbe arrivato personale sudafricano, rhodesiano, indiano e anche britannico (scelto dai reggimenti Guardie o dagli Yeomanry ). Il nerbo degli ufficiali era formato da vecchi amici di Bagnold, esperti cartografi e navigatori, che con lui avevano esplorato il deserto nei decenni precedenti. Ogni singolo equipaggio fu addestrato e preparato a operare, all’occorrenza, anche in assoluta autonomia. Gli “scorpioni del deserto” – come vennero chiamati dal loro stemma, disegnato dal caporale C.O. “Bluey” Grimsey, volontario del 7° reggimento anticarro neozelandese – iniziarono così l’avventura compiendo inizialmente solo missioni di Yeomanry Da fine ’700 erano reggimenti di volontari formati da piccoli proprietari terrieri (yeomen) di una stessa contea, al comando di un nobile, nati per aumentare la difesa del territorio britannico. Riorganizzati nel 1908, restarono, in varie forme, anche durante le guerre mondiali e oltre.
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Soldati libici di un reparto di Meharisti del Regio esercito italiano in sosta durante un pattugliamento.
AVVERSARI NEL DESERTO
A sinistra, un soldato italiano armato di fucile mod. 91/38, con la divisa di tela e l’immancabile casco coloniale. A destra, un uomo del LRDG. Abbigliati in maniera informale e pratica, utilizzavano anche vestiario locale, come la tipica kefiah usata dai beduini.
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Gerdes El Abid
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Howard's Cairn
C A MI ON D EL L A H EAV Y S EC TI ON I N A RRI V O DA C UFR A
Gran Mare di Sabbia
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di sabbia
El Fayum P E R CO R SO DE L LR DG DA E L FAYU M A B AR C E C I R C A 1. 800 K M
di Kalansho
Tazerbo
Il Cairo
di El Qattara
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Qaret Khod
Nilo
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Alessandria
Depressione
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EGITTO
GEOGRAFICA
di Rebiana
Cufra
G. RAVA (2)
1942 LA TRAVERSATA VERSO BARCE AUTUNNO 1942. L’avanzata di Rommel in Egitto cambia le operazioni delle forze speciali in Nordafrica: per causare problemi alla catena logistica dell’Asse si decide di colpire, con grandi raid, porti e aeroporti della costa. Sono preparate l’Operazione Agreement contro il porto di Tobruk, l’Operazione Bigamy contro Bengasi, l’Operazione Caravan contro Barce e Nicely, un’azione contro l’oasi di Gialo per supportare la ritirata delle forze impegnate nei raid. 1 SETTEMBRE 1942. Inizia l’Operazione Caravan: dalla base del LRDG di El Fayum partono le pattuglie T1 (neozelandese) e G1 (guardie) su 5 jeep e 12 autocarri Chevrolet 30cwt, accompagnati da 2 camion pesanti con carburante aggiuntivo. Assieme a loro la pattuglia S2 (rodesiana) diretta a Bengasi. 6 SETTEMBRE. Nel tragitto, una jeep si capovolge superando una duna. I tre feriti saranno evacuati il giorno dopo con un aereo. 7 SETTEMBRE. Il convoglio giunge a Howard’s Cairn dove
incontra altri due camion della Heavy Section arrivati da Cufra, che lo riforniscono di altro carburante. 10 SETTEMBRE. La pattuglia S2 lascia il gruppo. 12 SETTEMBRE. Il convoglio arriva a Bir El Gerrari, dove è lasciato un mezzo equipaggiato, per servire da Rally point a eventuali sbandati dopo l’azione. 13 SETTEMBRE. Il LRDG arriva (apparentemente non scoperto) vicino a Barce. In realtà degli arabi avevano avvisato di una forza inglese nei paraggi e poi i ricognitori italiani l’avevano avvistata. All’ imbrunire, il LRDG si mette in moto per l’azione, supera sparando vari posti di blocco, ma due autocarri si scontrano tra loro e sono abbandonati. ORE 23:30 (ora GB) il convoglio distrugge due carri L3 italiani a controllo della strada per Barce. ORE 24:00 (ora GB) le pattuglie arrivano alla periferia di Barce: mentre un autocarro radio è posto a coprire le spalle, T1 e G1 si dividono. Con 5 mezzi, T1 attacca
l’aeroporto, dopo un’ora si sgancia e attraversa l’abitato dove si scontra con carri e blindo italiane e perde 3 mezzi e 6 uomini. G1 intanto attacca gli alloggiamenti della guarnigione, perdendo poi 2 mezzi. 14 SETTEMBRE. Ore 04:00 (ora di Londra), i mezzi superstiti delle due pattuglie si riuniscono e ripartono, incalzati dagli italiani. ORE 08:30 Aerei italiani avvistano il convoglio e lo attaccano ripetutamente per tutto il giorno. All’imbrunire, il solo autocarro e le due jeep rimaste si sganciano. 16 SETTEMBRE. I superstiti raggiungono il campo d’atterraggio d’emergenza LG 125 dove il 18 settembre un aereo porterà in salvo i feriti. 17 SETTEMBRE. Gli ultimi uomini si incamminano a piedi attraverso il deserto verso uno dei punti di raccolta. Nei giorni successivi verranno recuperati da altre pattuglie del LRDG, che aveva avuto 13 dispersi, 10 feriti e 14 veicoli distrutti su un totale di 17.
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Ralph Bagnold, militare e scienziato
R
alph Alger Bagnold (1896-1990, foto), figlio di un ufficiale, dopo gli studi all’Accademia militare di Woolwich entrò nel Genio, combattendo nella Grande guerra. Quindi studiò a Cambridge, rientrando nell’esercito (Signal Corps) nel 1921. Assegnato in Egitto nel 1929, esploratore appassionato, cartografo e grande organizzatore,
si diede a spedizioni su vasta scala nel deserto, che percorse in lungo e in largo con automezzi da lui stesso modificati. Congedatosi, proseguì nelle esplorazioni e nei suoi studi scientifici. Il LRDG. Richiamato ancora, nel 1940 propose al generale Wavell l’idea del LRDG, che Bagnold comandò fino all’agosto del ’41. Lasciò definitivamente l’esercito nel
1944 col grado di brigadiere e fino alla sua morte continuò la carriera scientifica, pubblicando brillanti studi e ricevendo prestigiosi riconoscimenti. Il suo libro The physics of blown sand and desert dunes sarebbe stato per oltre 70 anni un punto di riferimento per tutti i geologi, usato anche dalla Nasa per studiare le dune su Marte.
LA PREOCCUPAZIONE DI BAGNOLD RIGUARDAVA IL CALDO, MA SOPRATTUTTO IL GHIBLI, IL VENTO DEL DESERTO ricognizione e passando poi a incursioni vere e proprie. Furono così attaccati, sorprendendo i difensori, Gialo, El Auenat, Murzuk e altri presidi nemici nel deserto, spesso a più di 800 km dalle linee inglesi. Imboscate e attacchi ad autocolonne crearono il panico dietro le linee del nemico, che ormai non aveva più piste sicure fuori dalle proprie basi. Le difficoltà di muoversi in lande desolate e vivere per settimane con razioni in scatola e poca acqua (non più di 3 litri al giorno, anche per il tè), si fecero sentire, ma gli uomini del LRDG – abbigliati sempre in modo informale, più legato alle esigenze contingenti che ai regolamenti militari – si adattarono sempre al deserto, senza cercare di vincerlo alla proprie volontà, e fecero innumerevoli azioni quasi tutte vincenti, come i grandi raid (tra cui Barce) compiuti nel settembre 1942. Dopo il Nordafrica, il LRDG venne impiegato, quasi con gli stessi compiti ma su diverso terreno, in Egeo, Grecia, Jugoslavia e Italia: fu definitivamente sciolto il 1° agosto del 1945 a Rodi Garganico. I parà del Sas. Ma da parte inglese nel deserto non operò solo il LRDG: nel 1941 fu costituito lo Special Air Service (SAS) per effettuare raids di paracadutisti e commando contro aeroporti o basi logistiche italo-tedesche. Inizialmente gli uomini del SAS, con penuria di mezzi ed equipaggiamenti, erano trasportati dagli automezzi del LRDG (in questi casi soprannominati Lybian Taxis Ltd.) in vicinanza degli obiettivi. In seguito, il comandante e ideatore del reparto, David Stirling, acquisì
una flotta di Jeep che armò con mitragliatrici binate. Con queste i suoi uomini, sempre fedeli al motto “who dares wins” (chi osa vince) iniziarono a colpire con attacchi imprevedibili basi e aeroporti nemici. SAS e LRDG spesso continuarono a operare assieme, infliggendo gravi danni e distogliendo forze preziose al nemico che tentava di neutralizzarli. I raider italiani. Gli italiani, sin dagli anni ’30, avevano già in Libia reparti specializzati per il movimento e il combattimento nel deserto: le Compagnie Meharisti (montate su dromedari da sella) e le Compagnie Sahariane, tutte formate da personale locale, ben avvezzo alle dure condizioni del deserto. Le Compagnie Sahariane erano state riorganizzate nel 1938 da Italo Balbo e trasformate in unità motorizzate, con aerei leggeri in appoggio. Organizzate in colonne mobili ed equipaggiate anche con automezzi A.S.37 modificati con cannoni anticarro da 47/32 e Breda 35 da 20 mm, che davano loro un grande potere di fuoco, furono usate per pattugliare le vaste aree tra le varie guarnigioni e proteggere le vie di comunicazione. Gli Arditi del deserto. A fine 1942, ispirati dagli stessi inglesi, anche gli italiani crearono delle pattuglie di Arditi Camionettisti con particolare addestramento, per compiere azioni nel deserto. Erano montate su speciali automezzi, le ottime Italo Balbo Classe 1896, squadrista, aviatore, da governatore della Libia (dal 1934) riorganizzò le unità sahariane. Morì il 28-6-1940 sotto il fuoco amico della propria contraerea nei cieli di Tobruk.
PPA, l’armata privata di Popsky
U
no degli ideatori del raid su Barce era un ufficiale che collaborava col LRDG: il maggiore della Lybian Arab Force Vladimir Peniakoff, detto “Popsky” (nella foto, quello a destra). Belga, figlio di russi, ingegnere, poliglotta (parlava inglese, francese, russo, italiano, tedesco e arabo) era emigrato in Egitto nel 1924. Pilota, alpinista e
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membro della Royal Geographical Society, diventò profondo conoscitore dei deserti e delle sue tribù. Nel 1942 formò il più piccolo reparto dell’esercito inglese, il PPA, Popsky Private Army (Esercito privato di Popsky), ufficialmente denominato No.1 Demolition Squadron: un ridotto gruppo di uomini, scelti da Popsky con criteri personali, specializzato in
raccolta informazioni e sabotaggio anche dietro le linee nemiche. Con i partigiani. Il PPA, che si muoveva su jeep armate con mitragliatrici e aveva come stemma un astrolabio, simbolo della navigazione stellare, combatté in Nordafrica e poi in Italia, dove operò con l’8a Armata inglese anche in supporto ai partigiani.
SIERRA (4)
RICORDI
Su una carta del deserto, alcuni cimeli appartenuti a un uomo del LRDG: pugnale da combattimento, bussola, occhialoni, razioni d’emergenza, pacchetto di medicazione, una bustina col fregio degli “scorpioni”. Sotto, gli uomini del Sas, lo Special Air Service inglese.
SAPERNE DI PIÙ The Long Range Desert Group 1940-1945: providence their guide, David Lloyd-Owen (Ed. Leo Cooper). Il generale che li guidava descrive il dietro le linee nemiche in Nordafrica, Italia, Egeo (in inglese).
Camionette desertiche AS 42, pesantemente armate ed equipaggiate che, come i veicoli nemici, avevano una grande autonomia (quasi 1.500 km). Sia le Compagnie Sahariane, sia gli Arditi Camionettisti avrebbero dato filo da torcere agli uomini del LRDG, scontrandosi con loro più volte. Ma che fossero del LRDG, del SAS, delle Compagnie Sahariane o delle colonne mobili delle Forze Francesi Libere al coman-
do del generale Leclerc (che operavano anch’esse nel deserto partendo dalle basi in Ciad), questi uomini furono tutti accomunati dagli stessi problemi di sopravvivenza in un ambiente durissimo che non faceva sconti a nessuno, nel quale però, tra mille difficoltà, riuscirono a compiere azioni memorabili mai più ripetute. d
Camionette desertiche AS 42 Chiamate anche Sahariane, erano maneggevoli veicoli 4x4 derivati dalle autoblinde Spa AB 41, studiati per operare su terreni sabbiosi. L’armamento variava da mitragliatrici Breda da 8 mm o 20 mm e fucili anticarro, fino a cannoni 47/32.
Leclerc Philippe François Marie Leclerc de Hauteclocque, ufficiale della Francia Libera, con una colonna proveniente dal Ciad guidò attacchi verso le posizioni italiane alle oasi di Murzuk e Cufra. Si distinse poi in Tunisia e in Normandia.
Stefano Rossi
La breve comparsa dietro le linee nemiche delle unità tedesche
S
ebbene già nel marzo 1941 ci fosse stata una proposta per la costituzione di una piccola unità non convenzionale per azioni e raid nel deserto, la cosa finì nel nulla. L’unico a creare una forza di questo tipo fu l’Abwehr, il servizio informazioni tedesco, che formò un Sonderkommando per le operazioni speciali in Nordafrica, con l’aiuto del conte Laszlo von Almaszy, figura riscoperta nel 1992 dal libro di Michael Ondaatje Il paziente inglese e dal film pluripremiato. Il nobiluomo era già stato pilota dell’aviazione austro-ungarica
nella Grande guerra e negli anni ’30 aveva fatto l’esploratore di deserti come Ralph Bagnold. Infiltrati. La loro missione più importante fu l’Operazione Salam, l’infiltrazione attraverso il deserto libico, sullo stile del LRDG, di due spie tedesche in Egitto, usando veicoli di preda bellica. A maggio 1942 fu creata anche una speciale forza di supporto per queste operazioni, il Sonderkommando Dora, che fu ben poco utilizzata soprattutto per la mancanza di automezzi adeguati, se si eccettuano le piccole vetture Kübelwagen.
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LA GUERRA NEL DESERTO IRAQ 1990-1991
CONTRO SADDAM GLI USA E I LORO ALLEATI RIVERSANO NEL GOLFO TUTTO IL POTENZIALE DISTRUTTIVO DELLA LORO MACCHINA BELLICA
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GETTY IMAGES
DE ERT TORM
BELVA DI GUERRA
Un carro AMX30 francese del 4° rgt Dragoni (divisione Daguet), pronto per l’attacco di terra del 24 febbraio 1991.
I
raq, 24 febbraio 1991. Sono le 01:00 Zulu (ora di Gretrare in Iraq per quasi 300 km e bloccare gli eventuali rinforzi enwich o UTC) – le 04:00 ora locale – quando scatta la iracheni. In breve gli obiettivi sono raggiunti e i prigionieri sofase terrestre dell’Operazione Desert Storm (“tempesta no già migliaia. Alle 15:00 del 24, in anticipo sui tempi, il VII del deserto”), per liberare il Kuwait invaso dalle truppe corpo corazzato pesante, forte di più di 150.000 uomini e cenirachene di Saddam Hussein il 2 agosto dell’anno precedente. tinaia di carri armati (principalmente i moderni M1 Abrams Delle forze in attacco fanno parte Stati Uniti, Gran Bretagna, americani), viene lanciato attraverso il confine ovest del KuFrancia, Egitto, Arabia Saudita, Kuwait e Siria. wait, con il compito di imbrigliare le forze nemiche nel Paese e Molti altri Paesi oltre a questi, tra cui Canada, Emirati Aradistruggere la Guardia repubblicana irachena. L’attacco prinbi e Italia (in tutto la coalizione internazionale nata dopo le ricipale è preceduto dal tiro dell’artiglieria che vomita sul nemisoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu n° 660 e 678 saco più di 10.000 colpi e 500.000 razzi: una reale e devastante rà composta da 34 Paesi), hanno inviato forze aeree che già da “tempesta del deserto” nella quale molti soldati iracheni bru38 giorni, durante la precedente fase aerea, compiono conticiano vivi nelle linee di difesa. nue missioni contro le truppe irachene. L’avanzata delle forze è impressionante, soprattutto più a sudIn realtà un’iniziale presa di contatto terrestre c’è già stata il est, dove i marines raggiungono gli obiettivi già il primo gior29 gennaio, quando reparti corazzati e meccanizzati iracheni no. Nei giorni successivi le forze della coalizione si muovono cohanno attaccato la città saudita di Al Khafji, al conme un rullo compressore in territorio kuwaitiano, fine col Kuwait, sorprendendo le truppe della coamentre le truppe irachene sono già in ritirata. Con lizione. Ma ormai l’iniziativa è in mano alleata e la una manovra a gancio chiudono l’attacco contro le resa dei conti vicina e improcrastinabile. divisioni della Guardia repubblicana su cui riversaLe ore passate Sul fianco occidentale dello schieramento le didall’inizio visioni aviotrasportate Usa (82a e 101a) e una diviM1 Abrams Carro armato da combattimento (Main Battle Tank) americano, dell’attacco di nato nel 1978, fu usato nelle Operazioni Desert Storm e Iraqi Freedom. sione francese iniziano l’attacco; il compito è peneterra alla fine delle
100 operazioni.
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JOINT FORCE COMMAND NORTH (EGITTO, ARABIA SAUDITA, KUWAIT E SIRIA)
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Settori di intervento dei corpi Prima linea irachena
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IRAQ 1990-1991 2 AGOSTO 1990: 100.000 soldati e 2.000 carri armati iracheni invadono in poche ore l’impreparato Kuwait. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu vara la risoluzione 660 con cui condanna l’invasione e prepara le forze per contrastarla. 7 AGOSTO: scatta l’Operazione Desert Shield e truppe Usa e di altri Paesi si insediano in Arabia Saudita. 29 NOVEMBRE: l’Onu fissa al 15 gennaio 1991 il termine ultimo in cui le truppe irachene dovranno lasciare il Kuwait (risoluzione 678). 17 GENNAIO 1991: alle 03:00 (ora locale) scatta l’operazione Desert Storm, che nelle prime tre fasi prevede solo campagne aeree. 18 GENNAIO: missili balistici iracheni Scud colpiscono il suolo israeliano. 29 GENNAIO: primi scontri terrestri ad Al Khafji. 24 FEBBRAIO: iniziano le operazioni di terra della coalizione, verso le truppe irachene in Kuwait. 25 FEBBRAIO: gli iracheni sono già in ritirata. 27 FEBBRAIO: battaglia al ponte di Medinah. 28 FEBBRAIO: cessazione delle operazioni. Le perdite irachene sono 22.000, quelle della coalizione 1.378 (di cui solo un centinaio “in azione”). I prigionieri iracheni sono 60.000. 2 MARZO: l’Onu stabilisce, con la risoluzione 686, la fine delle ostilità. 3 MARZO: in una tenda di un aeroporto nel deserto, a Sawfan, tra i generali rappresentanti delle due parti sono concordati i dettagli del cessate il fuoco.
ERUZIONE DI SABBIA
Nella foto, unità del Genio inglese fa esplodere un campo minato davanti alle posizioni irachene.
AFP/GETTY IMAGES
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AFP/GETTY IMAGES
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IL FANTE AMERICANO, PRONTO PER IL DESERTO E NON SOLO
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l sergente Duane Clemons , mitragliere di una squadra di fanteria dell’Us Army, fotografato a Dharan (Arabia Saudita)
pochi giorni prima dell’attacco di terra. È contornato da tutto l’equipaggiamento in dotazione alla fanteria americana per
quell’esigenza, che comprendeva anche il vestiario e il kit per la guerra NBC (Nucleare, Batteriologica e Chimica).
1-2 Giubbotto antischegge ed elmetto in kevlar. 3 Armi ed equipaggiamento individuali. 4 Vestiario ed equipag-
giamento NBC. 5 Uniforme con mimetismo per operazioni desertiche. 6 Mitragliatrice leggera
M60, calibro 7,62. 7 Zaino, con bastino di supporto. 8 Parka, con mimetismo notturno.
IN POCHI GIORNI LA COALIZIONE TRAVOLSE LE DIFESE AVVERSARIE RAGGIUNGENDO GLI OBIETTIVI PREFISSATI no una potenza di fuoco mai vista. Il 27, dopo una dura battaglia ad Al Madinah, con esito scontato, in cui 300 mezzi iracheni sono distrutti (a fronte di soli due persi dagli Usa, di cui uno colpito dal fuoco amico), la strada per Kuwait City è sgombra. L’indomani, dopo soli 5 giorni dall’attacco di terra, cessa ogni ostilità; la risoluzione Onu 686 del 2 marzo fisserà i termini del cessate il fuoco. Un successo. La guerra scatenata dal dittatore iracheno per impossessarsi del petrolio kuwaitiano (1/5 della produzione mondiale) è conclusa. Per gli Stati Uniti, che di fatto guidano la coalizione internazionale, questa è la prima guerra fuori dai confini nazionali dopo il disastro del Vietnam. Il comandante, Norman Schwarzkopf , “Stormin’ Norman” (Norman il Tempestoso), un reduce di quel conflitto, liberando in poDesert Shield Operazione condotta dall’agosto 1990 fino al gennaio 1991 dagli Usa e dai loro alleati per il posizionamento logistico delle truppe in preparazione della Guerra del Golfo.
chi giorni e con perdite minime il Kuwait, ha ampiamente riscattato le forze armate del suo Paese, sia a livello internazionale che interno. Con i moderni mezzi adatti anche alla guerra nel deserto e con truppe, come le divisioni aviotrasportate Usa, addestrate a combattere in qualunque area del mondo, le tattiche degli eserciti Nato sviluppate in funzione antisovietica nelle pianure della Germania hanno funzionato anche qui. Ma soprattutto la preparazione e l’enorme dispiegamento di forze logistiche delle operazioni Desert Storm e Desert Shield (la fase precedente, con il posizionamento delle forze attorno al Kuwait), hanno fatto la differenza. Per una volta il deserto SAPERNE DI PIÙ non è stato “l’incubo di ogni fuOperation Desert Storm, Martin Gitlin riere”, come lo definì un genera(Abdo Group, 2009). Ricostruzioni, mappe, le tedesco nella Seconda guerra foto a colori della più importante guerra mondiale. d Stefano Rossi
nel deserto dell’era contemporanea.
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LA GUERRA NEL DESERTO 73 EASTING 1991 BRADLEY
Veicoli da combattimento prodotti in 2 versioni: M2 per la fanteria meccanizzata (trasportava 6 soldati e 7 missili anticarro Tow), M3 per la cavalleria (portava 2 soldati, ma disponeva di 12 missili Tow e più munizioni per il cannone da 25 mm.
PIÙ DEBOLI E PEGGIO EQUIPAGGIATI, I TANK IRACHENI ERANO ACQUATTATI SOTTO LA SUPERFICIE DEL DESERTO PER COLPIRE A SORPRESA. MA LA FINE DELLA GUARDIA REPUBBLICANA DEL RAÌS ERA QUESTIONE DI ORE
UNA TOMBA
I
l deserto che si estende tra Arabia Saudita, Iraq e Kuwait, teatro della breve fase terrestre della Guerra del Golfo, è una distesa piatta interrotta solo da alcune alture e dai canaloni degli uadi, fiumi quasi sempre secchi, che hanno scavato profondi solchi nel terreno simili a piccoli canyon. Questo terreno polveroso – ma comunque abbastanza solido da reggere il peso dei tank – costituisce il campo di battaglia
AFP/GETTY IMAGES
FORZE ANNIENTATE
Uno dei T-72 del ricostituito esercito iracheno dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003. Da allora le forze di Baghdad hanno acquisito in Ungheria 77 carri T-72 e 140 carri statunitensi Abrams, di fatto gli stessi che sbaragliarono le forze di Baghdad nel 2001, un pallido riflesso dei 4.000 tank del raìs.
perfetto per il movimento dei reparti corazzati, anche se qui la visibilità rasenta lo zero durante le frequenti tempeste di sabbia. Simile al deserto libico ed egiziano che vide affrontarsi britannici e italo-tedeschi nel 1940-43, è privo però di quelle depressioni che avevano impantanato o limitato le manovre d’accerchiamento ai tank di Rommel e Montgomery. Il comando del VII corpo d’armata statunitense aveva avu-
T-72
Il Leone di Babilonia, versione prodotta in Iraq del T-72M1 sovietico: pesava 42 ton, era armato con un cannone da 125 e 2 mitragliatrici e raggiungeva fuori strada i 45 km/h.
DI SABBIA to tutto il tempo di studiare il terreno durante i mesi che precedettero il via all’ Operazione Desert Sabre , fase terrestre di Desert Storm, la campagna militare contro l’Iraq di Saddam Hussein. Le incursioni aeree della coalizione internazionale avevano preso il via il 17 gennaio e l’intelligence valutava che le forze di Saddam Hussein in Kuwait e nel sud dell’Iraq avessero perduto tra il 50 e il 75% delle capacità di combattimento, incluse le divisioni della Guardia repubblicana, corpo d’élite del raìs di Baghdad, schierate nel deserto tra il Kuwait e Bassora. La direttrice d’avanzata delle divisioni del VII corpo d’armata, trasferite in buona parte dalla Germania dove costituivano il fulcro delle unità dell’US Army in Europa, prevedeva la penetrazione in territorio iracheno verso nord fino ad Al Busayah, per poi puntare a est verso Al Zubayr e la regione petrolifera a sud di Bassora, sbaragliando o accerchiando le 43 divisioni di Saddam Hussein dislocate nell’area interessata dal conflitto. Iniziano le battaglie di carri. Alle 4:00 del 24 febbraio presero il via le operazioni terrestri e, mentre marines e contingenti arabi attaccavano lungo il confine kuwaitiano-saudita, a ovest il VII corpo meccanizzato e il XVIII corpo aeromobile penetrarono in profondità nel territorio iracheno insieme ai contingenti francese e britannico. Desert Sabre Mentre, come già detto, per “Desert Shield” i militari intendevano la fase preparatoria e per “Desert Storm” la campagna di bombardamenti aerei su Iraq e Kuwait (operata dal 17 gennaio 1991), “Desert Sabre” (ovvero, “sciabola nel deserto”) era la campagna terrestre con cui le truppe di terra della coalizione internazionale avanzarono in territorio kuwaitiano e per qualche centinaio di km in territorio iracheno, dal 24 al 28 febbraio 1991.
3.150 Le missioni aeree effettuate dagli alleati all’inizio dell’operazione.
Dopo il rapido sfondamento delle linee irachene e il superamento dei fitti campi minati, tre divisioni statunitensi puntarono decisamente verso nord mentre i britannici penetrarono in Kuwait. La 1a divisione corazzata raggiunse Al Busayah nel primo pomeriggio del 25 febbraio attaccando con gli aerei “cacciacarri” A-10, gli elicotteri Apache e i carri M1A1 Abrams il battaglione iracheno che difendeva la posizione. Cannoni, carri T-55 e cingolati BMP1 vennero distrutti e centinaia di soldati iracheni alzarono le mani anche al solo passaggio degli elicotteri Apache. «A 2.800 metri i nostri Abrams ingaggiarono i carri nemici e le loro torrette saltarono in aria sollevandosi di 12 metri dallo scafo», ricorda un sergente del 35° reggimento carri. Nel settore del VII corpo si svolsero tutte le battaglie di mezzi corazzati della breve fase terrestre della guerra. Tra il 25 e il 26 febbraio la 1a divisione corazzata britannica annientò la 52a divisione corazzata irachena. L’intensità degli scontri di quel giorno è confermata dal record di missioni aeree effettuate dagli alleati: ben 3.150 di cui 1.997 da combattimento. L’avanzata delle divisioni corazzate americane 1a e 3a verso est era preceduta dai raid degli A-10 e degli elicotteri Apache e ostacolata solo dalle tempeste di sabbia e dal fumo provocato dall’incendio di centinaia di pozzi petroliferi kuwaitiani. 73 Easting: la prima vittoria. Alle 16:00 del 26 febbraio il 2° reggimento di cavalleria entrò in contatto con il nemico eliminando una sessantina tra carri armati, mezzi cingolati e obici semoventi. Due ore più tardi, presso la posizione gps se67
GETTY IMAGES
M1A1 ABRAMS
Del peso di 61 ton, armati di un cannone da 120 mm e 2 mitragliatrici, erano protetti da una corazzatura in materiali compositi Chobam. Oltre 1.800 Abrams vennero schierati in Arabia Saudita per il conflitto del 1991.
DESERT SABRE 26 FEBBRAIO 1991 Capitano H. R. McMaster
AREA MAPPA SETTORE 3A DIVISIONE CORAZZATA SETTORE 2° REGGIMENTO DI CAVALLERIA CORAZZATA 73 Easting
IRAQ
Us: tank M1A1 Abrams Us: veicoli da combattimento Bradley
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Iracheni: tank T-72
FASE
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2° plotone
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Comando brigata
2° plotone 1° plotone
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3° plotone
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McMaster
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4° plotone
4° plotone
15:56
16:10
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73 Easting
16:22
16:40
BATTAGLIA DEL 73 EASTING
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ASE 1. Il capitano McMaster (in alto, nella foto), che verrà decorato per questa azione con la Stella d’argento, guida la compagnia Eagle del 2° reggimento di cavalleria corazzata in un attacco
frontale a sospresa contro le postazioni irachene, venendo accolto da un fitto fuoco della fanteria irachena posizionata in un cluster di postazioni fortificate. Sbaraglia i fanti nemici chiusi nei bunker (1), che poi si ar-
NEI 4 GIORNI DI COMBATTIMENTI TERRESTRI 23 TANK ABRAMS FURONO DISTRUTTI (7 DA FUOCO AMICO)
rendono; cattura i prigionieri, quindi supera il villaggio (2) e attacca (3) lo schieramento di linea dei carri nemici T-72, annientandoli (4). FASE 2. Sempre alla guida della compagnia di tank, McMaster prosegue l’avan-
zata travolgente fino alla posizione 73 Easting, per poi affrontare un lieve pendio verso il comando della brigata nemica (5), che viene attaccata. I suoi due plotoni corazzati fanno il resto: il 4° plotone
carri e il 3° plotone su M-3 Bradley respingono il contrattacco iracheno sul fianco (6). La compagnia prosegue (7) l’avanzata fino alla posizione 74 Easting e all’esaurimento dell’azione.
gnata sulle mappe militari americane come 73 Easting, i T-72 di una delle tre brigate della divisione meccanizzata Tawakalna della Guardia repubblicana, insieme ai T-55 della 12a divisione corazzata, contrattaccarono il reparto statunitense. La tempesta di sabbia impedì per ore l’impiego di Apache e A-10 costringendo i carristi a utilizzare le camere termiche per individuare i bersagli distruggendo 53 T-72 e BMP1 e catturando 1.300 prigionieri, contro la perdita di un Bradley bloccato dal colpo di un tank iracheno e “finito” da un missile anticarro Sagger lanciato da un BMP1.
UN GRAN BOTTO
25 febbraio 1991, un tank della Guardia repubblicana esplode nel deserto iracheno sopra le mine piazzate dai Rangers della 82a divisione aviotrasportata americana.
AFP/GETTY IMAGES
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Trincee della fanteria irachena
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1 Us: tank M1A1 Abrams Us: veicoli da combattimento Bradley Iracheni: tank T-72
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Carri in posizioni trincerate
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2°
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1° PLOTONE
Carri americani colpiti da fuoco amico SETTORE DELLA 3A DIVISIONE CORAZZATA
Americani colpiscono tank iracheni da 400 m
SETTORE DEL 2° REGGIMENTO DI CAVALLERIA CORAZZATA
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E T R E AW PU AK BB AL LI NA CA NA )
Mentre il 1° plotone di rinforzo arriva, il 3° si ritira
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Iracheni: BMP1
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BATTAGLIA DI PHASE LINE BULLET
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el pomeriggio del 26 febbraio quattordici M-3 Bradley (1) della Compagnia esplorante Alpha del 7° reggimento di cavalleria aprono la strada alla 3a divisione corazzata. Complice una tempesta di
sabbia e il fumo provocato dall’incendio dei pozzi petroliferi, i cingolati si trovano esposti al fuoco (2) delle armi anticarro irachene, dei cannoni dei carri T-72 e dei veicoli cingolati BMP1 (che impiegano anche missili
Sagger) in parte interrati per offrire un bersaglio ridotto ai visori nemici. Nel combattimento a distanza ravvicinata gli Usa rispondono (3) con missili Tow, cannoncini da 25 mm e mitragliatrici pesanti Browning; alcuni
L’insidia nascosta sotto le dune
Bradley vengono messi ko dal nemico, altri danneggiati, ma almeno 3 sono colpiti per errore dagli Abrams della Task Force 4-34, che dalle retrovie apre il fuoco di copertura (4) contro gli iracheni.
ltre a disporre del totale dominio dell’aria, di una maggiore potenza di fuoco e di mezzi più protetti rispetto agli iracheni, gli alleati potevano contare sulla maggiore gittata dei cannoni da 120 millimetri degli Abrams, capaci di ingaggiare obiettivi fino a 3.000 metri di distanza con proiettili perforanti in uranio impoverito. Oltre mille in più rispetto ai proiettili in tungsteno dei cannoni da 125 mm dei “Leoni di Babilonia”, i carri T-72 assemblati in Iraq e in dotazione alla Guardia repubblicana. Inoltre i carri iracheni risultarono perforabili persino ai proiettili da 25 mm dei cingolati M3 Bradley armati anche di missili anticarro Tow. Interrati. Per queste ragioni, e per non esporli alle forze aeree alleate, nella maggior parte degli scontri gli iracheni impiegarono i tank in postazioni scavate nella sabbia per ridurne la visibilità, rinunciando al combattimento manovrato. Inoltre i carristi del VII corpo erano tra i meglio addestrati al mondo perché preposti a fronteggiare un’eventuale guerra contro i sovietici in Europa.
1.300 I carri iracheni
Phase Line Bullet: proiettili attraverso la sabbia. Poco più a nord, nello scontro noto come Battaglia di Phase Line Bullet, la divisione Tawakalna, in ritirata verso nord, riuscì a bloccare temporaneamente l’avanzata americana quando i Bradley del 7° reggimento cavalleria finirono sotto un pesante attacco che danneggiò 4 mezzi, mentre altri tre vennero colpiti per errore dai carri Abrams che coprivano il ripiegamento del reparto. La divisione irachena venne annientata il 27 marzo dalla 3a divisione corazzata americana. «Dei corazzati iracheni interrati potevi vedere solo la cima della torretta sopra il muro di sabbia, così abbiamo iniziato a sparare due o tre piedi più in basso. I proiettili hanno attraversato la sabbia e fatto esplodere i tank, abbiamo fatto saltare una torretta fuori dal buco di circa 6 metri», raccontò un carrista. Si prosegue: obiettivo Norfolk. Il 27 febbraio (G-3) la 1a divisione di fanteria meccanizzata attaccò l’obiettivo finale dell’offensiva, la postazione Norfolk, sede di una base logistica dell’esercito di Saddam, 10 chilometri a est di 73 Easting. Nell’assalto, anche a causa della fitta polvere, alcuni Abrams e Bradley statunitensi penetrarono nelle linee irachene finendo sotto il fuoco degli altri Abrams rimasti in posizione più arretrata. La situazione caotica venne risolta solo dall’ordine di ritirata dell’avanguardia, ma non impedì che 4 Abrams venissero colpiti dal fuoco amico mentre un centinaio di mezzi irache-
catturati o distrutti ni vennero distrutti e altrettanti furono in sole 90 ore dal VII abbandonati dagli equipaggi. corpo d’armata Usa. Medina Ridge. Quello stesso giorno unità della 1a divisione corazzata Usa vennero attaccate dalla divisione Medina della Guardia repubblicana, i cui mezzi erano schierati sul pendio di una cresta lunga 7 km in modo da non essere rilevati e poter ingaggiare i mezzi nemici a breve distanza. Nella battaglia, chiamata dagli americani “Medina Ridge” e considerata il più imponente scontro di carri dopo il 1945, vennero distrutti in due ore 186 carri tra T-72 e T-69 (38 colpiti da A-10 e Apache) oltre a 127 veicoli da combattimento. Perdite che annientarono la divisione Medina, mentre gli americani persero 4 Abrams, un aereo A-10 e 2 Apache. 73 Easting, Phase Line Bullet, Norfolk e Medina Ridge videro l’estremo sacrificio della Guardia repubblicana, ma non misero in discussione l’esito del conflitto, conclusosi il 28 febbraio con la liberazione del Kuwait. In 90 ore il VII corpo d’armata sbaragliò una dozzina di divisioni iraSAPERNE DI PIÙ chene distruggendo o catturando Report to Congress on the 1.300 carri, 1.200 cingolati da comconduct of the Persian Gulf War (in inglese): battimento, 285 pezzi d’artiglieria e http://es.rice.edu/projects/Poun centinaio di sistemi contraerei.d Gianandrea Gaiani
li378/Gulf/gwtxt_ch8.html
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RICOSTRUZIONI
FRA I REPARTI PIÙ IMPORTANTI DEGLI ESERCITI MODERNI LA STORIA MILITARE ANNOVERA LA GARDE DI POTSDAM, IL FIORE ALL’OCCHIELLO DELLE ARMATE DI FEDERICO IL GRANDE
LA GUARDIA
DEL RE DI PRUSSIA
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LESSING/CONTRASTO
ell’esercito prussiano, e poi in quello imperiale tedesco, i reparti della Guardia erano considerati l’eccellenza. Ma la loro storia non è lineare: disfatte e ricostruzioni si alternano alle vittorie. Il primo a voler costituire un reggimento “della Guardia” fu il principe Federico Guglielmo che aveva sostituito il padre, l’elettore Federico di Brandeburgo, al comando del Regiment Kurprinz, rinominato Infanterie Regiment 6. Kronprinz dopo che la Prussia ebbe ottenuto il rango di regno. Federico Guglielmo aveva una vera e propria passione per la vita militare e utilizzò il suo reggimento per sperimentare nuove tattiche di combattimento e sistemi di addestramento. Nel 1710 ebbe l’idea di aumentare la forza complessiva del reparto, aggiunse un terzo battaglione ai due già esistenti e decise di comporlo con truppa scelta, anzi sceltissima: nacque così il battaglione di granatieri detto Potsdamer Riesengarde, la “Guardia Gigante di Potsdam”, i cui soldati erano noti come i Lange Kerls, gli “Spilungoni”. Le reclute dovevano infatti avere un’altezza di almeno 6 piedi prussiani, 1,88 metri. Si trattava di soldati estremamente difficili da reclutare e Federico Guglielmo inviava suoi agenti per tutta l’Europa alla ricerca di uomini sufficientemente alti. Alla morte del padre Federico I, Federico Guglielmo divenne re di Prussia e il reggimento fu battezzato Königsregiment, il Reggimento del Re. Al figlio Federico, destinato a divenire celebre come “Federico il Grande”, fu affidato il comando del nuovo IR 15. Regiment Kronprinz. Quando nel 1740 salì al trono con il nome di
ONORE AL MERITO
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Battaglione di Granatieri della Guardia prussiana alla Battaglia di Hohenfriedberg (1745), episodio della Guerra di successione austriaca. Sopra, l’onorificenza Pour le Mérite che fu inventata dal re prussiano.
ABILE TATTICO E STRATEGA
INTERFOTO/ARCHIVI ALINARI
Federico il Grande (1712-1786), re di Prussia dal 1740, abile tattico e stratega, fu uno dei grandi inventori dell’esercito moderno.
I Granatieri giganti
LA TIARA
Mitra M 1894 per granatiere del Garde-Grenadier-Regiment N. 1, con la grande placca metallica frontale.
Per essere ammessi nei Lange Kerls, i Granatieri giganti del re di Prussia Federico Guglielmo I, occorreva essere alti almeno 1,88 metri, un’altezza veramente considerevole per il Settecento. Sono ricordati granatieri come l’irlandese James Kirkland e il finlandese Daniel Mynheer Cajanus, alti rispettivamente 2,17 e 2,24 metri. Spesso però si trattava di persone che soffrivano di gigantismo, malate e scarsamente affidabili.
IL MOSCHETTO
Si tratta di un Infanteriegewehr M 1801, noto anche come Nothardt-Gewehr. Fu l’arma base della fanteria prussiana fino al 1811.
INTERFOTO/ARCHIVI ALINARI (3)
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Nel ritratto, un langer kerl, il granatiere Schwerid Rediwanoff (1739); originario di Mosca, era alto 2,04 metri.
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DETERMINANTI A LEUTHEN
Nel quadro di Carl Röchling, l’azione decisiva del 3° Battaglione della Guardia, che nella Battaglia di Leuthen (5 dicembre 1757) assalta il portale della chiesa dove sono asserragliati gli austriaci.
IN AMICIZIA, L’IMPERO OTTOMANO, LA RUSSIA E L’AUSTRIA SPEDIVANO AL RE DI PRUSSIA SPILUNGONI PER IL SUO 6° REGGIMENTO L’UNIFORME
Uniforme M 1895 per ufficiale del Garde-Grenadier-Regiment N. 2. Sulle spalline, le iniziali di Francesco Giuseppe d’Austria, al quale era intitolato il reggimento.
Federico II, egli decise che il suo reggimento sarebbe diventato la nuova Guardia, mentre il vecchio reparto del padre, i cui 3 battaglioni schieravano 3.200 uomini, fu ridotto a uno solo e nominato IR 6. Grenadier-Garde-Bataillon; i primi a essere congedati furono proprio gli “Spilungoni”. I soldati in grado di prestare servizio furono mantenuti nei ranghi e confluirono nell’IR 15. Regiment-Garde, una parte della truppa fu assunta con incarichi da valletti e portantini di corte, mentre i restanti furono congedati e le strade della Germania per qualche tempo furono percorse da “giganti” che cercavano con qualsiasi espediente di tornare alle loro case. L’esercito di Federico II aveva ora 4 battaglioni che potevano fregiarsi del titolo di Guardia: l’IR 5. Grenadier-Garde-Bataillon e il 1°, 2° e 3° battaglione dell’IR 15. RegimentGarde. Il 1° Battaglione di quest’ultimo reggimento fu vestito con un’uniforme particolarmente elaborata, e divenne il Bataillon-Garde o Leib-Garde-Bataillon. Battaglie e riforme. I soldati erano stabilmente acquartierati pochi chilometri a sud di Berlino, nella città di Potsdam. Il suo centro abitato divenne una grande caserma le cui vie erano percorse da colonne di uomini in uniforme sempre in parata o in addestramento. Il pezzo forte dei reggimenti della Guardia erano le sfilate nelle vie cittadine o nei vasti giardini del palazzo del Sans Souci, ma in caso di necessità dimostrarono di essere delle valide unità da combattimento. I piani strategici di Federico II prevedevano l’ampliamento del regno di Prussia a scapito dell’Austria. Non a caso contro gli austriaci combatté quattro guerre: le due Guerre di Slesia (1740-1742, 1744-1745), la Guerra dei sette anni (1756-1762) e la Guerra di successione bavarese (1777-1778). I battaglioni della Guardia ebbero alterne fortune. L’IR 6. Grenadier-Garde-Bataillon si distinse il 4 giugno 1745 alla battaglia di Hohenfriedberg, mentre meno fortunato fu il Leib-Garde-Bataillon dell’IR 15, che il 18 giugno 1757 alla Battaglia di Kolin fu totalmente distrutto. Il 5 dicembre dello stesso anno il 2° e il 3° Battaglione del Regiment-Garde presero parte alla Battaglia di Leuthen, il più grande dei trionfi militari di Federico II. Alle 15:30 i due battaglioni ricevettero l’ordine di conquistare il villaggio di Leuthen; ebbe allora inizio uno spaventoso combattimento a distanza ravvicinata contro i soldati austriaci che difendevano la posizione. Grazie all’impiego dell’artiglieria campale pesante, i Prussiani furono in grado di occupare il villaggio. Poi, la Guerra dei sette anni mostrò all’Europa l’efficienza dell’esercito prussiano, che divenne l’esempio da imitare per tutti i regni del continente: Russia, Francia e Regno di Sardegna modellarono i loro reggimenti su quelli di Federico II. Tuttavia le guerre della Rivoluzione francese e la campagna napoleonica del 1806 distrussero in poche settimane quella che sembrava essere la migliore macchina da guerra del mondo. Il genio strategico di Napoleone e la perfetta organizzazione della Grande armée in quel momento non avevano eguali e i battaglioni della Guardia, con gran parte dell’esercito prussiano, si arresero tra fine ottobre e novembre 1806. La sconfitta e la successiva guerra del 1813 imposero alla Prussia una completa trasformazione delle sue forze militari, coinvolgendo direttamente i reggimenti della Guardia. Un primo Garderegiment zu Fuß, Reggimento della Guardia a piedi, fu ricostituito già nel 1808 con i superstiti del 1° Battaglione 73
dell’IR 15. Negli anni successivi la Guardia, pur mantenendo intatte le sue funzioni di corpo di rappresentanza, divenne la spina dorsale dell’esercito prussiano e del nuovo esercito imperiale tedesco. Tra 1813 e 1860 furono creati 3 nuovi reggimenti di Guardie a piedi e 4 di Granatieri della Guardia, ai quali furono affiancati 2 battaglioni di fanteria leggera. I giorni della Guardia. In occasione delle Guerre del 1866 contro l’Austria e del 1870 contro la Francia, conflitti che sancirono l’unificazione della Germania, l’esercito prussiano fu in grado di schierare un Corpo d’armata della Guardia, organizzato su tre divisioni, due di fanteria e una di cavalleria. Si trattava di una forza da combattimento di grandi dimensioni e ben 37.000 uomini potevano affermare di farne parte. I reparti di questa grande unità furono tra i primi a ricevere i nuovi fucili a retrocarica Dreyse M/41 e a utilizzare le tattiche di combattimento messe a punto dal principe Friedrich Karl Nikolaus von Preußen. Il Corpo d’armata della Guardia si distinse il 3 luglio 1866 durante la Battaglia di Königgrätz-Sadowa, che decise le sorti della Guerra austro-prussiana, in particolare nei duri scontri per il possesso della posizione chiave di Chlum. Nella successiva guerra contro la Francia di Napoleone III, i reggimenti della Guardia furono coinvolti nella Battaglia di Gravellotte-St. Privat del 18 agosto 1870 contro il grosso dell’esercito francese. Al termine di feroci scontri a fuoco, durante quella che fu una delle prime battaglie della Storia combattute da due eserciti completamente equipaggiati con fucili a retrocarica, il Corpo della Guardia, comandato dal principe Friedrich Karl, riuscì a conquistare le posizioni francesi ancorate al villaggio di St. Privat. Per i reparti tedeschi fu un bagno di sangue ma i difensori, scoraggiati, si ritirarono all’interno delle fortificazioni di Metz sino ad arrendersi il 27 ottobre. La fine di un’epoca. Il 18 gennaio 1871 fu proclamato l’Impero tedesco, la guerra con la Francia fu vittoriosamente conclusa il 29. I reggimenti della Guardia rientrarono nelle loro caserme sparse tra Berlino e Potsdam, ripresero l’addestramento e tornarono a sfilare lungo le vie della capitale della Germania riunificata. Verso la fine dell’Ottocento furono organizzati altri due nuovi reggimenti destinati a far parte del Corpo d’armata della Guardia. Il 1. Garde-Regiment zu Fuß divenne uno dei corpi più fotografati e rappresentati della Germania negli anni precedenti lo scoppio della Grande guerra. Il Kaiser Gugliemo II fece più volte sfilare tra i ranghi del prestigioso reparto il figlio Guglielmo, il quale, compiuti 18 anni, ottenne i gradi di sottotenente della 2a compagnia del 1. Garde-Regiment zu Fuß. Rimase in questo reparto sino al 1911, quando passò al comando del 1. Leib-Husaren-Regiment, 1° Reggimento Ussari Guardie del Corpo. I giorni spensierati delle parate di Potsdam e dei cambi della Guardia alla Neue Wache di Berlino erano destinati a terminare presto. Il 1° agosto 1914 la Germania dichiarò guerra alla Russia, due giorni dopo alla Francia. Il 9 agosto, passato in rassegna dall’imperatore davanti al castello di Potsdam, il 1. Garde-Regiment zu Fuß partì per il fronte francese. Si apriva un conflitto che avrebbe cambiato per sempre la guerra e una nuova élite di soldati, come le truppe d’assalto, stava per comparire. d Giovanni Cerino Badone
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18 agosto 1870 L’attacco della Guardia a St. Privat
L’
attacco della Guardia prussiana contro i reggimenti francesi schierati intorno al villaggio di St. Privat (nel quadro di Alphonse De Neuville, sopra) nel corso della Guerra francoprussiana del 1870 è uno degli episodi bellici più noti del XIX secolo. I francesi occupavano il centro abitato difeso da tre linee di trincee, presidiate da sette battaglioni di fanteria. Il Corpo d’armata della Guardia attaccò il
borgo verso le 5 del pomeriggio. Pur con perdite gravi i tedeschi, supportati da un massiccio sbarramento di artiglieria e utilizzando innovative tattiche di penetrazione, riuscirono ad avanzare. Da manuale. In uno degli attacchi più riusciti della storia militare, il Garde-Grenadier-Regiment N. 4 rigettò indietro un’intera divisione francese e aggirò da sud St. Privat, che venne occupato verso le ore 20.
AL CONGEDO
Il boccale per la birra che si dava ai soldati della Guardia quando si congedavano. In cima, la mitra del corpo militare.
IL PICKELHAUBE
Il caratteristico elmo chiodato (con coprielmo), nella versione M 1871/ 1899 adottata per gli ufficiali del Garde Korps.
Tutti i reggimenti della Guardia Alla fine dell’Ottocento i reggimenti di fanteria che potevano definirsi “della Guardia” erano in tutto 13: sei di fanteria, cinque di granatieri e due di fanteria leggera. Nella lista che segue sono elencati tutti i reparti a piedi della Guardia con la data di creazione.
FANTERIA
RMN/ALINARI
1. Garderegiment zu Fuß (1808) 2. Garderegiment zu Fuß (1813) 3. Garderegiment zu Fuß (1860) 4. Garderegiment zu Fuß (1860) 5. Garderegiment zu Fuß (1897) 6. Garde-Füsilier-Regiment (1826)
FEDERICO SEPPE CREARE UN ESERCITO BEN ADDESTRATO, FATTO DI MILIZIE DI LEVA E MERCENARI
GRANATIERI
Garde-Grenadier-Regiment N. 1 (1814) Garde-Grenadier-Regiment N. 2 (1814) Garde-Grenadier-Regiment N. 3 (1860) Garde-Grenadier-Regiment N. 4 (1860) Garde-Grenadier-Regiment N. 5 (1897)
FANTERIA LEGGERA
INTERFOTO/ARCHIVI ALINARI (2)
AKG/MONDADORI PORTFOLIO
Garde-Jäger-Bataillon (1808) Garde-Schützen-Bataillon (1814)
Nel ritratto, un granatiere del reggimento della Guardia di Federico Guglielmo I di Prussia, padre di Federico il Grande, come si presentava nel 1737.
MEMORIE
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SEARCH & DESTROY La 9th Marine Expeditionary Brigade sbarca a Red Beach (Da Nang) per l’operazione “ricerca e distruzione” (1965).
CATTURATO Un parà sudvietnamita minaccia con la baionetta un sospetto vietcong.
UN PASSO DALL’INFERNO CI VOLLERO ANNI, TRASCORSI NELLA GIUNGLA ASIATICA E SULLE COLLINE DEI MASSACRI, PER RACCONTARE COSÌ LA GUERRA DEL VIETNAM
L’AUTORE L’inglese Larry Burrows, fotoreporter di Life magazine, arrivò in Vietnam nel 1962, a 36 anni, e vi rimase per firmare scatti passati alla Storia fino alla sua morte, nel Laos, nel 1971. Viaggiava con tre colleghi a bordo di un elicottero, che venne colpito schiantandosi al suolo.
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CONTADINI O VIET? Il solo fatto di spuntar fuori da una risaia basta a far passare questi nordvietnamiti per vietcong.
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FLYING BANANA L’elicottero americano H-21, la “banana volante”, volteggia sopra i soldati nella zona delle operazioni (1962).
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BOMBE AL NAPALM sganciate da un jet. Il caccia, di fabbricazione Usa, era impiegato per l’attacco al suolo, con armamento sotto le ali.
QUI SI USAVANO INDISCRIMINATAMENTE ELICOTTERI
DISTRUGGETE! Il capitano delle Special Forces americane contatta il campo base mentre i soldati vietnamiti bruciano un covo vietcong.
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IL RECUPERO I marine recuperano il corpo di un compagno morto vicino alla Collina 484. Con loro, la fotogiornalista Catherine Leroy (1966).
D’APPOGGIO Burrows a bordo di un caccia fotografa gli altri T-28 in volo da Nha Trang per una missione di supporto alla fanteria.
SOTTO ASSEDIO 1968, parte l’Operazione Pegasus per liberare la guarnigione dei marines assediati nella base militare di Khe Sanh.
GETTY IMAGES (6)
SOFISTICATI E AGENTI CHIMICI, GUERRIGLIA E TECNOLOGIA
FUOCO NOTTURNO L’equipaggio di un aereo da trasporto C-47 fa fuoco con le minigun, mitragliatrici rotanti cal. 7,62 mm.
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FOTO ICONICA Sergente dei marines allunga il braccio verso un compagno colpito dopo lo scontro a fuoco a sud della zona smilitarizzata (1966).
LARRY BURROWS SEPPE COGLIERE LA COMPASSIONE E LO
I GENIERI VALOROSI Imboscata a Dak To, dove nel 1969 un gruppo di genieri Usa subì un assedio di 8 settimane, dimenticati dai vertici militari.
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AZIONE NELLA ZONA SMILITARIZZATA Un marine sotto shock viene fasciato alla bell’e meglio durante l’Operazione Prairie (1966).
LA BASE VA AL NEMICO Il tank americano percorre la Statale 9 durante l’Operazione Pegasus (1968): i marines abbandonano Khe Sanh.
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SGUARDO DISPERATO, LA FRENESIA DELLA BATTAGLIA E LA RESA
SOCCORSI Elicottero del 1st Air Cavalry Skycrane fornisce munizioni e rifornimenti per i marines assediati nella base avanzata di Khe Sanh (1968).
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WARS
RECENSIONI
LIBRI & CO. SAGGISTICA A cura della Libreria Militare Via Morigi, 15 - 20123 Milano - tel/fax: 02 89010725 e-mail:
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Gli I.M.I. di Breloh di Claudio Garbellini Il volume di racconti e ricordi di internati militari italiani in Germania, come recita il sottotitolo, presenta una raccolta di testimonianze di soldati che scelsero il loro destino rifiutando di indossare la divisa della Wehrmacht o di rientrare in Italia per combattere nell’esercito della Repubblica sociale italiana. Pag. 186, Minelliana, € 18
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Storia militare dell’Afghanistan. Dall’Impero dei Durrānī alla Resolute Support Mission di Federica Saini Fasanotti e Giorgio Battisti Questa accurata e minuziosa ricostruzione dell’intervento militare occidentale in Afghanistan viene inserita nel quadro storico in cui spiccano, per similitudine di intenti e di metodo, le Guerre anglo-afghane e l’intervento sovietico. Per una volta, una lettura illuminante e non retorica, frutto della sinergia di competenze tra la storica specializzata in controguerriglia e il militare impegnato sul campo. Pag. 278, Mursia, €19
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La Grande guerra Dalle promesse e dalle delizie della Belle Époque nascono il conflitto che devasta l’Europa e la morte nelle trincee. La mostra delle Galleriere d’Italia si dipana in tre città trattando diversi temi: gli artisti al fronte, la società, la propaganda e il consenso, i luoghi e l’arte feriti, in una carrellata di posti divenuti tristemente celebri – il Carso, il Piave – e dipinti altrettanto noti, come le tavole di Achille Beltrame e i manifesti di Marcello Dudovich. Milano, Napoli e Vicenza Gallerie d’Italia, fino al 23 agosto Info: www.gallerieditalia.com
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SCOPRIRE IL PASSATO, CAPIRE IL PRESENTE.
In questo numero, l’orgoglio degli indiani: la difesa di una civiltà, le guerre contro i “visi pallidi”, tutti i capi e i guerrieri che scrissero l’epopea delle tribù nordamericane. E inoltre: Pompei vista dagli artisti dell’800, la battaglia di Salamina, la storia dei diamanti, i figli dei dittatori del ‘900. IN PIÙ SPECIALE SULL’ENTRATA IN GUERRA DELL’ITALIA: la cronaca e i fatti di quei mesi fatali del 1915.
FOCUS STORIA. OGNI MESE LO SPETTACOLO DEL PASSATO. Disponibile anche in versione digitale su:
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